Strabismo umanitario – Bambini di serie A e di serie B

Un marziano che fosse atterrato in Europa nel 2022, e per tre anni avesse seguito le vicende belliche della Terra solo dai giornali e dalle tv, oggi avrebbe maturato alcune curiose convinzioni.

Primo, nel mondo ci sono 2 guerre, una in Ucraina, l’altra a Gaza. Secondo, l’aggressione di Israele contro i palestinesi è molto più grave di quella di Putin verso gli ucraini. Terzo, la Palestina è popolata da bambini, l’Ucraina da adulti.

La prima convinzione è falsa, i conflitti sanguinosi in corso sono decine (fra 50 e 100 a seconda delle definizioni e delle fonti). Sulla seconda convinzione (gravità delle due aggressioni) sospendo il giudizio, perché è una questione di punti di vista politico-ideologici. Quanto alla terza convinzione, è quantomeno esagerata: i bambini (minori sotto i 6 anni) ci sono da entrambe le parti, anche se a Gaza rappresentano una quota maggiore della popolazione (circa il 18% contro il 6% dell’Ucraina). In termini assoluti i bambini sotto le bombe sono tra 300 e 400 mila a Gaza, circa 2.2 milioni (cioè sette volte di più) in Ucraina.

Da che cosa possano essere state generate queste convinzioni è evidente: i media sono sensibili agli umori dell’opinione pubblica, e l’opinione pubblica è indignata per lo sterminio in corso a Gaza. In questa indignazione, tuttavia, c’è qualcosa che non torna. La maggior parte delle persone che si dicono indignate affermano di esserlo innanzitutto per ragioni umanitarie, ossia al di là di ogni ideologia e convinzione politica: quel che Israele sta facendo è intollerabile, e va assolutamente fermato. Chi non si indigna, non firma appelli, non scende in piazza è complice. Di qui l’invito alla mobilitazione generale per salvare i bambini di Gaza.

Ed ecco quel che non torna: se le ragioni della protesta sono puramente umanitarie, ovvero scevre da scelte ideologiche e preconcetti politici, allora ci aspetteremmo che l’indignazione non fosse concentrata su un unico conflitto. Che qualche voce si levasse a difesa dei bambini non dico in tutti, ma quantomeno nei teatri di guerra più drammatici.

Se davvero la preoccupazione è per il destino dei bambini, come mai i bambini ucraini uccisi dai russi non suscitano la medesima indignazione dei bambini palestinesi uccisi dagli israeliani? Come mai del dramma dei 20 mila bambini ucraini rapiti e deportati dai russi parla quasi esclusivamente la Chiesa cattolica?

Ma soprattutto: perché mai delle migliaia di bambini uccisi, violati, affamati, malati nell’inferno del Sudan (guerra civile + epidemia di colera) non parla quasi nessuno? E dei massacri che da 4 anni si susseguono in Myanmar? Più di 50 mila morti e 3 milioni di sfollati sono ancora troppo pochi per suscitare un cenno di attenzione nel mondo civile?

Eppure non stiamo parlando di qualche conflitto minore, di qualche guerra locale fra tribù: stiamo parlando di drammi che, per le loro dimensioni, eguagliano e spesso superano il dramma di Gaza.

Dunque torniamo alla domanda: perché solo determinati bambini infiammano gli animi? Perché ci sono bambini di serie A (Gaza), di serie B (Ucraina), di serie C (tutti gli altri)?

Credo che la risposta sia: perché l’indignazione si presenta con le vesti del senso di umanità, ma con l’umanità ha ben poco a che fare. La vera base dell’indignazione a senso unico è l’ideologia, che induce a usare le tragedie del mondo non per cambiarlo in meglio, ma per promuovere la causa politica di cui si è prigionieri (in questo caso l’antiamericanismo e l’antioccidentalismo). Per questo scopo i bambini palestinesi sono perfetti, quelli degli altri teatri di guerra no, o molto di meno.

Ma come si fa – qualcuno potrebbe obiettare – a occuparsi di tutto? Non è naturale seguire le questioni più vicine e trascurare i drammi lontani?

