Dante, Santagata e l’italianità

Uno dei guai dell’Italia è che nessuno si rassegna a fare soltanto il proprio mestiere. Neppure il “grande dantista Marco Santagata” aveva resistito alla tentazione di invadere il campo (non suo) della storia delle idee. Facendo dell’ironia gratuita su Dante “fondatore dell’italianità” aveva detto: “Sono centinaia gli intellettuali che hanno raccontato Dante come l’eroe nazionale. Ma è un ritratto falso. Per Dante, l’Italia non esisteva. Nel suo tempo, che era il Medio Evo, esistevano tante piccole formazioni politiche che si facevano la guerra tra loro. L’idea dello stato nazione è nata secoli dopo, e non poteva rientrare nell’orizzonte dantesco. Dante aveva in mente l’Impero: un’istituzione sovranazionale che doveva garantire la pace, la prosperità e la sicurezza di tutti i cristiani. Ma che vuole, nella storia succede continua-mente che si prendano i fatti culturali e li si rileggano alla luce delle esigenze del momento”.

“Per Dante l’Italia non esisteva” ma davvero? Davvero, almeno quanti di noi avevano fatto il liceo, avevamo dimenticato che, per il ‘ghibellin fuggiasco’, a detenere la suprema legittimità politica era l’Impero—di cui il nostro paese, però, sarebbe dovuto essere lo splendido ‘giardino’? Quante idee sbagliate ci avrebbe trasmesso la vecchia scuola se non ci fossero i demistificatori alla Marco Santagata buonanima e al vivo e vegeto Alessandro Barbero (quello che raccontava in TV che se i Persiani avessero vinto a Salamina per la Grecia non sarebbe cambiato niente, con l’aria beffarda: “beh beccati questa verità scomoda, incarta e porta a casa!”..)! Sennonché da umile storico delle idee faccio rilevare che le ragioni per cui Dante viene ritenuto ‘fondatore dell’italianità’ sono sostanzialmente tre: la linguaLe genti del bel paese là dove ‘l sì suona», (Inf. XXXIII, vv. 79-80) ; la geografia—la sicurezza con cui il Sommo Poeta delimitò i confini d’Italia–«Sì com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna» (Inf., Canto IX, 113-114); un’etnia culturale ( come diremmo oggi), con una sua individualità e interessi distinti dalle altre: «Ahi serva Italia di dolore ostello/nave senza nocchiero in gran tempesta/ non donna di provincia ma bordello» (Purg. Canto VI,76-78) Per il resto, Dante è un uomo del Medio Evo che mai avrebbe potuto pensare a uno stato nazionale italiano, un progetto che evoca idee rivoluzionarie e la ‘democrazia dei moderni’—patriota è una parola coniata, nella sua sostanza etico-politica, dalla Rivoluzione francese e ripresa nel Risorgimento dai ‘modernizzatori’, nemici giurati dell’Ancien Régime, ovvero degli Imperi e, in ispecie, degli ultimi discendenti degli Asburgo. Del cui Impero il Vate fiorentino fu il convinto cantore: “O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia e dovresti inforcar li suoi arcioni”,( Purg.,Canto VI,97-99).  Questo Dante , non a caso, mandava in visibilio i teorici dell’universalismo fascista ,che ritenevano superati i miti della ‘nazione’ e della patria’ e che guardavano non più al Risorgimento ma all’Impero di Roma, alle sue ‘quadrate legioni’, agli Stati-Civiltà etc.,  ma non credo che il buon Santagata avrebbe ‘gradito’ l’antinazionalismo del pagano Julius Evola..

Forse è venuto il momento di finirla con le picconate ai miti ‘scolastici’: la storia non è fatta per épater les bourgeois ma per far capire da dove veniamo e come il passato ha contribuito a renderci quel che siamo. Continui, pertanto, la benemerita ‘Società Dante Alighieri’ a far conoscere al mondo la nostra grande cultura, al riparo dall’ironia dei beaux esprits. Sì, Dante politicamente non ha nulla a che vedere con lo stato nazionale ma, nella definizione di una identità culturale contano solo la politica, il tipo di Stato che si ha in mente, le sue istituzioni? O non anche la lingua, le arti, il territorio, il senso di una ‘comunità di destino’? E se questi ultimi fossero irrilevanti, non sarebbe la riprova di un virus totalitario (“tutto è politica e tutto si risolve in politica!”) da cui stentiamo a liberarci? Si difende un’eredità spirituale, una lingua, una cultura indipendentemente dal tipo di Stato che si ha in mente: Carlo Cattaneo era un grande patriota italiano ma, prima del 48, non gli sarebbe dispiaciuto vedere il Lombardo-Veneto membro di uno ‘splendido dogato’—quale avrebbe potuto essere l’Austria di Maria Teresa e dell’assolutismo illuminato. Forse in un periodo come l’attuale in cui si sono fortemente indeboliti il senso dell’appartenenza e l’orgoglio delle grandi produzioni artistiche e scientifiche che, nel corso dei secoli, si sono registrate nelle diverse regioni della penisola , in anni in cui i fattori culturali sono divenuti irrilevanti (in qualche Facoltà di Lettere si insegnava Letteratura italiana in inglese e si leggevano I promessi sposi in traduzione), c’è qualcuno che può pensare:in mancanza di uno stato unitario italiano, come si può parlare di italianità? In realtà, questa antiretorica è più preoccupante della retorica delle celebrazioni ufficiali.

