Dai vecchi partiti-chiesa alle Srl minestrone di oggi. Ne è valsa la pena?

I vecchi partiti politici, che in Europa hanno scritto due secoli di storia e che quasi dovunque stanno esaurendo la loro carica vitale, hanno rappresentato qualcosa che forse ci toccherà rimpiangere a lungo.

In un certo senso, erano delle vere e proprie chiese, sia che si ispirassero alla moderna laicità illuministica sia che traessero alimento spirituale dal cristianesimo, cattolico o protestante. A caratterizzarli era una Weltanschauung, una impegnativa visione del mondo alla luce della quale veniva giudicato il passato e si elaboravano programmi di riforma della società, non necessariamente in senso progressista. Ogni partito presentava tre volti: l’ideologia – la sua specifica political culture – il programma elettorale (che poteva mutare, almeno in parte, di volta in volta), le battaglie concrete con cui voleva essere identificato – ad es., il divorzio, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’adesione alla Nato etc. etc. In genere, nessuno si prendeva la briga di leggere i programmi – spesso ampollosi, troppo tecnici, sostanzialmente noiosi – ma si era molto attenti agli obiettivi specifici per cui un partito s’impegnava a battersi. E ancor più, va sottolineato, all’ideologia che fissava l’identità etico-sociale del militante e dell’elettore abituale. Quando si entrava nella grande sala con le pareti piene dei ritratti dei nobili antenati – si chiamassero Filippo Turati o Giacomo Matteotti, Luigi Sturzo o Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi o Benedetto Croce, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti – si era disposti a ingoiare più di un rospo se i leader del partito decidevano politiche o contraevano alleanze poco gradite. Si tolleravano scelte tattiche discutibili giacché si era rassicurati dal far parte di una comunità etico-politica su cui vegliavano i grandi del passato.

L’ideologia era, nel senso di Guglielmo Ferrero, il collante di legittimità dei partiti, il garante della loro continuità nel tempo, il deposito bancario sul quale si poteva sempre contare nei periodi bui. “Basta esporre la vecchia bandiera socialista e avremo di nuovo migliaia di iscritti”, pare avesse detto un vecchio socialista al rientro in Italia dopo l’esilio cui l’aveva costretto il fascismo. Quella bandiera era un simbolo quasi religioso, rinviava a idealità, a storie esemplari, a “filosofie”, nel senso forte del termine, che non si esaurivano certo nelle pur condivise richieste della Repubblica e della Costituente (parole d’ordine lanciate, con la sua foga generosa, da Pietro Nenni). Alla stessa maniera, lo scudo crociato indicava la casa in cui si sarebbero potuti raccogliere tutti i cattolici, almeno quelli che avevano accettato lealmente le regole e le istituzioni della democrazia liberale e, abbandonando ogni posizione temporalista, la separazione tra Chiesa e Stato. I più “moderati” potevano anche accettare l’alleanza tattica con i partiti “atei e materialisti” della sinistra giacché a rassicurarli era, per così dire, la “comunità di partito” ovvero la “famiglia spirituale” le cui tattiche – anche le più spregiudicate – rimanevano sempre in funzione di una strategia lungimirante volta a impedire che il processo di modernizzazione si risolvesse in una devastante secolarizzazione.

In Italia, grazie a magistrati integerrimi come Francesco Saverio Borrelli, quel mondo non esiste più: i partiti non sono più familles spirituelles ma, absit iniuria verbis, comitati d’affari (in prevalenza) della borghesia. Ci si unisce, si smantellano le vecchie federazioni, si formano nuove formazioni politiche in vista di obiettivi limitati e, spesso, in nome di un anti invece che di un pro. Fermare la “resistibile ascesa” di Craxi, di Berlusconi, di Renzi, di Salvini porta a vedere a braccetto in una stessa formazione politica Monica Cirinnà e vecchi democristiani, atei razionalisti e quanti si richiamano (dicono di richiamarsi) a Sturzo e a De Gasperi. Ci troviamo dinanzi a “società a responsabilità limitata” dove ciascun azionista pensa di rimanere se stesso giacché gli è garantita libertà di coscienza sulle grandi questioni etiche. In questa maniera, però, mi sembra difficile “salvarsi l’anima” e il rischio reale è quello di diluire le vecchie identità del passato in una marmellata ideologica, che si traduce nella statua di Aldo Moro con l’Unità in tasca.

