Effetti collaterali della pandemia: Conte su, Lega giù

Certamente gli interessi attuali degli italiani vanno in altre direzioni, verso l’uscita dall’emergenza sanitaria del Coronavirus e la possibile sperata ripresa economica e occupazionale. Resta però indubbio che gli orientamenti di voto dall’inizio del “lockdown” fino ai giorni nostri hanno in parte rivoluzionato la geografia politica nostrana, come testimoniano la quasi totalità dei sondaggi effettuati ultimamente. Avevamo lasciato la Lega di Salvini solidamente solitaria nelle dichiarazioni degli elettori, a inizio marzo, ed ora ce la ritroviamo soltanto di pochi punti percentuali sopra le due forze politiche che sorreggono il governo giallorosso.

La Lega perde qualcosa come sette punti (dal 33% al 26%) nel giro di soltanto due o tre mesi, a testimonianza della ormai cronica alta volatilità delle scelte elettorali e, visto il parallelo declino della popolarità dello stesso leader leghista, di instabili fiducie nei diversi protagonisti politici. Mentre Lega e Salvini retrocedono, il premier Conte sale, evidenziando un dato pre-politico ormai divenuto un elemento politico a tutti gli effetti: ciò che conta è soprattutto la capacità immediata di suscitare emozioni favorevoli nella pancia degli elettori. Non sono più i valori (o le ideologie) a veicolare la propria vicinanza politica, e nemmeno forse gli atteggiamenti o le opinioni, che non possono mutare così repentinamente, in brevi lassi di tempo, nel giro di due-tre mesi. Ciò che cambia sono le emozioni, e le emozioni portano con sé discese ardite e risalite (per dirla con Lucio Battisti) di questo o quell’uomo politico, e dei loro partiti di riferimento, nel caso ne abbiano uno.

Per Salvini, in discesa, e per Meloni, in salita nei consensi, è accaduto proprio questo anche per i loro partiti che, senza una ragione precisa (o con motivazioni poco significative) hanno ridisegnato lo spazio di consenso all’interno del centro-destra, ora divenuto quasi bicefalo, con Forza Italia ormai relegata ai margini. Dal punto di vista territoriale, la Lega perde soprattutto nelle regioni e nelle aree dove la sua crescita durante lo scorso anno rinforzava il tentativo di diventare un partito nazionale, in particolare nel sud e nelle ex-zone rosse, dove ora si incrementano invece i consensi rispettivamente per Fratelli d’Italia e Partito Democratico. È possibile che un centro-destra a due teste riproponga l’idea di una coalizione con il settentrione predominio di Salvini (e di Zaia) ed il meridione predominio di Meloni, dove peraltro resta forte anche il Movimento 5 stelle.

Per Giuseppe Conte, che non ha in realtà alcun partito di riferimento specifico, il livello dei consensi appare elevato in tutte le zone del paese, soprattutto ovviamente dove è meno forte l’elettorato di centro-destra, ma la sua crescita è evidente anche in quelle aree, benchè non raggiunga le quote delle altre aree. Se cioè la fiducia nel presidente del consiglio è più alta, in termini assoluti, nel centro-nord e nel sud (grazie ai giudizi positivi di elettori Pd e M5s), la crescita dei suoi consensi, di quasi 15 punti dal periodo pre-pandemia ad oggi, appare generalizzata in tutte le regioni italiane. Anche in questo caso, molto probabilmente, una parte rilevante è giocata dalle emozioni che Conte è riuscito a suscitare nell’elettorato italiano, senza ulteriori distinzioni partitiche o territoriali.




La sinistra ha perso i suoi referenti storici: periferie e ceti popolari

La sinistra non c’è più là dove una volta la si andava a cercare: nelle periferie delle grandi città e nei ceti subalterni. Da tempo sconta ormai una crisi di consensi elettorali, soprattutto nel suo insediamento tradizionale di riferimento, cioè le classi popolari e meno istruite.

A partire dal nuovo secolo, ma in alcuni paesi anche prima, si assiste infatti a due fenomeni paralleli: da un lato un calo generalizzato dei partiti di matrice socialista e socialdemocratica in quasi tutti i principali paesi europei; dall’altro la progressiva perdita di appeal di quei partiti nelle loro storiche constituency.

