Pensieri estivi

La nave dell’acqua

M’interrogo spesso sulle navi dell’acqua. Mi succede di solito in agosto, nel resto dell’anno quasi mai. In agosto, su un’isola. Se non sono su un’isola, difficile che mi venga il pensiero.

Le isole dipendono dalla nave dell’acqua. Se la nave non arriva, l’isola resta senz’acqua. D’accordo, è piuttosto ovvio. Ma pensiamoci a fondo. Una nave che trasporta… acqua. Che da qualche parte sulla terraferma si fa riempire le cavità interne di… acqua. Le cavità interne di una nave, il grembo oscuro, l’antro misterioso della balena di Pinocchio. E poi piano piano, piena com’è d’acqua, va… sull’acqua. Percorre quella vastità incommensurabile di acqua che è il mare e va a portare la sua personale dose d’acqua in un posto dove non c’è acqua, e non ci sarebbe mai se lei non arrivasse. Pensiamo cosa dev’essere avere un tale fine, essere programmata per una missione così necessaria e salvifica. Pensiamo a quale consapevolezza di sé, a quale fierezza, pienezza morale, autostima deve possedere una nave dell’acqua.

E osserviamola con attenzione. Strana, particolare. Non assomiglia a nessun’altra nave. La si distingue già da lontano, la si vede arrivare quando è ancora un puntino oblungo all’orizzonte, un trattino sul filo del mare, ed è un tuffo al cuore. Almeno uno di noi a questo punto, ovunque si trovi – a casa, al bar, sotto l’ombrellone, in coda in un negozio (a patto che abbia almeno una vetrata sul porto) – esclama, col sorriso nel cuore:

Arriva la nave dell’acqua!

C’è sempre, in queste esclamazioni estemporanee e istintive, qualcosa di quella purezza disarmata eppur imperiosa, di quel terrore atavico intrattenibile che ha a che fare con la paura di morire, con le difficoltà primitive del vivere, la fame, la sete, la povertà; e anche, quindi, con l’idea di una salvazione, di un’entità metafisica variamente declinata che ci osserva, ci protegge, e in definitiva ci vuole bene. Una nave dell’acqua, appunto.

È bellissima. Lunga, stilosa. La prua è un corpo compatto e ha la forma di ogni prua, più o meno. E la poppa anche, tutto sommato, esce poco dalla norma. Vista da davanti o da dietro, una nave dell’acqua potrebbe assomigliare a una nave qualsiasi. Ma vista di lato no perché poi, nel proseguire del corpo, nella sua parte centrale, si assottiglia e si appiattisce, fa partire una sezione di sé lunghissima e filiforme, come se qualcuno avesse tirato dalla prora e dalla poppa a mo’ di molla e il risultato fosse una specie di corridoio etereo e longilineo, un avvallamento, una piattaforma, che contraddice l’idea stessa di nave dell’acqua così come ci verrebbe da immaginarla: grossa, ingombrante, tonda come il ventre di una donna che porta in sé il suo figlio nascituro. Nave gravida che, invece, nasconde il peso, lo camuffa in una snellezza elegante, dandoci il brivido di un dubbio: ma veramente questa nave avrà dentro di sé dell’acqua, o ci inganna?

E poi, la fermezza. Nel senso dello stare ferma. Una nave dell’acqua non si muove. Sta. Per ore, anche giorni. Ha questa pazienza di arrivare e poi star lì immobile, muta. Sa cosa deve fare, e sa che il prezzo è il tempo, un tempo statico, appagato in sé, dal suo fine. Ormeggia al molo, distende quel suo lungo tubo (di gomma?) che inizia penzolando dalla chiglia, poi affonda un poco in mare, infine subito risorge per connettersi con chissà quali tubazioni ignote, sotterranee, misteriche, collegate a loro volta a chissà quali immense caverne, concavi spazi bui, grotte, magazzini, cantine, container… Come si chiameranno queste cavità capaci di contenere tutto il fabbisogno d’acqua di un’intera isola?

E di lì, l’arrivo alle cisterne. Il mistero delle cisterne! Il lento diramarsi dell’acqua verso le singole cisterne. Ogni casa ne ha una, su un’isola. È il suo bene più prezioso. Il valore di una casa si misura in tonnellate, nella capacità della sua cisterna. Più tonnellate una cisterna contiene, più è capace di fornire acqua e più, nel suo proprietario, si dissolve l’idea di sete, rovina, morte.

