Il ritorno della talpa: il diritto di ricevere risposte

Essendo di nuovo rinchiusa, passo molto tempo davanti alla tivù. Voglio sapere, essere informata, ascoltare opinioni. La sera, al buio della mia galleria, mi metto in poltrona e guardo: telegiornali, inchieste speciali, talkshow. Giro per canali e ne pesco uno qua uno là, non importa dove sia e chi parli. Sono avida di gente che parla. Mi aspetto ogni volta che qualcuno m’illumini, che mi dica la verità. Sono affetta da masochismo e vacue speranze, destinata quindi a perenni delusioni e frustrazioni, lo so.

Ma c’è una cosa che sommamente m’indigna: che nessun politico mai risponda alla domanda!

Ho analizzato molto la questione, è da non credere. Il giornalista chiede una cosa specifica (ad esempio: “Perché non avete fatto più tamponi quando i contagi erano bassi ed era utile farli per contenere l’epidemia?”) e il politico, senza la minima difficoltà o vergogna, parla d’altro. Riempie il vuoto con parole non importa quali e, cosa ancor peggiore, secondo uno schema retorico fisso e orribilmente ripetitivo:

1) Intanto mi lasci dire che…

2) Abbiamo passato l’estate a lavorare…

3) Anche gli altri Paesi però…

4) Stiamo facendo molti sforzi per…

Scusate, ma fare sforzi assicura di per sé dei risultati? Non so, sarà che nella vita precedente ho fatto l’insegnante, ma mi viene in mente il solito allievo impreparato, che fa scena muta all’interrogazione e quando l’insegnante gli dà 4 dice: Ma io ho studiato!

La cosa grave è che l’intervistatore tace, non reagisce, non incalza il politico, non gli fa notare che non ha risposto e non pretende che risponda. Nulla. Silenzio. Si passa ad altro. Ad altre domande che innescheranno altre non-risposte. Mistero! Perché il giornalista tollera che il politico non risponda? Qual è il suo lavoro? Per chi lavora?

Nel mondo delle talpe è tutto molto più nitido. Forse siamo delle sempliciotte, ma quel che pensiamo è questo: se ti faccio una domanda, tu per piacere rispondi a quella domanda, non è che te ne puoi partire in tutt’altro discorso. Oppure se non vuoi rispondere lo dici, dici: Mi dispiace, mi scusi, a questo non rispondo, passiamo a un’altra domanda. Onestà. E chiarezza. Non trovate che ci vorrebbero?

Lo dico in un altro modo, con un esempio. Ci troviamo sulla panchina, io e la talpa Cristina mia vicina di casa, chiacchieriamo prendendo un po’ d’aria e godendoci la campagna, e a un certo punto io le chiedo:

Senti, Cristina, tuo figlio ha poi trovato lavoro?

E Cristina mi risponde:

Ma guarda, le patate al forno le puoi fare in vari modi, io le faccio col rosmarino.

Vi par possibile? No, che non vi par possibile. Eppure è quel che succede ogni giorno, più volte al giorno, in ogni rete tivù, a ogni programma, con qualsiasi conduttrice o conduttore, con qualsiasi politico, ministro, sottosegretario o tirapiedi: l’uno pone una domanda precisa e l’altro risponde a tutt’altro. Cioè, non risponde.

E qui, di nuovo, il mio vecchio mestiere mi sovviene: se io durante un’interrogazione chiedevo cos’ha scritto Petrarca, e l’allievo mi rispondeva che Cagliari è una ridente città della Sardegna, io non solo lo mandavo a posto con 2, ma chiamavo anche l’ambulanza, molto preoccupata per la sua salute mentale.

Ora, perché non diamo 2 ai politici? Perché non chiamiamo l’ambulanza?

Perché tolleriamo che non rispondano?

Mi piacerebbe che la smettessimo di tollerare. Che non gliela lasciassimo passar liscia. Mi piacerebbe che, se tu politico non rispondi, io giornalista lo rimarcassi con grande energia: Non hai risposto, Non hai risposto, Non hai risposto! Un po’ à la Sgarbi (può non piacere, ma funziona): Capra! Capra! Capra! E se continui a non rispondere, io chiudo il collegamento dicendo che tu, politico tal dei tali, non hai risposto alle domande. Sancisco la tua non-risposta, ti inchiodo a quel che sei.

Mi piacerebbe che i politici avessero paura di andare in tivù, non che ci andassero allegramente ogni giorno come a un picnic tra amici. Non so se l’avete notato, ma non esiste, qui in Italia, alcun programma tivù in cui i politici temano di andare: non è la prova che il conduttore non sta facendo il suo dovere?

Credo che abbiamo, noi cittadini, il diritto di ricevere risposte. Oggi più che mai, visto il disastro in cui siamo precipitati, credo sia un diritto sacrosanto.

Ebbene, questo diritto io lo vedo continuamente violato, calpestato.

