L’orso M49 e l’arte di fuggire

La prima volta non lo sapevo. Credevo fosse un gioco. Stavo rincorrendo farfalle, mi piacciono da morire. Me l’aveva insegnato la mia mamma, a farne scorpacciate. Andavamo a caccia tutto il giorno, lei ed io, poi la sera ci facevamo un’insalata di farfalle. Buona, dietetica. Mia madre non era tanto carnivora, preferiva la verdura, o le carni leggere, volatili… Acchiappare minuscoli esserini che ti svolazzano intorno è molto divertente. Se era stagione, ci mettevamo anche due funghetti di contorno. Ma io i funghi non li sapevo trovare; giravo giravo, e sì, li cercavo, ma non so come non riuscivo mai a vederli. Secondo me si nascondono, i funghi. Oppure mi distraevo. Sono un orso molto distratto, anche se non me ne accorgo di esserlo. Diciamo che mi distraggo anche dal mio essere distratto. Penso ad altro, o c’è sempre qualcosa che mi attira e mi porta da un’altra parte, non so, un fruscio, una nuvola che passa…

Comunque, la prima volta mi avete preso di sorpresa. Se era un gioco, non mi è piaciuto per niente. Mi avete legato, elettrizzato, intontito. Non so cosa mi avete fatto, mi girava la testa e non riuscivo più ad alzarmi. Appena ho potuto me ne sono andato. Mi dispiace, ma non ci posso stare rinchiuso. Non so se riuscite a immaginare… Se vi chiudessero in casa, se vi dicessero di non uscire più, di non passeggiare, non correre, non vedere gli amici, non giocare tra gli alberi… Si chiama lockdown, in inglese. Mai sentito?

Sono scappato tutte le volte che mi avete preso. Non era scappare, era solo che dovevo andarmene. Un istinto, mi capite?

Ma perché v’incaponite tanto con me? Non avete altro a cui pensare? Stanno per iniziare le scuole, per esempio, e io lo so che adesso per voi è un problema: il distanziamento, i banchi nuovi con le rotelle, le mascherine. Dovete difendere i vostri cuccioli, volete che vadano a imparare tante cose, ma anche che stiano al sicuro. Lo capisco bene, è giusto. E allora perché non vi dedicate ai vostri problemi? La disoccupazione, i licenziamenti, il PIL che non cresce…

Avete la vostra vita, io ho la mia. Pensate che sia facile fare l’orso solitario che vaga per i boschi sempre in cerca di cibo? Eh sì, perché anch’io mi devo sfamare. E a volte farfalle e funghi non mi bastano. A volte mi avvicino alle vostre case. D’accordo, non si fa. Ma se voi lasciate i bidoni pieni di spazzatura… Sento l’odore. L’olfatto non è cosa da poco, non si può ignorare. Cerco di tenermi lontano, lo so che vi faccio paura. Sono grosso. Se mi alzo sulle zampe posteriori sono alto due metri, credo. E sono scuro, ho una pelliccia bruna come la notte. Ma non dovete fermarvi all’aspetto, al colore del pelo…

Non potremmo fare che io vivo la mia vita e voi la vostra? Umani e orsi: possono convivere, no? Io per esempio non vi catturo. Non mi passa neanche in mente, eppure ci metterei poco: vi prendo per il collo e vi metto in una gabbia. Vi piacerebbe?

Lasciatemi andare. Inutile che mi circondiate con recinti di ferro alti 4 metri e barriere elettrificate. Noi orsi siamo forti. Con una zampata riusciamo a divellere pali e inferriate. Li scardiniamo da sotto. Lasciate perdere.

Adesso sono chiuso in una specie di cassa tubolare, un cilindro che ha un gusto di metallo. Cos’è, una tana, una cuccia per cani? O sono finito all’ospedale? Mi va troppo stretto, non riesco a muovere neanche una zampa. Ed è buio, un buio pauroso. Mi sa che ci avete riprovato. Mi avete catturato un’altra volta. Perché? Tra poco è autunno. Stavo completando la mia riserva di grasso, tempo un mese o due e me ne andavo in letargo. Conosco una grotta, sui monti. C’è fresco, si sta bene. Mi accoccolavo lì e dormivo tutto l’inverno. Che male vi facevo?

