Il grande abbaglio del “modello italiano”. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, dal vostro osservatorio della Fondazione Hume continuate ad analizzare i dati sull’andamento dell’epidemia. Come siamo messi a contagi rispetto a marzo scorso?
Il numero attuale di persone contagiose nessuno lo conosce, perché i casi rilevati – oggi come ieri – sono solo la punta dell’iceberg. Io ritengo, basandomi soprattutto sui dati dei ricoveri, che il numero di persone in grado di infettare gli altri possa essere dell’ordine di 1/3 di allora.
Quanto al parametro più importante, la velocità di crescita dei contagi, quella attuale è la stessa dei giorni intorno al 21 marzo, quando venne decretato il vero lockdown, con la proibizione degli spostamenti fra comuni: i nuovi casi raddoppiano ogni settimana. Evidentemente è questa la soglia che induce i politici a risvegliarsi dal loro torpore.

Perché, dovrebbe essercene un’altra?
Certo, la soglia vera non è quando l’epidemia va fuori controllo, ma quando si passa da una crescita lineare a una crescita esponenziale.

E questa seconda soglia quando è stata attraversata?
Dipende dallo strumento che si usa per accorgersi che l’epidemia sta rialzando la testa. Se, come pare siano abituate a fare le autorità sanitarie, si usa il numero di nuovi casi giornaliero, il campanello di allarme era già suonato nell’ultima parte del mese di luglio. Se invece ci si basa su strumenti più sofisticati, il punto di svolta si situa intorno a metà giugno. Come Fondazione Hume abbiamo sollevato il problema precisamente allora (4 mesi fa!), con un’intervista all’Huffington Post in cui notavo che, per salvare il turismo estivo, il nostro governo stava lasciando ripartire l’epidemia.

E a tamponi come stiamo?
Sui tamponi ci sono state varie fasi, ognuna caratterizzata da un diverso tipo di negazionismo.
Nelle prime settimane, il negazionismo governativo era assoluto: i tamponi danneggiano il turismo, facciamoli solo in casi estremi.
Poi, fino all’appello di Lettera 150 promosso da Giuseppe Valditara e Andrea Crisanti (inizio maggio), è stato il tempo del negazionismo relativo: i tamponi servono, e noi ne facciamo più di ogni altro paese, Germania compresa (era falso, ma loro mostravano di crederci).
Infine, dopo un breve periodo in cui anche le autorità sanitarie parevano essersi convinte della giustezza dell’appello di Lettera 150, siamo passati al negazionismo di fatto: sappiamo che dobbiamo fare molti più tamponi, ma di fatto ne facciamo pochi. Giusto per darle un’idea: il numero medio di tamponi settimanali di agosto era ancora ai livelli di maggio.
L’unico cambiamento significativo è intervenuto fra settembre e ottobre, quando finalmente il numero di tamponi è aumentato sensibilmente (di circa il 40% rispetto a fine agosto), se non altro per limitare i danni provocati dai vacanzieri di ritorno. Ma siamo ancora lontanissimi dal livello suggerito da Crisanti, che a fine agosto aveva chiesto di (almeno) triplicare il numero di tamponi, con tanto di piano trasmesso la governo.

Ma non siamo tra quelli che fanno meglio in Europa?
Questo è semplicemente un abbaglio collettivo, qualcosa di cui come sociologo stento a darmi conto. Capisco che chi ci governa non abbia il minimo rispetto per la pietrosa realtà dei dati, e abbia voluto alimentare il mito del “modello italiano” che tutti ci invidierebbero, ma trovo mortificante che – fortunatamente con qualche eccezione – il sistema dei media per mesi abbia accettato acriticamente questa narrazione.

E allora diciamoli questi dati…
Il primo dato, il dato di fondo, da cui qualsiasi analisi dovrebbe partire, è il bilancio complessivo in termini di morti e di caduta del Pil. Ebbene, su 37 società avanzate (paesi Oecd e Unione Europea) solo quattro hanno avuto più morti per abitante di noi. Si tratta di Spagna, Belgio, Regno Unito, Stati Uniti (vedi grafico). Quanto al Pil, le previsioni del Fondo Monetario Internazionale uscite pochi giorni fa, ci dicono che quest’anno solo la Spagna farà peggio di noi (vedi grafico).
Ma non è tutto. Anche se guardiamo esclusivamente alla fase attuale, quella in cui – secondo la narrazione dominante – l’Italia si starebbe comportando meglio degli altri paesi, la realtà è che siamo a metà classifica, un po’ meglio di Francia e Regno Unito, ma molto peggio della Germania. L’illusione di stare molto meglio di Francia e Regno Unito si basa semplicemente su un errore, o ingenuità, di tipo statistico.

