L’alibi dei vincoli europei

Finora, in Europa occidentale, si era visto un solo governo populista puro, quello greco rosso-nero guidato da Tsipras, un governo di coalizione fra il principale partito di sinistra (Syriza) e un piccolo partito nazionalista e conservatore (Anel). Ora anche l’Italia ci prova: salvo imprevisti, nei prossimi giorni si insedierà un governo populista giallo-verde che, come primi “assaggi” di sé stesso, ha già dato segnali del proprio convinto anti-europeismo.

In buona sostanza: in Italia facciamo quel che ci pare, e dei vincoli europei su debito e deficit ben poco ci importa. C’è stata l’austerità fino ad oggi, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, è giunto il momento di cambiare rotta. Salvini si è spinto a dire, in polemica con il ministro francese dell’economia che aveva richiamato l’Italia al rispetto degli impegni assunti, che il nuovo governo avrebbe fatto semplicemente il contrario dei governi precedenti.

Sul rapporto con l’Europa la si può pensare in tanti modi, però – comunque la si pensi – forse una domanda dovremmo farcela: il rispetto dei vincoli europei, giusti o sbagliati che siano, è davvero il macigno che impedisce all’Italia di ripartire?

Oggi la polemica anti-europea sta diventando il biglietto da visita del nuovo governo, il cui unico vero colore politico è di non essere di sinistra, però non possiamo dimenticare alcuni fatti storici. Il 17 ottobre 2002, stiamo quindi parlando di sedici anni fa, fu lo stesso Prodi – allora presidente della Commissione europea – a definire “stupido” il patto di stabilità, un parere ribadito nel 2014, poche settimane dopo la nascita del governo Renzi. Quanto a quest’ultimo, ci ricordiamo tutti che i suoi tre anni di governo sono stati spesi a battagliare contro le regole europee, e a deridere i burocrati europei e le loro fissazioni sui decimali (del rapporto deficit-Pil). Né possiamo dimenticare che la critica delle politiche di austerità, e l’invocazione continua di investimenti pubblici anche in deroga ai vincoli di bilancio, è il leitmotiv dell’estrema sinistra in tutta Europa.

Quindi la prima cosa che vorrei dire, a chi è sbigottito di fronte all’assalto dell’ircocervo populista contro le regole europee, che se Salvini e Di Maio si muovono agevolmente sul terreno dell’antieuropeismo è perché quel terreno è stato a lungo dissodato, concimato e innaffiato dalla sinistra stessa. Ciò detto, tuttavia, la domanda resta: sono le regole europee che ci impediscono di uscire dal pantano?

Per certi versi senz’altro. Se sull’immigrazione un paese geograficamente esposto non può fare molto è anche a causa delle regole europee, peraltro liberamente sottoscritte, e qualche volta anche caldeggiate. Se il mercato europeo è troppo regolamentato all’interno, con conseguente lievitazione dei costi per le imprese, e troppo aperto verso l’esterno, senza validi strumenti di difesa nei confronti delle importazioni (e delle merci contraffatte) dalla Cina e dai paesi emergenti, sicuramente una notevole responsabilità ce l’ha l’Europa.

Per altri versi, però, no. L’Europa c’entra poco. Chi racconta che abbiamo avuto 10 anni di austerità, e che è ora di cambiare strada, non sa di che cosa parla. Se avessimo davvero avuto 10 anni di austerità, saremmo riusciti a ridurre non dico l’ammontare del debito, ma almeno il rapporto debito-Pil. Il fatto è che si continua a confondere due cose nettamente distinte: la capacità di un paese di risanare i conti pubblici, con politiche che possono essere di austerità “buona” (meno spesa pubblica) o di austerità “cattiva” (più tasse), e il cambiamento delle condizioni di vita dei suoi cittadini, che quando peggiorano fanno gridare all’austerità, ma che sono tutt’altra cosa.

Il fatto è che, nei sette anni della crisi (da 2007 al 2014), l’Italia è riuscita nella duplice impresa di non risanare i conti pubblici, e al tempo stesso non far recuperare ai cittadini il tenore di vita pre-crisi. Di qui il cortocircuito logico: dato che stiamo peggio, ci raccontiamo che sono stati anni di austerità.

