Percezione o realtà? – La crescita della violenza giovanile

Pochi giorni fa, in Italia, quattro bambini rom di 11-13 anni (quindi non imputabili) hanno rubato e svaligiato l’auto di un turista francese, e con l’auto rubata hanno investito e ucciso una donna. In Francia, un paio di settimane fa, per limitare aggressioni e spaccio, una quindicina di città hanno imposto il “coprifuoco” per i ragazzini, che non potranno più girare di notte non accompagnati da adulti. E non passa giorno senza che le cronache riferiscano di risse fra baby-gang, assalti alle forze dell’ordine, accoltellamenti fra minorenni.

E tuttavia la domanda è: sono i media che alimentano la percezione di un aumento della violenza minorile, o c’è qualcosa di reale?

Su questo le opinioni si dividono, non solo oggi. Tipicamente, i conservatori tendono a pensare che la criminalità minorile sia realmente in aumento. Mentre i progressisti, ogni volta che se ne presenta l’occasione, chiamano in causa i media e il loro potere di suggestione e di amplificazione dei fenomeni criminali.

Chi ha ragione?

A prima vista, la versione progressista ha molte frecce al suo arco. Decenni di studi sul cosiddetto “crime drop” (il crollo degli omicidi avvenuto nei paesi occidentali dopo la caduta del muro di Berlino) hanno abituato i sociologi a pensare che il problema fondamentale sia di individuare le cause che, nel ventennio 1990-2010, hanno permesso questo spettacolare progresso della convivenza umana. Le ragioni individuate sono più di una decina, ma la lista è controversa, e nessuno è finora stato in grado di indicare con sicurezza quelle giuste (forse anche perché la maggior parte degli studi empirici lavorano su dati americani). In breve, molti studiosi sono ancora fermi a una domanda superata, o perlomeno inattuale: perché il crimine diminuisce?

Ma c’è anche un altro ostacolo che rende difficile mettere a fuoco il problema della violenza giovanile: il successo dei libri di due formidabili psicologi sociali americani, Jean Twenge e Jonathan Haidt. In due importanti e documentatissimi volumi come Iperconnessi (Einaudi 2018) e La generazione ansiosa(Rizzoli 2024) tutta l’attenzione viene posta sugli effetti psicologici negativi degli smartphone e dei social, ma tali effetti sono concettualizzati  esclusivamente come “disturbi internalizzanti”, ossia come squilibri che si rivolgono verso l’interno dell’individuo, generando ansia, depressione, senso di solitudine, disturbi alimentari, comportamenti autolesionistici, fino al suicidio (tentato o reale). Nessuna attenzione viene riservata all’altra grande classe di disturbi, i cosiddetti “disturbi esternalizzanti”, nei quali il disagio anziché essere rivolto all’interno del soggetto viene riversato all’esterno, verso gli altri, in forme che possono variare dalla semplice sindrome ADHD (iperattività e deficit di attenzione) fino ai comportamenti più antisociali, come le aggressioni fisiche, le violenze sessuali e gli omicidi.

Detto in altre parole: tipicamente, i sociologi si attardano ancora sulle ragioni della diminuzione della violenza (un fenomeno del passato), gli psicologi sociali analizzano l’impatto di internet sui giovani ignorando i disturbi esternalizzanti, che della violenza possono essere il veicolo. Così nessuno scienziato sociale pare porsi seriamente la domanda fondamentale: l’indigestione da internet delle nuove generazioni può contribuire ad aumentare i comportamenti violenti?

È toccato a una scrittrice, Susanna Tamaro, provare a rispondere, basandosi sugli studi dei neuro-scienziati: “l’uso eccessivo dello smartphone riduce, specie nei bambini e negli adolescenti, il volume cerebrale, soprattutto nelle regioni subcorticali, quelle regioni che aiutano a regolare il comportamento e controllare le emozioni”. Di qui un possibile aumento della violenza minorile, legato alla diminuzione della capacità di auto-controllo.

