Europa al bivio?

Mancano meno di 4 mesi al voto europeo, ma quasi nessuno pare interessarsene più di tanto. Eppure, forse per la prima volta, si incrociano tre circostanze cruciali. La prima è che, sul tavolo, c’è una posta di enorme impatto macro-economico e sociale: il futuro del Green deal. Secondo, si tratta di una questione su cui l’opinione pubblica è profondamente divisa, anche se in questo momento – a fronte della protesta degli agricoltori – pare emotivamente schierata da una parte, quella dei frenatori della transizione verde. Terzo, mai come oggi l’esito finale del voto è stato incerto.

Parlo di esito finale perché, come sempre in un regime parlamentare proporzionale, l’esito del voto è un “missile a due stadi”, dove il primo stadio è l’esito del voto in termini di composizione del parlamento, mentre il secondo è il tipo di maggioranza cui le forze in campo decideranno di dar luogo.

Storicamente, questo secondo stadio è sempre stato poco problematico, perché – alla fine – si è sempre trovata una quadra puntando su una sorta di Grosse Koalition, ossia sulla santa alleanza fra i tre gruppi più numerosi e più europeisti (socialisti, liberali, popolari/conservatori), talora puntellati da forze euroscettiche più o meno decisive. Quel che poteva cambiare, era solo che l’equilibrio pendesse leggermente più a destra o leggermente più a sinistra, ma la sostanza era sempre quella.

Ebbene, non è detto che lo schema si ripeta. A suggerire cautela sono i sondaggi degli ultimi mesi condotti nei paesi più popolosi, ovvero Germania, Francia e Italia. In Germania, il vento soffia nelle vele della Afd (Alternative für Deutschland), partito di destra anti-immigrati, che alle ultime politiche aveva ottenuto il 10% ma oggi è dato in prossimità del 24%. In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen è in crescita ed è dato intorno al 28%. In Italia il partito di Giorgia Meloni, che aveva pochi seggi in Europa, si avvia a rimpiazzare quello di Salvini, che – con il 34% dei consensi – ne aveva conquistati tantissimi. Complessivamente, i due gruppi di destra del Parlamento Europeo – ECR e ID – dovrebbero guadagnare un numero considerevole di seggi.

Contemporaneamente, i partiti della coalizione che governa l’Europa appaiono in difficoltà. In Francia, perde colpi Macron, in Germania i Popolari, in Italia Forza Italia. I Verdi sono in crisi quasi ovunque in Europa, e i sondaggi prevedono una drastica riduzione dei loro seggi al Parlamento Europeo. Quanto ai socialisti, molto dipenderà dalle alleanze, scissioni e ricomposizioni in atto in Francia e Germania, soprattutto quanto alla capacità di attirare o mantenere il voto degli elettori progressisti ma anti-immigrati. In Francia questo tipo di voto è intercettato soprattutto da La France Insoumise di Jean Luc Mélanchon, che non è chiaro se afferirà ai socialisti o all’estrema sinistra. In Germania, proprio per trattenere il voto anti-immigrati è nato poche settimane fa un partito di estrema sinistra – la BSW di Sahra Wagenknecht – che potrebbe sottrarre voti ai socialisti del premier Olaf Scholtz.

In breve, nel prossimo parlamento europeo dovremmo assistere a un significativo ridimensionamento della attuale maggioranza popolari-liberali-socialisti, a un crollo dei Verdi, e a una avanzata dei due gruppi di destra, uno dei quali potrebbe diventare il terzo raggruppamento, dopo i Popolari e i Socialisti.

L’ipotesi tuttora più verosimile è che si ricostituisca la vecchia maggioranza, eventualmente puntellata dai Cinque Stelle, come l’attuale “maggioranza Ursula”. Ma, ove tale maggioranza non ci fosse, o fosse troppo risicata, non si possono escludere due scenari alternativi, divisi essenzialmente dall’atteggiamento verso la transizione ecologica.

Nel primo, la maggioranza potrebbe allargarsi al gruppo ECR, guidato da Giorgia Meloni, e (quasi sicuramente) rimpolpato dall’ingresso di due partiti decisamente controversi, Fidesz dell’ungherese Orban e Reconquête del francese Éric Zemmour. Nel secondo scenario, l’allargamento avverrebbe invece verso i Verdi, a dispetto del loro quasi certo declassamento da terza a quinta forza del Palamento europeo (in quanto scavalcati da ECR e ID).

Difficile immaginare due scenari più antitetici. Nel primo, assisteremmo a un ridimensionamento e a una decelerazione della transizione verde, in sintonia con le richieste del mondo agricolo. Nel secondo, a un rilancio in grande stile del Green Deal, in barba alle rassicurazioni della attuale Commissione. E checché ne pensi la mucca Ercolina seconda.




