Il termostato

Sapete come funziona un termostato?

E’ semplice. Tu fissi la temperatura che vuoi, per esempio 19 gradi. Un rilevatore misura la temperatura dell’ambiente e, quando supera i 19 gradi, spegne il riscaldamento; quando invece va sotto i 19 gradi lo riaccende. La stessa cosa succede con un frigorifero che vuoi mantenere a – 4 gradi centigradi, o con un congelatore che vuoi tenere a -20 gradi. L’unica differenza è che il comando non è “riscalda” ma “raffredda”.

Perché parlo del termostato?

Perché oggi in Italia, ma anche in molti altri paesi europei (compresa la Germania), quella che si è imposta è la politica del termostato, applicata all’epidemia. Funziona più o meno così.

Il governo non può scontentare gli operatori economici, ma nello stesso tempo non è in grado di garantire che le attività lavorative, scolastiche, ricreative si svolgano in sicurezza. Quindi, anche se sa che il virus è ancora molto diffuso, lascia quasi tutto aperto o semi-aperto. Il virus ringrazia e allarga la sua presenza fra noi. A un certo punto qualcuno fa due conti e dice: ohibò, se andiamo avanti così il servizio sanitario nazionale va in tilt e questo, noi politici, non ce lo possiamo permettere. A quel punto cominciano le discussioni: se chiudere, quando chiudere, quanto chiudere, chi sacrificare e chi graziare. Alla fine si chiude, ma Rt non scende. Allora si chiude di più, Rt va sotto 1 per qualche settimana, i ricoveri ospedalieri diminuiscono, gli ospedali non sono più al collasso. A quel punto il partito della riapertura rialza la testa e prima o poi ottiene un alleggerimento delle misure, se non una riapertura totale. Passa qualche settimana e questa volta a rialzare la testa è il virus, che ricomincia a circolare più di prima. Il sistema sanitario va di nuovo in crisi, si deve chiudere di nuovo. E il ciclo si ripete.

I più ingenui (o più spregiudicati) dicono: resistiamo ancora 2-3 mesi, poi con la bella stagione e le vaccinazioni torneremo alla normalità. Chi lavora sui dati sa che non è vero, e che la politica del termostato – che non tutela né la salute né l’economia – è destinata a durare ancora a lungo.

Ma perché siamo finiti in questo imbuto che divora le nostre vite? Certamente la parte preponderante delle responsabilità è di chi ci governa. Sono loro che hanno imposto le regole, sono loro che non hanno saputo gestire le scuole, i trasporti, il tracciamento dei contatti, i tamponi, i flussi turistici, le quarantene, la medicina territoriale e tutte le altre cose che non sono state fatte, o sono state fatte male. Insomma, con altre scelte si potevano avere molti meno morti, e danni meno drammatici all’economia.

Però c’è un punto che resta sempre nell’ombra, e che invece è decisivo. La catastrofe è colpa della mala gestione dell’epidemia, ma la sconfitta è figlia di una scelta strategica sbagliata, che anche la più saggia e oculata gestione dell’epidemia non avrebbe potuto evitare.

Quale scelta?

La scelta di puntare tutto sul protocollo prevalente in Europa, che persegue la mitigazione dell’epidemia, anziché su quello prevalente in Asia e nell’emisfero Boreale, che persegue la soppressione (o quasi soppressione) del virus. E dire che, fin dalla fine di marzo, gli studiosi che si occupano di epidemia e di processi di diffusione, avevano perfettamente individuato la differenza fra i due protocolli, e la netta superiorità del protocollo orientale rispetto a quello europeo. Bastava studiare i dati e consultare gli esperti, per capire (o almeno leggere le lettere e gli appelli degli studiosi,  che fin dalla fine di marzo imploravano di cambiare strada). O anche solo farsi la domanda: perché in certi paesi (circa 1 su 3 fra le società avanzate) il virus è stato sradicato, o se non è stato completamente eliminato circola a bassissima intensità?

Ebbene, qual è, andando al nocciolo, la differenza fra i due protocolli?

E’ molto semplice: è la differenza che sussiste fra un frigo e un congelatore. In un frigo il termostato è regolato per tenere la temperatura a -4, in un congelatore per tenerla a – 20. Fuor di metafora: la soglia del protocollo europeo è quella che evita il tracollo del sistema sanitario nazionale, la soglia del protocollo orientale è quella, molto più bassa, che evita che vada in tilt il sistema di tracciamento. Giusto per dare un’idea: se si adotta il protocollo orientale l’allarme scatta quando il quoziente di positività (nuovi casi su soggetti testati) attraversa la soglia del 3%, se si adotta il protocollo europeo può persino succedere – come è accaduto in Italia a novembre-dicembre – che si tolleri un quoziente di positività del 25-30%. Se avessimo adottato la soglia del protocollo orientale l’allarme sarebbe scattato già il 25 settembre, se non prima, ovvero non appena il numero di nuovi casi fosse divenuto incompatibile con il tracciamento dei contatti.

La realtà è che le strategie prevalenti in Europa sono basate sull’andamento di Rt (indicatore della velocità del contagio), anziché sul controllo del quoziente di positività (indicatore del numero di positivi). La differenza è enorme.

Se punti tutto su Rt tolleri anche milioni e milioni di infetti, purché Rt non stia troppo sopra 1. E con milioni e milioni di infetti, intervenire ha costi umani ed economici spropositati, perché quando l’epidemia è fuori controllo solo il lockdown è in grado di arginarla.

Se invece punti alla soppressione del virus, ti adoperi per portare il coefficiente di positività vicinissimo a zero, perché anche poche migliaia di positivi sono troppi: e quando il numero di infetti diventa molto piccolo, il controllo dell’epidemia è infinitamente più facile, la paura non dilaga più, e l’economia respira.

Pubblicato su Il Messaggero dell’8 gennaio 2021




Il diavolo e il padreterno

Lo sapevo, che avrebbero dato la colpa a noi. Tanto è vero che lo scrissi già il 27 aprile (quasi 7 mesi fa) quando si cominciò a parlare di riapertura: perdonate l’autocitazione, ma in questa maledetta storia i tempi sono cruciali.

“Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali. Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa”.

E infatti ci stanno provando, alla grande. Da giorni e giorni il ritornello è sempre lo stesso: voi vi assembrate, noi siamo costretti a chiudervi. E qualche giorno fa il ritornello è quasi diventato una teoria. Uno dei più ascoltati esperti del governo è arrivato a dire che no, a lui questa faccenda delle ondate non torna, non è che ci sono ondate che arrivano, in realtà c’è un mare che torna ad agitarsi non appena loro (i nostri governanti) ci lasciano un po’ di libertà, a quel punto noi ce ne prendiamo troppa e loro sono costretti a rimetterci in castigo (le parole non erano esattamente queste, ma il senso sì, era proprio questo).

Dunque le ondate non esistono, non c’è una prima ondata seguita da una seconda e forse da una terza. C’è un popolo indisciplinato, che periodicamente deve essere rimesso in riga. Quindi che non si illuda, il popolo. Quando riapriremo, sarà per un po’ di tempo, poi si dovrà richiudere di nuovo. Lo stop and go è inevitabile, fino a quando la maggior parte della popolazione sarà vaccinata (fine estate, se va bene).

Questo racconto è sostanzialmente falso. E lo è in due sensi: sul piano della psicologia sociale, e dal punto di vista storico.

Cominciamo dal “popolo” che (oggi) si ammassa per fare acquisti e (ieri) si ammassava per godersi le vacanze. Possiamo anche, se siamo sufficientemente moralisti e vecchio stampo, deprecare il nostro consumismo e l’incapacità di fare rinunce. Ok, ci sta. Ma la domanda è: coloro che avrebbero dovuto informarci, indirizzarci, guidarci, proteggerci, come si sono mossi?

Risposta: quest’estate con il bonus vacanze, le discoteche aperte, la libertà di scorazzare per i cieli alla ricerca di mete più o meno goderecce; in questi giorni pre-natalizi con gli esercizi commerciali spalancati, il cash-back, la lotteria degli scontrini (in un paese già ludo-maniacale: spendiamo per il gioco d’azzardo quanto lo Stato spende per la sanità).

Che immane ipocrisia. E’ come se Dio decidesse di recitare entrambe le parti in commedia, quella del Diavolo e quella del Padreterno. Prima strizza l’occhio agli esercenti e cosparge la nostra vita di tentazioni (quasi non ne avessimo già abbastanza per conto nostro). Poi ci redarguisce con cipiglio severo perché ci siamo cascati, in tentazione: come se il fatto stesso di parlare di continuo di terza ondata in arrivo, con relative chiusure, non fosse un formidabile incentivo al carpe diem, del tipo godiamoci il Carnevale prima che arrivi la Quaresima.