Che tipo di errore?
L’errore di basarsi sui nuovi casi giornalieri accertati, senza tener conto del fatto che la capacità diagnostica dei vari paesi è molto diversa, perché diverso è il numero di tamponi per abitante, e diversa è l’efficacia del tracciamento. Tutti i maggiori paesi occidentali, compresa la Francia, da almeno due mesi fanno il doppio o il triplo dei tamponi che facciamo noi, e questo finisce per gonfiare il numero di nuovi casi diagnosticati, permettendo a noi – che di tamponi ne facciamo molti di meno – di cullarci nell’illusione di stare meglio di altri.
Ma c’è un errore ancora più grande, che un po’ tutti hanno commesso.

Quale?
E’ quello di puntare sempre i riflettori su chi stava peggio di noi, anziché su chi aveva fatto molto meglio, con un bilancio di morti (e di caduta del Pil) enormemente più favorevole del nostro. Avremmo dovuto studiare i paesi migliori per cercare di imitarli, anziché auto-rassicurarci con i guai dei paesi che avevano sbagliato strategia.

La riapertura delle scuole, e il successivo svolgimento delle elezioni, hanno avuto un peso sulla crescita dei contagi? O stiamo pagando ancora le vacanze matte di agosto?
La scuola è semplicemente il luogo nel quale, a causa di un livello di attenzione lodevolmente elevato (tamponi), si tocca con mano quanto folle sia stata la nostra estate. Quanto alle elezioni sì, è possibile che, come temeva il prof. Massimo Galli, decine di milioni di italiani alle urne abbiano accelerato la circolazione del virus. Lo dico perché la serie dei decessi ha avuto un repentino innalzamento dopo l’11 ottobre, giusto 20-25 giorni dopo la data del voto, e giusto ieri un nuovo balzo (+83 morti, il doppio del giorno prima).
Ma quello che stiamo pagando davvero, in questi giorni, sono i 5 peccati capitali dei nostri governanti: pochi tamponi; mancato rafforzamento del trasporto pubblico locale; incredibili ritardi nel rafforzamento del servizio sanitario nazionale e della medicina territoriale; deliberata indulgenza su movida, discoteche, assembramenti; nessun serio piano per ridurre il numero di alunni per classe.
E’ ipocrita, e anche un po’ vile, attribuire la responsabilità del dramma attuale alla popolazione, quando si sono passati mesi ad adulare i cittadini per il loro presunto senso di responsabilità, anziché denunciarne le follie estive, e magari provare a far rispettare le regole. La realtà è molto semplice e cruda: la frittata l’hanno fatta i governanti, e adesso tocca a noi toglier loro le castagne dal fuoco. Perché la strategia del governo è sempre quella, ieri come oggi: tergiversare finché i casi sembrano pochi; svegliarsi di colpo quando si profila il collasso del sistema sanitario; e a quel punto terrorizzare l’opinione pubblica perché accetti l’unica cosa che al governo riesce bene, ossia chiuderci tutti in casa.
Ma il dato più terribile è che, oggi come ieri, chi si ammala non riceve alcuna visita a casa, ed è abbandonato nei meandri della burocrazia sanitaria, digitalizzata e senza umanità (una realtà che il caso di Feruccio Sansa riassume fin troppo bene).

Il virologo Andrea Crisanti auspica un nuovo lockdown a ridosso del Natale per frenare il diffondersi del contagio. Cosa ne pensa?
Ho ascoltato l’intervista, ma non mi è sembrato un auspicio, semmai una previsione. Secondo me il prof. Crisanti, per una volta, è fin troppo ottimista: se ci sarà un nuovo lockdown, sarà ben prima di Natale. Il problema dei politici è che sanno benissimo che solo i nostri sacrifici possono rallentare la circolazione del virus, ma non hanno ancora trovato un modo di chiuderci senza dire che ci rinchiudono una seconda volta.

Cosa manca secondo lei per gestire la crisi sanitaria ed economica? Il governo invita tutti al senso della responsabilità
Quel che manca lo sappiamo perfettamente: è tutto quel che il governo avrebbe dovuto fare e non ha fatto. Ora è tardi, quasi tutto quel che andava fatto richiede mesi, e andrebbe attuato in condizioni di quasi-normalità, in cui siamo stati per 4 mesi e ormai non siamo più. Mentre ai primi di marzo, proprio in un’intervista a questo giornale, mi ero permesso di fare un invito alla chiusura immediata, oggi ogni suggerimento mi pare perfettamente inutile: i buoi sono scappati, possiamo solo inseguirli più o meno affannosamente, e con maggiore o minore cialtroneria.