Ebbene, questa è una scusa che non regge. Perché ci sono i contro-esempi, che dimostrano che non è ineluttabile essere faziosi e provinciali. Se si prova a dare uno sguardo ai grandi conflitti e alle catastrofi umanitarie che scuotono il mondo, non è difficile scoprire che, in molte delle realtà snobbate dai nostri media e dagli indignati anti-israeliani, prestano la loro opera coraggiose organizzazioni internazionali (spesso non governative), queste sì davvero umanitarie – cioè universalistiche – come Medici senza frontiere, Emergency, Amnesty International, Unicef, solo per ricordarne alcune. Manifestare e firmare appelli è troppo comodo. Chi ha davvero a cuore la sorte dei bambini e i loro diritti farebbe meglio a dare un sostegno concreto a chi è pronto a operare in qualsiasi teatro di guerra, senza farsi accecare dall’ideologia.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 settembre 2025]




Percezione o realtà? – La crescita della violenza giovanile

Pochi giorni fa, in Italia, quattro bambini rom di 11-13 anni (quindi non imputabili) hanno rubato e svaligiato l’auto di un turista francese, e con l’auto rubata hanno investito e ucciso una donna. In Francia, un paio di settimane fa, per limitare aggressioni e spaccio, una quindicina di città hanno imposto il “coprifuoco” per i ragazzini, che non potranno più girare di notte non accompagnati da adulti. E non passa giorno senza che le cronache riferiscano di risse fra baby-gang, assalti alle forze dell’ordine, accoltellamenti fra minorenni.

E tuttavia la domanda è: sono i media che alimentano la percezione di un aumento della violenza minorile, o c’è qualcosa di reale?

Su questo le opinioni si dividono, non solo oggi. Tipicamente, i conservatori tendono a pensare che la criminalità minorile sia realmente in aumento. Mentre i progressisti, ogni volta che se ne presenta l’occasione, chiamano in causa i media e il loro potere di suggestione e di amplificazione dei fenomeni criminali.

Chi ha ragione?

A prima vista, la versione progressista ha molte frecce al suo arco. Decenni di studi sul cosiddetto “crime drop” (il crollo degli omicidi avvenuto nei paesi occidentali dopo la caduta del muro di Berlino) hanno abituato i sociologi a pensare che il problema fondamentale sia di individuare le cause che, nel ventennio 1990-2010, hanno permesso questo spettacolare progresso della convivenza umana. Le ragioni individuate sono più di una decina, ma la lista è controversa, e nessuno è finora stato in grado di indicare con sicurezza quelle giuste (forse anche perché la maggior parte degli studi empirici lavorano su dati americani). In breve, molti studiosi sono ancora fermi a una domanda superata, o perlomeno inattuale: perché il crimine diminuisce?

Ma c’è anche un altro ostacolo che rende difficile mettere a fuoco il problema della violenza giovanile: il successo dei libri di due formidabili psicologi sociali americani, Jean Twenge e Jonathan Haidt. In due importanti e documentatissimi volumi come Iperconnessi (Einaudi 2018) e La generazione ansiosa(Rizzoli 2024) tutta l’attenzione viene posta sugli effetti psicologici negativi degli smartphone e dei social, ma tali effetti sono concettualizzati  esclusivamente come “disturbi internalizzanti”, ossia come squilibri che si rivolgono verso l’interno dell’individuo, generando ansia, depressione, senso di solitudine, disturbi alimentari, comportamenti autolesionistici, fino al suicidio (tentato o reale). Nessuna attenzione viene riservata all’altra grande classe di disturbi, i cosiddetti “disturbi esternalizzanti”, nei quali il disagio anziché essere rivolto all’interno del soggetto viene riversato all’esterno, verso gli altri, in forme che possono variare dalla semplice sindrome ADHD (iperattività e deficit di attenzione) fino ai comportamenti più antisociali, come le aggressioni fisiche, le violenze sessuali e gli omicidi.

