La sinistra non è minoranza

Che la destra sia maggioranza nel paese, e la sinistra minoranza, sono in molti a sostenerlo. Da anni lo ripete polemicamente il centro-destra, e amaramente lo danno per scontato la maggior parte dei suoi avversari. Di qui la previsione di un’affermazione del centro-destra alle prossime elezioni politiche, che si terranno fra meno di un anno.

La realtà è che la previsione è verosimile, ma la sua base logica – la credenza che la destra sia maggioranza nel paese – è sostanzialmente errata. È perfettamente possibile che il centro-sinistra esca sconfitto dalle prossime elezioni, ma non per le ragioni che i suoi dirigenti amano accreditare.

La credenza in una superiorità elettorale del centro-destra si fonda su un artificio statistico, ossia quello di contare tutte le forze di destra, ma non fare altrettanto con quelle di sinistra, che includono anche i Verdi, Sinistra italiana e altre forze minori. Gli ultimi sondaggi, come peraltro quelli dei mesi scorsi, danno i due schieramenti in sostanziale pareggio, purché si includono nei calcoli tutti i partiti, e non solo i partiti più o meno ufficialmente alleati.

Perché, nel fare i conti, ci si dimentica quasi sempre delle forze minori di sinistra? Fondamentalmente perché o non sono al governo (è il caso dei Verdi e di Sinistra italiana), o non si sa se sono davvero di sinistra (è il caso di Italia Viva, Azione, +Europa). Ma è un errore logico, almeno finché l’obiettivo è sondare il polso dell’elettorato. Se quel che ci chiediamo non è se i partiti di sinistra si metteranno d’accordo, ma dove va il sentiment del paese, bisogna contare tutti. E il risultato è un sostanziale pareggio, non una netta prevalenza del centro-destra.

Perché, allora, la predizione di una vittoria del centro-destra alle prossime politiche è verosimile?

Per due ragioni del tutto diverse fra loro. La prima è che i veti reciproci fra le forze di centro-sinistra, e ora anche i dissidi con il movimento Cinque Stelle, hanno ottime chance di far naufragare il “campo largo” auspicato da Letta. La seconda è che il Pd di Letta (non diversamente dai Pd precedenti) si ostina a non prendere atto del dato sociologico fondamentale degli ultimi decenni: in tutti i principali paesi occidentali i ceti medio-bassi preferiscono la destra alla sinistra. Una tendenza che la crisi finanziaria del 2007-2013 e la simultanea stagione del terrorismo jihadista (attentati di Londra, Madrid, Berlino, Parigi, Bruxelles) non hanno fatto che rafforzare. È di lì che hanno preso vigore le spinte sovraniste e populiste, è di lì che è sorta la grande domanda di protezione che ha attraversato le opinioni pubbliche occidentali negli ultimi anni.

Questa domanda, a sinistra, è stata sostanzialmente ignorata (con la lodevole eccezione di Bersani, che dal 2016 batte sul chiodo: ricordate “la mucca nel corridoio”?). Anzi, ad essa il principale partito della sinistra ha risposto accentuando il proprio radicalismo in materia di diritti civili (vedi la rigidità sul Ddl Zan), anziché riscoprendo la “questione sociale”, che era stata la stella polare dei partiti progressisti durante la prima Repubblica. Una conferma, a quasi mezzo secolo di distanza, della profezia del filosofo Augusto del Noce, secondo cui il Partito Comunista prima o poi si sarebbe trasformato in un “partito radicale di massa”.

Il risultato è che, anziché aprire un grande e doveroso dibattito per rispondere alla domanda cruciale – perché i ceti popolari non ci votano più? – ci si balocca nella infondata credenza che la destra abbia già vinto le elezioni, perché così tira il vento nell’opinione pubblica.

No, non è così. Al momento i consensi alla sinistra non sono minori di quelli alla destra. Anzi, la sinistra ha un cruciale vantaggio: i suoi elettori, tendenzialmente benestanti, istruiti, urbanizzati (così rivelano le statistiche) hanno ben poche probabilità di passare a destra. Mentre l’elettorato popolare della destra ne ha molte di più di passare a sinistra, solo che la sinistra torni a occuparsi anche di problemi più concreti e materiali di quelli dietro cui è andata in questi anni. Il che, alla fine, vuol dire due cose sopra tutte le altre: creare nuovi posti di lavoro (si chiama protezione), e smetterla di offrire non-soluzioni al problema dell’immigrazione incontrollata (si chiama sicurezza).

È chiedere troppo

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)