Ma l’Italia si può permettere un nuovo lockdown?  Il Fondo monetario internazionale ha abbassato le stime di crescita del Pil rispetto a quanto fa il governo nei suoi documenti economici e finanziari, non sarebbe un disastro?
Il disastro c’è già stato, purtroppo, e il neo-lockdown che verrà non potrà che aggravarlo. Ma bisogna capire che l’alternativa non è fra salute ed economia. Contrariamente a quel che il senso comune sembra suggerire, la relazione fra salute ed economia è diretta, non inversa. Meno ci si preoccupa della salute oggi, e più si danneggia l’economia domani. E’ da qualche mese che provo ad avanzare questo dubbio, ora uno studio del Fondo Monetario Internazionale pare arrivare alle medesime conclusioni.
Se il Fondo Monetario ha ragione, i difensori estivi dell’economia sono stati i suoi peggiori nemici, perché è precisamente la superficialità con cui si è riaperto durante la stagione calda che sta per regalarci un nuovo lockdown, più o meno mascherato, ora che inizia la stagione fredda.

Siamo a un passo dall’approvazione del nostro piano di utilizzo delle risorse del Recovery Fund. Che gliene pare? Nel 2021 quanta ricchezza recupereremo?
Le risorse del Recovery Fund arriveranno nella seconda metà del 2021, quindi il loro effetto si farà sentire solo nel 2022. Per quanto riguarda il rimbalzo del Pil italiano, sono pessimista: la politica dei bonus e dei sussidi è la ricetta giusta per non far ripartire l’economia. Siamo avviati a diventare una “società parassita di massa”, e in una società basata sull’invadenza dello Stato e il soffocamento del settore privato il Pil non cresce.

 

Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi, ItaliaOggi, 16 ottobre 2020




L’economia contro l’economia

E’ stato necessario superare i 4000 nuovi casi (giovedì scorso), quasi 1000 in più del giorno prima, perché anche i nostri governanti, fin qui impegnati a lodare il “modello italiano” che tutto il mondo ci invidierebbe, cominciassero a sospettare che non tutto stesse filando liscio. Ora, improvvisamente, si parla di 10 o 20 mila casi al giorno come un punto d’arrivo non troppo lontano (ieri, nonostante i pochi tamponi, erano già ben oltre quota 5000). E c’è persino qualche membro del Comitato tecnico-scientifico che confessa candidamente che “non se lo aspettava”.

Eppure i segnali di una ripresa dell’epidemia c’erano tutti, e da parecchio tempo. Come Fondazione Hume, fin dalla metà di giugno (circa 4 mesi fa) avevamo segnalato che in molte province l’epidemia stava rialzando la testa. Come noi, diversi centri indipendenti non hanno mai smesso di snocciolare quotidianamente le cifre che indicavano l’aggravarsi della situazione. E sono state molte, anche se minoritarie, le voci che in questi mesi hanno ripetutamente denunciato l’insufficienza del numero di tamponi, l’errore di aprire le discoteche, l’inerzia delle autorità su movida e assembramenti nei trasporti pubblici, i ritardi sul versante delle scuole (mancanza di spazi, insegnanti, banchi). Per non parlare dei numeri della Protezione Civile: non è certo da quest’ultima settimana che tutti gli indici del contagio – nuovi casi, ricoveri in terapia intensiva, morti – si muovono su una traiettoria di crescita accelerata. Ed è sotto gli occhi di chiunque abbia il coraggio di guardarlo in faccia il dato di base sui tamponi: da almeno due mesi l’Italia fa meno tamponi per abitante di Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, per limitarci ai paesi a noi più comparabili.

Sui veri motivi che hanno condotto le nostre autorità, che sicuramente sapevano quel che stava succedendo, a ritardare gli interventi necessari, preferisco non dire e non pensare nulla. Mi soffermerei, invece, su uno in particolare dei possibili motivi, che è anche quello più citato, capito e approvato un po’ da tutti: “non potevamo fermare l’economia”.

Ebbene, su questo motivo mi sono permesso, nei mesi scorsi, di porre la seguente domanda: qualcuno ha provato a calcolare se i benefici economici immediati della linea “aperturista” siano maggiori dei costi che dovremo sostenere quando la ripresa dell’epidemia sarà evidente a tutti, e si sarà costretti a nuovi lockdown più o meno generalizzati?

