Il compleanno della Costituzione: le promesse tradite

La Costituzione italiana sta per compiere 70 anni. Li compirà esattamente il 22 dicembre, anniversario del 22 dicembre 1947, quando la Carta fondamentale fu approvata dall’Assemblea Costituente. Settanta anni non sono pochi, nella vita delle persone non meno come in quella delle istituzioni. E un compleanno a cifra tonda è un’ottima occasione per tentare un bilancio.

Una parte del bilancio, quella strutturale, o puramente descrittiva, è presto fatta. La Costituzione in parte è rimasta monca (non si è mai avuto il coraggio di specificare gli articoli 39 e 49, per non limitare lo strapotere di sindacati e partiti); in parte è stata completata da interventi successivi, come quello sulla Corte Costituzionale (1953), quelli su composizione e durata di Camera e Senato (1963), quello sulle Regioni (1970); in parte, infine, è stata manomessa con più o meno successo, come quando il centro-sinistra è intervenuto sul Titolo V introducendo il federalismo (2001), o quando il centro-destra ha tentato invano di cambiare la forma di governo (2006), o ancora quando, sotto la pressione della crisi e delle autorità europee, il Parlamento ha rafforzato l’articolo 81 rendendo più rigide le norme sui conti pubblici (2012).

Più difficile, molto più difficile, è fare un bilancio valutativo. Perché un vero bilancio dovrebbe rispondere ad almeno due domande strettamente intrecciate. La prima: in questi 70 anni la Costituzione è stata tradita? La seconda: la Costituzione, così com’è diventata, è ancora all’altezza dei tempi?

Sulla prima domanda personalmente non ho molti dubbi. Comunque la si pensi sulla bontà della Carta originaria (un punto su cui gli osservatori sono divisi), è difficile occultare che almeno una decina dei 54 articoli iniziali (“Princìpi fondamentali” e “Diritti e doveri dei cittadini”) sono stati largamente ignorati e talvolta sostanzialmente traditi. Fra di essi, i più calpestati sono probabilmente quelli concernenti il lavoro (1, 4, 36) e lo studio (34).

I primi stabiliscono il diritto ad avere un lavoro (1, 4) e una retribuzione adeguata (36), nonché l’impegno della Repubblica a rendere effettivo tale diritto. Basta una breve occhiata alla traiettoria storica dei tassi di occupazione e di disoccupazione per rendersi conto che questo diritto, solennemente enunciato all’articolo 1 (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), non è mai stato garantito, e negli ultimi due decenni è stato addirittura umiliato: oggi l’Italia non solo non è in un regime di piena occupazione (come la Germania e alcuni paesi del Nord) ma ha il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.

Le cose vanno ancora peggio per quanto riguarda l’articolo 34, che nel secondo e terzo comma recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Anche questo diritto è negato e calpestato, come sa chiunque sia semplicemente “capace e meritevole”, senza essere anche povero. Oggi le pochissime borse di studio sopravvissute sono assegnate esclusivamente a coloro le cui famiglie, almeno sulla carta (attestazione Isee) versano in condizioni di disagio estremo. E uno dei drammi cui assisto all’università è che i pochi studenti davvero “capaci e meritevoli”, sono spesso costretti a lavorare per mantenersi agli studi, perché le loro famiglie sono modeste, ma non abbastanza povere da avere diritto alle limitatissime risorse disponibili. Così la concorrenza con i figli di papà diventa sleale, alla faccia dei principi egualitari e meritocratici proclamati in tanti articolo della Carta fondamentale.

Resterebbe la questione dell’attualità della Costituzione. Su questo, lo confesso, le mie sensazioni sono contrastanti. Da un lato ho molti dubbi sul fatto che il federalismo introdotto nel 2001, ma anche il regionalismo introdotto nel 1970, siano stati un progresso: il loro effetto è stato soprattutto di rendere più facile ad amministratori e politici dilapidare denaro pubblico. E ancora più dubbi ho sulla funzionalità del bicameralismo, che il referendum renziano del 2016 sciaguratamente non intendeva affatto eliminare, ma solo annacquare e imbastardire (con i senatori eletti dai consigli regionali). Dall’altro lato, però, mi assale anche un dubbio di segno opposto, e cioè che la maggior parte delle cose che non vanno, in Italia, non dipendano affatto dalla Costituzione, bensì dalla scarsa qualità degli uomini che dovrebbero rispettarla, attuarla, tradurla in norme e regolamenti: la lentezza del processo legislativo, ad esempio, dipende tantissimo dai regolamenti parlamentari e dalla irresponsabilità dei partiti, più che dal bicameralismo.