In altre parole, non assistiamo alla laicizzazione dei partiti ma a un melting pot culturale che ne stravolge i connotati tradizionali. Partiti divenuti “leggeri” sono ormai uniti da un’inconsapevole ideologia “leggera” anch’essa: ma, a guardare bene, solo in apparenza. Per fare un esempio, Alcide De Gasperi è ormai quello di Pietro Scoppola – è l’uomo di centro che guardava a sinistra – Luigi Sturzo è l’interlocutore di Piero Gobetti se non di Antonio Gramsci, Luigi Einaudi è l’antisovranista per antonomasia, rivendicabile anche da Critica liberale (organo di un laicismo fazioso, alla Ernesto Rossi, che si riteneva scomparso per sempre). Le giornate degasperiane del Trentino vengono affidate all’appeal di Ferruccio de Bortoli e di Lella Costa (famiglia Gad Lerner)! Anche nelle iconografie risorgimentali si vedevano a braccetto Pio IX, Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, ma allora il problema era quello di “fare l’Italia”, di costruire la nazione e uno Stato moderno, non quello di rifondare il sistema politico contro “nemici” che in una “democrazia a norma” si dovrebbero riguardare (e rispettare) come “avversari”.

Nelle aggregazioni dell’epoca post-partitica, i colori si sono come diluiti, i volti della storia ormai si somigliano tutti, i valori si sono omogeneizzati, le opposte scelte di campo di un tempo sono state riassorbite (in fondo anche per Berlinguer la Nato era uno scudo protettivo!) e del tanto esaltato Piero Gobetti si rimuove l’appello intransigente ognuno al suo posto!: ovvero resti ciascuno fedele alle sue memorie e alle sue tradizioni. Intendiamoci: che un deputato cattolico su questioni rilevanti – come il welfare state, la politica estera, l’immigrazione – si allei con chi è a favore del divorzio, dell’aborto (e lo scrivente ha votato per l’uno e per l’altro), del matrimonio e adozione gay, non è certo motivo di scandalo, ma che faccia parte dello stesso partito della Cirinnà, la cui concezione della famiglia è antitetica a quella di Papa Bergoglio (per citare un pontefice in odore di anticapitalismo terzomondista) è qualcosa che si spiega solo con la retrocessione di una questione etico-politica grande come una montagna – la questione della famiglia, appunto – a fatto privato, a “problema di coscienza”. Non esprimo giudizi morali – non è compito dello studioso – mi limito a constatare un fatto e mi chiedo se un mutamento epocale come questo ci renda migliori o peggiori. Specie se si pensa che le sintesi leggere fanno pagare ad ogni elemento versato nell’infuso il prezzo della mutilazione ovvero la rinuncia “a prendere troppo sul serio” i valori che lo avevano fatto entrare nella storia. Ha ragione, pertanto, Eugenio Scalfari – e ha torto Franco Carinci che lo critica – a porre nel codice genealogico del Pd capostipiti come Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e forse anche Guido Dorso e Altiero Spinelli. Se è vero, infatti, che “i nomi citati non sono collocabili fra i fondatori e sostenitori del PCI”, non è così scontato che “appartengono tutti alla cultura democratica” (dopo quanto ne hanno scritto Giuseppe Bedeschi, Ernesto Galli della Loggia, Luca Ricolfi)?. In realtà, quei nomi, quei simboli, rinviano a una sinistra et/et, socialista e “liberale”, nazionale e internazionalista, italiana ed europea, europea e cosmopolitica, non più nemica del capitalismo ma sempre, sotterraneamente, antiamericana, dove ciascuno può trovare quel che gli piace e nessuno è tenuto a fare i conti col proprio passato, non dovendo rispondere dell’accusa di apostasia.