Ma c’è un altro senso in cui il racconto ufficiale è falso. E’ falso perché nega la storia effettiva di questa epidemia. Provo a ricapitolarla, nei limiti di spazio che ho a disposizione.

Le strategie con cui l’epidemia è stata affrontata nelle varie parti del mondo sono sostanzialmente tre. Herd immunity: non fare (quasi) nulla attendendo l’immunità di gregge (idea accarezzata da molti governi, ma applicata solo in Svezia). Suppression: perseguire lo sradicamento del virus (strategia applicata soprattutto in Asia, in Australia e in Nuova Zelanda); Mitigation: frenare la corsa del virus mediante il lockdown, sperando di tenerlo sotto controllo dopo la riapertura (strategia applicata nella maggior parte dei paesi occidentali).

L’Italia sceglie quest’ultima strategia, che è la più inefficiente. Inoltre la applica nel modo più autolesionista possibile, ossia ritardando il lockdown (9 marzo), e inasprendolo solo dopo averne constatato la scarsa efficacia (22 marzo). A nulla servono i pareri contrari provenienti dagli studiosi indipendenti (e dallo stesso Comitato Tecnico Scientifico), che fin dai primi giorni di marzo caldeggiano un lockdown immediato e duro.

Nella prima decade di marzo, nonostante la storia dell’epidemia sia appena iniziata, l’evidenza empirica che mostra la inefficienza dei lockdown tardivi e progressivi applicati nei maggiori paesi europei (con la parziale eccezione della Germania) è imponente. E il 10 marzo viene resa pubblicamente accessibile su internet da Tomas Pueyo, probabilmente il più lucido analista dell’epidemia, in un articolo scaricabile da internet e ripreso da qualche quotidiano.

Il 29 marzo, un gruppo di scienziati (fra cui il prof. Antonio Bianconi) invia al premier Conte e al ministro della salute Speranza una lettera in cui viene accuratamente spiegata la differenza, in termini di costi umani ed economici, fra la strategia vincente dei paesi asiatici, e la strategia perdente adottata dall’Italia. Il gruppo propone di emanare un decreto legge per adottare la strategia più efficiente, e mette a disposizione i propri studi e le proprie competenze per attuarla immediatamente.

Nessuna risposta dal governo, che prosegue imperterrito per la sua strada. Pochi tamponi, caos sulle mascherine, zero tracciamento elettronico dei contatti, nessun rafforzamento del trasporto pubblico. E, di lì a un mese, disco verde alla stagione delle riaperture, con il bonus vacanze e tutto il resto.

Per tre mesi, complice la stagione, tutto sembra andare abbastanza bene. Solo alcuni irriducibili, ogni tanto, segnalano che qualcosa non va, e che non siamo affatto un modello per il resto del mondo. Fra luglio e settembre i principali indici rivelano che il numero di positivi è in costante aumento, ma nell’esecutivo nessuno se ne preoccupa. Alla fine di settembre il quoziente di positività (una rozza stima del numero di contagiati) è già 4 volte quello di luglio. E a ottobre comincia a galoppare: alla fine del mese è 25-30 volte il livello di luglio.

Ormai la situazione è fuori controllo. E non c’è più niente da fare: se lasci che i contagiati aumentino di 30 volte, poi ci vogliono mesi e mesi per riportare la situazione al punto di partenza. Anzi: è impossibile portarla al punto di partenza, perché ci vorrebbero 3 mesi di lockdown durissimo, o 6 mesi di lockdown light, ma comunque esiziale per l’economia.

E allora?

Allora avanti così, per mesi, in stop and go. Un po’ di settimane di quaresima, poi un sobrio carnevale, poi di nuovo quaresima, poi ancora carnevale. Il tutto regolato dal semaforo delle terapie intensive: quando si riempiono scatta la quaresima, quando si svuotano riparte il carnevale. La gente l’ha capito, che va a finire così, e si adatta come può, a seconda dell’età e del carattere di ciascuno.

Ma era a obbligatorio precipitare in questo abisso?

No. Tanto è vero che, contrariamente a quel che molti ancora credono, la seconda ondata non è affatto arrivata ovunque: fra le società avanzate l’hanno evitata 10 paesi su 25, dunque più di 1 paese su 3 (vedi grafico). E 4 di questi 10 paesi che ce l’hanno fatta sono in Europa: Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca.

Ma per non essere travolti bisognava fare qualcosa di più, e di diverso dai lockdown tardivi cui siamo stati costretti in Italia. Non dico adottare in toto la strategia asiatica, per cui non eravamo pienamente attrezzati (specie sul tracciamento elettronico), ma almeno assimilarne gli elementi cruciali: controlli severi alle frontiere + mascherine obbligatorie + tamponi di massa + contact tracing + quarantene rigorose. E se non basta – ma di solito basta – lockdown duro al primo segnale di ripresa dell’epidemia, perché se intervieni subito il lockdown dura poco, e la ricerca dei contatti non va in tilt.

E’ quello che scienziati, ricercatori e studiosi non hanno mai smesso di chiedere, fin dai primi giorni di marzo. Tutto inutile, i nostri governanti non hanno voluto sentire ragioni. Gli errori che hanno commesso nella prima ondata non hanno esitato a ripeterli, aggravati, nella seconda. E ora pretendono pure di dire che, se non riescono a tenere sotto controllo l’epidemia, la colpa è nostra.

Incredibile.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 dicembre 2020




Covid, siamo i peggiori in Europa. Intervista a Luca Ricolfi

Cosa dicono i dati del vostro osservatorio della Fondazione Hume: l’epidemia sta scemando?
“Scemando” è una parola forte, che allude a una prossima fine. No, non sta scemando, sta solo rallentando un po’. Voglio essere più preciso, nei limiti dei dati forniti dalla Protezione Civile. Fatto 1 il numero medio di contagi a luglio, adesso siamo più o meno a 25 volte tanti. Certo, un po’ meglio che 2 settimane fa, quando eravamo a quota 29. Ma i progressi restano molto modesti e, soprattutto, lentissimi.
Questo vuol dire che il rischio di incontrare una persona contagiosa è circa 25 volte quello di luglio.

La seconda ondata era inevitabile?
No, era evitabilissima, come dimostra inequivocabilmente il fatto che più di un terzo (10 su 27) delle società avanzate l’ha evitata (vedi grafico). E fra le società che l’hanno evitata, 4 sono in Europa.

Ma allora non siamo i più bravi in Europa?
No, in questo momento (bimestre ottobre-novembre) siamo i peggiori dopo il Belgio (vedi grafico).
La favola del “modello italiano” è, a mio parere, la più grandiosa bufala della pandemia, un falso colpevolmente accreditato dalla maggior parte dei media, giornali-radio-tv.

Ma come ha potuto reggere, se era una bufala?
Ci soni due fattori, uno politico e l’altro tecnico. Il fattore politico è che la maggior parte della stampa e della tv pubblica ha un occhio di riguardo per il Governo. In Italia la stampa è libera, anzi liberissima, ma questo significa anche liberissima di ignorare i fatti, di seguire le convenienze, di non fare vere inchieste, di non tallonare il potere.
Il fattore tecnico è che non è facile leggere i dati, se almeno non ci si sforza un po’. Confrontare i paesi in base ai numeri assoluti (anziché per abitante) è un’ingenuità imperdonabile. Ma anche usare i dati giornalieri dei nuovi casi, enormemente influenzati dalla politica dei tamponi e dalla capacità diagnostica di ogni paese, vuol dire rinunciare a capire quel che succede davvero.

Che dati dovremmo usare, allora?
I decessi per abitante e il quoziente di positività (al netto delle persone ritestate) sono gli indicatori meno inaffidabili nei confronti internazionali.

Cosa avremmo potuto copiare e imparare dalle esperienze degli altri paesi?
Prima di tutto dobbiamo renderci conto che non c’è un unico modo di vincere il Covid. Ci sono paesi che hanno usato soprattutto i tamponi di massa, altri il lockdown precoce, altri mascherine e tracciamento. Altri ancora il senso civico, a quanto pare: quasi tutti i paesi europei senza seconda ondata sono della galassia del Nord, dall’Islanda alla Norvegia, dalla Finlandia alla Danimarca, paradisi del welfare e della cultura civica.
Fra i paesi a noi più vicini, e con noi più comparabili, il caso di maggiore (relativo) successo è la Germania, dove la seconda ondata è molto più modesta che da noi. Lì la chiave è stata la forza del sistema sanitario, ma ancora più cruciale è stata la politica dei tamponi.