Per quanto riguarda il primo elemento, è evidente come tutti i principali partiti di quell’area, vale a dire il PASOK in Grecia, il PSOE in Spagna, il PSF in Francia, l’SPD in Germania, il SAP in Svezia, giusto per citare i partiti più rappresentativi della tradizione socialista europea, mostrano un andamento tendenziale dei consensi elettorali in costante diminuzione.

E ancora peggiori, salvo rare eccezioni, sono stati negli ultimi 20 anni i risultati elettorali nei paesi usciti dal regime sovietico, dove i partiti di ispirazione socialista o social-democratica hanno spesso faticato persino ad ottenere seggi nei rispettivi parlamenti.

In Italia infine, il Partito Democratico, nei suoi dieci anni di vita elettorale, ha visto quasi dimezzare i suoi consensi, dai 14 milioni e mezzo di voti delle elezioni 2008 che celebrarono il suo esordio come formazione politica ai 7 milioni e mezzo delle elezioni politiche dello scorso anno. Un confronto che diventa ancora più impietoso se si considerano i 19 milioni di elettori che, prima della nascita del PD, nelle elezioni politiche del 2006, segnarono il risultato delle liste collegate alla coalizione di centro-sinistra, l’Unione di Romano Prodi.

Prende così forma una sorta di “male oscuro” che tocca le forze progressiste di tutto il mondo occidentale. A fronte del quale, assume rilevanza crescente la correlazione tra il voto ai partiti della sinistra democratica e socialista occidentale e la residenza nelle grandi metropoli, o nei centri urbani di grossa dimensione, così come con gli strati più istruiti e benestanti della popolazione in genere. Un fenomeno sempre più evidente, soprattutto nei paesi dove l’onda lunga del sovranismo miete maggiori consensi, dalla Francia di Marine Le Pen agli Stati Uniti di Donald Trump fino al Regno Unito di Boris Johnson, per arrivare all’Italia di Matteo Salvini.

Consideriamo le ultime elezioni politiche che si sono tenute in questi ultimi tre paesi: quelle legislative in Italia e Regno Unito, e quelle per il Presidente negli Stati Uniti. Dati di sondaggio sulle elezioni inglesi dello scorso dicembre segnalano evidenze molto interessanti nel dato relativo al grado di istruzione, dove se i Conservatori vantano quasi il 60% dei consensi fra i non laureati, gli elettori laureati risultano più equamente distribuiti fra liberaldemocratici, conservatori e laburisti, con questi ultimi che incassano quasi il 40% dei voti di coloro che hanno una laurea o un titolo di studio superiore. E se nelle precedenti elezioni (2017) fra gli elettori non laureati i Conservatori superavano i Laburisti di meno di 20 punti percentuali, nelle elezioni dello scorso dicembre il divario fra i due partiti si è allargato, raggiungendo una differenza percentuale di poco inferiore ai 40 punti.

Appare inoltre particolarmente significativa la ripartizione del voto nelle diverse aree urbane del paese, rispetto alla quale, così come già si era verificato in occasione delle elezioni politiche del 2017 e del Referendum del 2016 sulla cosiddetta Brexit, gli elettori del Partito Conservatore si ritrovano soprattutto fra i cittadini che risiedono nei centri urbani medio-piccoli e nelle aree rurali, mentre quelli del Partito Laburista sono preponderanti nelle città più popolose e, all’interno di queste, più al centro che in periferia. Una propensione che nel corso del tempo è diventata sempre più indicativa. Basti pensare che ancora nel 2010 la percentuale degli elettori Conservatori fuori dai grandi centri urbani era mediamente intorno al 40%, mentre adesso supera il 50%. Sempre nello stesso periodo di tempo, gli elettori del Partito Laburista nelle metropoli sono viceversa cresciuti dal 35% del 2010 a oltre il 50% di oggi.