Detto in altre parole: tipicamente, i sociologi si attardano ancora sulle ragioni della diminuzione della violenza (un fenomeno del passato), gli psicologi sociali analizzano l’impatto di internet sui giovani ignorando i disturbi esternalizzanti, che della violenza possono essere il veicolo. Così nessuno scienziato sociale pare porsi seriamente la domanda fondamentale: l’indigestione da internet delle nuove generazioni può contribuire ad aumentare i comportamenti violenti?

È toccato a una scrittrice, Susanna Tamaro, provare a rispondere, basandosi sugli studi dei neuro-scienziati: “l’uso eccessivo dello smartphone riduce, specie nei bambini e negli adolescenti, il volume cerebrale, soprattutto nelle regioni subcorticali, quelle regioni che aiutano a regolare il comportamento e controllare le emozioni”. Di qui un possibile aumento della violenza minorile, legato alla diminuzione della capacità di auto-controllo.

Ma questo aumento della violenza minorile è reale, o puramente ipotetico? E se è reale, i suoi tempi sono quelli che in tutto l’occidente hanno governato l’esplosione dei disturbi internalizzanti, a partire da ansia e depressione, o sono tempi diversi? Detto in altre parole: il decollo di internet e dei social media, avvenuto una dozzina di anni fa, c’entra oppure no?

I dati finora disponibili, purtroppo, non consentono di dare una risposta rigorosa a tutti gli interrogativi precedenti. Però qualcosa possiamo dire.

Primo, negli Stati Uniti, a dispetto di una diminuzione della maggior parte degli altri reati, gli omicidi commessi da minorenni sono letteralmente esplosi (+65%) fra il 2016 e il 2022 (ultimo dato reperibile). E sono in aumento pure i delitti commessi da minori con armi da fuoco o altre armi.

Secondo, in Italia fra il 2019 (ultimo anno pre-Covid) e oggi (ultimi dati disponibili, per lo più relativi al 2023) i reati di aggressione commessi da minorenni sono tutti in aumento, almeno a giudicare da quelli per cui si hanno dati aggiornati al 2023 o al 2024. In ordine di velocità di crescita: minaccia (+13.7%), lesioni dolose (+35.1%), violenza sessuale (+38.8%), percosse (+40.0%), rissa (+57.5%), rapina (+78.4%), omicidio (+84.2%). Come si vede, il primo posto di questa triste classifica è occupato dagli omicidi, esattamente come negli Stati Uniti.

A quanto pare, questa volta, sono i conservatori a vederci giusto.

[articolo inviato al Messaggero il 15 agosto 2025]




Il governatore De Luca e il senso comune

C’è una certa ripetitività, selettività e pure teatralità, nelle fiammate retoriche che accompagnano ogni femminicidio che abbia guadagnato l’attenzione dei media. Il caso di Martina Carbonaro, la quattordicenne uccisa a sassate dal suo fidanzato quasi diciannovenne, non fa eccezione. Fotografie sui giornali, interviste ai genitori della vittima e dell’assassinio, fiumi di indignazione da parte di scrittrici e giornaliste, costernazione del mondo politico, accuse al governo per non aver ancora varato l’unico (presunto) rimedio efficace: l’educazione sessuo-affettiva obbligatoria a scuola, fin dalle elementari.

C’è una differenza, però – una sola ma importante – nell’ultima vicenda, quella della povera quattordicenne di Afragola: il battibecco, andato in scena a Napoli, fra il governatore Vincenzo De Luca e Valeria Angione (una autoproclamata influencer). La pietra dello scandalo è stata una frase di De Luca in cui faceva notare l’anomalia di un fidanzamento che la ragazza uccisa (14-enne) aveva iniziato a 12 anni, con un ragazzo molto più grande di lei.  De Luca è stato immediatamente interrotto e stigmatizzato in quanto il suo commento avrebbe scaricato sulla vittima la colpa del suo carnefice, che – secondo la Angione – l’avrebbe uccisa “perché maschio”.

Ma De Luca non si è lasciato intimidire, e ha aggiunto un invito: “direi a quelli della mia generazione di essere padri e madri, non finti giovani”.  Poi la discussione è proseguita burrascosamente, e De Luca ha affrontato di petto il tema più scabroso, cioè il doppio problema della libertà della donna e della prudenza.