Che relazione c’è tra numero di tamponi e decessi?
Incredibilmente stretta. Ho appena finito di stimare l’elasticità dei decessi per abitante e dei tamponi per abitante nella prima fase dell’epidemia. Ebbene, il valore è circa -2. Il che, in concreto, significa: se raddoppi il numero dei tamponi la mortalità si riduce del quadruplo. Ancora più in concreto: se i tamponi passano da 100 a 200 i morti passano da 100 a 25.

La Svezia non ha fatto nessun lockdown e ha meno morti di noi. Ma numero abitanti e territorio diversi da quelli italiano. Sono fattori che incidono sulle curve?
In parte sì. Le mie analisi statistiche mostrano che il numero dei morti per abitante è molto sensibile alla distribuzione geografica della popolazione: a parità di altre condizioni si muore di più nelle aree urbane, e di meno in quelle agricole, specie se remote.
Non è facile dire se, nel caso della Svezia, il sorprendente contenimento della mortalità (a dispetto del mancato lockdown) sia dovuto anche alla geografia interna del paese, o sia da imputare soprattutto ad altri fattori, come la qualità del sistema sanitario, la politica dei tamponi, la bassa socialità, l’elevato senso civico.
Ci sto lavorando, ma finché non ho dei risultati robusti preferisco non azzardare alcuna ipotesi.

Il governo si accinge ad allentare con il nuovo dpcm alcune misure, salvo poi stringere sugli spostamenti tra le regioni a ridosso del natale. Che strategia intravede?
La solita: tergiversare sfogliando la margherita del “riapriamo?”, ”chiudiamo?”, con il solo scopo di massimizzare il consenso. O meglio: minimizzare lo scontento. Di strategia ne vedo una sola: pregare Domine Iddio che il vaccino funzioni, arrivi in quantità adeguata, sia accettato dalla maggioranza degli italiani.
E’ questo il pericolo più grande: l’attesa messianica del vaccino avrà l’effetto di convincere i politici che, ancora una volta, possono non mettere mano alle 10 cose – dai tamponi alla riorganizzazione della medicina di base (vedi petizione sul sito della Fondazione Hume) – che non hanno saputo fare nel semestre di tregua maggio-ottobre.

La scuola è stata la prima a chiudere a marzo e tra gli ultimi settori a riaprire, salvo poi richiudere. Ora che si riparte con le lezioni in presenza il 7 di gennaio, ci saranno condizioni diverse? 
Penso che un po’ di scaglionamento degli orari, e un po’ di limiti all’affollamento sui mezzi pubblici, finiremo per vederli, prima o poi. Sui test rapidi prevedo solita confusione e disorganizzazione. Sui dispositivi di sanificazione dell’aria, fondamentali negli ambienti chiusi, temo che non vedremo quasi nulla. O meglio: vedremo i soliti studenti con la coperta di lana portata da casa, per poter aprire la finestra d’inverno.

Un recente sondaggio di Swg dice che gli italiani preferirebbero non allentare le misure restrittive e che anche sacrificare il Natale non sarebbe poi grave.
Mah, i sondaggi vanno interpretati, una domanda non basta a capire quel che davvero vuole la gente. Tendo a pensare che a bramare la riapertura siano più gli esercenti che i cittadini, e che i cittadini stiano soppesando i pro e i contro: il rischio che a gennaio tutto ricominci frena gli entusiasmi per riapertura e feste natalizie. La gente ha paura della terza ondata.
Sfortunatamente governo e media sono riusciti a far passare il messaggio che tutto dipende da noi comuni cittadini. E a nascondere il fatto che, invece, molto dipende da loro, ossia dalle scelte (e dalle omissioni) della politica.

Il Covid e la gestione che ne è stata fatta in Italia hanno avuto un impatto psicologico sulle persone? (ho spezzato la domanda)
Un qualche impatto senz’altro, il difficile è dire di che tipo. Senza dati di qualità è impossibile capire che tipo di impatto: depressione? spinte suicidarie? frustrazione ? rabbia? rassegnazione?
L’unica conseguenza psicologica che si riconosce ad occhio nudo è l’azzeramento di qualsiasi piano proiettato nel futuro: una condizione esistenziale mortificante, e un vero disastro per il tessuto produttivo del Paese, posto che fare impresa significa precisamente fare sconnesse sul futuro.

Lei che Natale farà?
Nulla cambierà. Sono già in lockdown e ci resterò. L’alternativa è fra un Natale a due (Paola ed io) e un natale a tre (con nostro figlio), se il governo ci concederà spostamenti interregionali.
Il lato buono, uno dei pochissimi lati buoni, del lockdown natalizio è la tendenziale scomparsa dei regali di Natale generalizzati (non solo ai bambini), una prassi che negli ultimi decenni aveva assunto dimensioni patologiche.

Dobbiamo prepararci a una terza ondata?
Fino a poco fa temevo l’arrivo di una terza ondata. Ora non la escludo ma ritengo più probabile un altro scenario, basato sullo stop and go. Rinunciamo a quasi-azzerare il virus, e ci disponiamo a chiudere e riaprire a più riprese, a fisarmonica, magari con un algoritmo che ci dice quando e che cosa fare, togliendo i politici dall’imbarazzo di spiegare e motivare quel che ci impongono.
La realtà è che è impossibile fare previsioni, l’evoluzione dell’epidemia dipende poco dal virus (che è quel che è, e ha le sue leggi di propagazione) e molto dalla politica. E la politica non è prevedibile, perché è un mix di tentennamenti e di decisioni scarsamente informate.
La Merkel ha una laurea in fisica e un dottorato in meccanica quantistica. Quando parla della funzione esponenziale, di R0 e di Rt, sa esattamente di che cosa sta parlando, ed ha persino il coraggio di farlo davanti ai suoi cittadini.
Notata la differenza?

Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi, ItaliaOggi, 3 dicembre 2020




Lockdown a rilento

C’è un certo strabismo, ultimamente, nella comunicazione sul Covid. Il messaggio principale è che dobbiamo stare rinchiusi, e che se ci rinchiudono è “per il nostro bene”, come si dice ai bambini per fargli accettare qualche sacrificio. Il numero dei morti (che viaggia verso quota 1000 al giorno) serve assai bene allo scopo.

C’è però anche un messaggio secondario, che accomuna una parte dei media, qualche analista ingenuo, una parte (minoritaria) del governo, e sostanzialmente tutta l’opposizione: le misure sono eccessive, la curva epidemica sta già piegando verso il basso, le terapie intensive si stanno svuotando, è già tempo di allentare un po’ il freno.

Due visioni opposte, insomma.

E allora proviamo a vedere come stanno le cose. Consideriamo il numero di persone contagiose (in grado di trasmettere il virus) nel mese di giugno, e chiediamoci di quanto è aumentato il loro numero nel tempo. La risposta è che, posto a 100 il numero di soggetti contagiosi a giugno, nella prima settimana di settembre erano 250, nella prima di ottobre erano diventati 500, e nella prima settimana di novembre – quando è decollato il semi-lockdown in corso, erano 2500, a dispetto delle (blande) misure adottate nel corso di ottobre. Dopo due settimane di semi-lockdown la curva epidemica era ulteriormente salita (il nostro numero-indice a base giugno segnava quasi 3000), e solo negli ultimi 10-15 giorni ha cominciato a scendere. Ora siamo a circa 2500, cioè allo stesso livello di un mese fa: il semi-lockdown è stato così blando che, nella prima settimana di dicembre, siamo messi più o meno come lo eravamo nella prima settimana di novembre. In breve, siamo ancora lontanissimi dalla situazione di giugno.

Eppure, ci viene obiettato, le terapie intensive si stanno svuotando, il sistema sanitario non è più sotto pressione come fino a poche settimane fa. Dimenticano che, con 7-800 morti al giorno, le terapie intensive cominciano (lentamente) a svuotarsi semplicemente perché il numero di decessi è ancora più grande del numero di nuovo ingressi: se entrano 700 pazienti al giorno, ma ne escono in quanto deceduti 750, si “liberano” 50 posti. Non mi sembra un bel modo di “alleggerire” la pressione sul sistema sanitario.

La realtà è che, per ora, il semi-lockdown sta dando risultati estremamente deludenti. Il valore di Rt è sceso finalmente sotto la soglia critica 1, ma lo ha fatto in una misura così piccola da rendere lentissimo il percorso di abbassamento della curva epidemica. Al ritmo attuale, occorrono 5-6 mesi di chiusura per riportare il numero di infetti al livello di sicurezza raggiunto a giugno. E anche si tornasse a un lockdown totale, come quello attuato dal 22 marzo al 3 maggio, di mesi ne occorrerebbero 2.

