L’illusione fiscale

C’è un ritornello, che sento da almeno trent’anni, più o meno da quando finì la prima Repubblica e l’Italia smise di crescere più della media delle economie avanzate. Il ritornello dice: se la (sacrosanta) lotta all’evasione fiscale avesse successo, e tutti pagassero le tasse dovute, l’Italia risolverebbe d’incanto tutti i suoi maggior problemi; con quei 100 miliardi di gettito addizionale, infatti, potremmo abbattere le liste d’attesa negli ospedali, costruire asili nido, pagare di più gli insegnanti, combattere la povertà.

Sembra un discorso ineccepibile, ma è del tutto sbagliato. Far pagare le tasse agli evasori è opportuno, oltreché giusto, ma le conseguenze di un fisco implacabile non sarebbero quelle attese, per vari motivi.

Intanto, perché una parte dell’evasione è “di sopravvivenza” (copyright: Stefano Fassina, economista e politico di sinistra). Ci sono operatori economici che semplicemente chiuderebbero, se dovessero pagare le tasse fino all’ultimo centesimo. Farli fallire è senz’altro una buona cosa in un’ottica liberista e schumpeteriana, per cui l’uscita dal mercato delle imprese inefficienti è il prezzo per alzare la produttività media (si chiama “distruzione creatrice”), ma si deve sapere che l’effetto immediato sarebbe la distruzione di centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Ma c’è anche un altro motivo di riflessione. Anche ammesso che nessuna attività economica sia costretta a chiudere, l’effetto aggregato di un azzeramento dell’evasione sarebbe uno spaventoso aumento della pressione fiscale, già oggi una delle più alte fra le società avanzate. Oggi è circa il 43%, ma sfiorerebbe il 50% se al gettito attuale si dovesse aggiungere quello mancato a causa dell’evasione. Ma nessuna società avanzata raggiunge o sfiora il 50% di pressione fiscale, perché se ciò accadesse si arresterebbe completamente la crescita.

Dobbiamo dunque rinunciare a combattere l’evasione fiscale?

Assolutamente no. Quello cui dobbiamo rinunciare è l’illusione che la lotta all’evasione possa finanziare altra spesa pubblica. L’unica destinazione ragionevole delle maggiori entrate è l’abbassamento delle aliquote a chi già paga le tasse, a partire dalle imprese, che oggi hanno una tassazione globale (tasse + contributi sociali) che sfiora il 60%, superata solo da quella della Francia.

E i problemi del nostro stato sociale? Se il gettito recuperato non può essere destinato a rinforzare il welfare, come se ne esce?

Se vogliamo essere realisti, temo che dobbiamo rassegnarci ad alcune verità amare, presumibilmente indigeribili per qualsiasi leader politico. La prima è che la spesa pubblica corrente non può aumentare più del Pil, e quindi – falliti quasi tutti i tentativi di spending review – la via maestra per rafforzare lo stato sociale è tornare a crescere a un ritmo apprezzabile (cosa impensabile senza un drastico abbassamento della pressione fiscale sulle imprese). L’altra verità, documentata già un quarto di secolo fa dal rapporto Onofri (febbraio 1997), è che il male primario del nostro stato sociale è il suo squilibrio: la spesa previdenziale (pensioni) fa la parte del leone, soffocando tutto il resto. Se la spesa per le pensioni fosse allineata alla media europea, potremmo permetterci migliori ospedali, migliori scuole, migliori università, migliori servizi ai cittadini.

Ma questo è un altro, difficile, discorso: la demagogia in materia di pensioni, e la connessa rinuncia a puntare sulla previdenza complementare, è fra le colpe maggiori delle nostre classi dirigenti, fin dai tempi della prima Repubblica (ricordate gli insegnanti in pensione a 40 anni?). Un male aggravato dall’invecchiamento della popolazione, e da un tasso di occupazione che, nonostante i recenti progressi, resta il più basso dell’occidente.

Sarà un caso che, fra le società avanzate, siamo – contemporaneamente – quella con il tasso di occupazione più basso e quella che più si accanisce su chi produce?




Decreto dignità?

Non so se sia vero che nella predisposizione del “decreto dignità” abbia avuto un ruolo significativo la Cgil. Certo l’ipotesi non è inverosimile, vista l’impostazione del decreto nella parte che riguarda il mercato del lavoro. Non entro qui nei dettagli (lo ha già fatto ottimamente ieri (3 luglio ndr) Oscar Giannino su questo giornale), se non per ricordare che il decreto rende la vita più dura alle imprese sia sotto il profilo dei costi sia sotto quello della flessibilità. E infatti il governo è stato sommerso dalle proteste delle associazioni delle imprese, comprese quelle piccole che il partito di Di Maio tanto aveva corteggiato in campagna elettorale.