Non capisco perché permettiamo questo, non capisco perché si facciano tante interviste e tanti talkshow se poi si accetta di non avere risposte e si sopportano queste continue elusioni e fughe. È, anche, un’offesa all’intelligenza dei telespettatori, cioè di noi cittadini. Va bene, l’epidemia ci ha resi confusi e inermi, tristi e a tratti disperati. Ma non ci ha ancora instupiditi.

Non capisco che gioco perverso sia, a chi giovi, e chi abbia paura di chi.

Dobbiamo smettere di giocare. E anche di aver paura. Siamo gente libera o no?

Okay, sono risbucata dalla galleria. Siamo di nuovo rinchiusi, quindi le talpe ritornano, e a tratti risbucano.

Non è come l’altra volta, però: adesso dipende da dove abiti. In certi posti sei chiuso, in altri meno, in altri ancora quasi per niente. Questo rende tutto meno semplice, e anche meno chiaro. A marzo c’era una chiarezza adamantina che ci rendeva un pochino più sereni: eravamo tutti chiusi uguale. Ora ce lo chiediamo ogni giorno, se e quanto siamo chiusi, o aperti ma poco, o semichiusi, o chiusi con vista mare, o aperti senza via d’uscita…

Comunque siamo tornati talpe, chi più chi meno. E adesso abbiamo capito che forse la talpitudine non ci abbandonerà mai del tutto, d’ora in poi: sarà uno stato intermittente. Come le lucine di Natale. Avremo una pelliccia marroniccia da indossare in certi periodi, e in certi altri rimettere nell’armadio, con le tasche piene di naftalina. Il mondo è cambiato. Prima, nell’armadio, avevamo solo cappottini di lana o morbidi piumini di penne d’anatra. Ora quella pellicciotta da talpa esiste, e ci squadra con aria minacciosa: Ricordati che sei talpa, e (ogni tanto) talpa ritornerai.

Ogni tanto però usciamo a parlarci, tra talpe. Almeno questo. Parliamoci! Le parole non mi sono mai parse così teneramente inutili… Mi fa tenerezza, la loro abbagliante inutilità. Ma sono convinta che ora meno che mai si debba tacere. Inutili di tutto il mondo, unitevi e parlatevi!

La parola è quel che ci resta, l’unica libertà che nessuno ci può togliere. Meglio se scritta. Scripta manent ancora, tutto sommato: i libri per esempio resisteranno sempre e oggi più che mai devono far sentire la loro voce.

Usiamola dunque, questa parola! Con lealtà, e parsimonia… Ad esempio per esigere risposte.

Pubblicato su La Stampa del 15 novembre 2020




Il Covid e la dialettica della paura

Credo che sull’obiettivo di tutelare l’economia, o meglio limitare i danni che l’epidemia determinerà sul sistema economico, siano tutti d’accordo. Come credo che, in materia di riaperture, le differenze fra le forze politiche siano semplici sfumature: un po’ più attenta ad artigiani e commercianti la destra, un po’ più attenta a scuola, università e cultura la sinistra.

Altrettanto tenui mi paiono le differenze sulla linea da tenere quest’estate. Destra e sinistra, governo e opposizione, non hanno mai messo seriamente in dubbio il racconto che dipingeva l’Italia come un paese in cui l’epidemia si stava attenuando, e in cui dunque ci si poteva preparare a “convivere con il virus”. Un vero “partito della prudenza” non è mai esistito, tutt’al più qua e là abbiamo visto all’opera due opposte frange dell’imprudenza: l’opposizione leghista ha colpevolmente minimizzato i rischi derivanti da movida e discoteche, una parte dell’esecutivo ha colpevolmente minimizzato i rischi sanitari connessi agli sbarchi e alla loro gestione.

La credenza dominante, nella nostra più o meno folle estate, è stata che salute ed economia fossero in conflitto fra loro e che, finalmente, fosse venuto il momento dell’economia. Questa credenza era alimentata da noi stessi, che ci sentivamo in diritto di riprenderci la vita dopo i sacrifici di marzo e aprile, ma era rafforzata e amplificata dalle scelte delle autorità, nonché da una campagna di comunicazione volta a rassicurarci. Le autorità hanno passato l’estate ad attenuare le regole di prudenza, opponendo una resistenza sempre più tenue agli assembramenti sui mezzi pubblici e nei luoghi di vacanza. Quanto ai media, abbiamo assistito a una escalation di rassicurazioni: forse il virus è diventato meno cattivo, la carica virale è in diminuzione, il virus è clinicamente morto, contagiato non vuole dire malato, quasi tutti i contagiati sono asintomatici, la letalità del virus è molto diminuita, i morti giornalieri sono pochissimi. Per finire con la rassicurazione delle rassicurazioni: siamo diventati molto più bravi a curarvi, questa volta siamo preparati, non ci sarà una seconda ondata, e se ci sarà non ci prenderà di sorpresa.