Il confronto con il Referendum sulla Brexit mette inoltre in luce come alcune delle aree territoriali in cui il sostegno al “leave” è stato nel 2016 più forte e che appartenevano tradizionalmente ai Laburisti, nella parte settentrionale e centrale dell’Inghilterra, nelle elezioni politiche dello scorso dicembre hanno visto vincere i Conservatori. Crepe importanti nella cosiddetta red wall sono per esempio la perdita dei collegi di Blyth Valley, circoscrizione laburista dal 1950, e di Bishop Auckland, che ha visto eletto un deputato Conservatore per la prima volta in 137 anni di storia di quella constituency.

In maniera molto simile a quanto accaduto nelle ultime elezioni per il Parlamento in UK, nelle elezioni presidenziali americane del 2016 il divario rispetto al grado di istruzione e la frattura territoriale fra centro e periferia si fanno parimenti sentire. Per quel che riguarda il livello di scolarizzazione, gli elettori della Clinton risultano mediamente più istruiti di quelli di Trump: poco più della metà (52%) degli elettori democratici dispone quanto meno di un diploma di istruzione superiore, mentre molto meno della metà (42%) degli elettori repubblicani si trova nella medesima condizione. Inoltre, il 51% di coloro che hanno votato Trump ha frequentato solo la scuola dell’obbligo americana (contro il 43% di Hillary Clinton), mentre fra i votanti della Clinton il 49% si è laureato e il 58% ha acquisito un diploma di master o una laurea di secondo livello (contro solo il 32% di Trump).

Un dato ancor più significativo se si pensa che Trump fa il pieno dell’elettorato bianco (57% contro 37%), storicamente il più istruito, mentre Clinton monopolizza quello nero e ispanico (74% contro 21%). Tra i bianchi non laureati, Trump infatti stravince per 66% a 29%! Infine, come nel Regno Unito, anche negli Stati Uniti la frattura territoriale fra centro e periferia consente di discriminare fra un elettorato repubblicano maggiormente concentrato nelle aree suburbane o rurali, che hanno contribuito al successo di Trump rispettivamente per il 49% e il 61%, e un elettorato democratico insediato soprattutto (60%) nelle aree urbane del paese. Come dire: più ci si avvicina al centro delle metropoli, più l’elettore vota Democratico, più ce ne si allontana, più è Trump ad essere preferito.

E arriviamo infine al caso italiano. Nelle più recenti consultazioni emiliane, nonostante il buon successo ottenuto da Bonaccini e dalla sua coalizione, la percezione che ci trasmettono i risultati elettorali è quella di trovarci in presenza di una regione spaccata secondo una evidente direttrice territoriale, una chiara frattura tra centro e periferia, con i comuni più popolosi che stanno a sinistra e quelli più periferici a destra. Un dato confermato dalle analisi nazionali, dove nelle grandi città (con oltre 250mila abitanti) il Pd ottiene 5 punti percentuali sopra la sua media, mentre la Lega ne fa registrare quasi 4 in meno. Anche dal punto di vista della scolarizzazione, la situazione nel nostro paese ricorda quella internazionale: i votanti con almeno un diploma superiore scelgono Pd per il 4% più della media e scelgono Lega per il 4% in meno (e i laureati addirittura il 10% in meno).

Facciamo infine un gioco chiaramente anti-democratico, benché particolarmente significativo: se limitiamo l’acceso al voto ai solo elettori delle grandi città in possesso di un titolo di studio superiore, il Pd batterebbe la Lega di ben 15 punti, 30% a 15%. Questa è dunque la nuova constituency della sinistra, a livello nazionale come a livello internazionale. Occorre che ne prenda atto.

*Un’analisi più dettagliata di quanto qui dibattuto uscirà sul prossimo numero cartaceo de Il Mulino, in un saggio di Luciano Fasano e Paolo Natale



Il fazzoletto del centro

Forza Italia langue, ma Mara Carfagna – con la neonata associazione “Voce libera” – sembra intenzionata a costruire un’alternativa o una variante rispetto a Forza Italia. Sulla medesima strada si era messo poche settimane prima Giovanni Toti, ex forzista, ora governatore della Liguria, con la costituzione del movimento “Cambiamo”. E un processo analogo, di distacco di ali centriste, è in atto da mesi a sinistra, dove prima Matteo Renzi ha fondato “Italia Viva, e poi Carlo Calenda ha creato “Azione”.