Infine, la desertitudine. La nave dell’acqua sembra sempre deserta. Non si vede essere umano. Nessuno si aggira, scruta l’orizzonte, cammina, mangia un panino. Nessuno. Per quanto mi fermi ogni volta a guardare, non ho mai colto alcun movimento o parvenza animata. Neanche un cane, per dire. Lo sterminato ponte, quella piattaforma stirata, è sempre perfettamente vuoto.

Chi c’è sulla nave dell’acqua?

Eppure qualcuno la abita, la governa. Dove si nasconde? E cosa fa? Come si vive su una nave dell’acqua?

Se fossi uno scrittore, m’inventerei una storia.

 

L’aereo dell’acqua

Anche gli aerei, d’estate, portano acqua. Succede quando qualcosa s’incendia, di solito un bosco. Allora noi da riva osserviamo il giallo dei canadair sfiorare il mare, caricare, ripartire verso l’alto e poi scaricare lasciandosi dietro la nuvola bianca e densa dell’acqua, che a pioggia, cadrà a spegnere fiamme che non vediamo. Gli incendi, chissà perché, sono sempre dietro il monte, a lato del promontorio, dopo la curva, oltre la punta: sempre nascosti, lontani, come non volessero farsi sorprendere, come se bruciare fosse una faccenda privata, da consumarsi nell’intimo della propria esistenza.

Sono bocche aperte, i canadair. O meglio, aerei dalla pancia sfondata, che a mo’ di enorme paletta raccolgono l’acqua, la contengono un attimo in sé, per poi subito elargirla.

Ma il bello sono gli aerei, o elicotteri, col cestino. O secchiello. Un piccolo contenitore che tengono appeso e vola sotto di loro, un poco inclinato, sghembo. Un secchio porta acqua, così minuscolo nel cielo, tenuto da un filo o catena, chissà, qualcosa di aereo che lo sospende. E noi lì sotto a fare la nostra vita di turisti, bagnanti, vacanzieri festosi e divertiti: noi a fare il bagno, spalmarci di creme, tuffarci dagli scogli, arroventarci di sole, chiacchierare con gli sconosciuti, sfogliare riviste, addentare focacce, adocchiare bellezze, rincorrere gabbiani, accarezzare cani, litigare con genitori, baciare fidanzati, guidare moto d’acqua, nuotare. Mentre nel cielo questi velivoli pazienti, generosi e umili passano e ripassano sopra le nostre teste ignare, distratte, indifferenti.

Ogni tanto, se ci pare, se ci viene, volgiamo gli occhi in alto e li vediamo, per un attimo, questi aerei che vanno e vengono, dieci volte, venti volte, per ore, metodici, costanti, col loro secchio appeso, ora portandolo pieno, ora riportandolo vuoto. Ogni tanto, se ci permettiamo ancora il piacere di stupirci, ci nasce la domanda: ma come si può spegnere un incendio con un pugno di secchielli d’acqua? E di colpo ci assale la nostalgia di tutte le imprese folli e impossibili.

Come quel bambino in riva al mare che prendeva l’acqua con una conchiglia e piano piano, una conchigliata dopo l’altra, la riversava nella piccola buca appena scavata nella sabbia. Sant’Agostino passava di lì, immerso nei suoi pensieri. Incuriosito, gli chiese: Cosa fai?

Voglio svuotare il mare e trasferirlo nella mia buca.

Fine agosto

Agosto è un mese impegnativo. Forse è lui il più crudele dei mesi. Ci impone di interrompere la nostra vita, che equivale quasi a lasciare il nostro pianeta e avventurarci per i mondi inesplorati e ostili della vacanza: chiudere casa, intraprendere viaggi, vivere altrove, in un tempo limitato, in uno spazio sconosciuto. Tirarsi dietro poca roba stipata in borsoni, zaini, trolley; sottoporsi allo stress dell’acquisto biglietti, all’attesa delle coincidenze, alla noia dei lunghi percorsi, all’eccesso o alla totale assenza di aria condizionata, al rollio dei traghetti, alla folla che si ammassa davanti all’unico ascensore, all’alba, quando il traghetto arriva in porto e ognuno vuol essere il primo a scendere, come se la vacanza non lo aspettasse, partisse in qualche modo anche lei per una sua vacanza, all’interno di sé.