L’impressione è che il Movimento Cinque Stelle, recuperando alcune idee della sinistra dura e pura, stia cercando di allargare il proprio consenso verso l’elettorato progressista, sottraendo consensi sia a Leu sia al Pd, i cui elettori non sono tutti entusiasti del Jobs Act. Del resto un certo collateralismo fra una parte del mondo sindacale e i Cinque Stelle non è una novità di oggi, sia a livello locale sia a livello nazionale. Quali che siano le intenzioni dei Cinque Stelle, sta di fatto che il Pd è stato preso in contropiede dall’iniziativa di Di Maio, come si vede bene dalle prime dichiarazioni, che oscillano fra la drammatizzazione (il decreto “farà diminuire l’occupazione ovunque”) e la minimizzazione (il decreto “non cambia niente”, perché “l’impianto del Jobs Act non viene neanche scalfito”).

Come spesso accade, credo che la verità stia nel mezzo. Dire, come ha fatto il capo dei Cinque Stelle, che il decreto dignità è “la Waterloo del precariato” è semplicemente ridicolo. Il precariato in Italia è fatto di circa 6 milioni di posti di lavoro, abbastanza equamente suddivisi fra 3 milioni di regolari (quelli contro cui combatte il “decreto dignità”) e altri 3 milioni in nero (quelli di cui nessuno intende occuparsi). E’ ragionevole pensare che il principale effetto del decreto sarà un aumento della quota in nero del lavoro precario, piuttosto che l’inizio di una serie di trasformazioni di posti a tempo determinato in posti stabili. Quanto alla ventilata diminuzione dell’occupazione, anch’essa mi pare un’esagerazione: la crescita dei posti di lavoro rallenterà un po’, ma se si fermerà sarà per altri motivi, non certo a causa del decreto dignità.

Quel che mi colpisce, tuttavia, non è tanto l’apparente ingenuità della promessa di sconfiggere il precariato, quanto la diagnosi che sembra star dietro le prime mosse del governo in materia economica. L’idea che 3 milioni di posti di lavoro a tempo determinato ma regolari, pari al 17% degli occupati dipendenti, siano un dramma, un’anomalia assoluta, o addirittura la priorità fondamentale in campo economico-sociale, è piuttosto bizzarra. Se si dà un’occhiata alla situazione nell’Unione Europea si vede che non è certo il precariato il nostro problema: la nostra posizione in graduatoria è a centro classifica, facciamo peggio di Germania e Regno Unito, ma meglio di Francia e Spagna, giusto per stare ai quattro grandi paesi con cui di solito si fanno le comparazioni. Il nostro vero problema, semmai, è il numero di posti di lavoro, specie nella componente giovanile: fra i paesi Europei solo la Grecia ha un tasso di occupazione totale più basso del nostro.

Ma c’è anche un altro aspetto che lascia perplessi nella filosofia del decreto dignità. Il pugno duro contro i contratti a termine pare ignorare un aspetto cruciale del funzionamento del mercato del lavoro in Italia, ovvero il fatto che la percentuale di posti di lavoro regolari ma a termine (oggi vicina al 17%) si muove in sincronia con il ciclo economico: quando l’economia tira aumenta il peso dei contratti temporanei, quando l’economia va male aumenta il peso dei contratti stabili. Un aumento del tasso di occupazione a termine può non piacerci, ma è anche il segno di un’economia che cresce, mentre un aumento del tasso di occupazione stabile può rallegrarci, ma è anche il segno che il ciclo economico sta perdendo colpi: nella grande recessione del 2008-2009 il tasso di occupazione precaria era in diminuzione, ma non era certo una buona notizia. Da questo punto di vista l’attuale impetuoso aumento del numero di posti di lavoro a termine andrebbe, quantomeno, guardato come una moneta a due facce, negativa sul versante delle tutele, ma positiva su quello dei livelli occupazionali.

Tornando al punto centrale, ovvero gli effetti prevedibili del decreto dignità, credo che essi saranno essenzialmente tre. Il primo, ovvio per chi guarda il mercato del lavoro senza lenti ideologiche, è di rallentare la formazione di nuovi posti di lavoro. Il secondo effetto è di convincere le autorità Europee che l’Italia è entrata in un’era di contro-riforme, e quindi non merita ulteriori concessioni sul versante della flessibilità di bilancio (da questo punto di vista enfatizzare l’entità della retromarcia sul Jobs Act è semplicemente autolesionistico).

Il terzo effetto è più sottile, ma non meno importante. Se questo decreto indica la strada che si intende percorrere anche in futuro, dobbiamo aspettarci che il mito del reddito di cittadinanza finisca per rivelarsi una sorta di profezia che si autorealizza. A forza di misure che, in nome dei diritti dei lavoratori, mettono sabbia negli ingranaggi dell’economia, la formazione di posti di lavoro potrebbe prima rallentare e poi diventare negativa, e così convincere gli elettori che l’unica strada sia il reddito di cittadinanza: in un paese in cui il lavoro non c’è, non resta che dare un reddito a tutti, che lavorino o no.