Dovevano, certo, abbandonare le scene i partiti “forti”, disciplinati e dogmatici ma senza sottrarsi alle loro colpe storiche oggettive e, semmai, rivendicando fieramente i valori che li avevano indotti a guardare con interesse ai regimi politici poi crollati. Diventando un “partito radicale di massa”, come previde genialmente Augusto Del Noce in anni lontani, le vecchie sinistre hanno perso la loro anima ma non hanno reso un buon servigio al Paese giacché gli stanno fornendo – e da tempo – un “minestrone ideologico” che sta insieme solo con lo sputo, inventandosi di volta in volta un’invasione barbarica (di nazionalisti, di sovranisti, di razzisti) alla quale i loro antichi elettori non credono più.

Pubblicato su Atlantico il 6 agosto 2019



Elezioni, mai così difficile scegliere

Il sentimento che domina queste elezioni a me pare lo smarrimento. Non ho mai sentito così tante persone dubbiose, incerte, poco convinte. Inondati dalle promesse elettorali, la maggior parte degli italiani si apprestano ad andare al voto sapendo perfettamente che nessun partito potrà mantenerle, quelle promesse.

Ma il nostro scetticismo è, questa volta, alimentato anche da un elemento nuovo: non solo, come sempre, ben poco di ciò che si è promesso sarà mantenuto, ma è molto probabile che, la sera del voto, non avremo la minima idea di che governo si potrà insediare da lì a qualche settimana (sempre che il presidente della Repubblica non rimandi tutti a casa).

La ragione di questa incertezza è strutturale. Ed è che il nostro sistema politico, anche grazie alla nuova legge elettorale, è improvvisamente diventato quadripolare. Era bipolare durante la seconda Repubblica, ai bei tempi in cui dovevi solo scegliere fra destra e sinistra, era parso trasformarsi in un sistema tripolare con l’avanzata dei Cinque Stelle, ma oggi non è né l’una cosa né l’altra. Oggi non solo ci sono quattro partiti importanti, ovvero Cinque Stelle, Pd, Forza Italia, Lega, ma sono divenuti ben quattro i governi possibili: Forza Italia e Lega, Pd e Forza Italia, Cinque Stelle e Pd, Cinque stelle e Lega.

Ovviamente tutti i protagonisti lo negheranno risolutamente, ma questa è la realtà. Ed è una realtà che ha radici psicosociali profonde: è dal 1993 che, nelle teste degli elettori, lo spazio elettorale non è più unidimensionale, con tutti i partiti allineati sul continuum destra-sinistra, ma è bidimensionale. Accanto all’alternativa destra-sinistra la gente percepisce altre dicotomie: durante la seconda Repubblica soprattutto la dicotomia fra radicali e moderati, negli ultimi anni essenzialmente la contrapposizione fra populisti (anti-europei) e riformisti (pro-Europa) o, su un piano più astratto, la competizione fra forze della chiusura e forze dell’apertura, fra chi teme la globalizzazione e i suoi effetti e chi la percepisce prevalentemente come un’opportunità.

Per capire la situazione in cui ci troviamo conviene immaginare i quattro maggiori partiti come collocati intorno a una tavola rotonda, dove non esiste capotavola ma ogni commensale può stringere alleanze con uno dei suoi due vicini.

La geometria dello spazio elettorale

Partiamo dalla Lega: se si muove in senso orario incontra Forza Italia con cui condivide la collocazione a destra. Ma se si muove in senso antiorario incontra il Movimento Cinque Stelle, con cui condivide il populismo e l’ostilità alle autorità europee. A sua volta il movimento Cinque Stelle è “seduto” fra Lega e Pd, e quindi può muoversi sia verso la prima sia verso il secondo. Il Pd può guardare al Movimento Cinque Stelle (magari con l’intercessione di Liberi e Uguali) oppure verso Forza Italia, a seconda che voglia far prevalere la sua anima di sinistra o il proprio europeismo. E infine Forza Italia può stare con il suo alleato dichiarato, la Lega di Salvini, oppure con il suo cripto-alleato, il Pd di Renzi. In un sistema quadripolare, come il nostro è diventato, le uniche alleanze tassativamente escluse sono fra partiti che risultano opposti sia sull’asse destra-sinistra, sia su quello di populismo-europeismo. Di conseguenza le coppie incompatibili sono solo due: Cinque Stelle e Forza Italia, Pd e Lega.