Ha scritto Giovanni Belardelli, storico delle dottrine politiche e autore del miglior saggio che io conosca sulle idee di Giuseppe Mazzini: “Attraverso il culto di Dante si affermava così la figura dell’intellettuale come moralista, aspro critico dei difetti dei propri connazionali”.

Cito Nicola Mirenzi, Dante l’italiano (“HuffPost del 5 dicembre 2020): “Era fondamentale rifare gli italiani. Secondo la gran parte dei patrioti, lunghi anni di dominio straniero avevano compromesso il popolo, rendendolo vile e corrotto. E l’emblema di questa italianità deteriore divenne Petrarca, che aveva la colpa di essere stato un poeta cosmopolita, a suo agio presso le corti europee. Mentre Dante, no: era rimasto intatto. Ai loro occhi, era l’incarnazione dell’italiano intransigente, l’uomo che aveva scelto con sdegno l’esilio pur di non piegarsi al nuovo potere di Firenze. L’esilio stabiliva una connessione esistenziale tra loro e Dante. Come Dante, anche molti patrioti avevano preferito pagarla cara lontano da casa anziché piegarsi allo straniero. Come Dante, testimoniavano con la vita l’attaccamento alle virtù civiche e all’ideale nazionale. Come Dante, potevano perciò anche permettersi di ridire sugli altri italiani. ‘Spesso gli esuli – mi racconta Berardelli – vivevano in condizioni miserabili all’estero, ma sapere di essere fedeli all’esempio dantesco era di grande conforto morale’”. Tutto vero, tutto innegabile ma le ‘mitologie’ non bastano a fare e a spiegare la storia. Se Dante fosse stato solo l’”italiano intransigente”, l’uomo di carattere con la ‘c’ maiuscola il fatto di essere divenuto il simbolo dell’italianità sarebbe davvero inspiegabile. (E perché Dante e non Francesco Ferrucci se è veritiero l’omaggio che gli tributava Goffredo Mameli: “Dall’Alpi a Sicilia/Dovunque è Legnano/,Ogn’uom di Ferruccio/ Ha il core, ha la mano?”).

Sempre citando Mirenzi, “nemmeno Vittorio Sermonti lasciò mai credere il contrario, sebbene con la lingua di Dante abbia deliziato a lungo gli italiani, e senza ricorrere al trucco dell’icona pop. Nel Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, venne chiamato a tenere tre giorni di lezioni nell’aula del Palazzo dei gruppi parlamentari. Premise che non aveva alcuna voglia di parlar bene dell’Italia, e che ne avrebbe parlato semplicemente con amore. Poi, raccontò che fu Virgilio a inventare la parola Italia, Dante a promuovere ‘le parlate sgangherate degli italiani alla nobile esattezza del latino’ e Verdi a rendere l’italiano finalmente popolare. Si guardò bene dal dire che Dante aveva creato l’Italia. Concesse qualcosa sulla lingua, ma specificando che si trattava di un azzardo: ‘Vogliamo dire che Dante ha fondato le basi teoriche dell’italiano?’ E diciamolo”.

Confesso un profondo fastidio per l’insostenibile leggerezza del pensare. Mettiamo da parte miti, falsi credenze, ingenuità ideologiche e guardiamo ai fatti nudi e crudi: è vero o non è vero che Dante scrisse uno dei più grandi capolavori letterari di tutti i tempi, la Divina Commedia, in italiano (una lingua, sembra, nata non a Firenze ma alla Corte di Federico II con Giacomo da Lentini e altri poeti della sua Scuola)?; è vero o non è vero che per lui l’Italia era, forse, un’espressione geografica ma un’espressione geografica tutt’altro che immaginaria e non priva, in ogni caso, di risonanze sentimentali ? è vero o non è vero che il destino della penisola—i suoi problemi, le sue traversie, le sue memorie—gli stava molto a cuore e che parlando di bolognesi, di veneziani, di genovesi, di pisani, di fiorentini ne parlava come di rami di uno stesso albero sino al punto da sentire le loro ‘peccata’ come vergogne di famiglia?