La realtà, purtroppo, è che le regole europee spiegano forse perché i paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno degli altri paesi dell’Unione, o perché l’Europa nel suo insieme cresce meno del resto del mondo, o cresce meno degli Stati Uniti, ma non possono spiegare – proprio perché sono regole comuni – come mai certi paesi europei crescono a ritmi accettabili e altri, come l’Italia, la Grecia o la Finlandia, invece ristagnano. Soprattutto non spiegano perché l’Italia, in questi gloriosi anni renziani, sia scivolata all’ultimo posto come tasso di crescita del Pil, e al penultimo come tasso di occupazione.

Perciò, è vero: con altre regole potremmo (forse) crescere un po’ di più, ma non raccontiamoci che il vero ostacolo alla crescita dell’economia italiana è l’Europa. No, sfortunatamente se l’Italia cresce di meno degli altri paesi europei è solo perché ha fatto ben poco di quel che avrebbe dovuto fare per ridare fiato all’economia e risanare il bilancio pubblico, non certo perché la cattiva Europa non le ha permesso di spendere in deficit quanto le sarebbe piaciuto.

E’ questo, purtroppo, l’equivoco su cui il nascente governo giallo-verde sembra intenzionato a puntare molte delle sue carte.

Articolo pubblicato da Panorama il 24 maggio 2018



Il partito pigliatutto è morto, ma i grillini lo sanno?

Può anche darsi che questa sia la volta buona. Buona non già nel senso che entro uno o due giorni avremo un governo Lega-Cinque Stelle (esito sulla cui bontà le opinioni divergono), ma nel senso che non dovremo più assistere all’ennesima richiesta al Presidente della Repubblica di “ancora qualche ora”, “ancora qualche giorno”, “ancora una settimana”. Se le cose andranno come hanno promesso, lunedì Salvini e Di Maio, esauriti i riti delle consultazioni delle rispettive basi, si decideranno a dire al Capo dello Stato se intendono fare un governo insieme o se avevano scherzato.

Non vorrei essere nei panni di Mattarella. Egli si troverà infatti, di fronte a due anomalie. La prima è di dover nominare un presidente del Consiglio che, anziché scegliere i ministri e mettere a punto un programma di governo, si dovrà semplicemente limitare a recepire quello che hanno deciso due capi-partito; con quale autorevolezza un presidente del Consiglio così insignito possa guidare il Paese e difendere gli interessi italiani in Europa è facile immaginare. La seconda anomalia è che nel programma mancano del tutto indicazioni chiare sulle coperture dei molti e assai costosi provvedimenti annunciati, il che rende il programma semplicemente non giudicabile. Nessuno può essere ragionevolmente contrario alla riduzione delle tasse, o a dare un sussidio ai disoccupati, o a godere di più anni di pensione: la domanda, però, è a scapito di chi, visto che le risorse non piovono dal cielo.

C’è poi naturalmente il secondo scenario. Fra oggi e lunedì Salvini potrebbe convincersi che per la Lega è preferibile tornare al voto (i sondaggi danno il centro-destra al 40%, ovvero in grado di governare da solo). Oppure potrebbe succedere che programma, presidente del Consiglio e nomi dei ministri non passino il vaglio del Presidente della Repubblica, e che Mattarella decida di usare i poteri (e la crescente popolarità) di cui dispone per riportare il Paese alle urne.

Comunque vada, però, c’è almeno una cosa di cui, forse, dovremmo cominciare a prendere atto: in questi tre mesi il sistema politico italiano è cambiato profondamente, e per certi aspetti in modo irreversibile. Prima del voto si poteva ancora pensare che, fondamentalmente, il sistema politico fosse diventato tripolare: centro-destra, centro-sinistra, Cinque Stelle. I cinque Stelle erano riusciti, unico caso significativo in Europa, a mantenere una sorta di equidistanza fra destra e sinistra. Una equidistanza, o irriducibilità, che quasi tutti i partiti populisti rivendicano, ma che altrove non impedisce agli elettori di percepirli abbastanza chiaramente su uno dei due versanti politici fondamentali: i francesi pensano che il Front National di Marin Le Pen stia a destra, qualsiasi cosa ne pensi lei; spagnoli e greci pensano che Podemos e Syriza stiano a sinistra, per quanti sforzi leader come Iglesias e Tsipras facciano per sottolineare la loro assoluta novità e distanza dalla sinistra classica. In Italia no, in Italia Grillo è riuscito nel miracolo di costruire una formazione politica in cui potesse specchiarsi e identificarsi chiunque, quale che fosse la propria matrice ideologica o culturale.