Ora che questo racconto, riproposto con mille sfumature da quasi tutti, si è rivelato fallace, è forse il caso di chiedersi perché. Come mai solo un esiguo manipolo di medici, virologi, studiosi, scrittori, operatori dell’informazione, si è opposto al racconto dominante?

La ragione più importante, a mio parere, è che non si è ancora messo a fuoco il ruolo della paura nel governo di un’epidemia. La paura è il più grande nemico dell’economia, perché la paura riduce la mobilità, il consumo e l’investimento, indipendentemente dal fatto che le autorità chiudano o lascino aperte le attività. Dunque, se vuoi salvare l’economia, devi fare in modo che la gente non abbia paura, o ne abbia in quantità così modesta da non impedirle di svolgere una vita (quasi) normale. Soprattutto, devi fare in modo che l’assenza di paura perduri nel tempo, così consentendo all’economia di girare non solo oggi ma anche domani. Il compito fondamentale della politica, durante un’epidemia, non è semplicemente di ricostituire condizioni di tranquillità, ma di farle durare nel tempo.

Ed è qui che arriva il problema. Come si fa a rendere duraturo il sentimento di non-paura faticosamente raggiunto?

Su questo vi è stata, finora, una risposta dominante, che – in varianti differenti – si è presentata nei discorsi dei politici, nelle ospitate tv dei virologi, nelle più o meno sofisticate analisi dei commentatori. Il nucleo logico di tale risposta è stata la rassicurazione. Si è creduto che una campagna di comunicazione positiva avrebbe tranquillizzato le persone, e così ridato fiato all’economia.

Non si è preso in considerazione un dettaglio: la rassicurazione funziona solo se non è smentita platealmente dai fatti. E in effetti aveva funzionato: fino a poche settimane fa, ogni sera ci dicevano che la curva saliva, ma lentamente; che Rt era bruttino, ma non tremendo; che la situazione era attentamente monitorata; che i ricoveri in terapia intensiva aumentavano, ma non troppo; e che comunque non era come a marzo, perché avevamo imparato. E la gente era comprensibilmente felice di credere a questo racconto.

Poi d’improvviso, nel giro di un paio di settimane, tutto è cambiato. O meglio, tutti hanno cominciato a vedere ciò che solo un’ostinata minoranza aveva fatto notare nei mesi scorsi, ossia l’inesorabile riaccendersi dell’epidemia. A quel punto, con la paura tornata prepotentemente nel cuore di molti, anche l’alternativa aprire/chiudere è diventata secondaria, perché se la gente ha paura l’economia non riparte, qualsiasi cosa decidano i politici su orari, restrizioni, coprifuoco, lockdown.

Dove si è sbagliato?

E’ abbastanza semplice. Quel che non si è voluto comprendere è che, per tenere il sentimento di paura sotto la soglia di guardia – quella che mette a repentaglio il funzionamento dell’economia – la via maestra non sono le campagne di ottimismo, le esortazioni a pensare positivo, le prediche sulla necessità di convivere con il virus. No, per non avere paura noi abbiamo bisogno di due cose soltanto: sapere che il numero di contagiati è così basso da rendere trascurabile il rischio di incontrarne uno, e sapere che – se ci ammaliamo – non saremo abbandonati all’incubo kafkiano della burocrazia sanitaria, perché ci sarà un medico che ci verrà a visitare, ci farà un tampone, ci prescriverà le cure necessarie, e solo in caso di peggioramento ci farà ricoverare in ospedale.

Se fossero state realizzate, queste due condizioni – pochi contagi e medicina di base funzionate – oggi ci garantirebbero quello stato di non-paura che è la base di ogni ripartenza dell’economia. Ma era possibile realizzarle?

Per quanto riguarda la medicina di base, certo che sì. Per dare ai cittadini la garanzia di essere visitati e curati bastava attuare nel semestre maggio-ottobre quella riorganizzazione della medicina territoriale che, tra mille difficoltà, alcune Regioni stanno tentando di attuare ora. E ora non assisteremmo agli assalti ai pronto soccorso, spesso dovuti semplicemente al fatto che nessuno ti viene a curare a casa.

Per quanto riguarda la riduzione del numero dei casi, invece, le cose sono più complesse. Ci sono cose che si potevano benissimo fare, ad esempio attuare il piano Crisanti sui tamponi, organizzare meglio il tracciamento dei casi, rafforzare il trasporto pubblico (per un elenco più ampio vedi pagina x). Ma ci sono altre cose che sì, si potevano fare, ma ad un prezzo alto in termini di consenso: tenere le discoteche chiuse tutta l’estate, rendere obbligatori i tamponi per chi va o viene dall’estero, spegnere con misure circoscritte ma drastiche le migliaia di focolai via via individuati, sanzionare seriamente le innumerevoli, plateali e sistematiche violazioni delle regole (peraltro quasi sempre dovute al pubblico, non agli esercenti).