Giuseppe Mazzini, Ugo Foscolo, Carlo Cattaneo, Cesare Balbo i grandi spiriti del ‘riscatto nazionale’ onorarono tutti in Dante il Padre dell’Italianità: incontrandoli nell’altro mondo, Marco Santagata e Vittorio Sermonti li sottoporranno alla doccia fredda del demisticatore televisivo Alessandro Barbero: “Guardate che Dante non era un patriota. Come credevate voi ma un imperialista?” “Scherza coi fanti ma lascia stare i santi” si diceva nel buon tempo antico.




La società senza padre

Non so se è un caso, o solo una sensazione personale, ma io mi sento inondato. Anno dopo anno, mese dopo mese, e ultimamente giorno dopo giorno, sulla mia scrivania si accumulano i libri sul padre, la sua scomparsa, il suo tramonto, la sua evaporazione. Una febbre pare essersi impadronita di tutti i professionisti della scrittura: narratori, giornalisti, sociologi, psicologi, psicoanalisti, filosofi, giuristi. Da qualche anno, scrivere un libro sul declino dell’autorità e l’estinzione del ruolo paterno pare essere divenuto un bisogno incontenibile, quasi un’urgenza esistenziale. In Italia ne hanno scritto Massimo Recalcati e Gustavo Zagrebelsky, Michele Serra e Antonio Scurati, Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet. E, giusto per stare alle ultime settimane, hanno pubblicato un libro su paternità e dintorni Matteo Bussola (Sono puri i loro sogni, Einaudi), Aldo Cazzullo e figli (Metti via quel cellulare, Mondadori), Antonio Polito (Riprendiamoci i nostri figli, Marsilio). Per Polito (l’autore da cui ho imparato di più), è addirittura la seconda prova: cinque anni fa, nel 2012, aveva pubblicato Contro i papà, un libro denuncia sull’abdicazione dei padri al proprio ruolo di educatori.

Di questa letteratura, mi colpiscono due cose soprattutto. La prima è la convergenza delle descrizioni che vengono offerte. C’è chi insiste di più sulla crisi dell’insegnamento, chi sulla trasformazione dei genitori in amici o sindacalisti dei figli, chi sul ruolo diseducativo della televisione, chi sui danni psicologici e cognitivi dell’iper-connessione, chi sulla latitanza delle istituzioni (dalla Chiesa alla politica), chi sull’interruzione della trasmissione culturale, chi sulla scomparsa dei maestri, però si tratta di sfumature, di piccole differenze di sensibilità individuale: il quadro tracciato è sostanzialmente il medesimo, la preoccupazione per il futuro dei nostri figli (e di noi stessi) è palpabile e condivisa.

La seconda cosa che mi colpisce è il sentimento di stupore che sembra accompagnare quasi tutte queste descrizioni, come se ci trovassimo di fronte a un fenomeno emergente, a una novità con cui è venuto il momento di fare i conti. Con questo non voglio certo dire che non ci siano elementi specifici e relativamente recenti, è anzi un merito di alcuni di questi libri averli messi in evidenza. Ha perfettamente ragione, ad esempio, Matteo Bussola quando individua nella seconda metà degli anni ’90 il punto di frattura, in cui le famiglie rompono il patto educativo con gli insegnanti (ricordate il “diritto al successo formativo”? erano quegli anni lì…). E fa benissimo Antonio Polito a far notare che l’avvento di internet sta minando, per la prima volta nella storia dell’umanità, l’idea che la cultura sia un patrimonio da trasmettere, da radicare nelle menti delle persone, piuttosto che qualcosa che si limita a stare lì, accessibile a tutti perché risiede in rete.

E tuttavia, di fronte allo sconcerto per la scomparsa del padre, non posso non ricordare quanto tardivo sia questo prenderne atto. Che i nostri sistemi sociali fossero avviati “verso una società senza padre” le scienze sociali lo avevano perfettamente compreso già all’inizio degli anni ’60 (dunque ben prima del ’68). Nel 1963 Alexander Mitscherlich, sociologo e psicologo tedesco, pubblica “Verso una società senza padre”, un libro profetico, che nel 1970 uscirà anche in italiano. Lì i lineamenti generali, e i problemi psicologici, di una società senza padri erano già perfettamente delineati. E anche se, ovviamente, i nodi  di oggi sono molto più intricati di quelli di ieri, non posso non ricordare che già alla fine degli anni ’70, dunque 40 anni fa, le indagini sociologiche sulla cultura giovanile avevano registrato la fine del conflitto con i padri, e la sua sostituzione con un sentimento di separatezza, diversità, disincanto, distacco rispetto ai genitori e alla cultura stessa, uno stato d’animo che già allora ce li faceva descrivere come “senza padri né maestri” (fu questo, per inciso, il titolo che Loredana Sciolla ed io scegliemmo per il nostro primo libro, un’inchiesta sugli studenti medi di Torino condotta nel 1978).