E’ una situazione paradossale. Il governo si vanta di non avere imposto un lockdown generalizzato, duro come quello di marzo. L’opposizione, anziché fare due conti e obiettare che di questo passo andiamo a finire a Pasqua, non trova di meglio che invocare aperture, veglioni, sciate e messe in presenza: un insperato assist al governo, che ne esce con l’aureola della saggezza e della prudenza.

Che cos’è che non va?

Non va che non ci stanno dicendo le cose come stanno. Ai ritmi attuali il semi-lockdown ci porterà, dopo l’Epifania, a quota 1400, ossia 14 volte più contagiati che a giugno. E anche immaginando che il valore di Rt dovesse essere abbastanza simile a quello toccato nel lockdown di marzo, tutto quel che potremmo sperare entro l’Epifania è di arrivare vicino a quota 500, dunque 5 volte il numero di contagiati di giugno. Insomma, in una situazione di rischio non trascurabile.

Dunque, dove ci stanno portando?

Temo che stiano navigando a vista, come hanno fatto dal primo giorno. Non possono fare un lockdown totale, perché hanno promesso di non farlo, e comunque non basterebbe. Non possono aprire, o allentare il lockdown come pretende l’opposizione, perché sarebbe un disastro. Non possono ammettere che a gennaio il numero di persone contagiose sarà ancora troppo alto, e che la riapertura porterà di nuovo Rt sopra 1. Non sono abbastanza umili da chiedere scusa, e fare oggi quel che dovevano fare ieri sui terreni chiave: tamponi, tracciamento, medicina territoriale, trasporti.

Una sola cosa sembrano avere in testa: che il vaccino, salvando noi, salverà loro.

E’ l’errore più grande. Perché, anche dovesse tutto filare liscio, il vaccino non risolverà certo l’emergenza del primo semestre 2021, quando milioni di persone avranno l’influenza, la curva epidemica tornerà a salire, e l’arma del lockdown non potrà più essere usata senza distruggere definitivamente l’economia.

Meglio pensarci ora, all’emergenza che verrà, e “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. Parola di Trapattoni.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 dicembre 2020




La “seconda ondata” di misure restrittive: il DPCM del 4 di novembre alla prova della costituzione

Visto che il Governo – di fronte alla recrudescenza del virus – ha ritenuto, all’inizio di novembre, di procedere nuovamente con una serie di misure di contenimento dell’epidemia tali da limitare diversi diritti fondamentali dei cittadini, occorre verificare se l’Esecutivo – a questo “secondo giro” di restrizioni –  ha evitato di incappare negli errori del primo, che – come detto in un precedente contributo sul tema per la fondazione Hume – sono consistiti nell’adottare, tra le altre, misure potenzialmente tali da comprimere la libertà personale (da tenere distinta rispetto alla semplice libertà di circolazione), ma senza il rispetto della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 della Costituzione e senza che gli atti amministrativi (i DPCM) che eccezionalmente disponevano simili restrizioni senza l’intervento del Giudice fossero in qualche modo coperti da una autorizzazione contenuta in norme di legge di rango costituzionale. Per compiere questa verifica senza dilungarci in inutili ripetizioni è quindi il caso di limitarci in questa sede a riassumere i principi che – sotto il profilo costituzionale – devono guidare i poteri dello stato nel gestire le misure di reazione a situazioni di emergenza nazionale. Il lettore potrà infatti – se lo desidera – trovare nel nostro precedente contributo un dettaglio degli argomenti giuridici su cui possono essere fondati i principi in questione. Ma veniamo, appunto, all’elenco dei principi di cui si tratta.

Primo: quello che viene normalmente definito come “stato di eccezione” è figura di diritto pubblico e internazionale residuale e vicaria, che dunque non può essere invocata quando la costituzione nazionale disciplina già con apposite norme i corrispondenti casi di emergenza. Assume allora rilievo (per escludere appunto la possibilità di ricorrere allo “stato di eccezione” – eventualmente fatto risalire alla dichiarazione di pandemia dell’OMS – come fondamento delle norme che provocano limitazioni dei diritti fondamentali) la considerazione che la nostra carta fondamentale già prevede norme per disciplinare ogni possibile caso di emergenza nazionale.

Secondo: l’art. 78 Cost. tratta del caso più grave di stato di emergenza nazionale, la guerra, stabilendo la possibilità di una delega del potere normativo generale al potere esecutivo (i famigerati “pieni poteri”), ma ponendo condizioni: anzitutto è il parlamento che deve deliberare lo stato di guerra (dunque non può il Governo conferirsi da solo i pieni poteri); in secondo luogo è ancora il parlamento a decidere quali poteri conferire al Governo (dunque il Governo non può neppure decidere da sé quanto “pieni” dovranno essere, né quanto dureranno, i poteri che potrà esercitare durante il periodo bellico); infine va notato che il parlamento conferisce i poteri eccezionali al Governo nella sua collegialità (neppure in caso di guerra la Costituzione prevede dunque l’attribuzione di “pieni poteri” al Presidente del Consiglio) In sintesi: anche nella peggiore delle emergenze possibili, per i costituenti, resta ferma sia la centralità del parlamento nella decisione iniziale del conferimento dei pieni poteri al Governo (e dei relativi limiti di oggetto e durata) sia il principio che non deve esserci alcun uomo solo al comando (politico) del paese.

Terzo: per ogni stato di emergenza diverso dalla guerra dispone la seconda parte dell’art. 77 Cost., a norma del quale, qualora si dia un caso di emergenza che al Governo appare “straordinario” in termini di “necessità” e di “urgenza”, lo stesso Governo – mediante appositi atti, i “decreti legge” emanati dal Consiglio dei Ministri, controfirmati dal Presidente della Repubblica e pubblicati in Gazzetta Ufficiale – può esercitare una potestà legislativa eccezionale e provvisoria, che resta soggetta a una conferma a posteriori, entro il termine fissato dalla stessa Costituzione stessa, da parte dal Parlamento con maggioranza ordinaria (altrimenti i decreti già emessi diventano inefficaci con effetto retroattivo, salvo il potere del Parlamento – dunque non del Governo – di disciplinare le situazioni pendenti).

Quarto: la dichiarazione di stato di emergenza pronunciata dal Governo in data 31 gennaio 2020 – e poi prorogata in estate – in forza della legge sulla protezione civile [ossia del Dlgs. 2 gennaio 2018, n. 1, in particolare con riferimento all’articolo 7, comma 1, lettera c), e all’articolo 24, comma 1] non è in alcun modo idonea a spostare i termini della questione costituzionale della legittimità dei DPCM, considerando che la legge sulla protezione civile è una semplice legge ordinaria, dunque non di rango costituzionale, con la conseguenza che quella legge – e gli atti adottati in forza di quella legge – non potrebbero in alcun caso legittimamente conferire ad organi del poter esecutivo delle potestà legislative ulteriori rispetto a quelle previste espressamente dalla Costituzione.

Quinto: la stessa legge sulla protezione civile – considerando il contenuto oggettivo delle sue norme – non sembra affatto riconoscere al Governo (e tanto meno al Presidente del Consiglio o ai singoli ministri) il potere di emettere provvedimenti diversi da quelli che rientrano nella ordinaria competenza secondo la legge amministrativa e la Costituzione.