Il movimento Cinque Stelle ha funzionato, finora, come il test di Rorschach. Così come, nelle macchie volutamente ambigue del test, ogni paziente può vedere cose diverse, e finisce per proiettare le proprie ansie e i propri sogni, così nel movimento di Grillo ogni elettore ha visto cose diverse, spesso proiettando i propri desideri. E’ così potuto accadere che in esso, oltre a qualunquisti, arrabbiati, idealisti, si siano identificate persone genuinamente di destra o di sinistra, semplicemente deluse (come dar loro torto?) dalla destra e dalla sinistra ufficiali, e speranzose che nel movimento di Grillo le proprie idee potessero, finalmente, trovare l’ascolto che meritavano.

Ora non più: dopo quel che è successo in questi 75 giorni, il Movimento Cinque Stelle non potrà mai più essere visto come prima, ovvero come un oggetto simbolico su cui chiunque può proiettare una buona parte di sé stesso. L’immagine di purezza e di neutralità si è dissolta quando Di Maio ha dichiarato esplicitamente di essere disposto sia a un governo con la Lega, sia a un governo con il Pd: da quel momento l’elettore sa che il voto ai Cinque Stelle potrà essere giocato su due tavoli che, in molti, continuiamo a percepire come alquanto diversi, se non opposti. L’immagine di sinistra si è dissolta quando, fallito l’accordo con il Pd (ed eventualmente con Leu), Di Maio si è rivolto risolutamente a Salvini e alla Lega, gettando nella costernazione quanti, intellettuali e comuni cittadini, avevano creduto (o voluto credere?) che, in fondo, i Cinque stelle altro non fossero che una sinistra più pura, meno compromessa con il potere, meno “serva di Berlusconi”.

Visti da questa angolatura, i 75 giorni che ci separano dal voto non sono passati invano. In essi, infatti, sono naufragate due eventualità che, ancora poche settimane fa, erano perfettamente aperte. La prima è la nascita di una sinistra di tipo nuovo, egemonizzata dai Cinque Stelle, con il Pd in posizione subalterna. La seconda è la sopravvivenza del tripolarismo, grazie alla natura ambivalente del grillismo.

Oggi un’alleanza Cinque Stelle-Pd è resa inconcepibile dal peccato originale dell’alleanza con Salvini, che a sinistra si continua a concepire come il diavolo. Ma altrettanto problematica è la sopravvivenza del tripolarismo: alle prossime elezioni i Cinque Stelle, proprio perché si sono mostrati disponibili ad ogni alleanza pur di conquistare il governo, non potranno più sottrarsi alla domanda: ma se ti do il voto, come lo userai? il mio voto al Movimento è un voto regalato alla destra o alla sinistra?

Certo, per metabolizzare fino in fondo quel che è successo, ci vorrà un po’ di tempo. Ma tutto fa pensare che, in caso di elezioni, nulla potrà essere come prima. Il Movimento Cinque Stelle manterrà una sua forza, specie nel Mezzogiorno, ma non potrà più calamitare come in passato gli elettorati di destra e di sinistra. Chi si sente di destra non potrà fidarsi granché di una forza politica che mette sullo stesso piano la Lega e il Pd. Chi si sente di sinistra non potrà continuare a vedere il movimento Cinque Stelle come una sorta di sinistra più sanguigna e più popolare.

Di qui, a mio parere, una certa asimmetria fra i destini delle due forze più moderate e meno anti-europee, ovvero Forza Italia e Pd. Con una destra solidamente seduta sul 40% dei consensi, ma ben poco propensa a rinnovarsi, la quota di Forza Italia dipenderà essenzialmente da come andrà l’avventura di Salvini, i cui voti potrebbero aumentare in caso di successo, e rifluire parzialmente su Forza Italia in caso di insuccesso. Quanto al Pd, è difficile non pensare che una parte dell’elettorato che ha scommesso “da sinistra” sui Cinque Stelle finisca per ritornare all’ovile, o per rifugiarsi nel non voto. Sempre che, a sinistra, non nasca qualcosa di nuovo e di diverso, che non sia il solito cartello di vecchie glorie.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 19 maggio 2018



L’Italia del dopo voto, intervista a Luca Ricolfi

Doveva nascere la terza repubblica e sembriamo tornati alla prima?