Il fatto che qualcosa si muova nel cosiddetto centro dello spazio politico non può che rallegrare quanti, e sono molti, considerano inquietante l’attuale destra e deprimente l’attuale sinistra. Ciò nonostante, il consenso che le forze politiche di centro riescono a catalizzare è decisamente modesto, oggi come ieri. Alle elezioni politiche del 2008 le formazioni di centro raccoglievano il 7% dei consensi (soprattutto con l’Udc di Casini), a quelle del 2013 l’11% (soprattutto con Scelta civica di Monti), a quelle del 2018 il 15% (soprattutto con Forza Italia). E oggi?

Oggi, a giudicare dall’ultimo sondaggio pubblicato, il centro è sempre lì, appena sotto il 15%. La novità è che ora i soggetti partitici testati dai sondaggi sono diventati ben quattro, di cui due a destra (Forza Italia e Cambiamo, 5.5 e 1% rispettivamente), e due a sinistra (Italia Viva e Azione, 4.7 e 3.3% rispettivamente).

Ma che cosa impedisce l’allargamento del consenso ai partiti di centro? Come mai, nonostante i due blocchi principali suscitino tante perplessità, in Italia non si assiste alla formazione di un partito liberal-democratico capace di influire sugli equilibri complessivi del sistema politico?

Una ragione, ovviamente, è che spesso le operazioni di questo tipo sono al servizio di ambizioni personali, ed hanno quindi scarsissime possibilità di fondersi in un progetto politico unitario. Ma esiste, a mio parere, anche una ragione più profonda, e come tale più seria, per cui il centro non decolla. Ed è che, a ben vedere, le 4-5 formazioni che si contendono l’esiguo spazio politico dell’elettorato di centro sembrano d’accordissimo fra loro finché si tratta di sottoscrivere valori generici, ma si rivelano tutt’altro che d’accordo quando dal piano dei principi generali si scende a quello delle proposte politiche specifiche. Accade così di leggere che essere liberali significa condividere valori come “la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, i diritti individuali, la crescita collettiva”, ossia tutte cose su cui sarebbero d’accordo anche le altre forze politiche, siano esse di destra o di sinistra. Fra i grandi e generici valori della politica solo l’europeismo sembra distinguere le formazioni liberali dalla maggior parte delle altre forze politiche (e in special modo da Lega, Fratelli d’Italia, Cinque Stelle).

Mentre non appena si passa a questioni più concrete, la comune matrice liberale sembra mettere tutti d’accordo su un punto soltanto: il garantismo e il conseguente rifiuto del giustizialismo. Su tutto il resto, come i migranti, la spesa pubblica, le tasse, la lotta all’evasione fiscale, i conti pubblici, spesso non è chiaro se le formazioni politiche che si richiamano alla tradizione liberale la pensino tutte allo stesso modo, e anzi talora è più che chiaro che la pensano in modo diverso. Ciò vale, in particolare, per le tre formazioni maggiori (Forza Italia, Italia Viva, Azione), di cui bene o male si conoscono alcune proposte portanti, ma anche non pochi significativi silenzi, specie in materia di risanamento dei conti pubblici.

Per quel che riesco a vedere, in questo momento l’offerta politica più interessante, e meno scontata, viene da Azione, il partito di Calenda. Da studioso, non posso non apprezzare il fatto che il programma del nuovo partito poggi su una interpretazione complessiva e dettagliata, degli anni della globalizzazione, nonché su un’analisi specifica del caso italiano (entrambe esposte nel suo libro Orizzonti selvaggi, Feltrinelli 2018). Quanto al contenuto del programma, trovo di notevole interesse due punti, entrambi controversi ma proprio per questo meritevoli della massima attenzione.