Elezioni europee, contano i migranti. Intervista a Luca Ricolfi

Domanda. La campagna elettorale per le Europee di maggio sta entrando nel vivo con larghissimo anticipo. Un antipasto è stato il voto europeo sulle sanzioni ad Orban. Che ci dice la condanna al premier ungherese?

Risposta.  Ci dice che l’Europa è debole, debolissima, anzi impotente. Giuste o sbagliate che siano le sanzioni che l’Europa infligge agli Stati membri, o le raccomandazioni con cui li irrora quotidianamente, il punto è che le autorità europee (Commissione, Consiglio, Corte dei diritti dell’uomo ecc.) non sono assolutamente in grado di far rispettare le regole che tutti hanno sottoscritto. Vale per i conti pubblici, ma anche per le violazioni dei diritti dell’uomo, o l’obbligo di redistribuzione dei migranti.

E quando ci si erge a custodi delle regole, e poi si permette a (quasi) tutti di violarle, è naturale che si affermi l’idea che ogni Stato può fare un po’ quel che vuole.

D. Questo caos che rapporto ha con il ritorno dei nazionalismi?

R. Il primo combustibile che ha fatto rinascere i nazionalismi è stato fornito dall’Europa stessa, che prima ha formulato regole non applicabili a tutti, poi ha permesso a molti Stati (comprese Germania e Francia) di infischiarsene delle regole. E ci stupiamo che Orban pretenda di fare lo stesso?

D. Il presidente francese Macron avversa Orban per misure contro l’immigrazione che nei fatti ha preso la stessa Francia. Che partita è quella tra Francia, e con essa la Germania, contro Ungheria e anche l’Italia di Salvini? Quali sono i blocchi in campo?

R. Non vedo veri blocchi, ma tanti piccoli interessi di partito, prima ancora che nazionali. Ogni leader europeo pensa alle prossime elezioni, e così contribuisce alla distruzione dell’edificio comune. Quanto a Emmanuel Macron e alla Francia, penso che il presidente francese non faccia che continuare una politica che dura da anni, e che è stata ben documentata da Roberto Napoletano nel suo libro sulla crisi (Il cigno nero, ndr). La Francia ha interessi economici opposti a quelli dell’Italia sullo scacchiere libico, e non da ieri ci vede come un regime arretrato e illiberale (si pensi all’asilo concesso ai terroristi rossi, motivato con il presunto regime di polizia instaurato in Italia negli anni della lotta alle Brigate Rosse).

D. Come spiega il voto di Forza Italia su Orban? Ha abbandonato il Ppe per sposare le ragioni della Lega di Matteo Salvini.

R. Orban fa parte del Partito popolare europeo. Mi pare più esatto dire che nel partito popolare ci sono idee diverse. Probabilmente Silvio Berlusconi, più che sposare le idee della Lega, pensa che l’atteggiamento dell’Europa verso Orban sia discutibile. Perché le preoccupazioni dell’Europa sull’Ungheria sono comprensibili su certi versanti (limitazioni della libertà di stampa, o dell’indipendenza della Magistratura), ma opinabilissime sul versante migratorio. La malattia dell’Europa è il rifiuto della storia. Dopo aver accelerato imprudentemente l’ingresso nell’Unione degli stati ex comunisti, l’establishment europeo ha voluto ignorare le enormi differenze storiche ed economiche fra Europa occidentale ed Europa dell’Est. Di qui l’idea che, per il solo fatto di aver aderito all’Unione, paesi le cui istituzioni e le cui economie assomigliano alle nostre negli anni ’50 e ’60 potessero istantaneamente adottare la nostra mentalità, i nostri valori, i nostri costumi.

D. La scommessa era che l’ingresso nella Ue ne avrebbe accelerato i processi diciamo di occidentalizzazione.

R. Ma la storia non funziona così. Può accelerare, bruciare alcune tappe, ma non saltarle tutte. Lo sanno i nostri governanti che nella civilissima Francia di De Gaulle, Pompidou, Giscard D’Estaing, la gente veniva ancora ghigliottinata? E che si dovrà attendere l’elezione di Mitterand, nel 1981, per vedere l’abolizione della pena di morte? Per non parlare dei tempi lunghi dell’economia.

D. Ma questo cosa c’entra con il rifiuto dell’accoglienza dei migranti?

R. C’entra. Come si fa a non comprendere che l’atteggiamento di un popolo verso gli immigrati non dipende solo dal suo (presunto) livello di civiltà ma anche dal Pil e dal mercato del lavoro? Un paese come l’Ungheria, che negli ultimi anni si è duramente opposto agli ingressi legali, lo ha fatto con un livello di benessere e un tasso di occupazione fra i più bassi d’Europa; mentre i paesi che hanno generosamente accolto migranti lo hanno fatto in una condizione di benessere, con milioni di posti di lavoro che i nativi non erano più disposti ad occupare.