Se le avessimo fatte, quelle cose, gli esponenti del governo avrebbero perso qualche punto nei sondaggi, l’economia avrebbe perso qualche opportunità, ma ora il numero dei contagi sarebbe basso, la gente non avrebbe una maledetta paura di infettarsi, e l’economia non sarebbe costretta a una nuova fermata, che sicuramente sarà lunga, dolorosa, e più costosa di una modesta frenata in estate.

Perché è la paura la variabile chiave che governa l’epidemia. E la paura non si vince persuadendo la gente che sbaglia ad averne, ma togliendo le condizioni che la rendono più che giustificata. E’ questo che ora va fatto, se vogliamo che, spenta la seconda ondata, a primavera non ci troviamo alle prese con la terza.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 novembre 2020




Come si fa a combattere la paura? Intervista a Luca Ricolfi

Intervistato dalla Verità, Vittorio Sgarbi dice che si sarebbe dovuta condurre una campagna di comunicazione “positiva” contro il virus. È d’accordo?
In parte sì, e in parte no. Dove sono pienamente d’accordo è quando dice “il governo doveva contenere la malattia, non drammatizzarla”. Perché se il governo, pluri-avvertito e pluri-consigliato dagli studiosi negli ultimi 6 mesi, avesse fatto il suo dovere sui 10 punti della nostra petizione, la malattia sarebbe stata contenuta, non avremmo avuto la seconda ondata, e oggi non ci sarebbe paura. E, in assenza di paura, l’economia girerebbe a regime quasi pieno, compresi musei, scuole ed eventi culturali.
Il mio dissenso con Sgarbi è tecnico, non ideologico. Secondo me la paura non si combatte dando credito agli esperti più tendenziosi e riduzionisti, tipo Zangrillo e Bassetti, ma eliminando alla radice le due paure fondamentali, che sono quella di infettarsi e, ancor più, quella di essere completamente abbandonati al mostro kafkiano della burocrazia sanitaria digitalizzata in caso di infezione. Se sapessimo che il rischio di infezione è molto basso, e che in caso di infezione ai primi sintomi qualcuno verrebbe a casa a visitarci e curarci, avremmo pochissima paura, vivremmo quasi normalmente, e non intaseremmo i pronto soccorso.

Perché il governo sente la necessità di terrorizzare gli italiani?
E’ ovvio: perché l’unica cosa in cui sono maestri è rinchiuderci, e pensano che solo se siamo terrorizzati a dovere obbediremo.

La Fondazione Hume e Lettera 150 hanno sottoposto al governo 10 cose da fare e che il governo non ha fatto. A quali si sarebbe dovuto dare la precedenza?
Intanto vorrei sottolineare la natura bipartisan della petizione, arrivata a 13 mila firme, che sta raccogliendo consensi da persone di tutti gli orientamenti politici.
A mio parere le cose non fatte più importanti sono due. Primo, l’attivazione dei medici di base con dispositivi di protezione, strumenti per effettuare i tamponi, e soprattutto un protocollo di intervento al primo apparire dei sintomi. Secondo, attuazione del piano Crisanti per portare il numero di tamponi per abitante a livelli europei (almeno 3 volte i livelli degli ultimi mesi).

Il governo è ancora in tempo per realizzarle ancora?
No, ormai la situazione è sfuggita di mano. Si può solo sperare che, nonostante sia troppo tardi, faccia ugualmente quel che andava fatto nei mesi estivi. Perché ormai il problema non è evitare la seconda ondata, ma porre le condizioni per evitare la terza, inevitabilmente seguita dall’ennesimo lockdown: una vera catastrofe per l’economia.

Se il governo avesse agito per tempo, oggi in quali condizioni ci troveremmo?
Saremmo tranquillissimi perché i nuovi casi giornalieri sarebbero poche centinaia, nessuno sarebbe terrorizzato, e la gente saprebbe che in caso di infezione non sarà abbandonata.

Nessuno vieta di guidare l’auto per evitare incidenti: come si può applicare questo principio alla lotta contro il virus?
E’ semplice: portando il numero di contagiati e il numero di morti da Covid-19 a livelli paragonabili (o inferiori) a quelli degli incidenti automobilistici. E’ perfettamente possibile e, come Fondazione Hume, abbiamo anche delle ipotesi sui valori soglia da adottare.

Il vostro approccio è stato applicato in qualche Paese del mondo? E là come vanno le cose?
Non esiste un approccio della Fondazione Hume, ma esistono tesi che quasi tutti gli esperti indipendenti sostengono, e che in alcuni paesi sono state prese sul serio.