Il primo è, se mi si permette l’espressione, lo “sdoganamento della paura”, un sentimento di cui si riconosce la fondatezza e la piena legittimità: la paura non è un prodotto artificialmente generato dalla propaganda leghista; la pressione migratoria dell’Africa è insostenibile per l’Europa; l’Italia ha tutto il diritto di proteggere i propri confini, specie marittimi; respingimenti e rimpatri non sono tabù. Questo posizionamento mi pare interessante perché colloca il partito di Calenda in una posizione unica (e finora vuota) nello spazio politico italiano: Azione è l’unica forza di sinistra non populista e al tempo stesso chiaramente critica con le politiche di accoglienza dell’era renziana. È una novità, perché fino a ieri l’elettore progressista preoccupato per gli ingressi incontrollati aveva una sola possibilità: votare i Cinque Stelle, unico partito dello schieramento di sinistra ostile all’apertura dei porti.

Il secondo punto meritevole di attenzione (e forse anche di qualche dubbio) è l’idea, che spesso riemerge dalle analisi e dagli interventi di Calenda, che la via maestra per restituire sicurezza economica alla gente, e al tempo stesso risanare i conti dello Stato, sia la lotta all’evasione fiscale (recuperare 50 miliardi). Da tale lotta, infatti, Calenda non si aspetta solo sgravi contributivi e una riduzione delle aliquote per chi le tasse le paga già, ma anche nuova spesa pubblica (su scuola, sanità e assistenza) e un azzeramento del deficit pubblico. Di qui una conseguenza logica difficilmente eludibile: se solo una parte dei proventi della lotta all’evasione serve a ridurre le aliquote, il gettito fiscale aumenta, e con esso tende ad aumentare la pressione fiscale complessiva (un esito che solo un ritorno alla crescita potrebbe scongiurare).

Questa posizione è interessante perché segnala un’importante (presumibile) differenza con le politiche degli altri partitini di centro, specie di Forza Italia, da sempre indulgente verso l’evasione, e convinta che solo uno shock fiscale possa rimettere in moto la macchina dell’economia.

Ecco perché credo che, al momento, il grande movimento di sigle e persone al centro dello spazio politico meriti attenzione, ma anche una certa vigilanza. Calenda, con il suo libro, le carte le ha messe quasi tutte in tavola. Gli altri partitini un po’ meno. Da Forza Italia e Voce libera, ad esempio, si vorrebbe sapere se le loro ricette economico-sociali sono le stesse degli ultimi due decenni. Quanto a Italia Viva, non è chiaro che partito potrà essere, visto che finora ha governato con una forza politica – i Cinque Stelle – che è il suo esatto contrario.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 dicembre 2019



Quante sinistre?

Ma quante sinistre ci sono in Italia?

Almeno quattro, visto che quattro sono le forze politiche che sostengono il governo: Cinque Stelle, Pd, Leu, Italia viva. Ma in realtà parecchie di più se consideriamo che nelle due ultime tornate elettorali (politiche ed europee) hanno ottenuto risultati non irrisori almeno altre sei formazioni politiche: +Europa (Emma Bonino), Italia Europa Insieme (Giulio Santagata), La Sinistra (Nicola Fratoianni), Europa Verde (Pippo Civati, Angelo Bonelli), Partito comunista (Marco Rizzo), Potere al popolo! (Viola Carofalo, Giorgio Cremaschi).

In tutto fa dieci sinistre. È vero che non si sono mai presentate tutte insieme, ma si può ritenere che attualmente il peso totale delle sinistre che non stanno al governo si aggiri intorno al 5%, più o meno il medesimo consenso che va al nuovo partito di Renzi. Sommandole tutte, sinistre di governo e di opposizione, si arriva intorno al 50% dell’elettorato.

Ma che cosa unisce, e soprattutto che cosa divide, questi dieci partiti e partitini?

È più facile rispondere al primo interrogativo che al secondo. E la risposta è: a parte il disprezzo per Salvini, l’unica cosa che unisce tutti i partiti di sinistra è la credenza che sia necessario ridurre le diseguaglianze, condita con dosi più o meno omeopatiche di ambientalismo.

Assai più difficile è definire con precisione che cosa realmente divide le dieci forze politiche di sinistra, perché le fonti di divisione rilevanti sono almeno cinque: l’immigrazione, le tasse (compresa la patrimoniale), il mercato del lavoro, il debito pubblico, la giustizia.

Su ciascuno di questi temi ci sono, nel campo della sinistra, almeno due forze politiche che la pensano in modo opposto.

