Perché Conte è incapace di riconoscere i suoi errori?

Ho sempre pensato, negli ultimi mesi, che il premier fosse stato insincero quando, in tante occasioni, ha ripetuto “rifarei tutto”, o ribadito l’esemplarità della condotta del suo governo nella gestione dell’epidemia. Quelle parole iterate fino alla noia, “siamo un modello”, “tutti ci ammirano”, “ora siamo preparati”, le interpretavo come un disturbo della personalità. Nella mia vita, infatti, mi è capitato più di una volta di incontrare persone del tutto incapaci di ammettere di aver commesso un errore, persone che, anche di fronte all’evidenza, negano ogni responsabilità. E quindi mi dicevo: si vede che il premier, a differenza di altri (rari) politici, non è capace di riconoscere uno sbaglio.

Ora capisco che a sbagliarmi ero io. Ora so che il premier era sincero: quando diceva “non abbiamo sbagliato nulla”, lui ci credeva davvero.

Che cosa mi ha convinto della sua sincerità?

E’ molto semplice: il fatto che oggi, di fronte alla seconda ondata, ripeta esattamente l’errore commesso nella prima. Come se non avesse compreso che era un errore, e quindi – in perfetta buona fede – si sentisse autorizzato a “rifare tutto” come a febbraio-marzo.

Quale sia questo errore lo sa qualsiasi studioso che abbia un minimo di familiarità con la matematica di un’epidemia. L’errore consiste nel credere che si debbano varare le misure più severe solo quando si è in prossimità del collasso del sistema sanitario, anziché molto prima. E’ l’errore che si fece ai primi di marzo, quando al grido “Milano non si ferma” non si chiusero tempestivamente Nembro e Alzano, e si aspettò l’inizio della primavera per varare il vero lockdown, quello con il blocco degli spostamenti fra comuni. Ed è l’errore che si è ripetuto oggi, cincischiando in attesa che la curva epidemica desse segnali così drammatici da convincere tutti dell’inevitabilità e giustezza del lockdown.

E’ un errore marchiano, perché più passa il tempo più alta è la curva epidemica, e più alta è la curva epidemica più lungo e severo è il lockdown necessario per riprendere il controllo.

Giusto per dare un’idea delle grandezze in gioco: al ritmo attuale, che è prossimo a un tasso di raddoppio settimanale, ritardare di 3-4 settimane l’intervento significa dover spegnere un’onda circa 10 volte più alta. Eppure sono almeno 15-20 giorni che persino i politici si sono resi conto che l’epidemia stava andando fuori controllo. Perché hanno temporeggiato così a lungo? Evidentemente perché davvero pensavano che aspettare per vedere come evolve la curva fosse la strada giusta, anziché un errore da matita blu (resta la domanda: ma nessuno nel Comitato Tecnico Scientifico glielo ha spiegato?).

Dunque si va verso un lockdown più o meno generalizzato, ma certamente molto più lungo di quello che avremmo avuto se si fosse intervenuti non dico quando lo dicevano gli studiosi indipendenti (già a luglio-agosto), ma almeno quando, a metà ottobre, qualcosa (quota 10 mila contagi al giorno?) aveva improvvisamente messo la politica davanti alla realtà. E dire che, se fossimo intervenuti allora, la curva già in questi giorni darebbe i primi segnali di rallentamento, e noi saremmo tutti meno angosciati.

Resta la domanda: perché la politica ci è ricascata, come a febbraio?

Io penso che la ragione ultima stia nella capacità, peculiarmente umana ma iper-sviluppata fra i politici, di usare l’autoinganno per ricavare sicurezza, conforto, autostima, gratificazione (meccanismo scoperto e descritto da Leon Festinger fin dal 1957). Nel caso della gestione del Covid il meccanismo di autorassicurazione (tecnicamente: riduzione della dissonanza cognitiva) è scattato con una potenza senza precedenti, aiutato dalla scomparsa – sulla scena pubblica – di ogni distinzione fra mere opinioni e conoscenze scientifiche fondate sulla ricerca. Nella babele di voci dissonanti, che descrivevano il corso dell’epidemia in modi opposti e inconciliabili, è stato un gioco da ragazzi per i nostri governanti selezionare le interpretazioni più auto-rassicuranti: “il virus è clinicamente morto”, “siamo diventati molto più bravi a curare i malati”, “i morti sono pochissimi”, “la nostra situazione è migliore di quella di tanti altri paesi”, “siamo un modello per il mondo”, la nostra gestione dell’epidemia “entrerà nei libri di storia” (sì, ho sentito anche questa).

E’ accaduto così che non capissero che l’epidemia si era risvegliata già a metà giugno, che ignorassero i successi delle democrazie asiatiche e dell’emisfero australe (Giappone, Corea del sud, Australia, Nuova Zelanda), che non si rendessero conto che Francia, Spagna e Regno Unito erano semplicemente qualche settimana avanti a noi nella ripresa dell’epidemia (verosimilmente perché le loro scuole sono state riaperte un mese prima delle nostre).

E’ il guaio dell’autoinganno in politica: finché si limita a farti raccontare delle favole, poco male, ma se ti induce a prendere decisioni sbagliate alla fine può ritorcersi contro di te.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 novembre 2020




Covid: Conte dovrebbe chiederci scusa

Dunque, dopo un paio di settimane di tentennamenti, e avendo cura di lascarci divertire ancora un po’ nell’ultimo week-end (come a Ferragosto, quando lasciarono sciaguratamente aperte le discoteche), i nostri governanti si sono decisi: sarà semi-lockdown, semi-coprifuoco, semi-chiusura. A pagare il prezzo più salato saranno, per ora, soprattutto ristoratori, esercenti, gestori di palestre, cinema, teatri. I quali giustamente si chiedono: come si fa a tollerare che lo Stato pretenda da noi di accollarci ogni sorta di onere per far rispettare le regole, e quando invece il padrone è lo Stato, come avviene con treni, bus, voli Alitalia, il datore di lavoro pubblico non faccia nulla per farle rispettare, quelle benedette regole? Come è possibile che, mentre noi facevamo i salti mortali per adeguare i nostri locali ai protocolli di sicurezza, lo Stato tollerasse gli assembramenti per strada, dove è lui il padrone di casa?