Ma questo aumento della violenza minorile è reale, o puramente ipotetico? E se è reale, i suoi tempi sono quelli che in tutto l’occidente hanno governato l’esplosione dei disturbi internalizzanti, a partire da ansia e depressione, o sono tempi diversi? Detto in altre parole: il decollo di internet e dei social media, avvenuto una dozzina di anni fa, c’entra oppure no?

I dati finora disponibili, purtroppo, non consentono di dare una risposta rigorosa a tutti gli interrogativi precedenti. Però qualcosa possiamo dire.

Primo, negli Stati Uniti, a dispetto di una diminuzione della maggior parte degli altri reati, gli omicidi commessi da minorenni sono letteralmente esplosi (+65%) fra il 2016 e il 2022 (ultimo dato reperibile). E sono in aumento pure i delitti commessi da minori con armi da fuoco o altre armi.

Secondo, in Italia fra il 2019 (ultimo anno pre-Covid) e oggi (ultimi dati disponibili, per lo più relativi al 2023) i reati di aggressione commessi da minorenni sono tutti in aumento, almeno a giudicare da quelli per cui si hanno dati aggiornati al 2023 o al 2024. In ordine di velocità di crescita: minaccia (+13.7%), lesioni dolose (+35.1%), violenza sessuale (+38.8%), percosse (+40.0%), rissa (+57.5%), rapina (+78.4%), omicidio (+84.2%). Come si vede, il primo posto di questa triste classifica è occupato dagli omicidi, esattamente come negli Stati Uniti.

A quanto pare, questa volta, sono i conservatori a vederci giusto.

[articolo inviato al Messaggero il 15 agosto 2025]




Il pride di Budaspest

Il successo del Pride di domenica a Budapest è andato, molto ampiamente, al di là delle più ottimistiche previsioni degli organizzatori. Non sappiamo se i partecipanti siano stati davvero 200 mila, ma anche fossero stati la metà, il successo resta. La destra italiana si consola osservando che, per compattare il campo largo, hanno dovuto esportarlo a Budapest, e che in nessuna altra occasione e su nessun altro tema i progressisti sono stati capaci di marciare uniti.

Ma è una ben magra consolazione. Meglio farebbero, i nostri partiti conservatori, a prender atto del successo dei progressisti e a comprenderne le ragioni. Che a mio parere sono soprattutto due, tra loro strettamente intrecciate. La prima è che, quali che siano le buone ragioni di chi governa, non è mai una buona idea farle valere limitando il dissenso e la manifestazione del pensiero. Vale per il Pride ungherese, dove il premier Viktor Orbán ha sbagliato, e dove l’andamento civile e ordinato della manifestazione ha reso ancora più palese l’arbitrarietà – per non dire l’assurdità – del divieto governativo. Ma vale anche per altri tipi di limitazioni, come alcune di quelle introdotte in Italia dal recente decreto sicurezza riguardo alle manifestazioni, dove a sbagliare sono stati i nostri governati. Non che non possano esservi, in specialissime circostanze, buone ragioni per limitare il diritto di manifestazione del pensiero o la protesta politica, ma il punto è che la legge dovrebbe perimetrare in modo estremamente restrittivo e rigoroso i casi in cui il divieto governativo è ammissibile e giustificato. Insomma, c’è caso e caso: l’impedimento del traffico ferroviario o l’occupazione di case sono comportamenti ben diversi da una manifestazione di piazza. L’eccessiva estensione, o l’insufficiente specificazione, dei casi in cui si può vietare una manifestazione rischia di squalificare anche i divieti più ragionevoli.