Ne segue che ognuno dei 4 partiti principali ha 2 modi di andare al governo. È questo che rende difficile scegliere un partito. Se voti Cinque Stelle non sai se stai aiutando la formazione di un governissimo di sinistra o di un fronte populista con la Lega. Se dai il tuo voto alla Lega, non sai se lo userà per fare un governo con Forza Italia o con i Cinque Stelle. Se dai un voto al Pd non sai se ne verrà fuori un governissimo con i Cinque Stelle (magari con un nuovo segretario al posto di Renzi) oppure un governo di “strette intese”, o Kleine Koalition, Pd-Forza Italia. Se, infine, dai il tuo voto a Forza Italia non sai se verrà usato per fare un governo con la Lega o con il Pd.

Qualcuno potrebbe obiettare che, in una repubblica parlamentare (con alte dosi di proporzionalismo), è sempre così: l’elettore esprime un voto, ma i giochi si fanno in Parlamento. C’è anche un precedente storico, quello della “politica dei due forni” praticata dal partito socialista, spesso alleato della Dc a livello nazionale, e al governo con il Partito comunista a livello locale. Ma il punto è che ora di forni ce ne sono ben quattro, e questo fa sì che quattro siano anche i partiti che possono aspirare a fungere da ago della bilancia.

Ecco perché ci sentiamo esautorati. Noi possiamo anche scegliere il partito che ci piace di più, ma non possiamo sapere con chi quel partito si alleerà. Questo è grave perché, per molti di noi, una delle sue due alleanze possibili è accettabile, l’altra no. Così ci ritroviamo coinvolti in una doppia scommessa: dobbiamo sperare che il nostro partito raccolga molti voti, ma anche che non li usi male, scegliendo quello che a noi pare l’alleato sbagliato. E, cosa importante, questo riguarda tutti e quatto i partiti principali, proprio perché, nella nostra tavola rotonda ideale, ogni commensale ha due vicini.

Che cosa possiamo fare, in questa situazione?

Solo una cosa, credo. Se abbiamo deciso di andare a votare, dobbiamo farci la domanda delle domande: non già qual è il partito che più ci piace, ma qual è quello che più ci inquieta, quello che riteniamo più dannoso per il paese. Perché, una volta che abbiamo risposto a questa domanda, anche la nostra scelta diventa relativamente agevole, per non dire obbligata: basta dare il voto all’unico partito che, per la sua “posizione a tavola”, non può allearsi con il nostro partito più temuto.

Tabella di decisione

Spiace ammetterlo, ma la realtà è proprio questa: è vero che votando uno dei quattro maggiori partiti rendiamo possibili ben due governi, ma è altrettanto vero che ne escludiamo altri due.

Il grave è che i governi che il voto di ognuno di noi contribuisce a rendere possibili non sono varianti del medesimo progetto politico, ma possono essere radicalmente diversi. E’ questa la più importante differenza fra oggi e il passato. Sono abbastanza vecchio da ricordare la campagna elettorale del 1963, quando si trattava di decidere se i socialisti sarebbero andati al governo con la Dc. E ricordo persino lo slogan del partito che meno desiderava quella soluzione, il partito liberale di Giovanni Malagodi: “la Dc dirà di no ai socialisti se voi direte di sì ai liberali”. Ma, come si vede, erano piccole differenze, che sarebbero completamente scomparse in futuro, quando, con il “pentapartito”, i socialisti e i liberali avrebbero finito per governare insieme.

Oggi no. Oggi il governo che può uscire dal nostro voto può essere molto, ma molto diverso da ciò che ci auguriamo. E’ questo che alimenta il nostro smarrimento. Ed è questo che deve farci riflettere: prima di dare il voto a un partito chiediamoci con chi potrebbe allearsi, e con chi non potrebbe farlo. Solo così possiamo proteggerci dalle delusioni più cocenti.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 03 marzo 2018.