Ecco perché, di fronte all’improvviso risorgere, mezzo secolo dopo, del tema della “società senza padri”, l’interrogativo che più mi sollecita è: perché? anzi perché ora, perché solo ora?

Per me la vera notizia non è che la nostra è diventata una società senza padri. Questo lo diceva già Mitscherlich nel 1963, lo ribadiva Christopher Lasch alla fine degli anni ’70 (La cultura del narcisismo è del 1979), e dopotutto altro non è che il compimento del progetto della modernità o, come pare suggerire Polito in una suggestiva ricostruzione storica che parte dall’Émile di Rousseau, è il modo in cui l’Occidente ha declinato le idee dell’illuminismo. La vera notizia è che, più o meno mezzo secolo dopo la diagnosi di Mitscherlich, si sta profilando un ripensamento, se non una vera a propria reazione, spesso guidata da padri in servizio permanente effettivo. Non tutti accettano la deriva cui le nostre società paiono soggette. Non tutti trovano liberatoria la caduta di ogni autorità. Non tutti disdegano le culture e i valori tradizionali. Non tutti, insomma, sono a loro agio in una “società senza padre”. La pioggia di libri sul padre sembra testimoniare proprio questo: il progressivo instaurarsi di una società iper-individualista, in cui la competizione fra pari sostituisce il rispetto per il padre e l’imperativo dell’emancipazione erode ogni valore tradizionale, incontra anche qualche resistenza.

Perché ora, dunque?

Forse per una ragione tanto semplice quanto decisiva: se c’è una reazione è perché abbiamo passato il limite. E lo abbiamo passato così radicalmente che è divenuto piuttosto difficile non accorgersi degli effetti collaterali. Contrariamente a quel che pensano i cultori più acritici del progresso, il cammino dei modelli culturali non ha solo una componente di trend ma ha anche una componente ciclica, oscillatoria, come il movimento di un pendolo. E questo vale un po’ in tutti gli ambiti, compreso quello delle teorie, quello delle idee, quello dei costumi. Nel ‘700 il cammino delle idee illuministe sembrava inarrestabile, ma nella prima metà dell’800 quelle idee hanno incontrato l’onda contraria del romanticismo, e non solo nelle arti e in letteratura (la sociologia, ad esempio, nasce come reazione romantica alla filosofia dei lumi). In diversi paesi occidentali alla rivoluzione sessuale degli anni ’60 e ’70 sono seguite ondate neo-tradizionaliste. Quanto all’impegno pubblico, le analisi di Albert Hirshman, forse il più acuto scienziato sociale del ‘900, hanno chiarito definitivamente il suo carattere ciclico, con fasi di riflusso preparate dagli eccessi delle fasi di attivismo.

Ecco, forse la parola chiave è eccesso. La componente ciclica della vita sociale è fondamentalmente legata all’alternarsi di eccessi di segno opposto, come del resto succede nella vita economica, in cui al boom segue il crack, all’espansione delle bolle lo scoppio delle crisi. L’autoritarismo dei padri, nella famiglia come in politica, fu un eccesso della prima metà del ‘900, e il ’68 fu anche una reazione a quell’eccesso. Ma l’individualismo, il narcisismo, la cultura dell’io del cinquantennio post ’68 sono stati a loro volta un eccesso. Un eccesso che, 20 anni fa, con la metamorfosi dei genitori in amici e sindacalisti dei figli, e 10 anni fa, con l’avvento di internet e la progressiva marginalizzazione della cultura e della sua trasmissione, ha fatto un salto di qualità. Ora i danni collaterali della società senza padri sono sempre più pervasivi, nella psicologia individuale come nel funzionamento delle istituzioni, nell’educazione dei figli come nel mondo dei media. Insomma abbiamo esagerato. E abbiamo esagerato così tanto che qualcuno trova persino il coraggio di dirlo, nonostante sappia che da quel momento l’etichetta di nostalgico, fuori tempo, reazionario lo accompagnerà per sempre.

Articolo Pubblicato da Il Messaggero il 4 novembre 2017