Questa reazione è perfettamente giustificata, anche se non lo è la conseguenza che se ne trae, e cioè che – quindi – si debba tenere tutto aperto.

La realtà è ben più amara di come la percepiscono le categorie colpite dalle restrizioni imposte dal governo. Ridotta all’osso, la situazione a me pare questa.

Le chiusure sono ancora una volta tardive e insufficienti, se le commisuriamo all’entità del problema che la latitanza dei poteri pubblici, e innanzitutto del governo, ha fatto montare nello sciagurato trimestre estivo. La seconda ondata è il frutto, prevedibile e previsto, delle omissioni dei mesi scorsi sui versanti cruciali: aumento dei tamponi e dei drive-in, creazione di una task force per il tracciamento dei contatti, controllo degli assembramenti, assunzioni di personale sanitario, rafforzamento delle terapie intensive, aumento della flotta dei mezzi di trasporto, organizzazione della sorveglianza sanitaria nelle scuole, riduzione del numero di alunni per classe, scaglionamento degli orari di ingresso nelle scuole. Anziché fare queste cose, ci hanno raccontato che tutto il mondo ammirava il modello italiano di contrasto dell’epidemia.

Non avendole fatte, la seconda ondata ha avuto la strada spianata. C’è chi ha avvertito del pericolo a maggio, chi a giugno, chi a luglio, ma a partire dalla metà di agosto non si poteva non capire, perché tutti gli indicatori (ripeto: tutti gli indicatori) dicevano che la curva non cresceva più linearmente, ma esponenzialmente.  E’ questo non voler vedere che ci ha portati, oggi, a dover fronteggiare un’onda molto alta e pericolosa. Ed è questo il motivo per cui siamo chiamati a nuovi sacrifici, anche se per ora preferiscono non dirci quali, quanto grandi, e soprattutto quanto lunghi. Ma la risposta è semplice: i sacrifici saranno tanto più grandi e tanto più lunghi quanto più il governo continuerà a temporeggiare, rimandando misure che già sa che dovrà prendere.

Sono pronti, gli italiani, a una nuova stagione di sacrifici?

Io penso di no, in parte per cattive ragioni, in parte per ottime ragioni.

Le cattive ragioni si riducono ad una: la nostra società, nonostante sacche di povertà e di malessere, somiglia ormai più a un luna park che a una fabbrica. Novantacinque genitori su 100 mai avrebbero osato dire ai propri figli che era meglio, per un’estate, rinunciare ai divertimenti di massa e passare ad occupazioni meno pericolose o più utili, ad esempio vedere pochi amici, fare sport all’aperto, recuperare il tempo di studio perduto durante il lockdown. Ma anche a noi, che adolescenti non siamo più, sarebbe risultato molto doloroso non essere liberi di passare le vacanze all’estero, o dover osservare scrupolosamente le regole di prudenza, a partire dall’uso della mascherina e dal rispetto del distanziamento. Insomma, la maggior parte degli italiani ha pensato e pensa di aver fatto già sufficienti rinunce nel lockdown di marzo-aprile, e che non sia proprio il caso di farne altre. Queste sono le cattive ragioni, perché una società che ha perso la capacità di affrontare sacrifici per il bene comune è semplicemente una società in decadenza, anche se preferisce descriversi in registri più indulgenti.

Ma nella resistenza a fare nuovi sacrifici ci sono anche buone ragioni. Ottime ragioni. Che io ridurrei a una: il premier Conte non ci ha chiesto scusa. Si è presentato come di consueto in tv, per dirci che la situazione era grave, e che dovevamo di nuovo fare sacrifici.

Eh no, caro premier, noi avremmo voluto sentire un altro discorso, un discorso di verità e di umiltà. Un discorso che suonasse più o meno così.

“Cari italiani, è vero, in questi mesi, nonostante i pieni poteri che ci siamo presi proclamando lo “stato di emergenza”, non abbiamo fatto, a, b, c, d, e, f, … (qui lungo elenco), né abbiamo davvero preteso che voi faceste quello che vi avevamo prescritto, tipo niente movida, niente assembramenti sui mezzi pubblici, rispetto rigoroso del distanziamento. Un po’ abbiamo chiuso un occhio per risarcirvi dei due mesi di lockdown, un po’ abbiamo latitato perché siamo litigiosi, disorganizzati, e tendiamo a rimandare le decisioni difficili.

Però ora che l’epidemia ha rialzato la testa la lezione l’abbiamo capita. Abbiamo capito che aveva ragione il professor Crisanti quando, a luglio, ci diceva che 300 positivi al giorno non sono pochi. E aveva ancora più ragione quando, ad agosto, più di due mesi fa, ci consegnava un piano per aumentare i tamponi e costruire un vero sistema di sorveglianza attiva dell’epidemia. E avevano pure ragione quanti ci avvertivano che le scuole non erano pronte per riaprire, nonostante una raffica di banchi a rotelle in arrivo.

Ecco perché, nel momento in cui vi chiediamo i primi sacrifici, cui fra poco ne seguiranno altri, vi promettiamo anche che quegli errori non li faremo più. Ecco il nostro cronoprogramma, con le cose che faremo, gli stanziamenti, i tempi entro i quali vi garantiamo che le cose saranno fatte (segue lungo e dettagliato elenco di cose non fatte, ma che verranno fatte nei prossimi 3 mesi).

Perché sappiamo bene, ora ci è chiaro, che se non faremo tutte queste cose l’epidemia, dopo i vostri nuovi sacrifici, sembrerà in ritirata per qualche settimana o mese, ma poi si ripresenterà implacabilmente con una terza ondata”.