Detto in altre parole: siamo sicuri che l’alternativa sia fra salute ed economia? Siamo sicuri che ridando fiato all’economia oggi, non finiamo per soffocarla domani, appena il virus avrà ripreso la sua corsa?

Insomma, la mia idea era che la dottrina Crisanti – assestare il colpo decisivo al virus quando circola ancora poco (cioè a giugno) – non avesse solo giustificazioni sanitarie o etiche, ma potesse avere anche una giustificazione economica.

Ho posto la domanda in un paio di articoli su questo giornale, l’ho ripetuta ad economisti ed esperti di finanza, ma non ho ricevuto risposte, per lo più perché “il calcolo è troppo difficile”. Ora però uno studio del Fondo Monetario Internazionale, uscito pochi giorni fa, una risposta la fornisce.

Nello stile cauto che si addice, molto opportunamente, a chi fa ricerca con modelli statistici, il Fondo Monetario avanza una tesi che pare supportare la mia ipotesi. Secondo lo studio, il lockdown ha sì effetti negativi immediati sull’economia, ma il fattore cruciale per la ripresa dell’economia è quel che succede dopo il lockdown. Se dopo il lockdown, per qualche motivo, il numero si contagiati è ancora alto si innesca una catena causale esiziale per la ripresa delle attività economiche: l’alto numero di contagiati aumenta il rischio percepito, l’aumento del rischio percepito induce la gente a proteggersi volontariamente con il distanziamento sociale, la messa in atto sistematica di misure individuali ultra-prudenti fa crollare la mobilità e le interazioni sociali, e di qui consumi, occupazione, eccetera. Per dirla più in concreto: serve a ben poco far riaprire bar, ristoranti, negozi, perché la gente, se non è ancora tranquilla, non ci entrerà quasi mai in quei bar, ristoranti, negozi. Insomma il vero nodo è se il lockdown è abbastanza tempestivo (il nostro non lo è stato: vedi Nembro e Alzano), e se dopo il lockdown la circolazione del virus è sufficientemente bassa da rendere soggettivamente trascurabile il rischio di contagi.

E’ proprio questo il nostro problema, mi pare. Per salvare l’industria del turismo, che prospera per tre mesi all’anno, abbiamo messo a repentaglio l’economia nel suo insieme, che ha di fronte sei mesi in cui le condizioni climatiche saranno tutte dalla parte del virus.

Ci hanno abituati a pensare che la politica si trovasse di fronte al dramma di dover scegliere fra la salute e l’economia, o di trovare un ragionevole compromesso. Lo studio del Fondo Monetario suggerisce un’altra lettura: usare la tregua estiva per portare vicino a zero il numero dei contagi sarebbe stato il modo più efficace di aiutare l’economia; usarla per sostenere l’industria delle vacanze è stata una scelta miope, di cui ora siamo chiamati a pagare il prezzo.

Forse dobbiamo prenderne atto: il peggior nemico dell’economia è il “partito dell’economia”.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 ottobre 2020




Noi e gli altri. Seconda ondata?

Di “seconda ondata” ormai si parla da qualche mese. In Europa come in Italia. Ma non mi è ancora capitato di sentire una definizione precisa di che cosa si debba intendere per seconda ondata, e che cosa esattamente distingua un’ondata da una “ondina”, o da una serie di ondine.

In questo vuoto di definizioni statistiche, anche l’affermazione che ci sarà o non ci sarà una seconda ondata diventa vuota di significato. Proviamo allora ad abbozzare una definizione, per poi tornare alla domanda.

Per “seconda ondata” è ragionevole intendere una situazione nella quale sia il numero di contagiati per 100 mila abitanti, sia la sua velocità di crescita siano quantitativamente comparabili a quelli della prima ondata, che nella maggior parte dei paesi si è sviluppata tra marzo e maggio.

Dunque, in Italia sta arrivando una seconda ondata? E negli altri paesi?

Qui arriva il difficile. Per applicare la nostra definizione, bisognerebbe conoscere il numero dei contagiati e il suo andamento nel tempo, che sono grandezze incognite non solo in Italia ma ovunque nel mondo. Quel che conosciamo, paese per paese, è solo il numero di nuovi casi diagnosticati ogni giorno, che sono molti di meno dei casi effettivi. Per ricostruire la curva epidemica reale di ogni paese dovremmo conoscere il moltiplicatore che fa passare dai casi diagnosticati a quelli effettivi. Non solo, ma dovremmo sapere come il moltiplicatore varia nel tempo e nello spazio, fra paesi e all’interno di un paese. Senza queste informazioni sia i confronti nel tempo sia quelli nello spazio diventano problematici.