Vademecum elettorale

In allegato il Vedemecum elettorale con l’analisi delle promesse dei partiti in vista delle prossime elezioni. L’allegato contiene anche i sei articoli pubblicati da Luca Ricolfi su “Il Messaggero” nelle ultime settimane.

Vademecum Elettorale per il 4 marzo

 




A 40 giorni dal voto, un governo torna possibile

Le liste dei candidati sono ormai pronte. Le consuete polemiche (come peraltro sempre accadeva già ai tempi del Mattarellum) hanno accompagnato le scelte dei nomi e dei territori a questi associati. Polemiche che rientreranno in poco tempo, per concentrarsi sulle previsioni di voto in ciascun dei collegi, per comprendere le chance di vittoria una volta formalizzata l’offerta politica. Casini riuscirà a vincere nel senato bolognese? e Boschi convincerà gli elettori sudtirolesi? e Di Maio sarà profeta in patria? Domande che ci tormenteranno per qualche settimana.

Molti degli analisti elettorali –sia in privato che in pubblico- sembrano essere convinti che nella competizione per le prossime politiche i giochi siano ormai fatti, e che la campagna elettorale non riuscirà a modificare, se non in minima parte, le attuali tendenze di voto. Una campagna che resterà quindi tutto sommato ininfluente, nonostante le centinaia di promesse che quotidianamente tutte le forze politiche si affrettano ad elargire agli italiani.

I sondaggi ci raccontano dunque di un centro-destra in gran spolvero, destinato a vincere il duello maggioritario, quello che vede protagoniste le coalizioni, e di un Movimento 5 stelle ormai sicuro vincitore della tenzone proporzionale, dove protagoniste sono le liste, prese separatamente. Dunque: centro-destra oltre il 35% e M5s vicino al 30%, con il Pd ed il centro-sinistra in affanno, perdenti in entrambi i rami del Rosatellum.

Ma, in termini di seggi, tutti sono concordi che nessuna forza politica, né singola né coalizionale, potrà arrivare ad una soglia tale da permettere la formazione di un governo di maggioranza nel parlamento. Nessuno riuscirà quindi ad avvicinarsi a quel fatidico 40% dove ci sarebbe spazio per correre da soli. Ci aspetterebbero allora esecutivi di minoranza, ovvero un governo del Presidente, prevalentemente tecnico o di larghe intese, per andare presto a rivotare, forse con una nuova legge elettorale di stampo più maggioritario.

Molti sono di questo avviso, dicevo, ma non tutti. Il politologo Paolo Feltrin, ad esempio, non è completamente convinto che i giochi siano chiusi, anzi: ritiene infatti che le dichiarazioni di voto odierne nascondano orientamenti più profondi e sedimentati che usciranno più facilmente nel momento del voto. Citando la cosiddetta “fedeltà leggera”, egli ipotizza che una quota significativa tra gli elettori di centro-sinistra faticherà ad abbandonare la propria antica parte politica, Renzi o non-Renzi, a favore dei 5 stelle o dell’astensionismo.

Potrebbero nascondere la propria vera indole a chi li interroga, in un momento in cui il Pd non gode di buona stampa né di un clima di opinione favorevole, per uscire allo scoperto all’avvicinarsi del voto, preoccupati della deriva cui (secondo loro) rischierebbe di andare incontro il nostro paese. Al contrario, i potenziali elettori dei 5 stelle potrebbero non dar seguito alle dichiarazioni in loro favore, consci delle difficoltà che il movimento dovrebbe fronteggiare nell’ipotesi di un travagliato governo.

Le sue previsioni dunque sono di una risalita del Pd e del centro-sinistra, sia nel proporzionale che soprattutto nel maggioritario, di un ridimensionamento del numero di seggi vinti dal M5s e di un ulteriore incremento di Forza Italia. Tutto questo permetterebbe al duo Pd-Fi di avvicinarsi al numero fatidico di 315 seggi alla camera e, con qualche piccolo aiuto esterno, di riuscire a formare un governo (magari a scadenza programmata) che avvicinerebbe l’Italia alla situazione tedesca, dove l’alleanza tra Cdu-Csu e Spd pare funzionare.