Affittare mezzi estranei, auto, bici, gommoni che non è detto che sapremo guidare; alloggiare in dimore ignote, alberghi, tende, roulotte o case altrui. Le case affittate, per esempio, dove incontriamo la grettezza umana, l’avidità, l’avarizia di chi affitta a caro prezzo (in nero) e lascia a disposizione quattro piatti (solo fondi), cinque o sei posate e una mezza dozzina di bicchieri spaiati, gialli verdi, alti, bassi.

Che tristezza i bicchieri spaiati.

Vacanza è mancanza. In vacanza ci manca tutto: i genitori se siamo figli, i figli se siamo genitori, la casa, i vicini di casa, i libri, anche quelli che abbiamo già letto o non leggeremo mai, i fiori sul balcone, i vestiti che non abbiamo messo in valigia, l’odore di minestra perenne nell’androne (ma chi è che cucina sempre la minestra?), i negozi, il supermercato con la nostra cassiera preferita.

Vacanza è “mancare” a se stessi. Non è vero che in vacanza scopriamo finalmente chi siamo, il nostro vero essere, le infinite possibilità di noi che la vita solita ci preclude. No, in vacanza ci perdiamo. O meglio, perdiamo la parte abituale di noi, di cui sentiamo subito una struggente “mancanza”. Il ritmo fisso che scandisce la nostra giornata, gli impegni di lavoro sempre uguali, l’autobus, il parcheggio sotterraneo. Per esempio il gesto di compilare il voucher del parcheggio grattando con la monetina le ore e mettendo sempre una mezz’ora in più sperando di farla franca. Ci mancano da morire questi gesti minimi. I dialoghi soliti. Per esempio dalla mia amica panettiera, che vende miriadi di pani diversi, a cui chiedo sempre cos’è il lievito madre e se pane ai cereali vuol dire integrale. E lei con pazienza ogni volta mi rispiega tutto.

Vacanza ha in sé, etimologicamente, la parola vuoto. E le nostre vite, così come abbiamo deciso di costruirle, sono piene. Pienissime.

Non siamo ancora pronti per il vuoto.

Settembre è il più consolante dei mesi.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 2 settembre 2018



Fuga dalla mediocrità

Galline

Abbiamo, noi esseri umani, una capacità sorprendente e invidiabile di trovarci delle vie di fuga, qualora l’aria si faccia, per un motivo o per l’altro, irrespirabile. Siamo sublimemente capaci di distrarci, svicolare, schivare, spostarci. Andare altrove. Lasciare la strada principale e addentrarci in certi viottoli seminascosti dai rovi o sederci sul ciglio, mentre gli altri vanno. Lasciar che gli altri vadano e trovar per noi un angolo riparato, tana o nascondiglio. Fermarci o deviare, l’importante è dedicarci ad altro, permettere che qualcosa, anche di piccolo e marginale, ci distolga e ci porti in altri universi. È la nostra salvezza. È anche la nostra migliore virtù, secondo me. Non credo infatti che sia sempre il caso di immergersi nel pieno delle cose, nel vortice, soprattutto se le cose sprofondano in zone putride e malsane, in una specie di melma buia e fangosa. Ben vengano le ali che ci spostano, i voli di cui siamo capaci.

Per esempio, alleviamo galline.

È da poco uscito il libro di Isabella Rossellini Le mie galline e io, per Jaca Book, dove lei racconta di quando le arrivò lo scatolone con trentotto pulcini, e di come la sua vita sia da allora cambiata, vivendo con le galline, e studiando e ammirando il loro comportamento.

Quanto condivido… Inutile che io taccia il mio amore per le galline. Seppur molto meno tecnico e molto più metaforico, è stato il mio inizio, matrimoniale e letterario: quando mi sposai, andai a vivere in un posto campestre dove il vicino aveva mucche, galline, conigli; e quattordici anni dopo pubblicai un libro dove si racconta di un’insegnante che alleva galline coltivando il sogno di farne volare almeno una, un giorno.