Sull’immigrazione e l’accoglienza +Europa e Italia Viva (fautori dell’accoglienza e dei salvataggi in mare) si contrappongono nettamente ai Cinque Stelle, per i quali le Ong sono “taxi del mare” (Di Maio dixit) e gli immigrati irregolari vanno rimpatriati il più celermente possibile.

Sulle tasse Italia Viva e Cinque Stelle sono risolutamente ostili ad ogni aumento, le forze di estrema sinistra accarezzano addirittura l’idea di far piangere i ricchi con una patrimoniale.

Sul Jobs Act i Cinque Stelle e l’estrema sinistra sono ferocemente critici, mentre e Italia viva e +Europa lo considerano una sana modernizzazione del mercato del lavoro.

Sul debito Cinque Stelle ed estrema sinistra ne auspicano un aumento (per “rilanciare la crescita”), solo +Europa vuole ridurlo tagliando la spesa pubblica.

Sulla giustizia Italia viva e +Europa sono garantisti, i Cinque Stelle sono da sempre giustizialisti.

In breve: accomunate dal nobile scopo di ridurre le diseguaglianze, le forze progressiste si dividono – spesso in modo profondo – sui modi per raggiugere l’obiettivo.

Non so se l’avete notato, ma in questa mini-rassegna delle idee che circolano a sinistra non ho mai menzionato il Pd. La ragione è che il Pd non è mai trainante in nessuna delle grandi contrapposizioni che dividono il campo progressista. Quale che sia la questione di cui si parla, il Pd si barcamena, esita, oscilla, distingue, prende tempo.

Incerto sulla cittadinanza agli immigrati e sul problema degli sbarchi. Tentato dall’aumento delle tasse ma timoroso di introdurre la patrimoniale. Incerto fra la difesa del Jobs Act e la correzione di una riforma in cui non crede più. Contrario a parole al debito pubblico, ma di fatto strenuamente impegnato (quando governa) a ottenere più flessibilità dall’Europa. Legato alla casta dei magistrati, ma ostile alle scorribande della magistratura nella sfera della politica.

Possiamo leggere tutto ciò in una chiave benevola, e sostenere che, se non c’è una sola causa importante di cui il Pd sia il paladino più convinto, è perché il partito di Zingaretti è una forza saggia e matura, il vero baricentro del centro-sinistra, e proprio per questo non può assumere posizioni estreme, che lascia volentieri alle forze meno responsabili, o meno consapevoli della complessità dei problemi: i radicali cosmopoliti di Emma Bonino, i nostalgici del comunismo, i populisti di Grillo, i liberal-riformisti alla Renzi.

Ma forse è più aderente alla realtà riconoscere che il Pd, un partito nato dal sogno di modernizzare lo schieramento progressista, è oggi una forza politica senza identità e senz’anima. Tenuto insieme dalla necessità di perpetuare il controllo sui gangli vitali della società italiana (come a suo tempo accadeva alla Democrazia Cristiana), terrorizzato dall’eventualità di tornare al voto, esso pare aver perduto ogni contatto con le idee originarie dei padri fondatori, giuste o sbagliate che fossero.

Il che non sarebbe un male se al posto di quelle idee ve ne fossero altre, più giuste, o più realistiche, o più moderne, o più nobili. Ma diventa problematico se al posto delle idee vi è il vuoto, riempito da formule e circonvoluzioni che ormai nessuno più intende. È questo, temo, il motivo per cui quel pochissimo che la politica ancora riesce ad esprimere a sinistra non proviene più dal Pd, ma dalle forze politiche che cercano di strappargli lo scettro.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 ottobre 2019



Dai vecchi partiti-chiesa alle Srl minestrone di oggi. Ne è valsa la pena?

I vecchi partiti politici, che in Europa hanno scritto due secoli di storia e che quasi dovunque stanno esaurendo la loro carica vitale, hanno rappresentato qualcosa che forse ci toccherà rimpiangere a lungo.