Sesto: nel valutare la legittimità costituzionale di alcune misure occorre sempre tenere distinti i provvedimenti che limitano la libertà di circolazione ai sensi art. 16 Cost. (che possono essere adottati in forza di norme con rango di legge) da quelli che limitano la libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost. (che invece restano soggetti sia a riserva di legge sia a riserva di giurisdizione, dunque non possono essere adottati in forza di una norma di legge che non subordini la restrizione all’intervento – con un provvedimento ad hoc per ciascuna situazione concreta – della magistratura). A tale riguardo occorre in particolare ricordare che la Corte Costituzionale ha sostenuto a suo tempo (Sent. 68/1964) che le limitazioni alla libertà di circolazione sono certamente quelle che limitano l’accesso a determinati luoghi, ma non possono estendersi – quanto agli effetti – sino a tradursi in un obbligo di permanenza domiciliare, altrimenti trasformandosi in limiti alla libertà personale. Secondo la giurisprudenza costituzionale – in altre parole – i limiti della libertà di circolazione hanno per oggetto dei “luoghi” definiti e circoscritti il cui accesso può essere impedito ai cittadini per legge (o in base ad atto amministrativo legittimamente emanato in base ad una norma con forza e rango di legge) perché sono pericolosi, mentre se il divieto di spostamento colpisce direttamente delle categorie di persone, saremmo in presenza anche di limitazioni della libertà  personale, dunque la legge (o un atto amministrativo emesso sulla base di una norma con rango di legge) non sarebbe sufficiente per adottare la limitazione in forma generale ed astratta, ma servirebbe prevedere anche un provvedimento di conferma del Magistrato che autorizzi la limitazione in concreto e in relazione al singolo caso. Sempre in applicazione di questo principio, peraltro, di limiti alla libertà personale, peraltro, si dovrebbe parlare – in forza del principio di prevalenza della sostanza sulla forma quando si tratta di verificare i vulnus costituzionali – ogni volta in cui la limitazione di accesso ad una determinata zona (o di circolazione all’interno della zona) è sì strutturata in modo da riguardare formalmente dei luoghi, ma presenta estensione ed incisività tali da avere gli stessi effetti di un confinamento domiciliare delle persone che in quei luoghi si trovano a dimorare con continuità.

Settimo: secondo la più recente giurisprudenza del Tribunale dei Ministri (quella formatasi in occasione dei famosi casi sui migranti che hanno coinvolto l’ex Ministro dell’Interno), la limitazione della libertà personale in forza di un atto amministrativo che viola norme di rango sovraordinato, anche quando si tratta atto formalmente legittimo perché adottato da un membro del Governo in forza di una norma di legge, può comunque dar luogo a sequestro di persona (aggravato da abuso di potere) e, più in generale, soggiacere al sindacato del giudice penale, che – previa autorizzazione parlamentare a procedere per reati ministeriali – può conoscere delle fattispecie criminose eventualmente integrate, di fatto “disapplicando” anche ai fini penali – in presenza di una norma sovraordinata in senso difforme – la norma che autorizza l’emissione dell’atto amministrativo (formalmente legittimo ma) che contravviene alla norma sovraordinata.

Ottavo: il DPCM è un atto amministrativo, dunque – a voler ritenere che, quanto meno per le procedure di impugnazione, prevalga la forma sulla sostanza – è atto che resta sottratto, per un verso, al controllo previo di costituzionalità prima facie attuato per mezzo della controfirma del Presidente della Repubblica e, per altro verso, al sindacato della Corte Costituzionale, essendo viceversa annullabile dal Giudice amministrativo e disapplicabile dal Giudice civile ordinario nei casi in cui limita diritti soggettivi (oltre che da quello penale, quanto meno secondo l’interpretazione di cui abbiamo detto nel punto sette qui sopra, anche).

Svolte queste necessarie premesse, vediamo ora di analizzare più in dettaglio la struttura degli atti e il contenuto delle norme con cui – all’inizio di novembre – sono state create le famose “zone” di rischio a colore differenziato del territorio nazionale. Partiamo col dire che l’impianto di queste nuove misure è in certa misura diverso da quello precedente (e che, per questa ragione, in parte risolve alcuni problemi costituzionali che affliggevano in particolare le misure restrittive valide per la prima fase dell’emergenza e contenute nei primissimi DPCM della primavera scorsa), mentre – sotto altri profili – i nuovi provvedimenti ricalcano il modello di quelli vecchi e dunque ne ripropongono le criticità.

Il nuovo DPCM – entrato in vigore il 4 novembre 2020 ha anzitutto un’efficacia limitata nel tempo, pari a un mese, di guisa che alla scadenza dovrà essere adottato un nuovo DPCM. Il DPCM dispone due gruppi di restrizioni: alcune riguardano tutto il territorio nazionale e sono entrate in vigore automaticamente per effetto del DPCM stesso, altre – pure definite dal suddetto DPCM – hanno invece valenza solo regionale ed entrano in vigore, sempre automaticamente, in ragione della classificazione della singola regione (a seconda del livello di rischio). La classificazione delle regioni è variabile nel tempo ed è demandata al Ministero della Salute, che provvede con decreto ministeriale, d’intesa con i presidenti delle regioni, sulla base di una complessa serie di indici (si tratta di 21 parametri che si basano su indici e dati medici e di altro genere che si trovano contenuti nel documento condiviso con la Conferenza delle Regioni e titolato “Prevenzione e risposta Covid-19, evoluzione della strategia per il periodo autunno-inverno” allegato al DPCM). I provvedimenti ministeriali di classificazione del rischio sono soggetti a una verifica dei dati su base settimanale, in vista di una loro modifica, ma durano in vigore almeno 15 giorni dall’adozione. Veniamo ora al contenuto delle misure.

Per l’intero territorio nazionale, il DPCM prevede diverse restrizioni: limitazione della circolazione delle persone dalle 22 alle 5, salve ragioni di lavoro, necessità o salute (c.d. “coprifuoco”); chiusura di mostre e musei; didattica a distanza al 100% per scuola secondaria, salva attività di laboratorio; attività in presenza per asili, primarie e secondarie di primo grado (scuole medie), con utilizzo di mascherine, salvo per bambini al di sotto dei 6 anni; chiusura esercizi commerciali, nelle giornate festive e prefestive, dei centri commerciali salvo per le farmacie, negozi di generi alimentari, tabacchini ed edicole presenti nella struttura; 50% di occupazione massima della capienza su mezzi pubblici del trasporto locale e ferroviario regionale; chiusura bar e ristoranti dalle 18, con possibilità di restare aperti per il pranzo della domenica; sospensione dello svolgimento delle prove preselettive e scritte dei concorsi pubblici e privati (comprese le procedure di abilitazione all’esercizio delle professioni) salvo per i casi in cui la valutazione vada effettuata solo su basi curriculari ovvero in modalità telematica; chiusura giochi e scommesse presso bar e tabaccherie; consentiti eventi e competizioni (che siano riconosciuti di interesse nazionale con provvedimento del CONI e del CIP), riguardanti gli sport individuali e di squadra organizzati dalle rispettive federazioni sportive nazionali, discipline sportive associate, enti di promozione sportiva o da organismi sportivi internazionali, all’interno di impianti sportivi a porte chiuse o all’aperto ma senza la presenza di pubblico; “raccomandazione” (ma non obbligo) di non spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, se non per esigenze lavorative, di studio o per motivi di salute.

Al Ministro della Salute – come si diceva – è affidato il compito di regolare l’entrata in vigore di eventuali ulteriori misure restrittive nelle aree dove la diffusione del virus risulta più elevata e le strutture sanitarie più congestionate, classificando – con decreto ministeriale – le regioni in tre “zone di rischio” connotate ciascuna da un diverso colore, cui corrispondono diversi livelli – crescenti – di restrizioni.

Zona gialla: regioni a livello di rischio moderato, in cui si applicano solo le limitazioni a valenza nazionale indicate in precedenza.

Zona arancione: Regioni a criticità medio-alta, per cui sono previste le seguenti misure aggiuntive rispetto a quelle valide su scala nazionale: divieto di spostamento, in entrata e in uscita, dalla Regione (salvo per comprovate esigenze di lavoro, salute e casi di necessità e urgenza); quanto alla didattica, sono consentiti solo spostamenti strettamente necessari ad assicurare lo svolgimento della didattica in presenza e nei limiti in cui la stessa risulta consentita; in ogni caso vi è la possibilità di rientro nel proprio domicilio o nella propria residenza; vietato ogni spostamento in un comune differente da quello di residenza, domicilio o abitazione, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di studio, motivi di salute, situazioni di necessità e urgenza o per svolgere attività o usufruire di servizi non sospesi e non disponibili nel proprio comune; sospese le attività dei servizi di ristorazione, salvo mense, catering e ristorazione con asporto e con consegna a domicilio.

Zona rossa: zona a criticità più elevata, per cui valgono le seguenti misure aggiuntive: divieto di ogni spostamento – non solo in entrata e in uscita dalla Regione e dei confini del comune di residenza, domicilio o abitazione – ma anche all’interno del territorio comunale stesso, salve comprovate esigenze lavorative, di salute ovvero necessità e urgenza; chiusura per i negozi di commercio al dettaglio, ad eccezione di generi alimentari, farmacie, edicole; chiusura dei mercati di generi diversi da quelli alimentari; divieto di attività di somministrazione di alimenti e bevande da parte di bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie, salva la ristorazione con consegna a domicilio e, ma solo fino alle ore 22.00, quella con asporto e – in questo caso – con divieto di consumazione sul posto o nelle adiacenze; sospese le attività sportive, anche svolte nei centri sportivi all’aperto; consentita l’attività motoria in prossimità della propria abitazione, nel rispetto della distanza personale di almeno un metro e con obbligo di mascherina; consentita l’attività sportiva esclusivamente all’aperto e in forma individuale; sospesi eventi e competizioni di enti di promozione sportiva; consentita l’attività scolastica in presenza solo per asili, scuola primaria e prima media; consentite le attività inerenti servizi alla persona; i datori di lavoro pubblici limitano la presenza del personale nei luoghi di lavoro per assicurare esclusivamente le attività che ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente tale presenza.