Ad esempio?
Ad esempio l’importanza di tenere il numero dei casi giornalieri abbastanza basso da consentire il tracciamento (cavallo di battaglia del prof. Andrea Crisanti): una strategia che presuppone un numero di tamponi per abitante triplo rispetto a quello italiano, e un sistema di tracciamento tempestivo e non fallimentare come quello di IMMUNI.
Fra i 30 paesi di tradizione occidentale sono circa la metà quelli che hanno applicato strategie sensate, e ora non sono investiti da una seconda ondata paragonabile alla prima. In Europa: Germania, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Irlanda ma in parte anche Grecia e Svezia. Fuori dell’Europa: Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Taiwan. La più grossa bugia dei maggiori governi europei è stata di presentare l’epidemia come una catastrofe inevitabile e ingovernabile, anziché come un evento che poteva essere fronteggiato.

Lei insegna analisi dei dati. Che cosa pensa della divisione dell’Italia in zone colorate in base a dati e parametri sconosciuti?
Intanto dico che la sbandierata trasparenza non sussiste, perché i dati sulla cui base si decide sono pubblici, ma l’algoritmo che li trasforma in zone non è pubblico (se lo è, ci dicano dove trovarlo!). E’ come se uno dicesse: decido se uscire di casa oppure no in base a umidità e temperatura, ma non vi dico come combino queste due informazioni per prendere la decisione.
Anche su questo punto, comunque, la penso come Sgarbi, che parla di misure diverse all’interno delle singole regioni. La zonizzazione per regioni o macro-zone poteva avere un senso nel primo lockdown, quando la propose inascoltato il Comitato Tecnico Scientifico sulla base dell’ovvia considerazione che la situazione del Sud era completamente diversa da quella del resto d’Italia. Ora, ammesso che si abbiano gli strumenti per differenziare (cosa non chiara, perché i dati comunali sono secretati), forse avrebbe più senso imporre misure diversificate all’interno di ogni regione, su base comunale.
Ma la dura realtà è che è troppo tardi: quel che era razionale e fattibilissimo ancora 1-2 mesi fa, ora è maledettamente difficile perché il governo ha fatto pochissimo quando era ancora in tempo, e si è ostinato a non riconoscere il rapido deterioramento della situazione quando – all’inizio di ottobre –  la seconda ondata in arrivo era chiaramente visibile all’orizzonte.
E’ la nostra disgrazia: i nostri governanti non sono semplicemente incapaci, purtroppo sono anche un po’ struzzi. E’ ingenuo credere che loro sappiano la verità ma non ce la dicano: la realtà è che la nascondono anche a sé stessi. Se così non fosse, il ministro Speranza si sarebbe ben guardato dal pubblicare un libro auto-elogiativo, che ha poi dovuto precipitosamente ritirare. Evidentemente, non aveva capito la situazione.
Pensi in che mani siamo…

Intervista rilasciata l’11 novembre a “La Verità”




Non ci resta che Draghi. Intervista a Luca Ricolfi

Lei ha preso l’iniziativa di lanciare un Manifesto di idee per affrontare la crisi. Quali gli errori principali del governo?
Nella nostra petizione (promossa dalla Fondazione Hume e da Lettera 150), di errori – ma sarebbe meglio chiamarli “omissioni catastrofiche” – ne indichiamo ben 10. A mio parere le omissioni più gravide di conseguenze sono tre: non avere messo i medici di base in condizione di visitare i malati Covid e di curare i paucisintomatici (è per questo che ora gli ospedali scoppiano); aver ignorato tutte le richieste di portare il numero di tamponi per abitante a livelli europei, e cestinato il piano del prof. Crisanti per arrivare a 3-400 mila al giorno; avere respinto le proposte del Comitato Tecnico-Scientifico sui mezzi pubblici (capienza al 50%).

Quali le soluzioni? 
Le soluzioni semplicemente non esistono, perché l’infarto subito dall’Italia è irrecuperabile. Tutto quel che si può fare è provare a limitare i danni, ma questo richiederebbe una completa inversione di rotta, e quindi un’altra linea di comando.

Come sta andando la raccolta delle firme alla petizione?
Sorprendentemente bene. Pare che il tam-tam sta funzionando in modo eccellente: hanno aderito già più di 10 mila persone. A me ha fatto particolarmente piacere la firma di Carlo Calenda, che è uno dei pochissimi politici italiani con capacità gestionali.

Perché questa attenzione alle capacità gestionali?
Perché è questa la cosa che più è mancata in questi tragici 9 mesi: siamo governati da una casta di goffi affabulatori, privi di qualsiasi concretezza, e sostanzialmente ignari di come funziona la macchina della Pubblica Amministrazione. Alla mentalità giuridica sfugge il punto cruciale: un provvedimento è come una epistola, non basta imbucarla se poi il postino non la consegna.

Un governo che lei giudica inadeguato, poco attento ai dati?
Più che poco attento a dati, del tutto incapace di leggerli. Non ci vuole una mente superiore per capire i meccanismi di un’epidemia, ma un po’ di umiltà e di formazione scientifica è sicuramente necessaria, perché le leggi fondamentali di un’epidemia sono contro-intuitive. Se usi il senso comune, vai a sbattere.