Fortunatamente, qualche frammento di informazione ce l’abbiamo. Sappiamo, ad esempio, che il moltiplicatore dell’Italia è almeno 6, dal momento che il numero di contagiati totale stimato dall’Istat con l’indagine di sieroprevalenza di giugno-luglio è dell’ordine di 1 milione e mezzo, ossia 6 volte il numero di casi diagnosticati, che è dell’ordine di 250 mila. Sappiamo anche, dai calcoli effettuati dalla Fondazione Hume comparando dati di mortalità e casi diagnosticati, che il moltiplicatore varia notevolmente nel tempo e nello spazio, perché la capacità diagnostica non è né costante né uniforme. La capacità diagnostica, ad esempio, differisce notevolmente da regione a regione (vedi grafico 1), e anche da paese a paese, generando marcate differenze fra i moltiplicatori che occorre applicare ai dati grezzi. Il moltiplicatore dell’Italia, ad esempio, è sensibilmente più alto di quello di Francia e Germania, perché la nostra capacità diagnostica è sensibilmente inferiore. Ecco perché i confronti internazionali, dai quali principalmente traiamo motivi di conforto, andrebbero presi con prudenza: per comparaci alla Germania, ad esempio, dovremmo quasi triplicare i nostri tassi di incidenza.

Detto tutto questo, e nonostante tutto questo, torniamo al punto: è in arrivo una seconda ondata in Italia? Che cosa si può dire in base ai dati disponibili?

La prima parte della risposta è confortante. Se parliamo dell’Italia nel suo insieme, e in mancanza del numero di contagiati “vero” ci basiamo sul numero di contagiati rilevato con i tamponi, possiamo dire che, al momento, siamo ancora molto lontani da una seconda ondata. E’ vero che la curva epidemica è tornata a salire, è vero che di questo dobbiamo ringraziare le imprudenze estive degli italiani e dei loro governanti (discoteche aperte, movida, ecc.), ma è anche vero che sia il numero di contagiati, sia la velocità a cui crescono attualmente non sono comparabili a quelli di marzo-aprile. E il risultato del confronto fra oggi e marzo-aprile risulterebbe ancora più rassicurante se, anziché disporre solo della serie storica dei casi diagnosticati, disponessimo di quella dei casi effettivi. Quel che è certo, infatti, è che il moltiplicatore di marzo-aprile era molto più alto di quello di oggi o, detto in altre parole, ieri la parte sommersa dell’iceberg del contagio era molto più grande.

Ma c’è anche una seconda parte della risposta, ed è meno rassicurante. In una fase come questa, quel che è importante non è che cosa succede in media, ma che cosa succede nei singoli territori. Certo, possiamo tranquillizzarci perché il mare è molto meno agitato di sei mesi fa, ma dobbiamo chiederci se lo è ovunque, o ci sono invece golfi, insenature e calette dove il mare sta salendo pericolosamente. Ebbene, qui la risposta è diversa da quella sull’Italia nel suo insieme. Perché c’è una provincia, La Spezia, in cui la situazione è molto preoccupante. L’incidenza bisettimanale (nuovi casi ogni 100 mila abitanti), corretta per la capacità diagnostica della Liguria, è quasi 20 volte quella media nazionale (vedi grafico 2). E se compariamo la situazione di oggi con quella di ieri è inevitabile concludere che sono piuttosto simili: la curva epidemica di La Spezia presenta due picchi, uno ad aprile (in pieno lockdown), l’altro questo mese di settembre; l’altezza dei due picchi è la stessa, e la velocità del contagio è comparabile.

Insomma, per la Spezia la domanda non è se, e quando, arriverà la seconda ondata: la seconda ondata è in corso. Semmai viene da chiedersi che cosa si aspetta a intervenire con la dovuta determinazione.

E’ l’unico caso, quello di La Spezia?

Se, in assenza di dati comunali, ragioniamo a livello provinciale, la risposta è che, per ora, non ci sono province con una situazione epidemica grave come quella di La Spezia. La peggiore provincia dopo la Spezia è Genova (ancora una provincia ligure), ma i casi di Genova sono meno di 1/6 di quelli di La Spezia, ancorché il triplo della media nazionale. Come Genova, ci sono una decina di altre province, metà al Nord e metà al Sud, in cui l’incidenza effettiva – senza raggiungere i livelli record di La Spezia – è molto superiore a quella nazionale (vedi grafico 3).