Noi, queste parole non le abbiamo ancora sentite. Noi questo programma non lo abbiamo ancora visto. E lo vorremmo. Subito. Se non lo vedremo, i sacrifici li faremo di nuovo, come sempre, ma non riusciremo a toglierci il dubbio che, ancora una volta, saranno inutili.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 ottobre 2020




Covid: una Norimberga per “crimini di pace”?

Ma come fanno a non capire? E come facciamo noi cittadini a sopportare tanta incoscienza?
Chiedo scusa al lettore per il modo crudo con cui inizio questo articolo ma, dopo mesi passati a cercare di mettere il mondo politico di fronte ai numeri di questa epidemia, sono sgomento. A quanto pare il manipolo di politici e burocrati della sanità che ormai da otto mesi è padrone delle nostre vite, e settimana dopo settimana stabilisce (senza chiedere il permesso a nessuno, tanto meno al Parlamento) che cosa possiamo fare e che cosa no, non ha ancora capito. E, sia chiaro, dico “non ha ancora capito” per lasciar loro una ciambella di salvataggio, una scusante. Se avessero capito, e agito come hanno agito in piena coscienza, dovremmo cominciare pensare a una Norimberga per “crimini di pace”. Perché 36 mila morti ufficiali, il tracollo dell’economia, milioni di persone alla disperazione, centinaia di migliaia di attività che stanno chiudendo, una seconda ondata che sta per sommergerci, sono un bilancio che non possiamo accettare da nessuna classe dirigente. Tanto più se consideriamo che la maggior parte degli altri paesi ha pagato un prezzo molto più modesto, sia in termini di morti sia in termini di punti di Pil perduti.

Ma veniamo al punto. Che cosa non hanno capito?

Non hanno capito, prima di ogni altra cosa, l’aritmetica di un’epidemia. Ammetto che non è molto intuitiva, ma con un piccolo sforzo possiamo capirla. Dunque proviamo a spiegarla, usando un esempio che si usa a scuola, specialmente in Francia, a quanto pare. C’è uno stagno, e al centro dello stagno c’è una ninfea. Il numero di ninfee raddoppia ogni notte, e lo stagno ne può contenere fino a 1000, prima di saturarsi e far soffocare tutto ciò che contiene. Il contadino che custodisce lo stagno si sveglia al mattino e nota che le 2 ninfee del giorno prima sono diventate 4. Il giorno dopo nota che sono 8. Il giorno dopo ancora che sono 16. Dopo una settimana sono 128, e occupano meno del 13% dello stagno. Il contadino non è preoccupato: penserà domani a ripulire lo stagno, in fondo in 7 giorni le ninfee sono cresciute lentamente, meno di 20 ninfee al giorno. Ma oggi è venerdì, e il contadino pensa: sabato e domenica mi riposo, lo stagno lo ripulirò lunedì o martedì. Lunedì le ninfee sono 512, ma il contadino rimanda ancora una volta la pulizia, e in una sola notte le ninfee diventano 1024, riempendo tutto lo stagno: ora è troppo tardi, perché in una sola notte le ninfee sono cresciute di numero quanto nei 9 giorni precedenti. Lo stagno è saturo, tutta la vita animale e vegetale che conteneva è morta o sta morendo.

Questa, all’osso, è l’aritmetica di un’epidemia. I giorni del nostro apologo sono le settimane che il governo aveva di fronte per intervenire. I primi segnali di ripresa dell’epidemia risalgono a metà giugno, ma non erano facilmente riconoscibili senza strumenti raffinati. Invece a partire da luglio capire che l’epidemia stava rialzando la testa era facilissimo, bastava non ignorare i dati della Protezione Civile. Ricoveri, terapie intensive, rapporto nuovi casi/tamponi hanno cominciato a crescere in modo esponenziale (e rapido) già da luglio. E da settembre lo hanno cominciato a fare anche i dati dei decessi, che nei mesi precedenti erano stati frenati dall’abbassamento dell’età mediana dei contagiati (gli under-50 muoiono molto meno degli over-50), creando così l’effetto-Sgarbi, ossa l’ingenua credenza che pochi morti al giorno significassero epidemia domata.

In questa situazione che cosa hanno fatto i nostri governanti?

Anziché cominciare a ripulire lo stagno, hanno rimandato ogni intervento al futuro, contando sul fatto che il numero assoluto di nuove ninfee, giorno dopo giorno, sembrava modesto: poche decine di morti la settimana, poche migliaia di nuovi casi la settimana, aumenti contenuti del numero di ricoveri in ospedale e in terapia intensiva.

Poi, circa 10 giorni fa, quando il numero di nuovi casi ha cominciato a puntare verso quota 10 mila, e il numero di morti giornalieri verso quota 100, un barlume di consapevolezza si è cominciato a fare strada. Sono cominciate le disquisizioni su nuovi lockdown e o semi-lockdown, coprifuoco globali o locali, chiusure più o meno severe di bar, ristoranti, palestre, scuole, con un’unica preoccupazione: escludere un nuovo lockdown globale, come quello di marzo e aprile, e convincerci che sconfiggere l’epidemia era compito nostro, o tutt’al più dei poteri locali, governatori delle Regioni e sindaci dei Comuni. Nessuna autocritica, nessuna ammissione di avere sbagliato tutto nel trimestre estivo quando, nonostante i dati dicessero il contrario, si è fatto come se l’epidemia stesse battendo in ritirata, e non ci fosse bisogno di rafforzare il trasposto pubblico locale, la politica dei tamponi, le strutture scolastiche, i controlli su movida e assembramenti.

Il risultato è che il tentativo maldestro di salvare l’economia durante l’estate verrà pagato con gli interessi nei mesi prossimi quando, per limitare le dimensioni della catastrofe sanitaria, le autorità saranno costrette a nuove chiusure, che ora non hanno il coraggio di annunciare ma che non potranno evitare.