Non direi, nella prima non c’erano tre poli, ma un polo e mezzo (Pentapartito e PCI, con divieto di andare al governo).

Si intravede la possibilità di un governo di transizione con tutti dentro tranne il M5s, che ne pensa?

Che sarebbe un regalo ai Cinque Stelle.

Quali le urgenze da risolvere per questo nuovo esecutivo?

Produttività e occupazione, ovvero tornare a una crescita annua del 2-3%.

Che legge elettorale ci vorrebbe?

Tutto sommato, la meno peggio forse sarebbe una legge a turno unico, in cui la coalizione che prende più voti ottiene almeno il 51% dei seggi. Però qualsiasi legge elettorale, per funzionare bene, dovrebbe abolire il Senato, o quanto meno consentire un riparto dei seggi senatoriali su base nazionale, anziché regionale.

In alte parole: una legge elettorale decente non si può fare se prima non si ritocca la Costituzione. Su questo Renzi ha ragioni da vendere.

Ma quando si vota secondo lei?

Non lo so, ma penso che molto dipenda dal duo Salvini-Di Maio.

Perché l’accordo M5s-centrodestra non ha funzionato?

Perché Di Maio, come buona parte del popolo di sinistra, ritiene che Berlusconi sia radioattivo.

Si è palesato anche un esecutivo M5s-Pd e lei ha detto che si rischiava la secessione?

Non la secessione, che è ovviamente impossibile, ma un ritorno di spinte secessioniste, specie sul piano fiscale. E dato che i ceti produttivi stanno non solo al Nord ma anche nelle cosiddette regioni rosse, dove danno ancora il loro voto al Pd, mi aspetto che la risposta a un governo di “sinistra qualunquista” (quale io considererei un esecutivo Pd-Cinque Stelle) potrebbe vedere in piazza non solo il centro-destra ma anche quella parte del Pd che non vuole veder nascere un governo neo-assistenziale.

Cosa pensa del ritorno di Renzi?

Su Renzi sono ambivalente. Per certi versi continuo a non apprezzare la presunzione, il semplicismo, la mancanza di autocritica, nonché numerose scelte passate, come l’accoglienza indiscriminata, il bonus da 80 euro e le altre mance. Per altri versi, mi pare che, con pochissime eccezioni, il gruppo dirigente del Pd sia di levatura così modesta che persino un leader che, come Renzi, ha evidenti limiti di carattere e di comprensione della realtà, finisce per apparire come un gigante. Al momento, l’unico che mi pare aver qualche chance di risollevare le sorti del partito mi pare Matteo Richetti, su cui però so troppo poco per poter esprimere un’opinione meditata.

Quanto all’eventuale ritorno di Renzi credo sia prematuro. Se tornasse ora, ci sarebbe una mezza rivolta nel partito. Secondo me Renzi può tornare sulla scena solo in due modi: facendo un suo partito, o aspettando che il Pd, divorato dalle lotte intestine, lo richiami come salvatore della patria (un po’ come accadde a Veltroni anni fa, ma il precedente dovrebbe consigliare prudenza).

Il Pd è morto o solo tramortito? Che strada dovrebbe prendere e con chi?

Sicuramente è tramortito, ma molto difficilmente morirà in fretta. Sulla strada da prendere, molto dipende dagli obiettivi. Per conservare il potere, la strada maestra è una alleanza stabile con i Cinque Stelle: potrebbero aspirare al ruolo di “secondo partito della sinistra”.