Erano però, lo ripeto, galline del tutto metaforiche. La vita poi, in modo inaspettato, mi portò davvero ad avere un pollaio, seppur per via indiretta. Il vero possessore era mio figlio, che a diciotto anni ricevette in dono dagli amici un gallo, al quale poi lui regalò alcune galline… Ricordo che dava lui i nomi, a codeste galline, stranamente a coppie: Galla e Placidia, Paola e Francesca, Thelma e Louise. Fu allora che maturò in me la vera conoscenza delle galline, mi avvidi di cos’erano realmente, e qui concordo con Isabella Rossellini: persone! Esseri infinitamente intelligenti e affettuosi, amiche, compagne di vita, ognuna col suo carattere e coi suoi tratti distintivi; c’era la gallina timida e quella estroversa, la gallina rissosa e la gallina sempre sorridente. Mi avvidi però, altresì, di quanto la vita delle galline sia sottoposta a pericoli e conduca perlopiù a esiti veramente tragici: di notte si aggirano faine e volpi e, per quanto uno protegga il suo pollaio, le reti possono non tenere a sufficienza, ahimè.

Fine del pollaio reale, letterale. Le metafore, la letteratura in generale, di solito tengono di più.

La magia del nuoto

Oppure nuotiamo negli abissi.

È appena uscito, per Bompiani, un libro che vorrei accompagnasse la nostra estate: La cerimonia del nuoto, di Valentina Fortichiari.

Nuotare è un mistero, per quanto ci sforziamo non si può dire cosa sia. È, di colpo, appartenere a un altro elemento. Tuffarsi, provare il brivido di lasciare un mondo per entrare in un altro, sperimentare ogni volta questo confine. E poi, farsi portare. Lasciarsi andare, affidarsi. Dunque, anche, avere fede. Galleggiare, avere questo coraggio di permettere al nostro corpo, al nostro io, di galleggiare: vuol dire rinunciare alle difese, ai luoghi comuni, alle appartenenze, a tutto ciò che ci supporta e ci sostiene, abbandonare ogni sorta di rigidità, partiti presi, velleitarismi. E allenare il respiro. Vivere ritmicamente di quel respiro. Sprofondare e riemergere. Fondersi. Ma anche fendere come ferire, e nello stesso tempo umilmente obbedire.

Ma soprattutto nuotare è sentire il tempo in un altro modo, sperimentare un altro scorrere, o non scorrere. Dimenticare l’ancoraggio del presente e affondare in tutti i propri “momenti di essere”, anche passati e futuri. Non so dire altro. È disciplina, è rito, è cerimonia, come dice Fortichiari. È anche solitudine, e sospensione: “Appena s’immerge, il nuotatore resta solo con se stesso, sospeso nell’elemento liquido come nei sogni”. Difficile dire cosa sia nuotare. “Sentire l’acqua, dominarla, e fare di questo dominio un’arte è la magia dei nuotatori”.

Nuotare è innanzi tutto il mare, provare questa sorta di amore sacro per il mare, tornare a sentirci, proprio grazie all’abbraccio del mare, un tutt’uno con l’universo: “C’è silenzio, e il mare è intatto e immobile ad aspettarmi. È necessario guardare lungamente il mare. Una forma di meditazione che aiuta a staccarsi da sé: una dimensione senza corpo, senza tempo, fatta solo di sensi. Il respiro comincia a farsi profondo, le narici annusano, e i rumori del mare fanno rallentare il sangue”. Sì, nuotare in mare è pensiero puro.

Ma il libro di Valentina Fortichiari non parla solo di nuoto: scopre e rivela, come un’onda, i racconti del mare. Racconta tutte le storie affondate e profondissime che il mare conserva in sé, che tiene strette nel cuore dei suoi abissi. È quindi anche un libro di racconti, perfetti, misteriosi, rapiti all’insondabile profondità dell’essere: il racconto del tonno di corsa, del pesce volante, del narvalo unicorno degli oceani, della foca artica, del cavalluccio marino… In realtà, sono racconti che parlano di noi, della nostra vita: gli amori, le amicizie, i pericoli, i tradimenti, il dolore… Il dolore di un figlio che vede morire sua madre, e poco importa se la madre è una donna o una balena, uccisa e squartata da marinai: negli occhi di suo figlio, il piccolo capodoglio solitario, lei è la “madre legata con funi, trainata, mentre le acque al suo passaggio si tingevano di rosso” e lui la segue perché non può far altro: “Confuso, disperato, incapace di aiutarla mentre la balena a pancia in su fissava il sole, non gli riusciva, irragionevole, affamato, di abbandonarla”.