In un certo senso, erano delle vere e proprie chiese, sia che si ispirassero alla moderna laicità illuministica sia che traessero alimento spirituale dal cristianesimo, cattolico o protestante. A caratterizzarli era una Weltanschauung, una impegnativa visione del mondo alla luce della quale veniva giudicato il passato e si elaboravano programmi di riforma della società, non necessariamente in senso progressista. Ogni partito presentava tre volti: l’ideologia – la sua specifica political culture – il programma elettorale (che poteva mutare, almeno in parte, di volta in volta), le battaglie concrete con cui voleva essere identificato – ad es., il divorzio, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’adesione alla Nato etc. etc. In genere, nessuno si prendeva la briga di leggere i programmi – spesso ampollosi, troppo tecnici, sostanzialmente noiosi – ma si era molto attenti agli obiettivi specifici per cui un partito s’impegnava a battersi. E ancor più, va sottolineato, all’ideologia che fissava l’identità etico-sociale del militante e dell’elettore abituale. Quando si entrava nella grande sala con le pareti piene dei ritratti dei nobili antenati – si chiamassero Filippo Turati o Giacomo Matteotti, Luigi Sturzo o Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi o Benedetto Croce, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti – si era disposti a ingoiare più di un rospo se i leader del partito decidevano politiche o contraevano alleanze poco gradite. Si tolleravano scelte tattiche discutibili giacché si era rassicurati dal far parte di una comunità etico-politica su cui vegliavano i grandi del passato.

L’ideologia era, nel senso di Guglielmo Ferrero, il collante di legittimità dei partiti, il garante della loro continuità nel tempo, il deposito bancario sul quale si poteva sempre contare nei periodi bui. “Basta esporre la vecchia bandiera socialista e avremo di nuovo migliaia di iscritti”, pare avesse detto un vecchio socialista al rientro in Italia dopo l’esilio cui l’aveva costretto il fascismo. Quella bandiera era un simbolo quasi religioso, rinviava a idealità, a storie esemplari, a “filosofie”, nel senso forte del termine, che non si esaurivano certo nelle pur condivise richieste della Repubblica e della Costituente (parole d’ordine lanciate, con la sua foga generosa, da Pietro Nenni). Alla stessa maniera, lo scudo crociato indicava la casa in cui si sarebbero potuti raccogliere tutti i cattolici, almeno quelli che avevano accettato lealmente le regole e le istituzioni della democrazia liberale e, abbandonando ogni posizione temporalista, la separazione tra Chiesa e Stato. I più “moderati” potevano anche accettare l’alleanza tattica con i partiti “atei e materialisti” della sinistra giacché a rassicurarli era, per così dire, la “comunità di partito” ovvero la “famiglia spirituale” le cui tattiche – anche le più spregiudicate – rimanevano sempre in funzione di una strategia lungimirante volta a impedire che il processo di modernizzazione si risolvesse in una devastante secolarizzazione.

In Italia, grazie a magistrati integerrimi come Francesco Saverio Borrelli, quel mondo non esiste più: i partiti non sono più familles spirituelles ma, absit iniuria verbis, comitati d’affari (in prevalenza) della borghesia. Ci si unisce, si smantellano le vecchie federazioni, si formano nuove formazioni politiche in vista di obiettivi limitati e, spesso, in nome di un anti invece che di un pro. Fermare la “resistibile ascesa” di Craxi, di Berlusconi, di Renzi, di Salvini porta a vedere a braccetto in una stessa formazione politica Monica Cirinnà e vecchi democristiani, atei razionalisti e quanti si richiamano (dicono di richiamarsi) a Sturzo e a De Gasperi. Ci troviamo dinanzi a “società a responsabilità limitata” dove ciascun azionista pensa di rimanere se stesso giacché gli è garantita libertà di coscienza sulle grandi questioni etiche. In questa maniera, però, mi sembra difficile “salvarsi l’anima” e il rischio reale è quello di diluire le vecchie identità del passato in una marmellata ideologica, che si traduce nella statua di Aldo Moro con l’Unità in tasca.