Per conservare l’identità, invece, dovrebbero rinnovarsi molto, trovando il coraggio di cambiarla questa benedetta identità di sinistra. Per fare questo, però, ci vorrebbe un certo coraggio, perché al giorno d’oggi non è possibile né riproporre i modelli del passato remoto (come fanno i dinosauri di Leu), né i modelli del passato prossimo (la “Terza via” di Tony Blair). Fra il tempo della Terza via e oggi, infatti, ci sono state la Cina, internet, la crisi economica, l’esplosione dei flussi migratori, i progressi dell’automazione. Se non sa fare i conti con queste cose, la sinistra è morta.

E il centrodestra a trazione Salvini come lo vede?

Lo vedo in salute, ma penso che il declino di Forza Italia sia dannoso per il centro-destra. Se Forza Italia si lascia risucchiare dalla Lega, il consenso complessivo al centro-destra incontrerà inevitabilmente un limite connesso al fatto che ci sono ceti e individui che non voterebbero mai Lega, ma sarebbero pronti a sostenere un partito di destra classico, liberale e/o conservatore.

Il problema è che anche Forza Italia è sempre meno adatta a intercettare questo tipo di elettorato. In un certo senso Forza Italia ha il medesimo problema del Pd: se non vuole ridursi all’irrilevanza deve affrontare una lunga stagione di rinnovamento e autocritica.

Le Lega sembra l’unico partito ad affrontare il tema dell’immigrazione, come mai continua questo tabù sia per i problemi di integrazione sia per quelli di criminalità?

Perché tutti i partiti temono di urtare la Chiesa, il Papa, e più in generale il mondo delle persone “di buona volontà”, che sempre insorgono ogniqualvolta dalla rivendicazione dei diritti si passa all’indicazione dei doveri, specie se si osa pretendere che anche gli ultimi, o i presunti ultimi, rispettino le regole.

Analizzando il programma del M5s li trovava statalisti e ora ha detto che Di Maio ha perso voti dando l’impressione di equiparare Lega e Pd e di voler andare al governo a tutti i costi. Non sono loro il futuro della sinistra?

No, i Cinque Stelle sono una formazione qualunquista, che però effettivamente può evolvere in una specie di Podemos o di Syriza, cioè in una sinistra post-moderna, assistenziale e anti-mercato. Vedremo.

Mattarella ha detto che la disoccupazione giovanile è troppo elevata e che al sud la mancanza di lavoro ha proporzioni inaccettabili. Come inquadra questi problemi ed è sanabile la differenza nord-sud?

Non ci voleva Mattarella a dire quel che risulta da tutte le statistiche.  Quanto al divario Nord-Sud, se non l’abbiamo superato in più di 150 anni, una ragione ci sarà pure. E temo che quella ragione faccia parte delle cose che si possono pensare, ma è meglio non dire in pubblico: i cittadini del Sud hanno un’altra cultura, un’altra mentalità, altri valori, e quindi non vogliono vivere come noi del centro-nord. Io li capisco, e un po’ li invidio. Credo che la soluzione, l’unica vera e duratura soluzione, sia concedere piena autonomia al Sud. Nessuna secessione delle regioni del Nord, ma creazione di una grande area con istituzioni proprie, un fisco proprio, una politica economica propria. Culturalmente, ma anche sul piano dell’organizzazione economico-sociale, il centro-Italia è più simile al Nord che al Sud, dunque tanto vale che vi siano due italie libere di governarsi come desiderano, quella del Centro-Nord e quella del Sud, finalmente liberata dal giogo dell’unità nazionale.

Intervista a cura di Francesco Rigatelli pubblicata su Libero il 07 maggio 2018



Attenti alla rabbia secessionista: intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, riprendendo la mappa giallo-blu (grillini e centrodestra) dell’Italia uscita dalle elezioni del 4 marzo, balza agli occhi che se andasse in porto l’ipotesi di un governo giallo-rosso (M5S-Pd) un pezzo del Paese rischierebbe di essere tagliato fuori, è così?

Sì, il Nord si sentirebbe ulteriormente tosato, e prenderebbe assai male qualsiasi cosa che venisse battezzata “reddito di cittadinanza”. Anche perché i calcoli statistici mostrano che circa l’80% dei sussidi ai poveri finirebbero a due soli gruppi sociali: i cittadini meridionali e gli immigrati.

Secondo la Lega non solo sarebbe esclusa la coalizione che ha preso più voti, un centrodestra che per la verità ora appare diviso, ma il Nord Italia ribollirebbe. E’ una minaccia concreta?