Fino al racconto finale, che s’intitola Mio padre, nuotando, e che sonda ben altri misteri, bel altri confini: il tempo misterioso in cui un padre sta per lasciare il mondo, e una figlia che nuotando ancora un’ultima volta col vecchio padre “sente”, così come sente l’acqua, l’inesorabile avvicinarsi della sua perdita.

Le stelle

Il mare, le galline… Cosa cambia? Vale tutto parimenti come via di fuga. Anzi, direi che in genere è proprio così: o fuggiamo attraverso l’infinitamente piccolo (studiamo insetti al microscopio, fotografiamo fiori, fili d’erba e gocce d’acqua col macro obiettivo, alleviamo api, galline…) o fuggiamo nell’immensità. Del mare, dello spazio…

Ricordo qui un altro libro bellissimo, che mi accompagna sempre: Il grande racconto delle stelle, di Piero Boitani (Il Mulino, 2012). Questo libro siamo noi, che di fronte agli astri interroghiamo noi stessi, noi che di fronte alla bellezza e al mistero indaghiamo il senso del nostro esistere, attraverso la storia, la filosofia, la poesia, la musica, i miti del cosmo… Siamo noi, ancora una volta capaci di fuggire, e di inventarci mondi. E anche di superare quel che impropriamente chiamiamo tempo, se riusciamo a contemplare stelle che da centinaia di anni hanno smesso di esistere…

Il Principe Azzurro e le felpe della politica

Insomma, in molti modi sappiamo di-vagare. Perderci nei viottoli, trovare angoli, stanze tutte per noi, anfratti che diventano universi. Il nuoto, le api, le galline, le stelle… La letteratura, i libri. Le storie. Le favole…

Le cose molto piccole o le cose molto grandi. Evitando quel che sta in mezzo, e che solo a volte, nei casi fortunati, è aurea mediocritas: il più delle volte è mediocrità e basta.

Per questo forse ci attraggono fortemente i matrimoni delle famiglie reali, amiamo così tanto seguire le dirette tivù, leggere notizie, guardare video e foto: perché ci porta via dalla mediocrità che vediamo dilagare intorno, soprattutto in questi ultimi mesi, qui in Italia, costretti come siamo stati finora, a guardare l’inguardabile spettacolo di una politica mediocre, e spesso volgare.

Il matrimonio di Harry e Megan ci conquista. Ci rilassa, ci distrae. Forse anche ci innalza. Non credo sia perché amiamo da sempre la favola del Principe che sposa Cenerentola. Sebbene ci siano davvero tutti gli elementi, non solo il giovane Principe barbuto e rosseggiante e la bellissima fanciulla che viene più o meno dal nulla, ma anche tutto il corredo di cavalli, carrozze, pennacchi e… cappelli. Grande lode ai cappelli inverosimili, esorbitanti e surreali delle dame inglesi!

Certamente la favola ci attrae, credo stia in qualche parte recondita di noi da millenni. Ci attrare benché sappiamo quanto sia, oggi, fuori tempo, ingenuo e scontato credere ancora al Principe Azzurro. Ce lo siamo raccontato in tutte le salse quanto tutto ciò sia politicamente scorretto. Eppure, in quella parte recondita di noi proviamo un godimento, un’ebbrezza, davanti alle immagini televisive che ci mostrano il matrimonio di Megan e Harry, è innegabile.

Ma credo sia soprattutto un punto ad attrarci: la bellezza, lo spettacolo sempre commovente della bellezza. Abbiamo un inconfessabile bisogno di bellezza. Non tanto lo sfarzo e il lusso di una nobiltà perduta, quanto l’eleganza, la bellezza che è fatta, anche, di rito e cerimonia, di regole e di forme. Qualcosa di sacrale, che ancora regga.

Non ne possiamo più di felpe e maniche di camicia. Ci sentiamo oppressi, schiacciati, abbattuti, mortificati e depressi dalla bruttezza che da mesi la politica ci impone. Vorremmo uscirne. Per questo ci troviamo i viottoli dove scappare.