Questa essendo la sostanza delle nuove misure, vediamo di concentrarci su quelle che appaiono più “problematiche” in termini di diritti fondamentali, che sono il “coprifuoco” dalle 22 alle 5 su tutto il territorio nazionale, il divieto di spostamento tra diverse regioni e/o comuni nelle zone arancioni e, infine, il “confinamento domiciliare” all’interno delle zone rosse. In relazione a tutte queste ipotesi – per cui valgono sempre le eccezioni delle esigenze lavorative, di salute e di altre “necessità” e “urgenze” – si ripropone infatti il problema della riserva di giurisdizione (non garantita dai DPCM, ma) prevista dalla Costituzione per le limitazioni della libertà personale.

Si tratta di un problema che lo stesso Governo ha tentato a suo modo di risolvere quando – dopo un primissimo periodo in cui i suoi DPCM sono risultati “non coperti” da alcuna norma con forza di legge – ha emanato una serie di decreti legge che autorizzavano la successiva adozione, con atto amministrativo, di misure generali di contenimento dell’epidemia. Nelle norme contenute in questi decreti legge (si veda in particolare l’art. 1.2 del Decreto Legge n. 19 del 2020) si menziona infatti espressamente la possibilità di limitare la libertà di circolazione (dunque non la libertà personale), affermando però che queste limitazioni di libertà di circolazione potrebbero essere adottate anche “prevedendo limitazioni alla possibilità di  allontanarsi  dalla  propria residenza, domicilio o dimora se non per spostamenti individuali limitati nel tempo e nello spazio o motivati da esigenze  lavorative, da situazioni di necessità o urgenza, da motivi di salute o da altre specifiche ragioni”. Questo significa – in sostanza – che il Governo, in veste di legislatore delegato, ha sostenuto nei suoi decreti legge che rappresenterebbe una “semplice” limitazione della libertà di circolazione (e non dunque anche della libertà personale) il fatto di porre limiti agli spostamenti dei cittadini di incisività tale da tradursi in un divieto di allontanamento “senza giusta causa” dal proprio domicilio o dalla propria dimora.

Tali decreti sono stati poi convertiti dal Parlamento, che dunque ha fatto propria la tesi del Governo. E’ tuttavia evidente che né il Governo (e tanto meno il legislatore in sede di conversione) hanno competenza a fornire una interpretazione autentica alle norme della Costituzione, e che neppure possono decidere da sé quali libertà una norma restrittiva comprime, essendo entrambi tenuti al pieno rispetto delle regole e dei principi costituzionali per come definiti e interpretati nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. Va tuttavia aggiunto che il fatto che sia i decreti legge sia le leggi di conversione siano stati controfirmati dal Presidente della Repubblica senza sollevare rilievi significa che il punto di vista del Quirinale è che si tratti di misure – quanto meno secondo una valutazione prima facie – legittime, dunque che anche il Capo dello Stato ritiene non manifestamente infondata la tesi del Governo e del legislatore secondo cui quel tipo di restrizione – per quanto “forte” – potrebbe rappresentare una semplice limitazione della libertà di circolazione e non anche della libertà personale.

Nonostante l’autorevolezza dell’avallo del Quirinale, resta il fatto che – guardando tuttavia ai già citati principi elaborati in passato sul tema dalla giurisprudenza costituzionale – resta lecito sostenere una tesi diversa, ossia che la sola misura certamente legittima (a voler ritenere che il DPCM del 3-4 novembre possa avere forza e valore equiparato ad una legge, per effetto appunto della “copertura” fornita dai decreti legge convertiti dal parlamento) sia quella che limita lo spostamento tra diverse regioni (o tra diversi comuni della stessa regione) quando in almeno uno dei due territori esiste un rischio sanitario classificabile almeno nella categoria “arancione”. In queste ipotesi, in effetti, si limita la libertà di spostamento – dunque la libertà di circolazione – secondo criteri territoriali e sulla base del grado di pericolo rilevato nei relativi territori. Questo consente di sostenere che limitazione alla circolazione non dissimula un limite alla libertà personale e, dunque, incontra solo una riserva di legge, di guisa che con tutta probabilità – a voler ritenere, come pare di potersi fare, che l’ultimo DPCM sia atto “autorizzato” dai decreti legge precedenti – saremmo in presenza di una limitazione alle libertà personali disposta secondo procedure istituzionalmente corrette e con atti legittimi sotto il profilo costituzionale.

Più problematica appare la situazione con riferimento alle misure del cosiddetto “coprifuoco” (divieto di uscire di casa tra le 22 e le 5 su tutto il territorio nazionale) e del “confinamento domiciliare” (divieto di abbandonare senza giusta causa la dimora o il domicilio se si trova nelle regioni “rosse”). Anche in relazione a simili restrizioni, come si è visto, il Governo ha ritenuto di potersela cavare – con l’appoggio del legislatore e con l’avallo del Colle – sostenendo che si tratterebbe sì di limiti più incisivi, ma pur sempre alla sola libertà di circolazione. In realtà, come si diceva, si potrebbe sostenere anche che si tratta di restrizioni che – per quanto facciano salva la possibilità di spostarsi per ragioni di lavoro, salute o casi di necessità e urgenza – si sostanziano in vere e proprie limitazioni di libertà personale destinate a colpire categorie di soggetti (piuttosto che non determinati luoghi o territori) e che di conseguenza – rientrando nel disposto dell’art. 13 Cost. – dovrebbero restare soggette a riserva non solo di legge ma anche di giurisdizione. Il che le renderebbe illegittime anche a voler ritenere che al DPCM del 4 novembre sia attribuito valore e forza di legge per effetto della “delega” di adottare quelle misure concessa con i decreti legge precedenti. Si noti in particolare che l’esistenza delle tre “eccezioni” previste dai DPCM sia per il coprifuoco che per il confinamento domiciliare non pare poter mutare di molto la sostanza delle cose, essendo evidente che obbligare un cittadino a non poter uscire di casa se non per “lavorare”, “curarsi” o “far la spesa nelle vicinanze” e soddisfare altre “necessità urgenti”, significa limitare in misura assai significativa la sua libertà personale. Per capire che le cose stanno in questi termini basta infatti considerare che regimi di “libertà ridotta” di questo genere appaiono (oltre che compatibili con certe forme di schiavitù conosciute nella storia, anche) piuttosto simili al regime che connota alcune misure alternative all’esecuzione delle pene detentive. Tutto questo per dire che, in relazione al coprifuoco notturno nazionale e al confinamento domiciliare in zona rossa, resta assai concreto il rischio di una loro illegittimità costituzionale, sotto il profilo della violazione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost., anche a voler ritenere che si tratti di misure espressamente autorizzate dai precedenti decreti legge.

Ma veniamo ora proprio alla questione – più generale, ma molto importante – del valore, in termini di gerarchia della fonti, del DPCM del 4 novembre. La domanda fondamentale da porsi – come dovrebbe ormai essere chiaro – è infatti se questo DPCM può avere forza cogente pari a una legge, per l’effetto potendo legittimamente comprimere – quanto meno – le libertà fondamentali (di circolazione, di istruzione e di iniziativa economica) soggette a semplice riserva di legge. La risposta alla domanda dipende ovviamente dalla norma su cui quel DPCM si fonda.

Come abbiamo visto, la dichiarazione di stato di emergenza ai sensi della legge sulla protezione civile – sia perché le norme di quella legge non depongono in tal senso sia, e soprattutto, perché si tratta di legge ordinaria e non costituzionale, che dunque non può derogare alle disposizioni della carta fondamentale che tracciano la gerarchia delle fonti del diritto – non consente di attribuire ad alcun organo del potere esecutivo poteri legislativi differenti rispetto a quelli ordinariamente previsti dalla Costituzione. Dunque il DPCM, se fosse stato emesso dal Governo esclusivamente nell’esercizio di poteri fondati su quella dichiarazione o su quella legge, non potrebbe derogare ad alcun diritto costituzionale soggetto a riserva di legge.