Sicché, alla fine, più che chiedermi se la Costituzione sia attuale oppure no, mi viene da farmi un’altra e più radicale domanda: e se il vero problema non fosse la Costituzione, ma fossimo noi stessi, cittadini italiani, con le nostre cattive abitudini, la nostra indifferenza, e in definitiva la nostra incapacità di sceglierci una classe politica decente?

Pubblicato su Panorama il 14 dicembre 2017

 




La verità sulla crescita dell’occupazione in Italia

Luca Ricolfi  sul «Messaggero» di oggi riconosce che il numero totale di occupati in Italia ha avuto una crescita importante dal 2013 al 2016. Ma, per provare la sua tesi che non è detto che il Jobs Act abbia avuto rilevanti effetti positivi, egli aggiunge che il numero totale di occupati in Italia è cresciuto assai meno che negli altri grandi Paesi europei. La conclusione di Ricolfi è ingannevole: non perché dice una cosa falsa, ma perché racconta solo una parte della verità. Ciò è facilmente dimostrabile affidandoci ai dati ufficiali Eurostat.

Il numero totale di occupati, tra il 2013 e il 2016, è cresciuto del 2% in Italia, 1,3% in Francia, 6,3% Spagna, 3,1% Germania, 5,6% Regno Unito. Quindi è vero: l’occupazione da noi è cresciuta meno che altrove. Ma se si vuol tracciare una valutazione seria degli effetti delle riforme del lavoro realizzate nel nostro Paese, non è corretto fornire solo questo dato. Questo dato va paragonato a quanto è cresciuto il pil reale dei vari Paesi nel periodo considerato: tra il 2013 e il 2016 il pil reale è salito del 2,1% in Italia, 3,2% Francia, 8,3% Spagna, 5,7% Germania, 7,4% Regno Unito.

Confrontando queste due serie di dati, emerge chiaramente un fatto di non poco conto: l’Italia è di gran lunga, tra i grandi Paesi europei, quello col miglior rapporto tra crescita del pil reale e crescita dell’occupazione. In altri termini, il “contenuto occupazionale della crescita” è stato da noi più alto che negli altri Paesi esaminati. Perché è stato più alto? Perché, è evidente, le riforme del mercato del lavoro fatte hanno dato risultati significativi, pur in presenza di una crescita del pil ancora contenuta.

Certo, siamo ancora indietro, specialmente per quanto riguarda la crescita (su cui pesano fortemente l’elevato debito pubblico e l’alto carico fiscale che di esso è conseguenza) e il tasso di occupazione giovanile (da noi è il 60%, in Francia 75%, Spagna 68%, Germania 80%, Regno Unito 82%). Pertanto è indubbio che resta tantissimo da fare. Ma, se si vuol dare un giudizio equo sulle riforme del lavoro degli ultimi anni, l’andamento del contenuto occupazionale della crescita è una variabile da cui non si può prescindere.

La risposta di Luca Ricolfi all’Onorevole Parrini

Grazie, innanzitutto, per le sue riflessioni, sicuramente utili per arricchire la discussione sul mercato del lavoro.

Lei ha perfettamente ragione a sottolineare che non conta solo quanti posti di lavoro nuovi si formano, ma anche quanto è grande il loro “contenuto occupazionale”. Da questo punto di vista l’Italia ha fatto meglio di quasi tutti gli altri paesi europei: solo la Grecia ha fatto ancora meglio di noi.

La Grecia?

Sì, proprio la Grecia. Questo dovrebbe fare riflettere sul significato dell’indicatore che lei propone di utilizzare. Il numero di posti di lavoro (o di ore lavorate) per unità di Pil, infatti, non è altro che l’inverso della produttività del sistema-paese. Un paese che aumenta il “contenuto occupazionale” del Pil sta semplicemente riducendo la sua produttività.

        Fonte: elaborazioni FDH su dati Oecd

Come si può vedere dal grafico qui sopra, l’intensità di lavoro e la produttività del lavoro sono semplicemente le due facce, speculari ed entrambe veritiere, della medesima medaglia: se aumenta l’una non può che diminuire l’altra, e viceversa.

Naturalmente possiamo discutere (è una vecchia ma sempre attuale controversia) se sia meglio una crescita ad alto o a basso contenuto di occupazione, ma il problema, a mio parere, si pone in modo effettivo solo per i paesi che, avendo una crescita della produttività elevata (o quantomeno vicina alla media degli altri paesi), possono scegliere se puntare le loro carte su politiche di sostegno dell’occupazione o su politiche che promuovano la competitività sui mercati internazionali.

La mia opinione è che, sfortunatamente, l’Italia non possa permettersi di scegliere: siamo, insieme al Belgio, l’unico paese avanzato la cui produttività ristagna da vent’anni.  E questo è, insieme a quello del debito pubblico, uno dei problemi capitali del sistema-Italia. Ecco perché, pur rallegrandoci dei nuovi posti di lavoro, non possiamo considerare una buona notizia il fatto che la dinamica dell’occupazione ecceda quella del Pil.