Sì, un governo Pd-Cinque Stelle farebbe resuscitare istanze anti-fiscali e separatiste.

Quale governo potrebbe dare risposte più consone a quelle che lei giudica le priorità politico-economiche del Paese?

Il governo meno dannoso per l’Italia sarebbe un governo che promuovesse una rivoluzione liberale, soprattutto in campo fiscale, e al tempo stesso non spaventasse l’Europa e i mercati finanziari. In termini politici: un governo di grande coalizione destra-sinistra, come in Germania, con la destra che guida la politica economica e la sinistra che le impedisce di esagerare.
Peccato che una simile alternativa, pur avendo più numeri di tutte le altre (a parte ovviamente il governo di tutti senza il Pd), sia l’unica che il nostro Presidente della Repubblica non pare avere alcuna intenzione di esplorare.

Andando con ordine, dal punto di vista fiscale se venisse archiviata l’ipotesi Flat tax e, al contrario, si procedesse nella direzione del reddito di cittadinanza che ripercussioni ci sarebbero per il Settentrione?

Un po’ più di tasse, e tanta rabbia di chi il reddito se lo guadagna lavorando duramente.

Il reddito di cittadinanza è destinato al fallimento come per esempio è successo in Finlandia?

No, può benissimo essere varato, purché l’Italia accetti di continuare sul sentiero di declino su cui è avviata da 25 anni: “dimagrire insieme, dimagrire tutti” potrebbe essere la nuova frontiera. Ci piace una prospettiva del genere?

Salvini, che nelle regioni locomotiva del Paese, tocca punte percentuali tra il 30 e il 40%, ha sbagliato secondo lei a smorzare le ragioni autonomistiche a vantaggio di una politica nazionale?

No, egoisticamente ha fatto benissimo, era l’unico modo per non restare un partito territoriale. Il problema è che, con un governo Pd-Cinque Stelle, le ragioni autonomistiche del Nord sono destinate a risorgere da sé, senza bisogno di una Lega che le promuova.

Le regioni del Nord registrano un Pil pro capite medio superiore alla media europea. Moody’s ha appena confermato il rating della Lombardia su un gradino superiore a quello dell’Italia. Perché siamo ancora alla Questione meridionale, mentre anche la Spagna ci supera?

Perché la Questione meridionale abbiamo sempre preteso di affrontarla con poco Stato dove serviva (mafia, criminalità, evasione fiscale, assenteismo, inefficienza della sanità e della scuola), e con troppo Stato dove era meglio farne a meno (sussidi, clientele, finti posti di lavoro).

Popolo delle partite Iva e piccole imprese contro dipendenti pubblici. E’ ancora corretto pensare all’Italia spaccata a metà sulla base di queste categorie produttive?

No, non è corretto. Adesso la frattura sanguinosa sarà fra chi lavora e chi vive del lavoro altrui.

Un patto di governo grillino-leghista potrebbe mettere assieme le esigenze del Nord e del Sud o non è realistico?

Non lo si può escludere a priori, perché comunque il Sud ha le sue ragioni e il Nord pure, però ci vorrebbero De Gasperi e Di Vittorio, non Di Maio e Salvini.

Il Pd, che da Roma in giù il 4 marzo non ha vinto nemmeno una sfida diretta, sarebbe secondo lei malvisto dagli elettori del Sud nell’ipotesi di governo giallo-rosso?

No, credo che in tal caso il Pd sarebbe visto meglio di oggi, ma solo perché accodato ai Cinque Stelle, ossia all’unico partito che ha mostrato di prendere sul serio le rivendicazioni dei cittadini meridionali. In compenso verrebbe cancellato dalla geografia politica del Centro-Nord.

Intervista a cura di Marcella Cocchi pubblicata su QN Quotidiano Nazionale il 26 aprile 2018



Le priorità per il Paese: intervista a Luca Ricolfi

Lega e M5S parlano entrambi nei loro programmi di Salario minimo garantito come primo punto della parte dedicata al lavoro. Lega aggiunge la proposta di una standardizzazione alla media europea (flat rate). Una priorità per il Paese, quella del salario, a suo parere?