D. Salvini sembra stia tessendo una vera rete in Europa, dopo Orban ora con l’estrema destra austriaca capitanata dal vicencancelliere Strache.

R. Più che blocchi fra Stati, vedo alleanze fra famiglie politiche. In Europa il populismo è prevalentemente “di destra”, con le rilevanti eccezioni di Syriza, Podemos, Cinque Stelle. Quindi un esperimento populista-sovranista come quello italiano diventa difficile da immaginare. Più verosimile è che si formi, dopo le elezioni, un’alleanza fra partiti di destra “rispettabili” (tipo Ppe) e partiti di destra “scavezzacollo” (tipo Lega, Fronte Nazionale, Alternative für Deutschland, ecc.). Sempre che, naturalmente, i partiti che hanno governato l’Europa in questi 40 anni, ossia socialisti, popolari, conservatori, liberali, non riescano nel miracolo di ottenere più del 50% dei voti.

D. Quanto della sfida europea si giocherà sul terreno dell’immigrazione?

R. Temo più del 50%, perché i temi economici sono troppo complicati. Ma soprattutto perché mancano del tutto idee-forza, salvo la solita contrapposizione fra chi vuole sforare il deficit del 3% e chi raccomanda austerità.

D. Macron, che sfida i sovranisti, ha annunciato una misura populista come il reddito di cittadinanza, che è il cavallo di battaglia del Movimento5stelle. Che cosa ci dice questa scelta?

R. Che il ragazzo è sveglio, e ha capito che senza idee nuove (o che sembrano nuove) si scompare molto rapidamente. Però, per quel che se ne sa, la proposta di un “reddito universale di attivazione” è poco incisiva in termini di risorse stanziate, e ha il consueto difetto di tutte le misure di reddito minimo: può funzionare solo se l’economia cresce e i centri per l’impiego hanno un elevato numero di offerte di lavoro da sottoporre a chi percepisce il sussidio. In caso contrario la misura diventa di tipo assistenziale, e disincentiva la ricerca di un lavoro.

D. Che risultato si aspetta per l’Italia dal voto alle prossime europee?

R. Quasi tutto dipenderà da quanti e quali errori faranno di qui a maggio i partiti di governo. Tendo a pensare che ne faranno pochi, e potrebbero incassare un buon risultato, soprattutto la Lega.

D. Uno scenario per la stessa Italia?

R. Penso che, ancora una volta, crederemo che tutto sia cambiato, salvo accorgerci – fra qualche anno – che l’Italia è rimasta quello che è sempre stata dagli anni ’70 in poi: un paese incapace di grandi scelte, prigioniero delle tribù che se ne contendono le spoglie.

D. Non può mancare una domanda sul centrosinistra. Nel confronto sull’immigrazione così come sull’Europa l’opposizione, a partire dal Pd, pare non esistere, essere afona. Tutta colpa dei media?

R. Colpa dei media? Io li trovo fin troppo gentili, sia con il governo che con l’opposizione. Se avessimo una vera opinione pubblica, e i media facessero il loro dovere fino in fondo, nessuno dei politici attuali resisterebbe più di una settimana sulla scena.

Il centro-sinistra non ha bisogno dell’ostilità o dell’indifferenza dei media per estinguersi: bastano i suoi dirigenti. In tanti anni che osservo la sinistra, non avevo mai visto un vuoto di idee così spinto, e così poca consapevolezza degli errori commessi.

D. Dopo la guerra delle cene con Nicola Zingaretti, l’ex ministro Pd Carlo Calenda ha detto che l’unico segretario possibile per il partito è un buono psichiatra. Stiamo a questo punto?

Sì, siamo a questo punto. E lo siamo per una ragione molto semplice: a differenza di quel che succedeva con il Partito comunista, la maggior parte dei dirigenti del Pd è priva di idee, di cultura e di autentica dedizione a una causa che vada oltre la promozione di sé stessi. In queste condizioni è del tutto naturale che quel che residua siano quasi esclusivamente gli interessi personali. I quali non creano problemi in un’azienda, in una squadra di calcio, in un’emittente televisiva, perché lì fa parte delle regole del gioco che ognuno promuova sé stesso, mentre ne creano di enormi in un partito, perché lì la finzione che si pretende di mantenere viva è quella di avere a cuore soprattutto il bene comune. Insomma, per i politici di oggi mantenere quella finzione richiede dosi troppo grandi di falsa coscienza, di autoinganno. La mente rischia di andare in pezzi. E quando la mente vacilla, si pensa giustamente allo psichiatra. Sì, Calenda ha colto perfettamente nel segno.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 19 settembre 2018