La buona notizia sarebbe che, pur crescendo i posti di lavoro a un ritmo soddisfacente, il Pil crescesse a un ritmo ancora maggiore, rafforzando la nostra competitività.

 

 

 




Occupazione: cosa è imputabile alla riforma e cosa no

L’ultimo articolo di Luca Ricolfi sugli effetti della riforma del lavoro del 2015 costituisce un contributo prezioso, su di un tema spinoso, all’innalzamento del livello di un dibattito fin qui pesantemente inquinato sia dalla faziosità, sia da un uso dei dati statistici, da tutte le parti in contesa, per il quale l’aggettivo “grossolano” è un eufemismo. In questo dibattito in un paio di occasioni ho commesso anch’io, involontariamente, un errore nella lettura del dato statistico sul numero dei nuovi rapporti di lavoro stabili e di quelli a termine, creati nell’ultimo triennio: è vero che i primi sono più numerosi dei secondi, ma ha ragione Luca Ricolfi quando osserva che essi sono in percentuale inferiore rispetto allo stock che si registrava all’inizio del triennio, determinandosi così una sua sia pur modesta riduzione.

Detto questo, propongo di arricchire il quadro statistico fornito e illustrato da Luca Ricolfi con due dati ulteriori, che mi paiono importanti per una valutazione degli effetti della riforma: due dati entrambi sorprendenti, resi ancor più sorprendenti se considerati congiuntamente. Il primo è quello che vede una sostanziale invarianza, negli ultimi anni, del numero dei licenziamenti in rapporto al numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato in essere, siano essi costituiti prima dell’entrata in vigore della riforma del 2015, o dopo: un dato che obbliga a una riflessione approfondita sul peso relativo che hanno la legge da un lato, dall’altro la cultura diffusa e le relazioni sindacali, nel determinare i comportamenti degli imprenditori e in particolare la loro propensione all’esercizio della facoltà di recedere dal rapporto con i dipendenti. Parrebbe che una riduzione incisiva del vincolo al recesso produca, almeno nel breve periodo, un mutamento del comportamento degli imprenditori molto meno rilevante di quanto ci si sarebbe atteso. Resta da chiedersi se e quanto su questo mancato effetto della riforma pesi la volatilità del dato legislativo e in particolare il rischio di una controriforma a seguito delle prossime elezioni politiche, oppure a opera della Corte costituzionale; e se un mutamento più rilevante debba attendersi nel medio periodo, se la riforma supererà indenne questi due scogli.

Il secondo dato sorprendente, apparentemente contraddittorio rispetto al primo, è quello che dà conto della drastica riduzione del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 – anno nel quale è entrata in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine – e la metà del 2017. I dati forniti dal ministero della Giustizia consentono di quantificare questa riduzione intorno ai due terzi. Gli stessi dati dicono, per converso, che questa riduzione si sta verificando soltanto nel settore del lavoro privato: in quello del pubblico impiego, dove né la riforma del 2012 né quella del 2015 hanno avuto applicazione, il flusso dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo resta sostanzialmente invariato. Il che autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche rigorose, che siano proprio quelle due riforme la causa del fenomeno osservato.

Fonte pietroichino.it

La riduzione del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto di grande rilievo, non solo per l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso. Il tasso di contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama europeo: solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al giudice del lavoro e che dunque il severance cost per entrambe le parti fosse normalmente appesantito dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’orientamento personale del magistrato. Solo in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del sistema delle relazioni industriali.

Il fatto che quell’anomalia stia avviandosi a essere superata, in parallelo con l’allineamento del nostro diritto del lavoro rispetto allo standard prevalente nei grandi Paesi occidentali, costituisce un progresso non disprezzabile nella direzione di una maggiore attrattività dell’Italia per gli investitori stranieri. Che è la precondizione, insieme alla riduzione del debito pubblico e dunque della pressione fiscale, per quella crescita economica senza la quale non può crescere né il potere contrattuale né il benessere dei lavoratori.

Quanto al fatto che il superamento di quell’anomalia non si accompagni a un aumento della frequenza dei licenziamenti, esso ci autorizza forse a ritenere che l’unica categoria in qualche misura danneggiata dalla riforma dei licenziamenti del 2012-2015 sia quella degli avvocati giuslavoristi. Esso dovrebbe comunque convincere anche chi ha a cuore sopra ogni altra cosa la sicurezza e il benessere dei lavoratori dipendenti regolari dell’opportunità che la riforma del lavoro non venga manomessa prima che si siano potuti verificare in modo rigoroso e valutare pragmaticamente i suoi effetti.