A sua volta, come pure abbiamo visto, la Costituzione prevede, in ogni caso di necessità e urgenza diverso dalla guerra, che il potere emergenziale di legiferare attribuito all’Esecutivo sia esercitato sotto forma di decreto legge. Il che esclude ogni possibilità di sostenere che i DPCM possano risultare in qualche modo “coperti” – sotto il profilo della legittimità delle limitazioni ai diritti fondamentali – dallo stato di eccezione (eventualmente fondato a sua volta sulla dichiarazione di pandemia da parte dell’OMS).

Le considerazioni che precedono inducono dunque a ritenere che, per capire se le restrizioni contenute nell’ultimo DPCM siano legittime costituzionalmente, occorre in realtà verificare se le corrispondenti norme del DPCM siano o meno “coperte” da almeno uno dei decreti legge, tra i tanti che sono stati emessi nei mesi passati per la gestione dell’emergenza Covid. Si tratta di una verifica resa in certa misura più complicata del dovuto dal fatto che lo stesso DPCM, nel suo preambolo, menziona in pratica tutti i decreti emessi sino ad ora dal Governo e convertiti dalle Camere (tra i quali anche – in particolare – i Decreti Legge n. 6 e 19 del 2020, entrambi convertiti dal Parlamento), aggiungendovi – giusto per non farsi mancare nulla – la già citata legge sulla protezione civile (con relativa dichiarazione di stato di emergenza e rinnovo) così come due atti di indirizzo politico parlamentare e, infine, la dichiarazione di pandemia dell’OMS.

Quel che si può a mio avviso ragionevolmente sostenere è che le misure restrittive contenute nel DPCM del 4 novembre si fondano sulla “delega” – e dunque sull’autorizzazione – a limitare le libertà dei cittadini che si trova contenuta nel Decreto Legge n. 19/2020, poi convertito dalle Camere. Il che induce a ritenere che – in questo caso – quel DPCM sia sì un atto legittimo nella parte in cui dispone le misure restrittive, ma solo nella misura in cui tali misure limitano diritti soggetti a semplice riserva di legge e non anche quelli che incontrano una riserva di giurisdizione. Questo significa – in ultima analisi – che anche in relazione al nuovo DPCM del 4 novembre, così come si era visto per gli atti emessi nella primavera scorsa, il vero punctum dolens è rappresentato da misure restrittive (il coprifuoco notturno e il divieto di allontanamento da dimora o domicilio, salvo specifiche esigenze, all’interno delle zone rosse) in relazione alle quali esiste – come si è visto – un serio dubbio che si tratti di limitazioni di libertà personale e non della sola libertà di circolazione.

Ritenere che simili misure implichino anche limitazioni alla libertà personale (e non solo alla libertà di circolazione) implicherebbe importanti conseguenze sul piano giuridico. La prima è che le norme dei decreti legge convertiti che – sul presupposto che simili misure rappresentino solo ipotesi di limitazione della libertà di circolazione (ad esempio il già citato art. 1.2 del DL n. 19/2020 così come la corrispondente parte della legge di conversione) – hanno autorizzato l’Esecutivo a disporre con atto amministrativo generale e astratto il coprifuoco e/o i divieti di allontanamento dalla dimora o dal domicilio potrebbero essere impugnate – mediante rimessione di questione incidentale da parte di un qualunque Giudice chiamato ad applicare gli atti sanzionatori nel frattempo irrogati per la loro violazione – dinanzi alla Corte Costituzionale per violazione dell’art. 13 Cost., nella misura in cui, appunto, si potrebbe trattare di norme che hanno attribuito all’Esecutivo un potere (quello di limitare la libertà personale con atto amministrativo) che invece, secondo la norma costituzionale da ultimo citata, avrebbe dovuto essere concesso solo richiedendo un intervento autorizzativo della magistratura. Va da sé peraltro che l’eventuale declaratoria di parziale incostituzionalità dei Decreti Legge e delle leggi di conversione avrebbe – a sua volta – importanti ripercussioni a diversi livelli dell’ordinamento.

L’incostituzionalità del conferimento del potere di adottare certi provvedimenti si rifletterebbe infatti anzitutto in una annullabilità da parte del giudice amministrativo, nella parte de qua, degli atti amministrativi conseguenti a quel conferimento: non solo dunque le norme dei DPCM che prevedono quelle misure, ma anche gli atti derivati con cui sia stata irrogata una sanzione per la loro violazione. Inoltre, considerando che l’eventuale esercizio illegittimo dei poteri pubblici in questi casi inciderebbe certamente su diritti soggettivi, gli atti amministrativi in questione (anche qui: tanto il DPCM quanto gli atti che hanno irrogato sanzioni) saranno disapplicabili dal giudice ordinario, ad esempio ai fini dell’annullamento delle sanzioni amministrative. Questo significa però anche, sotto diverso profilo, che qualunque conseguenza dannosa – in termini patrimoniali, morali, biologici o psicologici – eventualmente causata ai cittadini per effetto della corrispondente parte del DPCM o degli atti sanzionatori successivi, rappresenterà ipotesi di danno ingiusto risarcibile ai sensi degli artt. 2043 e seguenti del codice civile, dunque autorizzando una condanna per danni nei confronti degli enti pubblici coinvolti. Restano invece ancora tutte da chiarire – specie in caso di azioni civili per danni da parte dei cittadini contro lo stato o contro singoli esponenti dell’Esecutivo – le possibili conseguenze in termini di danno erariale dell’eventuale annullamento e/o illegittimità dei provvedimenti di cui si è detto.

Conseguenza ultima (e per certi versi estrema) dell’eventuale illegittimità costituzionale della parte del DPCM del 4 novembre che ha disposto il coprifuoco e il divieto di allontanamento ingiustificato dalla dimora in zona rossa sarebbe peraltro anche l’illegittimità della limitazione della libertà personale provocata dall’attuazione di questi provvedimenti, con possibilità di procedere – anche con iniziativa d’Ufficio – all’apertura di indagini penali (ad esempio per sequestro di persona con abuso di autorità, almeno a voler seguire la più recente giurisprudenza del Tribunale di Ministri in relazione ai noti casi relativi ai migranti). Naturalmente si tratterebbe di reati ministeriali, dunque vi sarebbe in ogni caso, per gli inquirenti eventualmente intenzionati a procedere contro membri del Governo, la necessità di richiedere una previa autorizzazione delle Camere. Proprio in questo senso a mio avviso va letto il fatto che il Presidente del Consiglio, nel preambolo del DPCM del 4 Novembre, abbia menzionato gli atti di indirizzo parlamentare votati nel frattempo dal parlamento: in caso di eventuale richiesta della magistratura di una autorizzazione da parte del parlamento a procedere penalmente contro membri dell’Esecutivo, il Governo potrebbe infatti usare quegli atti di indirizzo politico che sostenere di aver agito nell’ambito di un mandato politico, dunque sottraendosi al sindacato della giustizia penale. Va però precisato che il Parlamento – quando decidere di una autorizzazione a procedere – agisce con discrezionalità politica, di guisa che una “garanzia” per il Governo che il parlamento decida su eventuali future autorizzazioni a procedere in modo coerente ai suoi atti di indirizzo politico precedenti è in realtà una garanzia che vale solo sino a quando la maggioranza parlamentare è la stessa che ha adottato l’atto di indirizzo politico.

Infine – trattandosi di Decreti Legge e Leggi di conversione che sono state controfirmate senza rilievi dal Presidente della Repubblica – nel caso in cui la Corte Costituzionale dovesse mai giungere alla conclusione che le norme in questione rappresentavano una violazione dell’art. 13 Cost. – si aprirebbero inevitabilmente accesi dibattiti circa il fatto che vulnus alla riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost. fosse anche “chiaramente evidente” già al momento dell’adizione dei decreti e della loro conversione, di guisa che il Capo dello Stato ben avrebbe potuto (ma anche – a quel punto – dovuto) esercitare le proprie prerogative per rimandare la legge alle Camere in seconda lettura. In una simile evenienza andrebbe tenuto peraltro in adeguato conto, da un lato, che l’esistenza di una situazione di grave emergenza nazionale – e dunque l’opportunità di lasciare che il Governo reagisse celermente – potrebbe giustificare una minore propensione del Presidente della Repubblica ad esercitare i propri poteri di controllo (rispetto a casi in cui in passato alcuni provvedimenti – oggettivamente ben più “blandi” sotto il profilo del potenziale vulnus costituzionale – sono stati invece rinviati alle camere in seconda lettura). Per altro verso è innegabile che, già al momento della loro adozione, era piuttosto evidente che misure restrittive tanto incisive ed estese, non solo avrebbero limitato pesantemente le libertà fondamentali di milioni di cittadini, ma avrebbero avuto ricadute – in termini economici, di flessione della domanda interna e soprattutto di occupazione – tali da mettere in serio pericolo l’equilibrio dei conti pubblici e la tenuta dell’economia nazionale. Tutto questo per dire che, con ogni probabilità, il vero fulcro del problema – anche in relazione alla questione del potere di controllo del Presidente della Repubblica sulle misure emergenziali – resta quello di capire se le misure più estreme contenute nel DPCM del 4 novembre rappresentano – secondo una valutazione sommaria e dunque prima facie – una “semplice” limitazione della libertà di circolazione e non anche una vera e propria restrizione della libertà personale.