La vera bruttezza, la vera mediocrità, naturalmente, non solo (soltanto) le felpe. Ho riflettuto un po’, in questi mesi, in questo prolungarsi dell’agonia del vuoto di governo. Ho ascoltato e visto di tutto: dichiarazioni, commenti, talk show (per quel furore masochistico che mi prende, a volte, di affondarci in pieno, nella melma…). E sono arrivata a pensare che l’aspetto peggiore, più mortificante, è che questa politica si sia finora più che mai fondata su cose e non su idee. Cose soltanto concrete, che si toccano, si quantificano, si spendono. La promessa di “cose”: più soldi, meno tasse, bonus, agevolazioni, sussidi… Nomi di cose e basta. Un profluvio di offerte da supermercato: è questo che ci offende. Vorremmo votare un politico che ci mostri una visione del mondo, non uno che ci offre una scatola di pelati in più.

Lo so che potrebbe sembrare un bene: finalmente una politica concreta e non fumosa. E questo è stato fino a un certo punto anche il mio modo di vederla. Ma oggi non saprei…. Troppa concretezza bieca, pesante, fine a se stessa. Manca un volo, un’impennata. Era meglio non dico il fumo, ma una onesta genericità, e una altrettanto onesta ma dispiegata al massimo, esibita, ampiamente e narrativamente esposta, idea generale del mondo. Una politica di idee. Ideale, appunto.

Utopie e velieri

Ci manca molto il pensiero. Soffriamo a causa di una dolorosa… défaite de la pensée (è il bellissimo titolo di un libro di Alain Finkielkraut, del 1987). L’energia pensante. La capacità che ha l’umano pensiero di inventare e costruire universi.

In realtà, non capisco quasi niente di politica e dovrei tacere. In realtà, sono la prima a stupirmi di quel che dico, perché quel che dico mi conduce inesorabilmente a un punto che mi lascia perplessa: il rimpianto delle ideologie. C’è da ridere, io che rimpiango ciò che da sempre definisco come il peggiore dei mali, ciò che ci ha tolto la libertà: la dittatura delle ideologie! Inaudito. Eppure…

Eppure c’era un lato buono. E oggi mi ritrovo a elogiare il lato buono delle ideologie perdute. Criticabili quanto si vuole, per alcuni versi detestabili. Ma oggi non siamo nelle condizioni di permetterci una critica, possiamo solo, e forse dobbiamo, concederci un sano e doveroso rimpianto, oggi che siamo subissati solo di slogan e promesse, frasi fatte, annunci iperbolici, discorsini imparati a memoria e mandati in onda a ripetizione.

Le ideologie erano ben più che degli slogan. Erano organizzazioni mentali complesse, costruzioni dense di significato. Ogni volta la costruzione di un mondo nuovo e preferibile al vecchio. Ogni volta una sovversione, una rigenerazione. Ma erano prima di tutto costruzioni, edifici di cui si vedevano le fondamenta, le impalcature, i muri, le finestre, il tetto. Non importa se non erano concreti, “veri”. Erano utopia. Ma utopia non vuol dire promesse, è l’esatto contrario. L’utopia non promette, inventa, costruisce invenzioni. In questo senso è un po’ come la favola… Quindi poi alla fine tutto si tiene, torniamo al punto da cui siamo partiti: il matrimonio di Megan e Harry. Il nuoto, le galline… Se nessuno più costruisce mondi per noi, ognuno di noi si costruisca il suo mondo.

Torneremo a coltivare il famoso giardino di voltairiana memoria? Può darsi. Ma un giardino può essere un’isola, e un’isola il mondo intero. In miniatura. Forse l’isola che non c’è, ma che val la pena immaginare. Non sottovaluterei l’impresa. E nemmeno le miniature…

Finirei così, con l’elogio dei mondi miniaturizzati. Il veliero nella bottiglia, per esempio. Tanto per tornare al mare… Chi lo costruiva quel veliero? Chi introduceva nel collo della bottiglia con le pinze ogni volta un pezzettino di legno, un gancetto, un cordino? Chi tirava su quelle minuscole vele? Chi aveva quella pazienza, quella modestia, di fare qualcosa di così minuto e inessenziale, eppur così determinante, e imprescindibile direi, per la nostra vita mentale, per la fantasia, per la capacità immaginifica che (ancora) abita in noi e ci anima?

Un grazie, a tutti i costruttori di velieri.

Pubblicato su Il Sole24Ore del 27 maggio 2018