Sembra incredibile, ma quello che sta andando in scena in questi giorni è il remake del film che abbiamo già visto tra febbraio e marzo, quando per “riaprire Milano” si rinunciò a chiudere per tempo Nembro e Alzano. Anche oggi, come allora, per paura di fermare l’economia si prende tempo, sperando che l’epidemia retroceda da sola, e dimenticando che quel che sta succedendo questa settimana, così come quel che succederà la prossima, è già scritto, perché dipende dai comportamenti di 2-3 settimane fa. Nel frattempo i contagi e i morti raddoppiano ogni settimana, come le ninfee dello stagno, nella vana attesa che il contadino faccia qualcosa. E quando finalmente ci si deciderà a fare qualcosa, sarà così tardi che questo qualcosa dovrà essere molto duro e prolungato.

Perché la legge fondamentale dell’epidemia è questa: se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai più costerà caro a tutti.




Il lockdown che non c’è mai stato e quello che ci vorrebbe

Quando qualche settimana fa Luca Ricolfi, che avevo contattato per invitarlo a una conferenza nella mia Università dell’Insubria (il 25 novembre alle 14,30, il link uscirà su www.uninsubria.it, sezione Eventi), mi ha chiesto, con mia grande sorpresa, di scrivere un contributo per il sito della Fondazione Hume sulla questione del virus, mi sono sentito al tempo stesso onorato e intimidito, perché ho da sempre molta stima di lui e del suo lavoro e non so se saprò essere all’altezza. Comunque, ho ritenuto doveroso accettare, perché, data la gravità della situazione, bisogna sfruttare ogni opportunità per far conoscere al maggior numero possibile di persone la vera situazione in cui ci troviamo, dato che essa viene costantemente occultata da una comunicazione nel migliore dei casi inadeguata e nel peggiore intenzionalmente distorta e mistificante.

Poiché Ricolfi e i suoi collaboratori hanno già pubblicato sul tema moltissime cose, che condivido quasi completamente, non starò a ripeterle per esteso, ma cercherò piuttosto di approfondire i pochi punti su cui ritengo di poter aggiungere qualcosa di nuovo e di utile. Perché il discorso risulti comprensibile, però, all’inizio dovrò brevemente riassumere alcuni concetti da loro già esposti.

Il primo e più fondamentale concetto che la Fondazione Hume ha meritoriamente messo in luce e che anch’io, nel mio piccolo, avevo evidenziato da tempo (www.ilsussidiario.net) è che il dato su cui bisogna basarsi non è il numero dei contagi (che, come ormai dovrebbe esser chiaro a tutti, dipende in modo determinante dal numero e dalla qualità dei test effettuati), bensì quello dei morti, che è molto più oggettivo nonché molto più rilevante (dopotutto, non è il contagio in sé a preoccuparci, ma le sue conseguenze). Inoltre, se vogliamo capire come viene gestita la situazione in ciascun paese, quello che va considerato non è il numero assoluto dei morti, bensì il rapporto tra numero dei morti e popolazione.

Dovrebbe trattarsi di concetti ovvi e addirittura scontati, eppure a quanto pare non lo sono, dato che in genere le “classifiche” dei paesi, compresa quella del sito ufficiale della OMS, vengono fatte in base al numero assoluto dei contagi, con l’assurda conseguenza che i paesi che fanno molti test e di conseguenza evidenziano più contagi appaiono essere meno “virtuosi” di altri che denunciano meno contagi solo perché fanno pochi test.

Ma forse l’equivoco non è casuale, bensì voluto, dato che, come ha di nuovo evidenziato Ricolfi, se si adotta il criterio corretto la situazione appare molto diversa da come in genere ci viene raccontata e, in particolare, crolla il mito, tanto caro alla OMS, del “modello Italia”, che appare piuttosto il modello di ciò che non si deve fare. Attualmente, infatti, come risulta dai dati della stessa OMS, che contraddicono platealmente le sue affermazioni (www.worldometers.info), siamo all’undicesimo posto nella classifica dei peggiori paesi al mondo, con 605 morti per milione di abitanti (mpm). Ciò significa che siamo più o meno allo stesso livello di molti paesi dell’America Latina, come Bolivia (725 mpm), Cile (715), Ecuador (700), Messico (672), Argentina (598), Panama (596), Colombia (573) e addirittura il Brasile del “negazionista” Bolsonaro, che per mesi abbiamo criticato e perfino deriso, magari anche giustamente, ma che in realtà non ha molti più morti di noi (723 mpm) e fino a fine agosto ne aveva addirittura meno. Fino ad allora, infatti, ovvero per ben 6 mesi, siamo stati addirittura il secondo peggior paese al mondo insieme alla Spagna, appena dietro alla “maglia nera” Belgio (che ancor oggi è il secondo peggiore al mondo dopo il Perù e nelle ultime settimane sembra prepararsi al contro-sorpasso).

È vero che in questi paesi il numero dei morti potrebbe essere sottostimato, ma non fino al punto di cambiare sostanzialmente l’ordine di grandezza, perché stiamo parlando di paesi certo molto più arretrati di noi, ma comunque non allo sfascio, come sono invece, per esempio, il Venezuela (devastato dal regime del demenziale duo Chávez-Maduro) o molti paesi africani, che infatti qui non sto considerando, così come non sto considerando quelli troppo piccoli perché i loro dati siano statisticamente significativi, come Andorra, Liechtenstein, San Marino o i molti Stati-isola che sono rimasi perlopiù immuni dal contagio. Al contrario, la nostra distanza dai paesi che hanno avuto successo nel contenere il virus è semplicemente abissale e non può essere spiegata da nessuna differenza nei conteggi.