Converrà tenerle d’occhio, prima che il mare si alzi anche lì.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 settembre 2020




L’Italia e gli altri

di Rossana Cima e Luca Ricolfi

Israele è entrata ieri (venerdì 18 settembre) in un secondo lockdown che durerà almeno tre settimane.  Solo giovedì il paese ha registrato 55.4 nuovi contagi per 100 mila abitanti, un valore che è circa il doppio di quello osservato in Spagna (24.1 nuovi casi per 100.000 abitanti) e 20 volte più alto di quello registrato in Italia (2.6).
Sono scattate restrizioni per circa 10 milioni di persone anche nel Regno Unito. Già nei giorni precedenti era stato imposto il divieto di riunirsi in più di sei persone.

L’epidemia sta dunque rialzando la testa? Per analizzare l’evoluzione dei contagi e valutare la gravità dell’epidemia possiamo basarci sui grafici seguenti che rappresentano l’andamento dei nuovi decessi in rapporto alla popolazione in 49 paesi (vedi nota tecnica) in base ai dati disponibili il 15 settembre.
Le due linee tratteggiate, azzurra e grigia, presenti nei grafici corrispondono rispettivamente all’incremento medio settimanale registrato dall’Italia nel mese di giugno e al valore mediano registrato da tutti i 49 paesi nell’ultima settimana. Questo ci permetterà di valutare la curva epidemica di ciascun paese rispetto 1) alla situazione che presentava l’Italia subito dopo la fine del lockdown e 2) all’evoluzione dei contagi registrata mediamente dall’insieme dei paesi considerati negli ultimi sette giorni.

Sono 12 i paesi che presentano numeri in crescita. Particolarmente significativi sono gli incrementi registrati in Israele, Spagna e Ucraina. Qui la curva epidemica sta crescendo molto più rapidamente di quanto è successo nel nostro paese subito dopo la fine del lockdown. La Croazia ha invece raggiunto lo stesso ritmo dell’Italia solo recentemente.

Il trend è in aumento, ma rimane sotto il livello di guardia italiano post-chiusura, anche in Russia, Turchia, Francia, Repubblica Ceca, Grecia, Portogallo, Ungheria e Irlanda.

Negli ultimi giorni la curva è tornata a puntare verso l’alto anche in Brasile, Stati Uniti, Bosnia e Polonia. Solo nei prossimi giorni sarà possibile capire se questi incrementi siano il risultato di un’inversione di tendenza o se si tratti di una semplice fluttuazione.
Rimane comunque particolarmente elevato il ritmo del contagio in Brasile, Stati Uniti e Bosnia.

La curva dei contagi è invece in discesa in 12 paesi. Romania, Messico e Cile continuano però a registrare un numero di nuovi decessi significativo, di molto superiore al livello dell’Italia di giugno. Armenia, Bulgaria e Albania lo hanno invece raggiunto.

Incrementi contenuti, inferiori al valore mediano dei 49 paesi, si osservano invece in Canada, Regno Unito, Italia, Giappone, Korea, Germania e Danimarca. Il nostro paese fa dunque parte di questo gruppo ma, insieme al Regno Unito, è quello che presenta (almeno nell’ultima settimana) tassi di crescita più elevati.

Sono 10 i paesi che invece presentano una chiara convergenza a zero. Fra essi si trovano l’Islanda che ormai da 142 conta zero decessi, e il Lussemburgo che sembra aver superato definitivamente il picco registrato ad inizio agosto.

Segnali poco nitidi arrivano da 4 paesi. Si deve però osservare come in Moldavia, Montenegro e Macedonia il numero di nuovi contagi continui a rimanere molto alto, ben al di sopra del valore di guardia italiano post lockdown.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi provengono dal database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 15 settembre.

Quanto possibile, i dati sono stati corretti per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalle autorità nazionali che hanno fornito il dato.

Dall’analisi è stato escluso il Kosovo perché presentava un andamento irregolare probabilmente dovuto ad un mancato aggiornamento dei dati.




Potevamo vincere il virus, il Governo ha scelto il turismo. Intervista a Luca Ricolfi

Che cosa ci dicono i dati sull’andamento del virus elaborati dalla Fondazione Hume?
La Fondazione pubblica quotidianamente un termometro dell’epidemia, che monitora l’andamento del numero di contagiati. Ebbene, il termometro segnava 1.5 gradi pseudo-Kelvin alla fine di luglio, oggi sfiora gli 8 gradi. Questo significa che il numero di contagiati è almeno quintuplicato in poco più di un mese.
Un’altra cosa che facciamo è valutare la capacità dei vari paesi di intercettare i contagiati. E’ un’operazione essenziale, perché i dati dei nuovi casi (i più usati dai mass media) sono del tutto fuorvianti: 1000 casi in più in Italia, che ha una bassa capacità diagnostica, sono molto più preoccupanti che 1000 contagiati in più in Germania, un paese che, grazie al numero di tamponi e alla capacità di tracciamento, ha una capacità diagnostica ben superiore alla nostra.