Personalmente ritengo che sollecitare una serena ma rigorosa verifica nelle sedi competenti – dinanzi alle differenti articolazioni della magistratura ordinaria, amministrativa, contabile e costituzionale – circa il fatto che le istituzioni dello Stato, dinanzi a una situazione emergenziale, abbiano saputo sempre tenere distinte le limitazioni alla libertà di circolazione (e delle altre libertà soggette a semplice riserva di legge) da quelle che incidono anche sulla libertà personale dei cittadini (e che invece – così come per l’inviolabilità del domicilio – richiedono sempre l’intervento di un giudice “terzo” anche in presenza di gravi emergenze nazionali diverse dagli eventi bellici) non sarebbe esercizio di sterile. Si tratta anzi di un passaggio essenziale – in uno stato che voglia definirsi liberale – per mantenere saldi i principi dello stato di diritto anche in situazioni di emergenza, ossia in casi in cui – come la storia insegna (e anche i nostri padri costituenti ben sapevano) – è più probabile che i poteri dello stato incappino (più o meno consapevolmente e più o meno in nome una “buona causa”) in derive autoritarie.

Principi come la libertà personale e l’inviolabilità del domicilio – ma non diversamente dovrebbe dirsi anche del divieto di imporre trattamenti sanitari senza il consenso di chi li subisce – non sono infatti un “lusso” che lo stato concede ai cittadini solo in situazione ordinaria (cosa che invece così tanti commentatori – e purtroppo anche qualche giurista – mostrano di ritenere): sono il fondamento ultimo del nostro concetto di rapporti tra società e poteri dello stato. Qualunque stato che voglia infatti chiamarsi davvero “stato di diritto” – tema di cui in sede EU si parla spesso – dovrebbe infatti saper mantenere fermo il principio secondo cui, di fronte a certe libertà individuali, il potere pubblico non può provvedere con atti d’imperio, neppure se adottati o autorizzati dal legislatore. Nessuna maggioranza politica parlamentare ordinaria può arrogarsi il potere di limitare o eliminare certi diritti, neppure per legge, senza l’intervento caso per caso del Giudice, ossia senza l’intermediazione di un potere terzo e imparziale rispetto alle decisioni politiche. Proprio a questo serve del resto la Costituzione: a difendere certi diritti di ciascun singolo cittadini contro l’arbitrio del potere sovrano, anche quando un simile potere viene esercitato da un Parlamento. Lo stato di diritto viene prima della stessa democrazia, in quanto consente che quest’ultima non si trasformi in una tirannia della maggioranza politicamente rappresentata. E questo – si badi – vale certamente anche in situazione di emergenza. Anzi: vale soprattutto in situazione di emergenza.

Una questione di simile portata – ossia la possibile violazione della libertà personale di milioni di cittadini posta in essere dai poteri pubblici al di fuori delle dovute garanzie costituzionali – non si può dunque certo liquidare prendendo come oro colato l’espediente usato dal legislatore di affermare che limitino solo la libertà di circolazione delle misure che – consistendo in una sorta di arresti domiciliari attenutati – ben potrebbero aver anche intaccato e limitato la libertà individuale. La “parola” del Governo (così come della maggioranza che lo sostiene in Parlamento) non basta infatti per tutelare il cittadino quando l’abuso di potere potrebbe essere stato perpetrato proprio da quello stesso governo e legislatore. E anche il controllo del Presidente della Repubblica non pare sufficiente – trattandosi comunque di un controllo sommario e che viene operato da un organo nominato pur sempre da una maggioranza parlamentare – quando i diritti in gioco sono quelli davvero fondamentali per conservare lo stato di diritto. C’è poco da fare, insomma: solo la terzietà di un vero giudice – in simili casi – offre sufficienti garanzie di indipendenza.

Sollecitare una verifica da parte della magistratura sull’operato delle istituzioni di fronte all’emergenza avrebbe dunque il benefico effetto di richiamare l’attenzione di chi governa (ma anche di chi sostiene in Parlamento l’azione di questo Governo) sulla necessità di evitare che anche da noi ci si avvii sulla china che parrebbe essere stata imboccata ad esempio in Germania, paese in cui la maggioranza parlamentare sta mettendo ai voti una proposta di legge che – in caso di emergenza sanitaria – in nome della “protezione del popolo” attribuisce al potere esecutivo, per di più senza specificare limiti di durata, pieni poteri tanto intensi da consentire limitazioni – tra le altre – anche della libertà personale dei cittadini e dell’inviolabilità del loro domicilio. Per non parlare delle voci che – all’estero ma anche qui da noi – si levano sempre più di frequente per invocare un obbligo di vaccino generalizzato imposto per legge. Simili misure – che davvero rappresentano un potenziale vulnus al concetto di “stato di diritto – non appartengono alla nostra cultura giuridica. Ci si chiede peraltro perché mai l’UE, così solerte nel lamentarsi con Ungheria e Polonia per pretese violazioni della rule of law perché le rispettive legislazioni attenterebbero alla divisione dei poteri, nulla abbia da eccepire quando le derive illiberali sono poste in essere da altri stati.

In particolare proprio la proposta di legge attualmente in discussione in Germania – che viene presentata da quel governo come strumento per la “protezione del popolo” – dovrebbe far ricordare che il concetto stesso di costituzione (o quanto meno quello di costituzione rigida) si fonda sull’assunto per cui esistono diritti – quali appunto la libertà personale e l’inviolabilità del domicilio – la cui tutela contro lo stato, anzi: soprattutto contro lo stato, consente di conservare quello che noi chiamiamo “stato di diritto”.  Vivere in uno stato di diritto significa vivere in un ordinamento in cui la costituzione difende alcune libertà del cittadino contro il potere dello stato, obbligando lo stato stesso – se vuole limitarle – a confrontarsi col cittadini davanti a un giudice terzo e indipendente, non potendo i pubblici poteri agire unilateralmente né con atti governativi né sulla base di leggi approvate da maggioranze parlamentare ordinaria).

Questa è del resto anche la semplicissima e chiara ragione –ormai ignorata dai più – per cui ad alcuni diritti fondamentali della persona (la libertà personale e inviolabilità del domicilio) non sarebbe comunque legittimo attribuire rango costituzionale inferiore al diritto alla salute e all’incolumità personale. E tutto questo senza ricordare che così tanti hanno sacrificato la propria vita nei decenni passati per dare a noi oggi la garanzia costituzionale della libertà personale e dell’inviolabilità del domicilio che appare davvero difficile capire per quale ragioni così tanti oggi – anche tra i giuristi e politici che si dichiarano a gran voce democratici e liberali – possano sostenere a cuor leggero che la vita e la salute sono “certamente” più importanti, nella scala costituzionale, della libertà personale.

Chi teme per la salute e la vita di alcune categorie a rischio oggi vorrebbe infatti comprimere “senza se e senza ma” la libertà personale di tutti quanti, senza capire che – seguitando su questa strada – potrebbe trovarsi un giorno senza alcuna difesa legale di fronte a uno stato che – a quel punto – potrà disporre come meglio crede anche della salute (e dunque della vita) di chiunque. Suonano insomma tremendamente attuali – per quanto siano stato pronunciate ormai già più di due secoli fa – le parole di Thomas Jefferson, secondo cui “chi rinuncia alla sua libertà per la sicurezza, non ottiene nessuna delle due”. Stiamo dunque attenti, perché – dopo decenni in cui la politica ci ha abituati a gridare al fascismo o allo stalinismo di fronte a qualunque quisquilia – rischiamo alla fine di non far più caso ai “veri” segnali del fatto che – in Italia e in Europa – i principi fondamentali dello stato di diritto iniziano davvero a essere messi in discussione dalle stesse istituzioni che invece dovrebbero garantirli.