In altre parole, non assistiamo alla laicizzazione dei partiti ma a un melting pot culturale che ne stravolge i connotati tradizionali. Partiti divenuti “leggeri” sono ormai uniti da un’inconsapevole ideologia “leggera” anch’essa: ma, a guardare bene, solo in apparenza. Per fare un esempio, Alcide De Gasperi è ormai quello di Pietro Scoppola – è l’uomo di centro che guardava a sinistra – Luigi Sturzo è l’interlocutore di Piero Gobetti se non di Antonio Gramsci, Luigi Einaudi è l’antisovranista per antonomasia, rivendicabile anche da Critica liberale (organo di un laicismo fazioso, alla Ernesto Rossi, che si riteneva scomparso per sempre). Le giornate degasperiane del Trentino vengono affidate all’appeal di Ferruccio de Bortoli e di Lella Costa (famiglia Gad Lerner)! Anche nelle iconografie risorgimentali si vedevano a braccetto Pio IX, Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, ma allora il problema era quello di “fare l’Italia”, di costruire la nazione e uno Stato moderno, non quello di rifondare il sistema politico contro “nemici” che in una “democrazia a norma” si dovrebbero riguardare (e rispettare) come “avversari”.

Nelle aggregazioni dell’epoca post-partitica, i colori si sono come diluiti, i volti della storia ormai si somigliano tutti, i valori si sono omogeneizzati, le opposte scelte di campo di un tempo sono state riassorbite (in fondo anche per Berlinguer la Nato era uno scudo protettivo!) e del tanto esaltato Piero Gobetti si rimuove l’appello intransigente ognuno al suo posto!: ovvero resti ciascuno fedele alle sue memorie e alle sue tradizioni. Intendiamoci: che un deputato cattolico su questioni rilevanti – come il welfare state, la politica estera, l’immigrazione – si allei con chi è a favore del divorzio, dell’aborto (e lo scrivente ha votato per l’uno e per l’altro), del matrimonio e adozione gay, non è certo motivo di scandalo, ma che faccia parte dello stesso partito della Cirinnà, la cui concezione della famiglia è antitetica a quella di Papa Bergoglio (per citare un pontefice in odore di anticapitalismo terzomondista) è qualcosa che si spiega solo con la retrocessione di una questione etico-politica grande come una montagna – la questione della famiglia, appunto – a fatto privato, a “problema di coscienza”. Non esprimo giudizi morali – non è compito dello studioso – mi limito a constatare un fatto e mi chiedo se un mutamento epocale come questo ci renda migliori o peggiori. Specie se si pensa che le sintesi leggere fanno pagare ad ogni elemento versato nell’infuso il prezzo della mutilazione ovvero la rinuncia “a prendere troppo sul serio” i valori che lo avevano fatto entrare nella storia. Ha ragione, pertanto, Eugenio Scalfari – e ha torto Franco Carinci che lo critica – a porre nel codice genealogico del Pd capostipiti come Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e forse anche Guido Dorso e Altiero Spinelli. Se è vero, infatti, che “i nomi citati non sono collocabili fra i fondatori e sostenitori del PCI”, non è così scontato che “appartengono tutti alla cultura democratica” (dopo quanto ne hanno scritto Giuseppe Bedeschi, Ernesto Galli della Loggia, Luca Ricolfi)?. In realtà, quei nomi, quei simboli, rinviano a una sinistra et/et, socialista e “liberale”, nazionale e internazionalista, italiana ed europea, europea e cosmopolitica, non più nemica del capitalismo ma sempre, sotterraneamente, antiamericana, dove ciascuno può trovare quel che gli piace e nessuno è tenuto a fare i conti col proprio passato, non dovendo rispondere dell’accusa di apostasia.

Dovevano, certo, abbandonare le scene i partiti “forti”, disciplinati e dogmatici ma senza sottrarsi alle loro colpe storiche oggettive e, semmai, rivendicando fieramente i valori che li avevano indotti a guardare con interesse ai regimi politici poi crollati. Diventando un “partito radicale di massa”, come previde genialmente Augusto Del Noce in anni lontani, le vecchie sinistre hanno perso la loro anima ma non hanno reso un buon servigio al Paese giacché gli stanno fornendo – e da tempo – un “minestrone ideologico” che sta insieme solo con lo sputo, inventandosi di volta in volta un’invasione barbarica (di nazionalisti, di sovranisti, di razzisti) alla quale i loro antichi elettori non credono più.

Pubblicato su Atlantico il 6 agosto 2019