“In genere c’è un dibattito anche sul modo di presentarsi. Siamo libere, la donna deve presentarsi come vuole, mettersi mezza nuda… Nessuno deve dire nulla. Non c’è dubbio, io ho il diritto di fare quello che voglio (…) Poi ti posso dire, da padre, che forse, siccome abbiamo un mondo nel quale ci sono persone con un po’ di disturbi, un po’ di fragilità, è ragionevole avere un po’ di prudenza? Non contesto il tuo diritto, ti dico cerchiamo di essere umani, e di capire la realtà, altrimenti moriamo di ideologismi”.

Apparentemente, niente di nuovo. Discussioni di questo tipo ci sono sempre state dopo femminicidi, violenze sessuali, stupri. Da una parte c’è chi dice che, per ridurre i rischi, le ragazze farebbero bene a vestirsi in modo sobrio, non frequentare determinati luoghi, non rientrare da sole a notte fonda, non ubriacarsi o drogarsi in discoteca. Dall’altra c’è chi, di fronte a simili raccomandazioni, dice che equivalgono a colpevolizzare la vittima, accusandola di “essersela andata cercare”.

Qual è la novità dunque?

La novità sta nelle reazioni. Mentre i principali media hanno reagito nel solito modo, facendo intendere che le parole di De Luca avevano fatto scoppiare una polemica, il pubblico della rete ha reagito in un unico modo: dando pienamente ragione a De Luca. Nel giro di poco tempo, sul sito di Fanpage (notoriamente progressista) sono piovuti più di 1000 commenti (con circa 300 mila visualizzazioni del battibecco), la stragrande maggioranza dei quali schierati con il governatore della Campania, e non di rado ultra-critici con la Angione. Personalmente non avevo mai incontrato, visitando i siti che pubblicano uno scambio polemico, una simile unanimità di reazioni.

Morale. Ci sono questioni che sono controverse solo sui media, mentre la gente ha le idee chiarissime. Sono solo gli scrittori, gli intellettuali, i giornalisti, i conduttori tv, i politici che si dividono su frasi come quelle di De Luca. Perché la gente sa benissimo che raccomandare a una bambina di non comportarsi come una imprudente “femme fatale” non significa affatto giustificare i suoi possibili stupratori o assassini, ma semplicemente cercare di abbassare la probabilità che qualcuno le faccia del male. La gente lo sa perché, quando si tratta di cose serie (e i femminicidi lo sono), non usa l’ideologia ma il senso comune: una facoltà intellettiva che il circo mediatico sembra aver completamente smarrito.

[articolo uscito sulla Ragione il 3 giugno 2025]




Un papa bifronte

C’è qualcosa che non torna nella ricostruzione del dodicennio di papa Francesco. Una lettura filologicamente attenta non può che restituirci l’immagine di un papa bifronte.

Durante il suo papato, in innumerevoli circostanze non ha esitato a condannare il capitalismo (visto come sopraffazione dei ricchi sui più poveri) e a difendere il diritto dei migranti ad essere accolti nei paesi di arrivo. Meno frequenti, ma altrettanto nette, sono state le prese di posizione contro l’aborto, contro il controllo delle nascite, contro le rivendicazioni LGBT+ nella chiesa e fuori della chiesa. In materia di diritti civili papa Bergoglio è stato un Pontefice decisamente conservatore, se non reazionario.

Anche sul piano della gestione della Chiesa, il bilancio è tutt’altro che univoco. Come ha scritto giustamente Luca Zorloni su Wired, papa Bergoglio “non ha riformato la Chiesa dalle fondamenta come prometteva e non ha saputo combattere le battaglie contro gli abusi e gli sprechi, se non a parole”. Progressista nelle intenzioni, Francesco si è rivelato lento, se non immobilista, in materia di funzionamento della macchina ecclesiastica. Il sogno di una “Chiesa povera”, depurata dagli scandali finanziari e ripulita dai preti pedofili è rimasto lettera morta.