Ma, per una volta, non si tratta solo di noi. Infatti, tutti i paesi occidentali più ricchi e progrediti figurano ai primissimi posti di questa poco invidiabile classifica del disastro (dal peggiore al “meno peggiore”: Belgio, Spagna, USA, Inghilterra, Italia, Svezia, Francia, Olanda, Irlanda, Svizzera, Portogallo), con le sole parziali eccezioni di Germania e Danimarca (118 mpm) e Austria (100 mpm), che sono comunque messe oltre 20 volte peggio dei paesi davvero virtuosi, che sono soprattutto i paesi progrediti dell’Asia e dell’Oceania.

Al 4 maggio 2020, giorno dell’inizio della graduale “riapertura” dell’Italia, il podio era formato da Taiwan (appena 7 morti su 23 milioni di abitanti, 0,3 mpm: in proporzione, in Italia dovremmo averne 18!), Australia (95 morti su 25 milioni, 3,8 mpm) e Nuova Zelanda (20 morti su 5 milioni, 4 mpm), addirittura meglio della “mitica Corea del Sud (5 mpm). A oggi (19 ottobre 2020), Taiwan con i suoi 7 morti assoluti e i suoi 0,3 mpm è sempre “maglia rosa”, seguita da Nuova Zelanda e Singapore con 5 mpm. L’Australia, dopo aver già praticamente azzerato i contagi, a fine giugno si è purtroppo lasciata sfuggire un grosso focolaio a Melbourne che ha causato diverse centinaia di morti, ma l’ha spento nel giro di appena due mesi ed è tuttora tra i migliori paesi al mondo con appena 35 mpm e i contagi di nuovo pressoché azzerati (oggi appena 7 nuovi casi).

Ma benissimo stanno facendo anche Corea del Sud (9 mpm) e Giappone (13 mpm), senza contare la stessa Cina, che, pur avendo colpe gravissime per l’imperdonabile tentativo iniziale di insabbiare l’epidemia che ha contribuito molto a diffondere il contagio in tutto il mondo, quando si è finalmente decisa a mettere ordine in casa propria l’ha fatto molto efficacemente, tanto che oggi può essere considerata un paese praticamente Covid-free, cosa confermata, più che dai dati sul contagio (dei quali, visti i precedenti, è lecito e anzi doveroso diffidare), da quelli (ben più difficili da falsificare) sulla produzione industriale, tornata ormai quasi normale, cosa che non sarebbe ovviamente possibile se la situazione fosse simile alla nostra.

Anche in Europa, però, molti paesi avevano già praticamente debellato il virus tra aprile e giugno, dall’Islanda ai paesi baltici e scandinavi (meno la Svezia), da quelli dell’Est (meno la Romania) a quelli balcanici, fino addirittura alla derelitta Grecia, che, nonostante la catastrofica situazione socioeconomica che tutti ben conosciamo, al 4 maggio contava appena 144 morti, cioè 13,4 mpm, ben 35 volte meno dell’Italia, che allora ne aveva circa 480.

Purtroppo, in estate la sconsiderata riapertura del turismo internazionale, tempestivamente denunciata da Ricolfi (intervista all’Huffington Post del 21 giugno), ha fatto ripartire i contagi un po’ dovunque. A eccezione di Taiwan e Singapore, ciò è accaduto anche in gran parte dei paesi virtuosi, ma ciononostante parecchi di essi (benché non tutti), come Nuova Zelanda, Australia, Corea del Sud, Giappone, Estonia, Lettonia, Norvegia, Finlandia, hanno prontamente ripreso il controllo della situazione, con i contagi già di nuovo in calo o addirittura azzerati.

Orbene, dovrebbe essere chiaro a tutti che se in Italia, che pure dispone di uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, il numero di mpm è ben 120 volte più alto che in Nuova Zelanda o Singapore e addirittura 2000 volte più alto che a Taiwan, mentre è più o meno lo stesso che in America Latina, dove, dato il pessimo stato delle istituzioni e la povertà di gran parte della popolazione, non è stato possibile attuare nessuna efficace politica di contenimento, ciò significa che le misure attuate dal nostro governo hanno sortito più o meno lo stesso effetto del non far nulla. Questo a sua volta suggerisce che il vero e proprio abisso esistente tra noi e i paesi virtuosi (ché di questo si tratta: un abisso, non una semplice differenza di grado; lo ribadisco perché è fondamentale che l’idea ci entri in testa) non si può spiegare solo con una maggiore “serietà” nell’applicare le stesse misure, a sua volta dovuta a ragioni culturali, come mi sembrano ritenere Ricolfi e i suoi collaboratori. La maggiore serietà è indubbia (basta leggere, per esempio, i discorsi della premier neozelandese e confrontarli con quelli dei nostri leader da baraccone – e non intendo solo quelli italiani), ma è altrettanto indubbio che questi paesi hanno proprio fatto cose diverse da quelle che abbiamo fatto noi, come risulta subito evidente anche da un’indagine non particolarmente approfondita.

Tutti i paesi che si sono salvati dalla prima ondata del virus, infatti, senza eccezione alcuna, hanno messo in atto almeno 2 delle 3 misure seguenti, che da noi invece non sono mai state adottate, così come neppure dai principali paesi occidentali:

1) tempestiva e rigida chiusura delle frontiere;

2) tempestivo rilevamento dei contagi e immediato isolamento dei casi sospetti in apposite strutture;

3) attuazione del lockdown in senso proprio.

Sulla chiusura delle frontiere c’è poco da dire: dovrebbe essere ovvio per chiunque, senza bisogno di essere degli esperti, che la prima cosa da fare con un virus aereo è impedire che ci entri in casa e dovunque ciò è stato fatto ha permesso di limitare molto la diffusione iniziale del contagio, rendendo di conseguenza molto più facile e più efficace l’applicazione delle altre misure. Eppure, quando da noi qualcuno ha provato a chiederla, nel migliore dei casi si è sentito dire che non serviva a niente, mentre nel peggiore si è pure preso del “razzista” e a volte perfino del “fascista”. Così tutta la discussione è stata ridotta al surreale dilemma se si dovessero controllare solo i voli diretti dalla Cina o anche quelli indiretti (dopodiché il virus in Italia l’ha portato un cittadino tedesco…).