Mi fa un esempio?
Quando l’epidemia rialza la testa, cosa di cui 3 settimane fa si sono accorti persino i politici, l’idea di stare a vedere come evolve la curva epidemica, prima di passare a un lockdown severo, pare a tutti di buon senso. In realtà è catastrofica per l’economia (oltreché per la salute), perché ogni settimana perduta comporta un allungamento della durata del futuro lockdown, che prima o poi si finirà per adottare. E’ un’ovvietà per matematici, fisici, ingegneri, statistici, ma i politici non riescono né a comprenderla né ad accettarla, perché il loro orizzonte è la settimana, e la loro bussola è il consenso a breve.
La cosa incredibile è che l’errore di ritardare il lockdown, già compiuto fra febbraio e marzo (quando Sala, Zingaretti e pure Salvini si battevano per la riapertura), è stato ripetuto tale e quale in queste settimane.
A ben pensarci è drammatico, ma non illogico. Conte ha sempre dichiarato “rifarei tutto”, ed è stato di parola: oggi ripete l’errore di ieri. Tale e quale.
Peccato che il risultato netto sarà: migliaia di morti in più, decine di miliardi di Pil in meno.

Lei accusa chi governa di [dare] scarso peso ai tecnici del Cts, troppo spesso inascoltato?
In realtà io penso che il Cts abbia due limiti per così dire costitutivi: i suoi membri sono manager e burocrati dell’establishment sanitario, non certo i migliori scienziati presenti nel campo della ricerca; non è un organismo indipendente, ma è una sorta di circolo di consiglieri del Principe, naturalmente inclini ad assecondare il Principe stesso.
Nonostante questi limiti strutturali, il Cts su alcune materie e su alcune decisioni ha avuto il coraggio di formulare proposte molto giuste: ad esempio, chiudere tempestivamente Nembro e Alzano, o dimezzare la capacità di carico dei mezzi pubblici. Il problema è che, arrivati al dunque, i suoi membri hanno assecondato e legittimato le scelte del Governo, con le drammatiche conseguenze che poi si sono viste: l’altezza della prima ondata, ma soprattutto della seconda, è dipesa anche dalla sordità del governo alle raccomandazioni del Comitato Tecnico-Scientifico.

Tra i vulnus più gravi, la commistione tra mondo sanitario e politica?
Sì, quella commistione non aiuta. Ma secondo me c’è anche tantissima incompetenza, superficialità e imprudenza in entrambi. Detto brutalmente: la commistione sanità-politica è sempre dannosa, ma lo diventa ancora di più se i tecnici sono timidi, e i politici non hanno né capacità gestionali, né competenze scientifiche.

Quali scenari prevede per il dopo crisi?
Scenario A (molto probabile). Conte continua a governare a colpi di dpcm, verso metà dicembre ci riapre un po’ per farci “trascorrere un Natale sereno”, nelle feste natalizie bagordiamo in famiglia e ci reinfettiamo, a gennaio-febbraio arriva la terza ondata. E via così: stop and go fino a che il generale estate (o il vaccino?) ci ridà un po’ di pace.
Scenario B (molto improbabile). Il presidente della Repubblica si rende conto che le dimensioni della catastrofe economico-sanitaria che sta travolgendo il Paese dipendono in misura non trascurabile dalle omissioni e dai ritardi del governo, telefona a Mario Draghi, e promuove la formazione di un esecutivo di salvezza nazionale. L’Italia, lentamente ma meno divisa, si incammina su un impervio sentiero di ricostruzione.

Stiamo derogando alla Costituzione, cedendo libertà personali. La crisi ci cambierà per sempre? 
Vuole una risposta sincera? Non lo so. Tendo a pensare che, più che senza le nostre libertà, da tempo compromesse da un apparato burocratico soffocante, ci ritroveremo senza il nostro benessere. La “società signorile di massa”, che ho descritto nel mio ultimo libro, dopo il Covid non ci sarà più.

L’arroganza dei politici di sinistra è sempre stata nel suo mirino. Questo governo è arrogante, o è solo, come si dice, arrivato impreparato? 
Non è “arrivato” impreparato. E’ strutturalmente impreparato perché (con le dovute eccezioni) i suoi membri non sono selezionati in base alla competenza ma in base alla fedeltà di partito. Una pratica che era già dannosa ieri, ma è divenuta dannosissima oggi che il livello culturale del ceto politico si è notevolmente abbassato, come del resto quello del resto della popolazione. Se combinate insieme, incompetenza e arroganza formano un cocktail esplosivo.

Arroganza e ignoranza dietro ai Dpcm che regolano le nostre vite. Qual è il profilo del premier Conte? 
Conte non è arrogante. E’ solo un po’ vanesio, e tremendamente privo di senso della realtà. Se fosse una persona psicologicamente normale, non dico che sarebbe arrivato al punto di chiedere scusa, ma almeno avrebbe ammesso qualche errore. E noi avremmo guadagnato un minimo di serenità: se il capitano ammette che ha sbagliato la virata, abbiamo qualche speranza che alla prossima raffica di vento non faccia scuffiare l’imbarcazione.