Naturalmente non vi è nulla di intrinsecamente contraddittorio nell’essere progressista sul piano economico-sociale e reazionario in materia di matrimoni gay e “diritti riproduttivi”. Si può benissimo essere l’uno e l’altro. In Italia abbiamo avuto un precedente illustre, quello di Pier Poalo Pasolini, che – proprio come Bergoglio – era comunista-pauperista da un lato e anti-abortista dall’altro.

La questione interessante è un’altra: come mai, nonostante questa intrinseca ambivalenza, papa Bergoglio viene quasi universalmente dipinto come pontefice progressista? E questo, notiamo bene, non da oggi, nel clima di commozione per la sua morte, ma fin dall’inizio del suo pontificato? Come mai, a dispetto delle sue posizioni tradizionaliste in tema di famiglia, matrimonio, sessualità, diritti delle minoranze sessuali, l’immagine di Francesco è sempre stata – e rimane più che mai – quella di un pontefice progressista, se non rivoluzionario?

La risposta a queste domande, a mio parere, è che il suo pontificato si è retto su un patto non dichiarato – ma solidissimo forse proprio perché non dichiarato – fra la sua persona e il sistema dei media. Papa Francesco ha capito fin da subito che la sua popolarità aveva tutto da guadagnare dal suo impegno a favore dei poveri e dei migranti, e tutto da perdere dai suoi severi richiami a un’etica sessuale meno spregiudicata e individualista. I media, a loro volta, hanno capito che la costruzione dell’immagine progressista, avanzata e innovatrice del nuovo papa richiedeva di amputarne i posizionamenti più retrogradi o – ancor meglio – di trasformarli in gesti di riconoscimento mediante operazioni più o meno sofisticate di decontestualizzazione e manipolazione. Penso, ad esempio, al sistematico fraintendimento della lettera (e cancellazione del contesto) della frase “chi sono io per giudicare?”, o dei gesti di tolleranza nei confronti delle coppie gay; al velo pietoso sulle invettive contro l’aborto e i medici che lo praticano (che Francesco considerava nientemeno che “sicari”); ai resoconti giornalistici benevoli sulla lotta contro i preti pedofili, ben meno incisiva di come è spesso stata tratteggiata.

Ma, sia ben chiaro, non si è trattato in alcun modo di un’opera di deformazione del “vero” messaggio di Francesco. In questi anni papa Bergoglio e i media dominanti sono stati perlopiù in perfetta sintonia. Il fraintendimento parziale dei propri messaggi è stato quasi sempre assecondato dal Pontefice, che evidentemente ne comprendeva il potenziale di legittimazione della propria figura di paladino degli ultimi: altrimenti avremmo assistito a continue smentite, precisazioni, e soprattutto a ben più frequenti (e chiari) interventi riguardo alla morale sessuale e familiare. La realtà è che papa Bergoglio considerava il suo messaggio verso gli ultimi (poveri, migranti, emarginati, “scarti” della società) infinitamente più importante di qualsiasi esortazione in materia di comportamenti sessuali, ambito nel quale raramente è andato oltre il “minimo sindacale” per un capo della Chiesa Cattolica.

La controprova? Tutti, in occasione dell’incontro con il vicepresidente statunitense J.D. Vance, hanno giustamente notato il contrasto fra fede cattolica e crudeltà delle politiche verso i migranti. Ma non si ha notizia di analoghe riflessioni in occasione dell’incontro fra papa Bergoglio e Emma Bonino, come se le posizioni (e le azioni) di quest’ultima in materia di aborto non esistessero e non fossero mai esistite. Un segno difficilmente fraintendibile di che cosa Francesco considerasse importante e che cosa invece no.

[articolo uscito sulla Ragione il 29 aprile 2025]




Deportazioni o rimpatri?

Sono tante le ragioni per cui la grande stampa nazionale, e più in generale i grandi media, hanno perso autorevolezza. Certo, anche in passato ben pochi si fidavano ciecamente di “quel che scrivono i giornali”, o di “quel che dice la tv”. Però mai
come oggi il pubblico ha tanto diffidato dell’informazione che pretende di essere obiettiva, non faziosa, o super partes.