Con il rilevamento dei contagi passiamo dall’ambito del surreale a quello del puro delirio. Anzitutto, è veramente incomprensibile che si sia deciso di fare i tamponi solo a chi aveva già i sintomi, quando bastava il semplice buon senso per capire che il vero problema è scoprire il prima possibile chi non ha sintomi manifesti, visto che chi ha sintomi simili a quelli del Covid, sia che ce l’abbia davvero, sia che abbia solo l’influenza, sta comunque male e quindi sta a casa a curarsi spontaneamente, anche se non gli si ordina la quarantena: è chi sta bene che va in giro, diffondendo il contagio. Oggi, immersi come siamo in un vortice orwelliano di rimozioni e di riscrittura della realtà, nessuno se lo ricorda, ma fino al 9 marzo in Italia si facevano mediamente appena 4000 tamponi al giorno. Solo per dare un termine di paragone, l’Islanda, che non è certo una grande potenza industriale, ne faceva 3000 alla settimana, cioè un decimo dei nostri, ma con una popolazione che è appena un duecentesimo, il che significa, in proporzione, 20 volte di più: e, guarda caso, ha avuto 20 volte meno morti (10 in tutto, cioè 28 mpm contro 605). Perfino quando il Veneto, grazie al coraggio del governatore Zaia e alla competenza del professor Crisanti (l’unico autentico virologo tra tutti i vari “esperti” scelti dai nostri governanti), ha iniziato a fare tamponi su vasta scala, ottenendo risultati inequivocabili (al 4 maggio 311 mpm contro i 1417 della Lombardia, cioè poco più di un quinto, nonostante una situazione di partenza molto simile), per mesi interi il governo e la OMS hanno continuato a dire che non serviva a niente: e infatti il numero dei tamponi è sì cresciuto, ma in misura ben lontana dalla sufficienza, visto che fino a metà agosto la media è rimasta intorno ai 50.000 al giorno. Solo da un paio di mesi si è cambiato decisamente rotta, senza però ammetterlo esplicitamente e soprattutto senza riconoscere che non averlo fatto prima è stato un tragico errore.

Quanto poi ai metodi di tracciamento, c’è da chiedersi come è possibile che la mitica App Immuni sia stata disponibile solo a giugno, quando sarebbe bastato copiare o comprare quelle che già esistevano, per esempio quella coreana, di cui tanto si è parlato. Se consideriamo che perfino il Perù, che attualmente è il paese messo peggio al mondo, ne aveva una già a fine marzo, la cosa appare davvero imperdonabile (che poi a loro sia servita a poco è un altro discorso, che dipende dallo stato di sostanziale anarchia in cui da tempo versa il paese: però almeno ce l’avevano, tre mesi prima di noi). Ma l’aspetto più grave è stato il non averla resa obbligatoria, in un improvviso quanto irrazionale sussulto di rispetto per la privacy e le libertà individuali, senza curarsi del fatto che queste erano già state ripetutamente violate per ragioni molto meno giustificabili, dato che è evidente che questo sistema funziona solo se viene usato da tutti e solo finché il numero di contagi non è troppo elevato, come l’Australia aveva spiegato già ad aprile. Già, ma chi se ne frega di quello che dice l’Australia, anche se ha avuto appena 904 morti? Pensino ai canguri, ché noi siamo più furbi… Tanto furbi, che non averla resa obbligatoria ci ha impedito di tracciare i contagi nel momento più favorevole, quando erano al minimo storico, e l’ha quindi resa sostanzialmente inutile, giacché è chiaramente impossibile tracciare oltre 10.000 contagi al giorno, come ha ammesso implicitamente anche Silvio Brusaferro in un’intervista televisiva di pochi giorni fa (peraltro senza avere il coraggio di dirlo apertamente, tanto per cambiare). E se anche fosse possibile, tutto sarebbe vanificato dal fatto di non aver ancora individuato delle strutture adeguate dove isolare i potenziali contagiati, che perlopiù devono farsi la quarantena in casa, il che protegge sì gli estranei, ma in compenso fa aumentare esponenzialmente la probabilità di contagiare i propri famigliari.

La cosa più folle e al tempo stesso meno capita di tutte, però, è quella relativa al lockdown. È sicuramente vero, infatti, come ha scritto più volte Ricolfi, che in Italia il lockdown è stato proclamato con un mese di colpevole e imperdonabile ritardo, così come è vero che la decisione di interromperlo il 18 maggio è stata presa senza una chiara motivazione scientifica (sostanzialmente “a spanne”, per usare un’espressione tecnica). Ed è ancora vero, infine, come ho detto anche prima, che la successiva incondizionata “libertà di turismo” concessa questa estate è stata sicuramente una pessima idea, che ha contribuito molto alla ripresa dei contagi. Ma il vero (e ben più radicale) punto della questione è che semplicemente il lockdown in Italia non c’è mai stato, così come non c’è mai stato in nessun paese dell’Europa occidentale.

Il vero lockdown, infatti, significa: stanno aperti solo i supermercati e le farmacie e si esce solo per fare la spesa, punto e basta.