In “Perché siamo antipatici” descriveva il senso di superiorità del centrosinistra. E’ ancora così? 
Un po’ sì, come si vede dalla totale incapacità di gestire il problema dei migranti in modo non ideologico. Però tra la gente il sentimento verso l’establishment progressista mi pare cambiato: conosco poche persone orgogliose di votare per questa sinistra.

Ma questo governo, pur impreparato e inadeguato come dice, si tiene in piedi grazie alle posizioni estreme di Salvini e Meloni, che sono l’autentica assicurazione sulla vita dei giallorossi. 
Distinguerei. Le posizioni di Salvini più che estreme sono rozze, schematiche, semplicistiche. Quelle di Giorgia Meloni sono molto più articolate, e non di rado tutt’altro che irragionevoli: è lei il centro del centro-destra. Però è vero, entrambi finiscono per tenere in piedi il governo.

Perché?
Per due motivi, a mio parere. Il primo è che il loro obiettivo primario non è salvare l’Italia ora e subito, ma è andare al voto, per salvarla dopo, quando comanderanno loro (una follia: quando ci lasceranno votare l’Italia sarà un campo di macerie, fatto di povertà e nuove diseguaglianze).
Il secondo motivo è che, sulla gestione dell’epidemia, la destra, pur facendo alcune proposte sensate, complessivamente ha dato un’immagine ancora più imprudente e “aperturista” di quella del governo. Oggi, fra le forze politiche, nessuna ha le carte pienamente in regola per criticare il governo. Meno che mai un centro-destra che, con il suo lider maximo, ha avuto sbandate “riduzioniste” indifendibili e imperdonabili. La verità è che, durante questi 9 mesi, in Italia un “partito della prudenza” non è mai esistito, e dunque non esiste oggi una forza politica che abbia tutte le carte in regola per criticare l’esecutivo.

La crisi economica e le incertezze spingono verso un consenso elettorale più conservatore, più reazionario?
Non userei queste categorie, perché l’Italia dei prossimi anni sarà completamente diversa. Saremo quasi tutti “reazionari”, perché tutti – ciascuno a modo proprio – finiremo per rimpiangere la “società signorile di massa” che il Covid ha sgretolato.

Lei teorizza l’affermazione della società parassita di massa, fondata sull’erogazione di sussidi. Non è che si possono moltiplicare i sussidi sine die… 
Sì, i soldi finiranno. Anzi sono già finiti, con un extra-deficit che supera i 100 miliardi. Ma a un certo punto, più che l’Europa, saranno i mercati finanziari a presentare il conto.

So che lei se ne occupa con la Fondazione David Hume.
Sì, studiamo la vulnerabilità dei conti pubblici delle economie avanzate. E i nostri calcoli suggeriscono che, finito lo stato di eccezione del Covid, i tassi di interesse sui titoli pubblici potrebbero salire pericolosamente, con rischio di un default o di commissariamento dell’Italia.

L’Europa prima o poi si sveglierà e ci chiederà conto del debito, a fronte dell’insussistenza di riforme strutturali?
L’Europa non avrà bisogno di chiederci nulla, perché prima lo faranno i mercati.

Nello scenario nazionale si fatica a individuare una guida carismatica. C’è un problema di leadership politica?
Guardi, se io avessi il potere di scegliere un esecutivo non saprei indicarle un solo leader politico all’altezza, ossia competente & carismatico.
Insomma: non ci resta che Draghi. E glielo dice, a malincuore, uno che non ha mai amato i governi tecnici.

 

Intervista rilasciata il 6 novembre a “Il Riformista”, versione integrale




La battaglia sui dati

Siamo rimasti tutti un po’ stupiti delle scelte del Governo in materia di “zonizzazione” dell’Italia. Campania zona gialla, dopo che da settimane il governatore De Luca dipinge un quadro tragico, peraltro supportato dai dati. Calabria zona rossa, dopo mesi in cui la maggior parte degli indicatori di diffusione del contagio la promuovono come una delle regioni meno critiche.

Come è possibile?

Per avere una risposta rigorosa, bisognerebbe che le autorità sanitarie, dopo aver reso pubblici i dati regionali sui 21 indicatori del monitoraggio, rendessero espliciti i dettagli matematico-statistici dell’algoritmo che decide se una regione va classificata come rossa, arancio, gialla (o verde, ma attualmente nessuna regione è verde). E forse occorrerebbe anche sapere come le autorità centrali gestiscono gli incredibili scivoloni e le inaccettabili sciatterie della trasmissione dei dati dalla periferia al centro, che purtroppo perdurano dall’inizio della pandemia.