E poi, c’è una cosa che non capisco. Voi li orsi li amate. La prova è che ai vostri cuccioli regalate un sacco di orsacchiotti. Appena nati e poi per anni, non fate altro che riempirli di orsi di pezza, orsi come me… I vostri bambini ci tengono stretti nel lettino, non si addormentano senza di noi. Gli fate vedere anche i cartoni animati di noi orsi, e loro impazziscono per l’orso Yoghi, col suo berretto verde e la cravatta da uomo. E allora poi perché ci date la caccia?

Il cinema non è la vita, è ovvio. Ma nel cinema, nelle storie che inventate, c’è la vita come dovrebbe essere. Ci sono prigionieri che scappano dal carcere, e li chiamate eroi. Pensate al conte di Montecristo, a Papillon… Mi avete chiamato orso M49, e poi Papillon. E va bene. Ma il mio vero nome, il nome che mi ha dato la mia mamma quando sono nato, non lo conoscete. Non me l’avete neanche chiesto. Non ve lo perdono. Il nome è il primo regalo che ci fa la vita…

Mi avete definito anche “orso problematico”.

E questo mi fa tristezza, per voi più che per me. Ma cosa dite, come parlate? E che razza di gente siete? Davvero per voi la libertà è un problema?

Mi avete anche messo un collare. Un collare strano che manda segnali. Lo so che così mi controllate. Non va bene. Non mi va di essere sorvegliato, spiato. Non sono come voi, che vi fate monitorare dai vostri telefonini… Vi rubano i dati, sanno tutto di voi: la posizione, i gusti che avete, i prodotti che usate. Dovreste smetterla, e imparare a sciogliervi dai lacci. Dovreste imparare a essere liberi, invece di imprigionare noi. Se volete vi insegno come si fa. Non si può vivere con un collare. Scusate se me lo sono tolto, a un certo punto mi prudeva il collo, un fastidio infinito. L’ho rosicchiato.

Ecco, se mi liberate vi insegnerò come si rosicchiano i collari.

Pubblicato su La Stampa dell’8 settembre 2020




Una modesta proposta

Credo che, prima o poi, si arriverà a qualcosa che limiterà la circolazione gratuita e illimitata delle informazioni su internet. Potrebbe essere un “francobollo elettronico” sulla posta trasmessa via internet, o la nascita di un circuito parallelo a pagamento, e perciò stesso sostanzialmente impermeabile allo spam e alla violenza simbolica che infesta la rete. In una società opulenta qual è diventata l’Italia sono certo che molti sarebbero ben felici di pagare un abbonamento, verosimilmente meno costoso di quelli del calcio, per proteggersi dal flusso di informazione indesiderata che ci tormenta 24 ore su 24. E’ abbastanza incredibile che non sia ancora successo nulla, nonostante due fatti incontrovertibili: la circolazione illimitata di materiale sulla rete saccheggia la nostra riserva personale di tempo; la proliferazione dei messaggi di posta elettronica, attraverso l’iper-consumo di energia sui server, danneggia l’ambiente, che pure tutti diciamo di avere a cuore (un fatto noto da almeno un decennio, ma che, sorprendentemente, solo da poco sta ricevendo la dovuta attenzione).

Quando internet non sarà più una prateria unica, su cui tutti possono scorrazzare a piacimento senza regole e senza rispetto per gli altri, certi problemi che ora infiammano gli animi, come l’hate speech (i discorsi d’odio), finiranno per appassire. Se mandare una mail o postare un messaggio avrà un costo, succederà quel che succede in tutti i campi in cui le risorse non sono illimitate: la scarsità delle risorse indurrà un loro uso più razionale, o semplicemente meno smodato.

Ma nel frattempo? Nel frattempo come facciamo a difenderci dagli scocciatori e dagli odiatori?

Sugli scocciatori non ho idee. Temo che, come nella vita è quasi impossibile liberarsi di uno scocciatore, lo stesso valga per internet e più in generale per lo spazio pubblico (ad esempio gli stadi): lo spam, l’iper-comunicazione e il tifo sono quasi impossibili da schivare. Ma sugli odiatori, sui malati di aggressività e di cattiveria, una modesta proposta per difenderci ce l’avrei. Per illustrarla, però, devo partire da una triplice osservazione: primo, il grosso dell’odio si concentra su personaggi pubblici che, per una ragione o per l’altra, sono divenuti simboli di qualcosa; secondo, quando un personaggio pubblico è sotto attacco, i media danno un enorme risalto ai messaggi che lo riguardano; terzo, la diffusione sui media dei messaggi d’odio spinge altri odiatori a imitarli, entrando a loro volta in campo, .