Ovunque ciò è stato fatto, dalla Cina alla Nuova Zelanda, dalla Lituania alla Grecia, solo per fare qualche esempio, il contagio è stato praticamente azzerato nel giro di un mese, indipendentemente da ogni altro fattore, climatico, economico, sociale o di qualsivoglia altra natura (come è logico che sia, dato che il tempo massimo di incubazione del virus è di circa due settimane), dopodiché si è tornati rapidamente a una vita sostanzialmente normale, con danni molto minori anche per l’economia. In Italia, invece, nel momento di teorica “chiusura totale”, secondo una stima del quotidiano La Stampa lavoravano (e di conseguenza circolavano) legalmente ben 9,4 milioni di persone e funzionavano ancora servizi “essenziali” come le tabaccherie e i giardinieri (!). Eppure, il governo, vedendo che i contagi non ne volevano sapere di calare, se la prendeva (con la scandalosa complicità dei mass media) sempre e solo con quelle poche migliaia di persone che non rispettavano le regole (il cui comportamento, per quanto censurabile, aveva un’incidenza pratica pressoché nulla) anziché con le regole palesemente sbagliate e inefficaci che aveva imposto.

Era del tutto ovvio, infatti, che fare le cose a metà avrebbe ottenuto l’unico risultato di devastare l’economia senza eliminare il virus, come è purtroppo puntualmente accaduto. Altrettanto ovvio, tanto che l’avevo previsto nel video che avevo postato l’8 marzo sulla mia pagina Facebook (www.facebook.com/PaoloMussoAutore), era anche che proprio questa sarebbe stata, purtroppo, la sciagurata scelta del nostro governo, dato che quello di decidere senza decidere è un inveterato vizio italico. Meno ovvio, invece, era che questa volta anche gli altri governi occidentali, che normalmente ci criticano proprio per la nostra cronica incapacità di decidere, ci sarebbero venuti dietro, trasformandoci così nei classici “ciechi che guidano altri ciechi” di evangelica memoria: infatti, come è sotto gli occhi di tutti, lo pseudo-lockdown all’italiana è catastroficamente fallito ovunque sia stato applicato e non è quindi ragionevole sperare che possa ottenere effetti migliori in futuro.

Tra l’altro, non dobbiamo dimenticare che nella prima fase, dal 9 al 21 marzo, i contagi sono costantemente saliti fino al picco di 6557, poi, dopo essere scesi di circa il 30% in pochi giorni, sono rimasti a oscillare tra i 3 e i 4 mila al giorno per quasi un mese, dal 30 marzo al 24 aprile, con appena una lieve tendenza globale verso la discesa. Dopodiché, quasi improvvisamente e senza che venisse preso alcun nuovo provvedimento, è iniziato un brusco calo che nel giro di 3 settimane ha portato ai 451 casi del 18 maggio, giorno della riapertura completa, valore già molto vicino a quello che sarebbe stato il valore medio da allora fino a fine agosto, quando la curva ha ricominciato a salire. È quindi lecito ipotizzare (e forse anche qualcosa più che ipotizzare) che ciò sia stato dovuto principalmente all’arrivo del caldo, anche perché non solo da noi, ma un po’ in tutta Europa il crollo dei contagi si è verificato verso fine aprile e la ripresa verso fine agosto.

Considerando che ora, grazie al maggior numero di tamponi, stiamo scoprendo un maggior numero di contagi, all’incirca decuplo rispetto all’inizio dell’epidemia, perlopiù asintomatici, la situazione attuale sembra corrispondere più o meno a quella di inizio marzo. E visto che anche le misure preventive attualmente in vigore sono più o meno le stesse che hanno già fallito allora e che stanno fallendo di nuovo in tutta Europa, ciò significa che entro 2-3 settimane rischiamo di ritrovarci di nuovo con 3000 casi conclamati al giorno, cioè nella stessa situazione di metà marzo, anche se forse con un po’ meno morti, visto che almeno le cure sono davvero migliorate.

Così stando le cose, dobbiamo avere il coraggio e l’umiltà di ammettere che l’unico modo di uscirne è rottamare completamente l’immaginario “modello Italia”, che ha completamente fallito, e cominciare a imitare chi ha davvero risolto il problema, seguendo le 3 strategie di cui sopra, anche se in ordine inverso.

La prima cosa da fare, infatti, è diminuire drasticamente il numero dei contagi, perché in questa situazione il tracciamento dei contagi non servirebbe a nulla, come già spiegato, né servirebbe, per ovvie ragioni, la chiusura delle frontiere. E l’unica cosa che può ottenere questo effetto è un vero lockdown: dobbiamo chiudere tutto, ma davvero tutto, per un mese e dobbiamo farlo contemporaneamente in tutta Europa. Prima lo facciamo, prima torneremo alla normalità e meno ci costerà.

Una volta azzerato il contagio interno, bisognerà poi imporre la quarantena obbligatoria a chiunque entri in Europa, da qualunque paese provenga, in modo da impedire che il virus cacciato dalla porta rientri dalla finestra. Infine, bisognerà istituire un sistema di tracciamento efficiente e soprattutto obbligatorio, per bloccare sul nascere i focolai accesi dai contagiati che, sia pure in numero molto ridotto, inevitabilmente sfuggiranno alle maglie del lockdown e ai controlli alle frontiere (perché il sistema di controllo perfetto non esiste).

Se lo faremo, questo funzionerà: non si tratta di una previsione teorica, ma di un dato di fatto, perché ha già funzionato nei paesi di cui sopra, e non è neanche tanto complicato da attuare, sicuramente molto meno dello pseudo-lockdown che abbiamo sperimentato, con la sua pletora di regole confuse, contraddittorie e spesso inapplicabili. E, una volta rifatto ordine in casa nostra, potremo poi anche cercare di dare una mano a quei paesi in cui, per la loro situazione sociale, misure così drastiche sono impossibili e che pertanto dovranno convivere con il virus fino alla creazione di un vaccino. Ma per riuscirci occorrono due condizioni: che l’Europa dimostri finalmente di esistere e che i suoi leader dimostrino finalmente di saper guardare in faccia la realtà e di saper parlare in modo credibile ai loro popoli.

Purtroppo, difficilmente esse si realizzeranno. Ma dobbiamo provarci lo stesso, perché, se così non sarà, possiamo prepararci fin d’ora a piangere altri 35.000 morti.