E’ una matassa molto ingarbugliata, e tutt’altro che facile da dipanare. Se l’algoritmo è esplicito e trasparente, aumenta – da parte delle Regioni – la tentazione di rallentare o accelerare la trasmissione dei dati (finora avvenuta in modi arbitrari e non uniformi, con incredibili dimenticanze, riconteggi, correzioni), con l’obiettivo di modificare il colore di una regione. Così come aumenta – da parte del governo centrale – la tentazione di nascondere i nuovi dati nei momenti critici (è di poche ore fa la notizia che le informazioni cruciali abitualmente rilasciate il venerdì sono in ritardo, e non verranno rese note nei tempi previsti).

Per ora, quel che si capisce è che la classificazione di una regione dipende fondamentalmente da due ordini di valutazioni, che possono anche essere completamente discordanti. Il primo, ovvio, ordine di valutazioni è quanto galoppa l’epidemia, ma sarebbe meglio precisare: quanto galoppava 2 o 3 settimane fa, visto che gli indicatori di diffusione del contagio registrano con notevole ritardo quel che accade. Il secondo ordine di motivi è il grado di saturazione dei posti in ospedale, che dipende da una molteplicità di fattori diversi. Fra essi non solo la diffusione del contagio ma anche l’età media dei contagiati (più sono anziani, più premono sugli ospedali) e il numero di posti letto effettivamente disponibili, che a sua volta dipende in modo cruciale dal modo in cui Stato e Regioni hanno saputo prepararsi alla seconda ondata. Sembra essere questo, la carenza di posti letto e la cattiva organizzazione, il motivo cruciale che ha condannato la Calabria a un lockdown severo, nonostante indici di diffusione del contagio fra i più bassi del Paese.

Di chi è la responsabilità?

Difficile dirlo dall’esterno, ma quale che sia la quota di responsabilità della Regione e quella del Governo centrale (a occhio, preponderante: da anni la sanità in Calabria è gestita da un Commissario governativo), il punto chiave è che stiamo assistendo a una distruzione del tessuto produttivo della regione (cioè essenzialmente del settore privato), per disfunzioni e inerzie del settore pubblico. I cittadini della Calabria, in altre parole, possono muoversi e lavorare molto meno di quelli di altre regioni non perché il virus circola di più, o perché più di altri hanno disatteso le regole, ma semplicemente perché i poteri pubblici non hanno fatto il loro dovere.

Ma torniamo al problema dei dati. E’ dall’inizio dell’epidemia che gli studiosi chiedono di avere accesso ai dati fondamentali, per poter capire quel che succede e così contribuire a combatterla. E, anche recentemente, la medesima richiesta di poter accedere a un database pubblico con tutte le informazioni rilevanti è stata ripetuta da Giorgio Parisi, presidente dell’Accademia dei Lincei, dai professori di Lettera 150, dagli studiosi della Fondazione Hume.

Invano. A tutt’oggi un tale database non esiste, e nemmeno le richieste più minimali sono state esaudite, talora con l’inconsistente scusa della protezione della privacy. Ancora oggi, non sappiamo – ad esempio – quanti sono gli ingressi quotidiani in ospedale, né sappiamo in quali comuni si manifestano i nuovi casi e i nuovi decessi.

Più che mai vale il detto “sapere è potere”, che però oggi non significa che chi sa può, bensì che il sapere è in mano al potere: chi detiene il potere monopolizza il sapere, impedendo l’accesso ai dati a chiunque stia fuori del Palazzo. Che i cittadini non protestino, né si sentano defraudati di un loro diritto, mi dispiace ma non mi stupisce troppo: siamo un popolo rassegnato all’arroganza della burocrazia, e tutto sommato poco incline ad occuparsi della cosa pubblica. Quel che invece mi sorprende è il sostanziale disinteresse dei partiti dell’opposizione, che non hanno alcun accesso ai dati rilevanti.

E spiego il perché della mia sorpresa. Se io fossi il capo di un partito di opposizione, e volessi prendere posizione su un provvedimento (ad esempio: chiudiamo la provincia di La Spezia) non a capocchia ma valutando costi e benefici, avrei bisogno di molti più dati rispetto ai pochissimi che sono pubblici. Vorrei sapere, ad esempio, se i positivi sono concentrati in pochi comuni, o sono diffusi in molte aree. Vorrei conoscere il numero effettivo di posti in terapia intensiva, e il grado di saturazione dei reparti. Vorrei anche avere notizie sull’età dei positivi e dei ricoverati, per capire che cosa sta succedendo sul territorio. Vorrei una mappa dei casi diagnosticati nelle scuole della provincia. E così via. Perché senza queste ed altre informazioni ogni opposizione è condannata a diventare sterile, arbitraria, o semplicemente ideologica.

E’ possibile che un’opposizione del genere faccia bene a chi governa, perché gli fornisce una sorta di polizza di assicurazione contro qualsiasi cambiamento. Dubito però che faccia bene a noi, che degli atti di governo subiamo le conseguenze, nel bene e nel male.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 novembre 2020