Ecco perché ci andrei piano, con l’espressione “decreto dignità”: in Italia c’è ancora moltissima gente che un reddito preferirebbe guadagnarselo, piuttosto che ricevere un sussidio grazie alla benevolenza del Principe.




Due stati

Di una frattura fra Nord e Sud si parla da quando esiste lo Stato italiano, dunque dal 1861. Il modo in cui se ne parla, le modalità con cui la si declina, le linee lungo le quali se ne tracciano i confini, sono invece piuttosto mutevoli.

Fino agli anni ’50 del Novecento, fondamentalmente, il problema è stato pensato come “questione meridionale”, una grande sfida politica che ha appassionato legioni di meridionalisti, fin dalla fine dell’800: da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti, da Antonio Gramsci a Pasquale Villari, da Gaetano Salvemini a Pasquale Saraceno. Nel meridionalismo classico il Sud da sostenere e sviluppare coincideva con l’intero Mezzogiorno statistico (inclusi Abruzzo e Sardegna), e arrivava talora ad includere le aree più depresse del Lazio, oggetto anch’esse di attenzione da parte della Cassa del Mezzogiorno. Questo confine fra le due italie sarà poi ribadito e precisato dagli studiosi di scienza politica, che sulla scorta del famoso libro di Robert Putnam sulla “tradizione civica” delle regioni italiane (1993), fisseranno la linea di demarcazione fra l’Italia arretrata, che non ha avuto la civiltà comunale e perciò scarseggia di fiducia interpersonale, e l’Italia civica, in cui la civiltà comunale ha creato le condizioni dello sviluppo, lungo la linea che va dalla foce della Fiora (sud della Toscana) alla foce del Tronto (sud delle Marche). E sarà un politologo italiano, Roberto Cartocci, a mostrare che quel confine coincide con impressionante precisione con quello del voto di scambio, o clientelare, che si concentra a Sud di quella linea ideale.

Questa visione di un’Italia divisa in due, con il Sud (più o meno allargato) da un lato, e il Centro-Nord (più o meno ristretto) dall’altro non è mai venuta meno. Il problema, per gli studiosi, riguardava solo la questione dei confini esatti fra le due italie, perché due regioni, Lazio e Marche, si venivano spesso a trovare “a cavallo” fra il Centro-Nord e il Sud.

Accanto a questo filone di pensiero, sostanzialmente dualista, a partire dagli anni ’60 si è sempre più irrobustito un altro modo di descrivere l’Italia, più legato agli esiti elettorali. Secondo questo modo di vedere l’Italia elettorale era suddivisa in più di due aree relativamente omogenee: almeno quattro secondo alcuni, tre secondo altri. L’elemento comune di queste analisi, dovute soprattutto all’Istituto Cattaneo, ad Arnaldo Bagnasco e a Giorgio Fuà, era di vedere il centro-Nord come un luogo relativamente eterogeneo, suddiviso fra regioni di antica industrializzazione (Piemonte, Lombardia, Liguria), dominate dalla grande impresa, e regioni della terza Italia, dominate dalla piccola impresa, e divise quasi esclusivamente dalla cultura politica, con il Triveneto cattolico contrapposto alle Regioni rosse.

Nel 1992-1994, con la fine della prima Repubblica e la netta vittoria del centro-destra nelle regioni settentrionali, lo schema delle molte italie subisce una nuova e ulteriore torsione: ora la frattura fondamentale pare innanzitutto fra il Nord, produttivo e insofferente per l’oppressione fiscale, e il resto del Paese. E infatti da allora, e per molti anni, si parlerà di “questione settentrionale”, e il federalismo fiscale diventerà nel giro di pochi anni una specie di tema fisso della politica italiana.

Ma che cosa accade il 4 marzo 2018? Che tipo di paese è quello che esce dalle urne?

A mio parere è un paese che torna ad essere spaccato essenzialmente in due, fra il Sud e il resto della penisola, come era risultato nitidamente nel 1992, ultime elezioni della prima Repubblica. Allora il Sud si distingueva dal resto d’Italia perché vi resisteva la Democrazia cristiana, esattamente come oggi il Sud si distingue dal resto d’Italia per l’insediamento dei Cinque Stelle. Ed è impressionante la precisione con cui la carta geopolitica di oggi riflette quella di allora, regione per regione, provincia per provincia: i Cinque Stelle hanno sfondato là dove maggiore era la forza della Dc. L’unica differenza significativa è che oggi le Marche sono, per così dire, annesse al Mezzogiorno grillino, mentre il Lazio è annesso al centro-nord presidiato dal centro-destra e dal Pd.