C’è anche una seconda ragione, però, per cui il Pride di Budapest ha segnato una grave sconfitta dei conservatori, ed è che – vietando la semplice manifestazione del pensiero – essi hanno fatto venir meno le proprie buone ragioni, o meglio le ragioni che, giuste o sbagliate che siano, sono pubblicamente difendibili. Quello che spesso si dimentica, infatti, è che il nucleo duro dell’ostilità contro il mondo Lgbtq+ non è il “diritto ad amare chi si vuole”, un principio ormai ampiamente e quasi universalmente affermato, almeno in occidente e perlomeno dai tempi di Giorgio Gaber (ricordate i versi di quella canzone del 1975? Vedi, cara, l’amore è una cosa normale, uno lo può fare con chi vuole, donne, uomini, animali… caloriferi…). No, il nucleo delle battaglie anti-Lgbtq+, chiunque le conduca (la Chiesa, i tradizionalisti, i moralisti), non è il diritto degli adulti consenzienti di fare sesso con chi vogliono e come vogliono, ma è la tutela dei minori e dei loro diritti contro rischi e conseguenze, reali o presunte, delle rivendicazioni Lgbtq+ e più in generale della cultura woke.

Quali rischi e conseguenze?

Fondamentalmente quattro. Primo, l’indottrinamento a scuola in materia sessuale, che secondo alcuni entrerebbe in conflitto con l’articolo 26 della “Dichiarazione universale dei diritti umani” (dicembre 1948), che al comma 3 recita: i genitori hanno diritto di priorità nella scelta dell’istruzione da impartire ai loro figli. Secondo, i rischi per la salute fisica e mentale connessi ai cambiamenti di sesso precoci, mediante bloccanti della pubertà e/o operazioni chirurgiche. Terzo, la violazione del diritto dei bambini ad avere una madre e un padre nei casi di adozioni non convenzionali (single e coppie omosessuali). Quarto, le complesse problematiche etiche della maternità surrogata (utero in affitto) sia sotto il profilo dello sfruttamento economico delle gestanti sia sotto quello del benessere psicologico del nascituro.

Qualsiasi cosa se ne pensi, credo si possa concordare che si tratta di materie delicate, sulle quali sono legittime e comprensibili le opinioni più diverse, perché è nella società che – come testimoniano i sondaggi – le troviamo tutte ampiamente rappresentate. Ecco perché la mossa di Orbán – vietare la manifestazione – è stata non solo profondamente sbagliata, ma stupidamente autolesionistica: mettendo la questione in termini di libertà di manifestazione, ha concesso un rigore a porta vuota ai propri avversari.

[articolo uscito sulla Ragione il 1° luglio 2025]




Minori e violenza sessuale – Quel che dicono i dati

Dopo lo stupro di gruppo di Catania, in cui una bambina (italiana) di 13 anni è stata stuprata da un gruppo di ragazzi (egiziani), di cui alcuni minorenni, infuriano le polemiche. C’è chi solleva dubbi sulla legge Zampa sui “minori non accompagnati”, che riserva loro speciali diritti; e c’è chi – come alcuni operatori delle comunità che avevano in carico i ragazzi – trae spunto dal caso di Catania per chiedere “più risorse e più mezzi per fare integrare davvero questi ragazzi”. C’è chi ricorda che in un altro caso di stupro di gruppo, quello di Caivano, gli autori erano ragazzi “italianissimi”; e c’è chi nota che è proprio grazie al criticatissimo (da sinistra) decreto Caivano che, nel nuovo caso di Catania, è stato possibile arrestare anche i minorenni.

Poi, fortunatamente, ci sono anche coloro che invitano a non strumentalizzare politicamente queste tragedie, e a non generalizzare. Guai se, sulla base di singoli episodi di cronaca, si dovesse instaurare la credenza che “tutti i ragazzi egiziani sono stupratori”.

Bene, allora. Raccogliamo l’invito a non generalizzare, e proviamo a vedere che cosa possiamo dire in base ai dati.

