Il pride di Budaspest
Il successo del Pride di domenica a Budapest è andato, molto ampiamente, al di là delle più ottimistiche previsioni degli organizzatori. Non sappiamo se i partecipanti siano stati davvero 200 mila, ma anche fossero stati la metà, il successo resta. La destra italiana si consola osservando che, per compattare il campo largo, hanno dovuto esportarlo a Budapest, e che in nessuna altra occasione e su nessun altro tema i progressisti sono stati capaci di marciare uniti.
Ma è una ben magra consolazione. Meglio farebbero, i nostri partiti conservatori, a prender atto del successo dei progressisti e a comprenderne le ragioni. Che a mio parere sono soprattutto due, tra loro strettamente intrecciate. La prima è che, quali che siano le buone ragioni di chi governa, non è mai una buona idea farle valere limitando il dissenso e la manifestazione del pensiero. Vale per il Pride ungherese, dove il premier Viktor Orbán ha sbagliato, e dove l’andamento civile e ordinato della manifestazione ha reso ancora più palese l’arbitrarietà – per non dire l’assurdità – del divieto governativo. Ma vale anche per altri tipi di limitazioni, come alcune di quelle introdotte in Italia dal recente decreto sicurezza riguardo alle manifestazioni, dove a sbagliare sono stati i nostri governati. Non che non possano esservi, in specialissime circostanze, buone ragioni per limitare il diritto di manifestazione del pensiero o la protesta politica, ma il punto è che la legge dovrebbe perimetrare in modo estremamente restrittivo e rigoroso i casi in cui il divieto governativo è ammissibile e giustificato. Insomma, c’è caso e caso: l’impedimento del traffico ferroviario o l’occupazione di case sono comportamenti ben diversi da una manifestazione di piazza. L’eccessiva estensione, o l’insufficiente specificazione, dei casi in cui si può vietare una manifestazione rischia di squalificare anche i divieti più ragionevoli.
C’è anche una seconda ragione, però, per cui il Pride di Budapest ha segnato una grave sconfitta dei conservatori, ed è che – vietando la semplice manifestazione del pensiero – essi hanno fatto venir meno le proprie buone ragioni, o meglio le ragioni che, giuste o sbagliate che siano, sono pubblicamente difendibili. Quello che spesso si dimentica, infatti, è che il nucleo duro dell’ostilità contro il mondo Lgbtq+ non è il “diritto ad amare chi si vuole”, un principio ormai ampiamente e quasi universalmente affermato, almeno in occidente e perlomeno dai tempi di Giorgio Gaber (ricordate i versi di quella canzone del 1975? Vedi, cara, l’amore è una cosa normale, uno lo può fare con chi vuole, donne, uomini, animali… caloriferi…). No, il nucleo delle battaglie anti-Lgbtq+, chiunque le conduca (la Chiesa, i tradizionalisti, i moralisti), non è il diritto degli adulti consenzienti di fare sesso con chi vogliono e come vogliono, ma è la tutela dei minori e dei loro diritti contro rischi e conseguenze, reali o presunte, delle rivendicazioni Lgbtq+ e più in generale della cultura woke.
Quali rischi e conseguenze?
Fondamentalmente quattro. Primo, l’indottrinamento a scuola in materia sessuale, che secondo alcuni entrerebbe in conflitto con l’articolo 26 della “Dichiarazione universale dei diritti umani” (dicembre 1948), che al comma 3 recita: i genitori hanno diritto di priorità nella scelta dell’istruzione da impartire ai loro figli. Secondo, i rischi per la salute fisica e mentale connessi ai cambiamenti di sesso precoci, mediante bloccanti della pubertà e/o operazioni chirurgiche. Terzo, la violazione del diritto dei bambini ad avere una madre e un padre nei casi di adozioni non convenzionali (single e coppie omosessuali). Quarto, le complesse problematiche etiche della maternità surrogata (utero in affitto) sia sotto il profilo dello sfruttamento economico delle gestanti sia sotto quello del benessere psicologico del nascituro.
Qualsiasi cosa se ne pensi, credo si possa concordare che si tratta di materie delicate, sulle quali sono legittime e comprensibili le opinioni più diverse, perché è nella società che – come testimoniano i sondaggi – le troviamo tutte ampiamente rappresentate. Ecco perché la mossa di Orbán – vietare la manifestazione – è stata non solo profondamente sbagliata, ma stupidamente autolesionistica: mettendo la questione in termini di libertà di manifestazione, ha concesso un rigore a porta vuota ai propri avversari.
[articolo uscito sulla Ragione il 1° luglio 2025]