Ed eccomi alla proposta. Se vogliamo frenare la circolazione dell’odio, innanzitutto in rete ma non solo, la prima regola dei media dovrebbe essere: negare lo spazio. O, se preferite: non farsi strumentalizzare. Perché è un po’ ipocrita indignarsi per la volgarità della comunicazione pubblica quando ci si presta quotidianamente a farle da megafono. E’ un circolo vizioso: i malati d’odio aspirano alla notorietà, ossia precisamente a ciò che gli autorevoli censori dei loro discorsi quotidianamente concedono loro. Per un odiatore non è importante colpire il personaggio che odia, ma fare un salto di status grazie a un articolo su una quotidiano nazionale o a un servizio di un telegiornale. I media, spiace dirlo, sono i complici più utili degli odiatori. Come i tossicodipendenti, che manipolano gli psicologi raccontando loro quel che questi ultimi si aspettano, così gli odiatori manipolano i media dando loro in pasto materiale che i media stessi – immancabilmente – non resistono alla tentazione di pubblicare e fare oggetto di “dibattito”.

Perché? Dovere di informare l’opinione pubblica?

No. Allo stato attuale non ci sono strumenti per stabilire in modo obiettivo dove stia andando il “fiume immondo” del web (così Massimo Cacciari nell’ultimo film di Elisabetta Sgarbi, Vaccini, nove lezioni di scienza). Tutto dipende dalle piattaforme che si monitorano, dalle parole-chiave che si utilizzano, dai periodi di tempo che si analizzano. Non c’è alcun valore aggiunto, non c’è alcuna vera notizia, solo la stessa immota verità: sul web operano impunemente “legioni di imbecilli” (così li chiamava Umberto Eco).  E allora perché pubblichiamo e dibattiamo di tutto?

La realtà, temo, è che l’unica vera bussola del mondo dei media è suscitare emozioni, possibilmente quelle che favoriscono la propria parte politica. E’ questo che rende irrefrenabile l’impulso a pubblicare di tutto, anche se il pubblicarlo alimenta il male che si finge di voler combattere. Ed è per questo la mia modesta proposta – tacere – non potrà essere ascoltata.

Con questo non voglio dire che il silenzio, il rifiuto di dare visibilità alla miseria umana, sia l’unica via per combattere odio, disprezzo, volgarità. C’è almeno un caso in cui l’informazione, la discussione, anche l’indignazione, sono legittime, se non doverose. Questo caso è quello in cui un personaggio pubblico, che ha fama, visibilità, potere, responsabilità, viola le regole minime del vivere civile, che sono fatte di rispetto, sensibilità, capacità di ascolto. In questi casi è bene parlare, perché l’odio o il disprezzo manifestato da chi ha più potere o più voce degli altri non sono neutralizzabili semplicemente ignorandoli, ma richiedono una risposta ferma.

Il punto delicato è solo questo: dobbiamo dare una risposta, ma dobbiamo darla a 360 gradi. Non si può trovare inaccettabili le cadute di stile dei nostri avversari, e sorvolare su quelle dei nostri amici, qualsiasi cosa ciascuno di noi intenda per avversari e per amici.

Per quanto mi riguarda sono stato profondamente colpito da gesti come quello di Matteo Salvini, quando ha tenuto un comizio esponendo una bambola gonfiabile che rappresentava Laura Boldrini, o quando ha commentato la sentenza di condanna degli uccisori di Stefano Cucchi con la frase “la droga fa male”.  Ma altrettanto mi ha turbato la campagna di odio di alcuni media e di alcuni intellettuali verso Salvini, dipinto ora come non-uomo, ora addirittura come “bestia”. E ancor più mi ha sconcertato che un sedicente “artista” non abbia trovato di meglio che esporre un’opera d’arte (?) che raffigura Salvini stesso mentre spara a due immigrati-zombie, quasi che questa fosse la proposta politica della Lega in materia di immigrazione.

Finché non capiremo questo, e cioè che chi ha responsabilità pubbliche non può cavalcare la disumanizzazione dell’altro, ogni speranza di neutralizzare l’odio che circola in rete non potrà che andare delusa. Perché è la nostra faziosità che ci fa vedere il “fiume immondo” di internet non come qualcosa che possiamo sconfiggere ignorandolo, ma come una riserva infinita di strali con cui colpire i nostri avversari.