La prima cosa è che le denunce per violenza sessuale in cui l’autore è un minorenne sono circa 300 all’anno, a fronte di un po’ meno di 1 milione e mezzo di maschi minorenni di almeno 13 anni. Se teniamo conto del fatto che, in base a varie indagini, i casi denunciati sono dell’ordine di 1 su 10, possiamo stimare che le violenze sessuali siano circa 3000 l’anno. Fatti i dovuti calcoli: per 1 ragazzo che compie violenza sessuale, ve ne sono 499 che non lo fanno. Magra consolazione, per chi (come me) pensa che anche 1 solo caso all’anno sia troppo. Ma doverosa precisazione davanti all’impulso a generalizzare a “tutti i ragazzi”, o a “tutti i ragazzi stranieri”.

La seconda cosa che possiamo osservare è che i minorenni stranieri denunciati per violenza sessuale sono più numerosi di quelli italiani (159 contro 132 nel 2022, ultimo anno per cui si hanno dati consolidati). E questo nonostante i minorenni stranieri siano molto meno numerosi, circa 1 ogni 7 minorenni italiani. In concreto, questo vuol dire che – statisticamente – la pericolosità apparente (dirò poi perché “apparente”) di un ragazzo straniero è circa 8 volte quella di un ragazzo italiano.

A questa amara constatazione alcuni ribattono, non senza qualche ragione, che il tasso di denuncia per le violenze sessuali commesse da minori stranieri potrebbe essere più alto di quello per le violenze commesse da minori italiani. Di qui l’apparente maggiore pericolosità dei minori stranieri.

C’è sicuramente del vero in questa osservazione, che tenta di equiparare ragazzi italiani e ragazzi stranieri. E tuttavia, a un’attenta analisi dei dati, essa rivela non poche pecche. Non tutti i reati, infatti, sono esposti all’obiezione del diverso tasso di denuncia, perché esistono anche reati in cui il “numero oscuro” (reati non denunciati) è prossimo a zero, o verosimilmente non molto diverso fra autori italiani e stranieri. Per un reato come l’omicidio, ad esempio, è arduo sostenere che venga denunciato molto di più se commesso da stranieri ; così per reati come le rapine, le lesioni dolose, le risse, i danneggiamenti mediante incendio. Eppure, anche per questi reati, come per le violenze sessuali, i minori stranieri risultano avere degli indici di criminalità molto più alti di quelli degli italiani. Qualche mese fa la Polizia Criminale ha fornito, per il 2022, dati estremamente accurati e disaggregati sulle segnalazioni (denunce e arresti) di minori. Ebbene, su 15 reati considerati, non ve n’è nemmeno uno in cui l’indice di criminalità dei minori stranieri non sia molto più elevato di quello degli italiani. Si va dall’omicidio e tentato omicidio, per cui gli stranieri sono “solo” 3 volte più pericolosi degli italiani, alle risse e ai furti (per cui lo sono 9 volte), passando per le violenze sessuali (8 volte), le rapine (7 volte), le percosse (6 volte), le estorsioni (5 volte), solo per fare alcuni esempi.

Questo però non è l’unico motivo per cui l’alibi dei diversi tassi di denuncia è molto debole. C’è anche l’andamento delle denunce fra il 2019 (era pre-covid) e il 2022, che  mostra una impressionante divaricazione fra italiani e stranieri: mentre il numero di reati dei minori italiani è diminuito del 2.8%, quello dei minor stranieri è aumentato del 41.5%. Una variazione enorme, se si considera la brevità del periodo, e la lentezza con cui si muovono nel tempo gli indici di criminalità.

Conclusione?

Nessuna, perché i dati non dettano le politiche, ma si limitano a descrivere lo sfondo su cui qualsiasi politica è costretta a operare. Lo sfondo è che, allo stato attuale, la pericolosità dei minorenni stranieri è molto maggiore di quella dei minorenni italiani, e il divario sta aumentando. Qualsiasi politica si preferisca adottare – meno sbarchi, o più accoglienza – sarebbe meglio non ignorare il dato di fatto.