Ed effettivamente le tendenze delle ultime ore paiono andare nella direzione indicata da Feltrin, e ci dicono due cose rilevanti: la prima, che la coalizione di centro-destra appare in lieve crisi; la seconda, che viceversa quella di centro-sinistra sembra leggermente in ripresa. Due elementi interessanti, soprattutto in vista di una possibile (eventuale) maggioranza di governo. Perché? Vediamo di capirlo.

Il centro-destra perde complessivamente un po’ di consensi soprattutto per due fattori: il primo è che la Lega di Salvini non sembra funzionare particolarmente bene tra gli elettori delle aree meridionali del paese, che magari la citano nei sondaggi ma al momento del voto preferiscono altro. Come ad esempio in Sicilia, dove in tandem con Fratelli d’Italia non riuscì ad andare oltre il 5% dei suffragi, molto meno di quanto i sondaggi ipotizzavano.

Il secondo fattore è legato al numero di liste che la coalizione presenterà: dalle 3-4 preventivate, oggi si parla di un’unica lista di appoggio, quella di Fitto-Lupi-Tosi. Avere più liste che non superano il 3% serve infatti per incrementare i voti per la coalizione e per i suoi partiti maggiori, dando loro più seggi e più rappresentanza parlamentare. Così, secondo le ultime stime, il centro-destra potrà avere intorno a 275 seggi, oltre 40 seggi in meno della maggioranza alla camera.

Al contrario, il centro-sinistra pare godere di migliore salute, non tanto per la performance del Pd, sempre deficitaria, quanto per l’acquisto di 3 liste (con l’arrivo della Bonino) che probabilmente non supereranno il 3% (forse con l’eccezione della stessa Bonino), ma che complessivamente aggiungeranno al Partito Democratico un ulteriore 4% di voti, portandolo ad un numero di seggi totale vicino ai 160.

Dunque, la ventilata coalizione Pd-Forza Italia, pur se negata da tutti i protagonisti, potrebbe essere vicina a realizzarsi, almeno potenzialmente. I 160 seggi del Pd, uniti ai possibili 140 del partito di Berlusconi, darebbe una somma intorno a 300, a soli 15 seggi dalla maggioranza alla camera. Ingaggiare qualche fuoriuscito da altre forze politiche potrebbe non essere, a quel punto, particolarmente difficoltoso, dando luogo ad un governo capace di durare (almeno un po’) nel tempo.




L’anomalia italiana/ La Repubblica degli allenatori senza chances di governare

E’ un po’ di tempo che, nei palazzi della politica, e di riflesso sui mezzi di informazione, non si fa altro che parlare del candidato premier dei vari schieramenti. Sembra che sia vitale decidere chi è il candidato premier di ciascuno dei tre schieramenti, e qualcuno (Di Maio) è persino arrivato a ritirarsi da un confronto televisivo perché non era sicuro che il suo interlocutore (Renzi), da lui stesso sfidato a singolar tenzone, sarebbe effettivamente stato il candidato del centro-sinistra. Immagino che, con la stessa ferrea logica, Di Maio si sottrarrà anche al confronto con Berlusconi e Salvini, visto che il candidato premier del centro-destra si conoscerà solo dopo il voto, quando si saprà chi, fra i due, avrà ottenuto più voti.

E’ un dibattitto surreale, però. Non solo perché, finché la Costituzione resta quella che è, le elezioni non servono a scegliere un premier ma a formare un Parlamento, ma per il semplice motivo che chiunque sia scelto come candidato premier dal proprio schieramento ha pochissime possibilità di diventarlo effettivamente. Se uno aspira a diventare Presidente del Consiglio, non dovrebbe brigare per essere il prescelto, ma semmai implorare i suoi di non candidarlo.