Fra le tante ragioni per cui ciò è accaduto, ve ne è una che forse meriterebbe maggiore attenzione, e forse maggiore vigilanza: l’informazione main stream è diventata subdola. Ossia non conduce le sue battaglie fondamentali in campo aperto,
dichiarando esplicitamente da che parte sta, ma manipolando il flusso delle notizie. Un’arte che, con il tempo, si è arricchita di strumenti via via più potenti (e pericolosi).

Un posto importante, in proposito, è occupato dalla sistematica censura delle notizie gravemente dissonanti, condannate a vivere solo su fogli minori, per ciò stesso considerati estremisti, inaffidabili, o semplicemente irrilevanti. Ma un posto forse ancora più importante è costituito dall’uso, cosciente e intenzionale, di termini inappropriati e fuorvianti per descrivere i fatti della realtà.

Il modo di chiamare le cose è importante, perché può suscitare sentimenti e giudizi, ma proprio per questo è essenziale che non sia distorsivo. Qui si annida un pericoloso equivoco: molti giornalisti, e più in generale comunicatori, pensano di essere responsabili dei sentimenti che i loro scritti possono suscitare, e proprio per questo praticano sistematicamente la censura, la deformazione, la manipolazione terminologica. Come se chiamare le cose con il loro nome fosse legittimo solo quando la verità che il nome rivela è innocua, o non rischia di suscitare i sentimenti sbagliati, o è adatta a suscitare i sentimenti giusti.

Di questo tendenzioso uso della lingua abbiamo avuto un esempio lampante negli ultimi giorni. Tutte le maggiori testate italiane hanno tradotto il termine inglese deportation, che negli Stati Uniti è usato per indicare espulsioni o rimpatri, con il termine italiano ‘deportazione’ che nella nostra lingua ha un significato ben diverso, oltreché un sinistro richiamo alle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento nazisti (vedi in proposito il Dizionario Treccani, che dà due significati principali di ‘deportazione’, nessuno dei quali corrisponde a espulsioni o rimpatri). È vero che se si deve tradurre il nostro ‘deportazione’ si deve usare deportation (non c’è altra parola in inglese), ma il punto è che – nell’uso che ne fanno gli americani – deportation significa espulsione o rimpatrio, e quindi così andrebbe tradotto.

I giornalisti italiani non sono in grado di cogliere la distinzione fra rimpatrio e deportazione? No, semplicemente hanno ritenuto proprio dovere stigmatizzare le politiche migratorie di Trump, e altrettanto loro dovere non stigmatizzare le medesime politiche quando erano attuate da presidenti democratici.

Con questo non voglio dire che chi è contro le espulsioni non abbia le sue ragioni, o non abbia il pieno diritto di esporle pubblicamente. Il punto è che tali ragioni (che in parte io stesso condivido) dovrebbero essere argomentate come tali, non sostenute surrettiziamente manipolando il linguaggio per deformare l’immagine dell’avversario politico. Usare termini inappropriati (e squalificanti) per descrivere quel che l’avversario fa è una variante peggiorativa della ben nota e screditata tecnica dello straw man, ovvero criticare l’avversario mettendogli in bocca cose che non ha detto. Qui, in altre parole, non gli si fa dire quel che non ha detto, ma – chiamando con altro nome quel che ha fatto – gli si fa fare quel che non ha fatto.

E non si venga a dire che le manipolazioni della lingua sono a fin di bene, ovvero per mostrare al mondo in che orribili mani si sono posti gli americani, e rischiamo di finire pure noi. Questa obiezione è sbagliata non solo perché il compito specifico dell’informazione è dire la verità, non cambiare il mondo nella direzione prescritta dalla “linea” della testata. È sbagliata anche perché, proprio se si crede (erroneamente) che il giornalista sia responsabile dei sentimenti che suscita, è arduo non vedere che parlare di deportazioni produce almeno due effetti opposti: non solo indignazione nei già sempre indignati, ma anche ulteriore entusiasmo e odio in quanti sarebbero ben felici di vedere vere deportazioni. È amaro constatarlo, ma si può istigare all’odio anche cercando di spegnerlo.

[articolo inviato uscito sulla Ragione il 28 gennaio]