Abbiamo provato a metterle a confronto, queste due italie che il voto del cinque marzo ci ha consegnato, e l’esito non potrebbe essere più nitido: un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà, evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno appare più avanti del resto del Paese.

*Lazio: valore stimato (dati non definitivi)
Fonte: elaborazioni Fondazione Hume su dati Istat, RGS, Ministero della Giustizia, Ministero dell’Interno, Mise – Piano strategico Banda Ultra Larga,
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ferrovie dello Stato e CGIA di Mestre

È come se, in Italia, coesistessero due Stati, che in oltre 150 anni non sono riusciti in alcun modo a raggiungere un accettabile livello di convergenza.

Ma se siamo di fronte a due Stati, con economie e strutture sociali radicalmente diverse, forse sarebbe giunto il momento di prenderne atto nel solo modo conseguente, ovvero pensando a due politiche economiche radicalmente diverse per queste due italie. Proprio perché tutto è profondamente diverso, risulta difficile pensare che un’unica ricetta vada bene per tutto il paese. Prendiamo il tema delle tasse. Qualcuno si può stupire che la flat tax non abbia sedotto gli elettori meridionali? Quel problema il Mezzogiorno l’ha risolto da sempre autoriducendosele, le tasse. Il problema, semmai, sono le “condizioni al contorno” dell’attività economica: infrastrutture precarie o incomplete, mancanza di asili nido, una sanità disastrata, una scuola di bassa qualità, una burocrazia inefficiente nonostante l’eccesso di personale. Forse è di qui che una politica per il Mezzogiorno dovrebbe prendere le mosse. Naturalmente il Mezzogiorno ha anche bisogno, e da subito, di più posti di lavoro, proprio per far sì che il reddito minimo (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) sia l’unica prospettiva. Ma come fare?

Un’idea potrebbe essere di riprendere, magari solo per il Mezzogiorno, la proposta del maxi-job che la Fondazione David Hume aveva lanciato nel 2014, e che era stata raccolta sia da Susanna Camusso sia da Giorgia Meloni: azzerare tutti i contributi sociali non già per chi, genericamente, assume, ma per quelle imprese che aumentano l’occupazione e lo fanno con lavori veri, a tempo pieno o quasi pieno (di qui il prefisso maxi, che si contrappone ai mini-job della Germania). Un’altra idea, e in un certo senso una misura complementare ai maxi-job, potrebbe essere di favorire l’occupazione femminile nel Mezzogiorno (dove è a livelli bassissimi) con un grande piano di costruzione di asili nido, che oggi sono drammaticamente scarsi (1 bambino su 9).

Un ragionamento analogo e speculare, probabilmente, meriterebbe di essere fatto per il Centro-Nord. Qui una misura chiave sarebbe disboscare la selva degli adempimenti burocratici, e rendere più rapido il rilascio di permessi e autorizzazioni, specie in ambito edilizio e nel commercio. Quanto ai bilanci delle imprese, più che sul contenimento del costo del lavoro, forse sarebbe meglio puntare direttamente sulla riduzione dell’imposta societaria (Ires e Irap). L’evidenza econometrica suggerisce che, se si vuol accelerare la crescita del Pil, è molto più efficiente puntare sulla riduzione delle tasse sui profitti che ridurre la pressione contributiva, o la pressione fiscale in generale.

Con le risorse degli 80 euro e della decontribuzione (circa 20 miliardi l’anno), anziché sostenere gli stipendi di chi un lavoro già ce l’ha, forse sarebbe stato meglio pensare a una più drastica riduzione dell’imposta societaria, e a un sostegno ai veri poveri, ossia a chi guadagna così poco da non poter usufruire di alcuno sgravio fiscale. Certo, lo si sarebbe dovuto fare mirando alla povertà assoluta, anziché alla povertà relativa, e tenendo conto del livello dei prezzi, come proposto a suo tempo dall’Istituto Bruno Leoni: un sussidio di 500 euro a Caltanissetta pesa molto di più, in termini di potere di acquisto, di un sussidio di 500 euro a Milano.

Se il Pd lo avesse fatto, probabilmente l’economia italiana e l’occupazione avrebbero ricevuto una spinta maggiore, e il Sud, in cui si concentrano la maggior parte dei poveri assoluti, si sarebbe sentito meno solo. Il successo dei Cinque Stelle è anche il frutto di anni di superficialità, omissioni, e slogan vuoti nelle politiche per il Mezzogiorno.

Pubblicato su Panorama il 15 marzo 2018 con il titolo “Le due Italie”.



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Ripensare all’egualitarismo nel XXI secolo

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L’egualitarismo nel XXI secolo