Che evoluzione c’è stata in questi mesi?
Forse, riguardo all’Italia, in questo momento il dato più significativo è l’inversione di tendenza delle curve dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva.  In poche settimane abbiamo avuto una triplicazione (decessi) e una quadruplicazione (terapie intensive). La svolta nella curva epidemica risale alla seconda metà di giugno (noi l’abbiamo segnalata il 18 giugno sul sito: www.fondazionehume.it), ma il governo – fino a Ferragosto – è stato del tutto sordo ai nostri allarmi, e non solo ai nostri. Anche la Fondazione Gimbe, con il prof. Nino Cartabellotta, anche virologi autorevoli come Andrea Crisanti e Massimo Galli, si sono sgolati per mesi avvertendo del pericolo di una ripartenza dell’epidemia, ma è stato tutto vano. Il governo non voleva vedere né sentire.

I virologi consigliano di guardare il numero dei ricoverati e non quello dei contagiati per capire l’andamento dell’epidemia: è d’accordo?
Hanno perfettamente ragione, il numero di ricoverati è molto più significativo. Però anche il numero di ricoverati ha dei problemi, due soprattutto. Il primo è che la Protezione Civile non fornisce il numero di ingressi in ospedale (dato di flusso), ma solo quello degli ospedalizzati (dato di stock), che è altamente fuorviante: se avessero fornito il numero di ingressi in ospedale, che non si sono mai fermati, ci si sarebbe accorti che l’epidemia andava assai meno bene di quanto suggerisse la stazionarietà o la diminuzione del numero di ospedalizzati. Il secondo problema è che l’andamento del numero di ospedalizzati sottostima fortemente l’andamento dei contagi quando l’età mediana dei contagiati si abbassa, perché i giovani finiscono in ospedale molto più raramente degli anziani. In concreto questo significa: negli ultimi 30 giorni le persone in terapia intensiva sono “solo” quadruplicate, ma i contagiati potrebbero essere aumentati anche di 7 o 8 volte.

Il governo Conte si è proposto come modello di gestione della pandemia, ma lei ha sconsigliato di prendere l’Italia come esempio. Perché?
Perché, fra le società avanzate (che sono più di 30) ci sono solo 3 paesi che hanno registrato più morti per abitante di noi, e cioè Belgio, Regno Unito, Spagna. Persino gli Stati Uniti, che i nostri media descrivono come un paese dove si è scatenata l’Apocalisse, hanno meno morti per abitante di noi. Ma non è l’unica ragione per cui considero l’Italia come un modello da non imitare, ce ne sono almeno altre due.

Quali?
La prima è che l’Italia ha gestito malissimo il ritorno a scuola, commettendo alcuni errori madornali, primo fra tutti la mancata riduzione del numero di alunni per classe. La seconda è che l’Italia è uno dei pochi paesi che sono riusciti nel capolavoro politico di rilanciare l’epidemia e al tempo stesso affossare l’economia.

Chi bisognerebbe seguire? La “solita” Germania?
Sì, la Germania si è comportata benissimo, era organizzata e pronta già a febbraio con i tamponi e il tracciamento. Ma, se devo indicare dei modelli, più che un singolo paese indicherei una categoria di paesi, che per brevità chiamerò i “paesi disciplinati”. Si tratta di paesi che, per le ragioni più diverse (la religione, la tradizione, la cultura), hanno una ampia riserva di senso civico, rispetto per l’autorità, propensione a seguire le regole. Fra questi c’è sicuramente la Germania, ma ci sono anche altri paesi europei di area germanica o asburgica (Austria, Svizzera, Ungheria), o di religione luterana (paesi scandinavi), nonché buona parte delle democrazie asiatiche più o meno influenzate dal confucianesimo e dal buddismo (Giappone, Corea del Sud, Taiwan). Se si vanno a vedere i tassi di mortalità per il Covid di questi paesi, si scopre che sono tutti molto inferiori a quelli dei maggiori paesi europei, come Regno Unito, Francia, Spagna, Italia.