Il mondo fino a ieri

Uno dei libri che più mi hanno fatto riflettere, negli ultimi anni, è “Il mondo fino a ieri”, del grande antropologo Jared Diamond (a suo tempo reso famoso dal capolavoro “Armi, acciaio e malattie”). In quel libro, uscito nel 2013, Diamond sostiene e documenta una tesi suggestiva: le società moderne sono, in moltissimi campi e aspetti, superiori a quelle tradizionali, ma vi sono alcuni ambiti assai importanti nei quali una società tradizionale è superiore a una società moderna.

La tesi di Diamond, che ho solo riassunto per lasciare a chi non l’avesse ancora letto il piacere di avventurarsi in questo bellissimo libro, mi è tornata alla mente in questi giorni, sotto forma di dubbio. Il dubbio è questo: siamo sicuri che, di fronte alla pandemia che sta travolgendo le nostre modernissime (e ricchissime) società, non ci siano aspetti delle società tradizionali che ci avrebbero fatto comodo?

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Se scoppia un’epidemia, è sicuramente meglio essere cittadini di una società moderna, in cui esiste un servizio sanitario nazionale, piuttosto che trovarsi in una società arretrata, in cui le condizioni igieniche sono disastrose, l’acqua corrente non c’è o non è potabile, gli ospedali e il personale medico scarseggiano.

Il punto però non è questo. Il mio dubbio è un altro: siamo sicuri che, culturalmente, una società tradizionale non sia più attrezzata, molto più attrezzata, di una società moderna ad affrontare una pandemia?

Provo a spiegare perché. Oggi ci troviamo di fronte a una drammatica ripresa dei contagi. Questa ripresa non era affatto inattesa, ma era stata ampiamente prevista dagli osservatori indipendenti. Probabilmente era stata prevista anche dalle autorità sanitarie e governative. Perché non si è fatto quasi nulla per evitare di arrivare al punto cui siamo oggi?

Una risposta possibile è che, in Italia come in diversi stati europei, siamo governati da una burocrazia politico-sanitaria inetta e poco coraggiosa. Ma c’è anche un’altra risposta possibile, che certo non assolve i governanti, ma li colloca nel loro contesto. Ebbene, questa risposta alternativa è, semplicemente, che la nostra non è una società tradizionale. La nostra è una società moderna, che della società moderna possiede perciò il tratto culturale fondamentale: la divinizzazione dell’individuo e dei suoi diritti, a scapito di ogni autorità e gerarchia, sia essa quella dei genitori, degli insegnanti, o più in generale delle altre istituzioni che rappresentano (o dovrebbero rappresentare) il bene comune.

Da questo tratto fondamentale delle nostre società, che le distingue in modo radicale dalle società tradizionali, deriva una conseguenza cui forse abbiamo prestato troppo poca attenzione, in questi mesi di lotta contro il virus. In una società in cui la libertà individuale assurge a totem indiscutibile è impossibile chiedere agli individui di rinunciare a porzioni significative delle loro libertà. O meglio, è possibile chiederlo, ma una volta sola, e a condizione che vi sia un risarcimento.

E’ di questo che i nostri governanti, ma non solo loro, hanno preso atto quando hanno rinunciato a chiederci di accettare un’estate in tono minore, senza discoteche, senza divertimento di massa, senza viaggi all’estero o nelle cattedrali della movida. Ma è questo, anche, ciò che ha impedito ai giovani e ai meno giovani di recepire i messaggi che, in modo un po’ criptico, il Presidente della Repubblica ha ripetutamente provato a trasmetterci denunciando “il virus dell’egoismo dei singoli”, o ammonendoci a “non confondere la libertà con il diritto di infettare altri”.

La realtà è che il rispetto dell’autorità e la capacità di affrontare rinunce sono tratti normali, se non costitutivi, delle società tradizionali, ma sono merce rarissima nelle società moderne. In una società tradizionale è semplicemente inconcepibile che i giovani (e i meno giovani) non si preoccupino di mettere a repentaglio la vita degli altri, compresi genitori, nonni e parenti. Ma in una società moderna, in cui la civiltà del lavoro è sempre più soppiantata dal consumo di tempo libero, questo diventa perfettamente possibile, come abbiamo potuto constatare quest’estate, e come continuiamo a constatare in questi giorni nelle scuole e sui mezzi pubblici, dove la gente si divide nei due grandi partiti dell’Italia di oggi, il partito di quelli che hanno paura e quello di chi prova ad infischiarsene del virus.

Né credo sia un caso che, nel dibattito pubblico, le voci che hanno detto in modo forte e chiaro che avremmo dovuto accettare delle rinunce, o che i giovani avrebbero fatto meglio a passare l’estate studiando quel che non avevano studiato durante il lockdown, si siano contate sulle dita di una mano. Personalmente, ricordo nitidamente solo quella di Federico Rampini, in un appassionato intervento in tv, quella di Antonio Scurati, in un lucido articolo sul Corriere della Sera, e ultimamente quella di Massimo Giannini, dolorosamente colpito dall’esperienza del Covid.

Ma tutti gli altri? Non solo ai politici, ma anche alla maggior parte dei genitori, insegnanti, educatori in genere, non è passato neppure per l’anticamera del cervello di richiedere qualche sacrificio in nome del bene comune, come se vacanze e divertimento più o meno massificato fossero diritti fondamentali, inalienabili e improcrastinabili.

Ecco, per una volta mi sembra giusto fornire un’attenuante a chi ha così mal governato l’epidemia, portandoci al disastro in corso. Se le cose sono andate così è certamente perché la politica pensa solo al consenso immediato, e uomini e donne di Stato, capaci di guardare al futuro di una nazione, non ci sono più da un pezzo. Ma forse dovremmo anche riconoscere che una parte del problema sta in noi stessi, nel nostro esserci allontanati troppo dalla grammatica di una società tradizionale.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 ottobre 2020