E’ difficile, infatti, che nel prossimo parlamento uno dei tre schieramenti abbia la maggioranza dei seggi sia alla camera sia al Senato. Ed è ancora più difficile che, in mancanza di una maggioranza politica omogenea, il premier su cui i partiti dovranno convergere possa essere, anziché una figura di mediazione, il candidato premier di uno solo dei tre schieramenti. E’ questa, per inciso, la ragione per cui sempre più sovente si sente evocare la figura di Gentiloni, immagine vivente di prudenza, mediazione, moderazione, understatement.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui, a mio parere, l’ossessione per la designazione  dei candidati premier è abbastanza fuorviante. Il dibattitto sui candidati premier sembra ignorare che oggi quasi tutto il potere politico, inteso come potere di nomina e di investitura, è in mano a tre personaggi, ovvero Renzi, Grillo e Berlusconi, nessuno dei quali siede in Parlamento, e nessuno dei quali trae il suo potere dal ruolo di candidato premier.

Grillo non vuole fare il premier, Berlusconi non può farlo (la Corte di Strasburgo si pronuncerà fuori tempo massimo), a Renzi piacerebbe tantissimo ma sfortunatamente ha ottime possibilità di essere stoppato dai suoi, o dai suoi alleati, chiunque essi siano. Ve lo immaginate un governo Renzi sostenuto da Mdp? O un governo Renzi sostenuto da Forza Italia? O un governo Renzi con l’appoggio dei Cinque Stelle?

Forse dovremmo smettere di arrovellarci sull’indicazione del premier, come se fossimo ancora nella seconda Repubblica, in cui la finzione dell’elezione diretta, pur non avendo alcun appoggio nel nostro assetto costituzionale, almeno ne aveva uno nella legge elettorale, che in entrambe le sue varianti (mattarellum e porcellum) forniva un certo impulso al bipolarismo, nonché alla formazione di maggioranze in Parlamento.

Ma ora?

Ora, dicono alcuni, si torna alla prima Repubblica. La maggioranza che ci governerà sarà il frutto di accordi fra partiti, e anche il Capo dello Stato, cui spetta indicare il presidente del Consiglio, di quegli accordi dovrà prendere atto.

Apparentemente è proprio così. Però ci sono due novità cruciali, rispetto alla logica della prima Repubblica. La prima è che allora (fino al 1992), a fronte di un elettorato statico e diffidente con i comunisti, i governi erano effettivamente espressione delle scelte degli elettori, e quel che i partiti (attraverso il Parlamento) decidevano era solo il mix di satelliti che avrebbero ruotato intorno alla Dc. Ora invece, con un sistema politico tripolare, se nessuno dei tre schieramenti prevarrà sugli altri due, gli accordi parlamentari non decideranno i dettagli, bensì la sostanza. Oggi può sembrare fanta-politica, e tutti i diretti interessati si affretterebbero a escluderlo, ma in assenza di un vincitore i negoziati fra partiti potrebbero partorire tranquillamente: un governo Pd-Forza Italia, un governo Lega-Forza Italia-Pd, un governo Cinquestelle-Lega, un governo Cinquestelle-Mdp, un governo Pd-Cinquestelle.

C’è però anche un’altra, forse più importante novità, rispetto alla prima Repubblica: l’accentramento del potere di scelta dei candidati. Mentre ci chiediamo chi sarà il prossimo premier, rischiamo di non accorgerci che quella in cui stiamo entrando non è la prima Repubblica ma è, mi si permetta l’espressione, la Repubblica dei trainer. Dove i trainer, gli allenatori, sono tre-quattro leader, che per una ragione o per l’altra assai difficilmente faranno il premier, ma in compenso hanno potere di vita e di morte sulle carriere dei loro giocatori. Perché se è vero che chi entrerà in Parlamento lo decideranno gli elettori con il loro voto, è ancor più vero che il diritto di giocare la partita, e le possibilità di successo con cui la si gioca, sono nelle mani degli allenatori. Tutti rigorosamente fuori del Parlamento.

E’ sempre stato così? Sì, ma mai in questa misura, mi pare. Finché ci sono stati partiti veri, in Parlamento si arrivava al termine di un cursus honorum, fatto di tappe, responsabilità, esperienze amministrative. Oggi ci si arriva in modo più diretto e rapido, spesso per fedeltà a un capo, a una corrente, a una cordata, ma altrettanto repentinamente si può finire in panchina, o semplicemente fuori squadra. Tutto dipende dall’allenatore.

Articolo pubblicato su Il Messaggero