A chi va attribuita la ripresa dei contagi? Ai giovani incontrollabili e amanti del rischio? Alla voglia generalizzata di sfogarsi dopo i mesi di isolamento? O è semplicemente un’evoluzione naturale della malattia alla quale dovremmo adeguarci?
No, il Covid si poteva sconfiggere, anche se non debellare completamente, quando (a giugno) i contagi erano scesi a 2-300 al giorno. Quello era il momento di moltiplicare i tamponi e mettere restrizioni severe ai viaggi per motivi turistici, sia verso l’estero sia verso l’interno. Alcuni governatori, ad esempio quelli della Sardegna e della Sicilia, l’avevano capito, ma sono stati messi a tacere dall’imperativo categorico di salvare la stagione turistica, costi quel che costi.

Le autorità sanitarie dovevano seminare tra la gente ancora più paura del Covid?
No, le autorità sanitarie avrebbero dovuto limitarsi a dire la verità, senza cambiarla a seconda dei giorni, dei programmi televisivi, o di chi fosse l’intervistato di turno.

Che messaggi ha dato il governo ai cittadini in questi mesi con la sequela di regole incoerenti su bus, treni, aerei, scuole, discoteche, aperitivi, mascherine a orario?
E’ molto semplice. Il governo ha scelto di dare messaggi contraddittori, perché ognuno potesse raccontarsi la situazione come voleva. Il governo desiderava che ci sfrenassimo, per risarcirci del lockdown e far ripartire l’economia, ma non poteva dire che non c’erano pericoli, perché sarebbe stato accusato di “procurata epidemia”. Ha scelto di lasciarci credere che i pericoli fossero tutto sommato limitati, senza prendersi la responsabilità di affermarlo esplicitamente.

Perché per la scuola si parla soltanto di regole da applicare, dai banchi mobili a chi deve rilevare la temperatura, senza che nessuno si sia preoccupato di una riforma più complessiva?
E’ da almeno vent’anni che, quando si parla di scuola, si parla solo di cattedre, graduatorie, edilizia, orari, senza alcun riferimento alla funzione di trasmissione culturale. Questo governo si è limitato a continuare sulla strada dei predecessori, dopo essersi liberato dell’unico ministro (l’on. Fioramonti) che sulla scuola e sull’università forse qualche idea ce l’aveva.

Alla fine del lockdown lei disse che il governo si giocava una “scommessa rischiosa”: lasciava riprendere l’economia e consentiva di fare le vacanze sperando che in autunno la situazione sarebbe stata diversa. Scommessa vinta o persa?
Strapersa, direi. Anche perché stagione fredda e influenze non potranno che peggiorare ancora le cose.

Nel suo ultimo libro (La società signorile di massa, La nave di Teseo), pubblicato subito prima dello scoppio della pandemia, lei sostiene che l’Italia si sta trasformando in una “società parassita di massa”. Le decisioni prese finora dal governo a colpi di bonus confermano la sua analisi. E’ una tendenza ineluttabile?
Temo di sì, perché anche a destra le spinte stataliste e assistenziali sono molto forti (quota 100 l’ha inventata Salvini). La realtà è che le forze pro-impresa e pro-mercato, non eccessivamente compromesse con l’assistenzialismo, non rappresentano più del 30% dell’elettorato.

A chi si riferisce?
Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione (Calenda), Italia viva (Renzi), più qualche esponente isolato del Pd, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori.

I soldi promessi dall’Europa serviranno davvero per ripartire o sarà l’ennesima iniezione di assistenzialismo parassitario?
La seconda che ha detto.

Lei ha scritto che del Covid si è parlato finora come minaccia per la salute e per l’economia, e non per la nostra psiche. Che intende?
Che non ci si può dividere stabilmente fra impauriti e incoscienti, e che il Covid è destinato a degradare la rete delle nostre relazioni sociali. Se dura ancora a lungo, diventerà anche un problema psichiatrico, perché l’umanità non è programmata per vivere temendo sistematicamente l’altro, quando l’altro è parte della propria comunità, rete di amici, cerchia famigliare.

Davvero ci avviamo verso una società in cui gli altri sono soltanto un pericolo?
No, perché una società di questo tipo non è una società. Se il Covid dura, e non si trova un vaccino né una cura, quella verso cui ci avviamo è una società di bolle, o monadi, o vasi non comunicanti: piccole cerchie di persone, che si vedono fra loro e minimizzano i contatti con il resto del mondo. Con buona pace della globalizzazione.

Posso chiederle che cosa voterà al referendum, se voterà?
Vivo buona parte dell’anno a Stromboli, non mi sposto certo a Torino per scegliere fra il sì e il no al referendum. Il problema è che chi vota no rafforza la casta, chi vota sì rafforza l’anti-casta, ma nessuno sa quale delle due fa più danni all’Italia.

Intervista di Stefano Filippi a Luca Ricolfi, La Verità, 14 settembre 2020