Pubblicato su Il Messaggero del 2 dicembre 2019



La desiderabilità sociale non esiste più

Sebbene il termine di “desiderabilità sociale” sia estraneo a molti, il concetto ad essa collegata è ben presente in ciascuno di noi. Si tratta del pervasivo bisogno di sentirsi accettato dagli altri, dal proprio gruppo di riferimento, dalla gente con cui si convive; qualcosa che ci forza ad adeguarci al pensiero comune e ad esprimere solo con grandi difficoltà opinioni che non siano largamente condivise dal resto della popolazione, della società cui apparteniamo.

Il primo che sperimentò empiricamente questo fenomeno fu un sociologo, negli anni Trenta del secolo scorso.  In un periodo dove molto alto era il pregiudizio americano contro gli asiatici, Richard LaPiere girò per gli Stati Uniti per tre mesi con due suoi amici cinesi, pernottando in decine e decine di alberghi e mangiando in centinaia di ristoranti, venendo inaspettatamente accolto con grande cordialità quasi ovunque. Tornato a casa, a LaPiere venne in mente di effettuare una sorta di piccolo sondaggio: inviò in tutti i luoghi dove aveva soggiornato un breve questionario in cui si chiedeva se avessero problemi ad ospitare cittadini asiatici. La quasi totalità delle risposte che ottenne, conformemente alla desiderabilità sociale di quel tempo, fu ovviamente negativa: salvo in un paio di casi, tutti coloro che avevano ospitato i suoi amici cinesi dichiararono infatti che non l’avrebbero mai fatto.

Cosa era accaduto? Qualcosa di molto simile a quanto ho descritto nel mio libricino “Attenti al sondaggio!” (Laterza) e che ho chiamato “spirale del silenzio demoscopico”: quando un uomo politico, o un partito, soffre di un clima elettorale negativo nei suoi confronti, gli intervistati tendono a non dichiarare il proprio voto per quel partito, che conseguentemente avrà stime sempre più basse, aumentando la negatività del clima elettorale. Ma, nel segreto dell’urna, quegli stessi elettori torneranno a votare per quella forza politica cui si sentono comunque vicini.

Per decenni, il tarlo della desiderabilità sociale ha dunque minacciato seriamente l’affidabilità dei risultati dei sondaggi, provocando errate sovrastime e, più spesso, sottostime. Quando Berlusconi era in auge, molti intervistati si dichiaravano berlusconiani, sebbene non lo fossero; quando cadeva in disgrazia, non si riuscivano più a trovare elettori che nelle indagini demoscopiche si pronunciavano a favore del suo partito. E così accadeva per tutte le altre forze politiche, a seconda del momento specifico. O per l’alterità nei confronti dei meridionali, o degli extra-comunitari, o della difesa contro i rapinatori: semplicemente, si faceva fatica ad ammettere di essere razzisti, o xenofobi, o favorevoli a sparare ai ladri.

Ma da qualche tempo, qualcosa è cambiato. Pare sempre più facile dichiarare il proprio pensiero, per negativo o impopolare possa sembrare, senza più remore. E’ vero: Trump era stato leggermente sottostimato, dai sondaggi dell’epoca, ma era una sottostima molto ridotta, di un paio di punti percentuali, nulla di più. La stessa cosa è accaduta per la Brexit, o per i partiti di estrema destra populista, in diversi paesi d’Europa. Gli intervistati non avevano remore a presentarsi come vicini a forze politiche di stampo anti-democratico. 

Così, oggi non fa più paura dichiarare all’intervistatore di odiare gli extra-comunitari, o di essere un po’ fascisti, o di essere disposti ad ammazzare chi ci ruba a casa nostra nottetempo. E’ un bene o un male? Per la società non saprei ma, dal punto di vista dei sondaggisti, è sicuramente un bene, non essere costretti ad inserire domande trabocchetto per riuscire ad ottenere una risposta sincera, questo è ovvio. Se ne è parlato in occasione delle recenti elezioni siciliane. Ci si chiedeva: quale partito, quale coalizione soffre di scarsa desiderabilità sociale, tanto da venir sottostimata nei sondaggi? Non trovavamo risposta. Oggi, tutti possono dire tutto, senza il problema di sentirsi “indesiderati”. Si può fare tutto, si può pensarla come ci pare, diceva Giorgio Gaber anni fa. Una società liberata, o no?

Forse, oggi, l’unica dichiarazione che si fa fatica ad estorcere agli intervistati, per le imminenti elezioni politiche, è la propria vicinanza al Partito Democratico, la propria fiducia in Matteo Renzi. Il paradosso di questa nuova campagna elettorale…

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 27 novembre 2017 su “Gli Stati Generali