No, la priorità è creare posti di lavoro aggiuntivi e, in attesa che i posti si formino in misura sufficiente, dare un reddito minimo alle famiglie in povertà assoluta, che sono circa 1 milione e mezzo (di cui quasi il 40% immigrati). Il problema è che, per essere equa, una misura del genere dovrebbe tenere conto del livello di prezzi, molto più bassi al Sud e nei piccoli centri: in caso contrario avremo due soli veri beneficiari: i cittadini del Sud e gli immigrati (questi ultimi prevalentemente residenti nel Centro-Nord). Pochissimo resterà per i cittadini italiani poveri residenti nelle regioni del Centro-Nord.

M5S si riferisce sia a un investimento (due miliardi di euro per il rafforzamento e potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego) in politiche attive che al reddito di cittadinanza. Di fatto è anch’essa una misura di politica attiva? Quale criticità intravede? È solo questione di sostenibilità per i conti? I servizi pubblici per il lavoro (centri per l’impiego) potranno supportare questo tipo di intervento? L’aspetto della condizionalità per come è stato esposto il progetto di reddito di cittadinanza è molto forte…

Non è solo questione di sostenibilità per i conti pubblici. Le criticità sono due. Se le politiche attive si fanno all’italiana, ossia senza veri controlli e senza veri posti di lavoro da allocare, si generalizza la situazione attuale, in cui i sussidi sono spesso erogati a persone che li usano per non lavorare o per lavorare in nero. Se le politiche attive si fanno alla tedesca o all’inglese, è probabile che si formi anche in Italia una mostruosa burocrazia che umilia i disoccupati (chi non avesse idea di cosa questo significhi può vedere il bellissimo, drammatico film di Ken Loach, Io, Daniel Blake). Purtroppo soluzioni perfette non esistono. La meno imperfetta, a mio parere, sarebbe quella di dare dei voucher per la formazione, lasciando i lavoratori completamente liberi di spenderli con i corsi che preferiscono, e garantendo un premio in denaro per i casi di successo, in cui il corso di formazione ha permesso di trovare un lavoro.

La Lega, per bocca di Siri, sembra aver rilanciato rispetto al reddito di cittadinanza il prestito al lavoro. Di fatto si tratta dell’assegno di ricollocazione, ma con la clausola della restituzione? Si tratta di un costo di due miliardi all’anno, pari all’investimento previsto dai Cinque Stelle per rafforzare i cpi. I lavoratori italiani sembrano non aver accolto favorevolmente l’assegno di ricollocazione nella sua sperimentazione: aderirebbero a una forma di prestito così congegnata?

No, pochissimi accetterebbero. In Italia l’idea di restituire i soldi non funziona, né all’Università né sul mercato del lavoro. Possiamo deplorare il fatto, ma la realtà è quella.

Pensa che i due programmi possano avere importanti punti di convergenza? Quale potrebbe essere la base comune?

Se c’è la volontà politica, i punti di convergenza si trovano. E comunque su molte cose la convergenza già c’è: abolizione della legge Fornero, riduzione delle tasse alle piccole imprese, ulteriore aumento del debito pubblico.

Quali sono invece i punti di divergenza più critici a suo parere? (Io noto la sostanziale assenza di un riferimento al fisco nel programma a Cinque Stelle, ad esempio…)

Mi sembrano solo due. La Lega non è disposta a varare il reddito di cittadinanza nella forma estrema proposta dai Cinque Stelle. Il Movimento Cinque Stelle non sembra pronto a una politica veramente severa su sbarchi e immigrazione irregolare. E il fatto che arrivi la primavera, con il mare calmo e il sole, non può che complicare le cose: gli sbarchi ricominceranno proprio al momento di varare il nuovo governo.

Lei ha scritto su Panorama che il voto ha riproposto una frattura del Paese e che occorrerebbe pensare a misure differenti: quali, per il lavoro? Il reddito di cittadinanza quanto ha influito sul risultato elettorale?

Sì, ha portato voti al partito di Grillo. Quanto alle misure per il lavoro ne vedo soprattutto due: sopprimere l’Irap e azzerare i contributi, ma solo alle imprese che aumentano l’occupazione.

Intervista a cura di Giulia Cazzaniga per Libero del 6 aprile 2018