Non solo salario minimo legale

Di salario minimo legale (SML) si torna insistentemente a parlare in questo periodo, in vista dell’attuazione della Direttiva Ue in materia. Sull’opportunità di fissare un minimo per le retribuzioni c’è un diffuso anche se non unanime consenso. Dove invece i pareri divergono è sul livello cui fissarlo, ma soprattutto sugli effetti che esso potrebbe produrre.

Un effetto certo e positivo è quello di costringere le imprese che operano in modo regolare, e che possono permettersi di adeguare le retribuzioni, a portare a un livello decente il salario dei lavoratori peggio pagati. Un altro effetto positivo, anche se incerto nell’entità, è di rendere più convenienti gli investimenti in tecnologia, con conseguente aumento della produttività. Infine, il salario minimo legale scoraggerebbe la concorrenza sleale delle imprese che puntano su evasione fiscale e bassissime retribuzioni.

Dove le cose si fanno più complicate, invece, è sul versante degli effetti negativi. Che sono numerosi, e molto difficilmente quantificabili. Gli economisti, in particolare,  segnalano tre effetti perversi del salario minimo legale, in parte già osservati in Germania (che  ha introdotto il salario minimo nel 2015). Il primo è che le imprese che possono farlo scaricano sui prezzi l’aumento dei costi salariali. Il secondo è che alcune imprese aggirano la norma semplicemente aumentando il numero effettivo di ore giornaliere (ti pago 7 ore, ma ne fai 9). Il terzo è che molte imprese semplicemente non possono permettersi di operare pagando i lavoratori al livello fissato per legge, e rischiano di reagire chiudendo l’attività, o accentuando la propensione all’evasione fiscale e contributiva. A questo proposito giova ricordare che l’aggravio per le imprese di un salario minimo legale di 9 euro (la proposta del Movimento Cinque Stelle) sarebbe di 6.7 miliardi di euro, che scenderebbero a 4.4 miliardi con una soglia fissata a 8.5 euro, e a 2.7 miliardi con una soglia di 8 euro (stime INAPP).

Le cose sono ancora più problematiche se guardiamo alla questione da una prospettiva sociologica. Da questa angolatura non si può non osservare che sono numerose, e di grande rilevanza ai fini di una valutazione dell’impatto del SML, le caratteristiche dell’Italia che la differenziano dagli altri paesi europei. In nessun paese europeo, salvo forse la Grecia, l’estensione dell’economia sommersa è ampia come in Italia. In nessun paese europeo è così profonda la frattura fra garantiti, protetti dalle leggi e dai sindacati, e non garantiti, esposti alle turbolenze e ai rischi del mercato. In nessun paese europeo sono così ampi i divari territoriali in termini di occupazione e produttività.

Tutte queste peculiarità, cui andrebbe aggiunta la presenza di un consistente segmento di lavoratori che operano in condizioni paraschiavistiche (circa 3.5 milioni di persone, secondo una mia stima), rendono cruciali i dettagli che specificheranno le modalità di introduzione del salario minimo legale in Italia.

Una soglia unica, fissata a un livello elevato, senza differenze legate alla produttività, accentuerebbe sia gli effetti benefici che quelli perversi, con quale saldo netto è difficile dire con i dati di cui disponiamo. Una soglia bassa, graduale, e differenziata territorialmente, minimizzerebbe molti effetti perversi, ma anche i benefici in termini di equità, incentivi al progresso tecnologico, leale competizione fra operatori economici.

Quale che sia il punto di equilibrio che la politica vorrà trovare, credo sarebbe bene prendere atto di un punto: stante la struttura economico-sociale del nostro paese, il salario minimo legale avrà effetti tanto più benefici ed incisivi quanto più verrà accompagnato da altre misure, sia sul piano politico-amministrativo sia su quello sindacale. L’estensione dell’economia sommersa e l’ampiezza del settore paraschiavistico, infatti, dipendono solo in minima parte dall’assenza di un salario minimo legale. La vera radice di queste storture, oltre che – ovviamente – nell’arretratezza complessiva del sistema-Italia, sta in due clamorose assenze o, se preferite, “insufficienti presenze”: quella dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e quella delle organizzazioni sindacali. Finché su aberrazioni che si vedono “a occhio nudo”, come quella dei campi di raccolta del pomodoro, si continuerà a chiudere un occhio, non ci sarà mai SML che basti a fermare l’obbrobrio.

Che fare, dunque, per massimizzare i vantaggi e minimizzare i danni del salario minimo?

Un’idea potrebbe essere di introdurre una differenziazione territoriale, che tenga conto del costo della vita (per non penalizzare i lavoratori del Nord) e della produttività (per non penalizzare le imprese del Sud).

Ma forse il provvedimento più incisivo sarebbe di sottoporre a un regime di controlli speciale – con verifiche più frequenti e capillari – le imprese che prevedono rapporti di lavoro con orari ridotti. Ciò metterebbe un freno alla pratica, estremamente diffusa in Italia, di sottodichiarare le ore di lavoro. E’ precisamente questo, infatti, il meccanismo alla radice delle più comuni situazioni di iper-sfruttamento.

Luca Ricolfi

(articolo uscito su La Repubblica l’8 giugno 2022)




Reddito di cittadinanza, perché non farlo gestire alle imprese?

Fino a pochi mesi fa c’era ancora qualcuno che immaginava un autunno catastrofico. Fine del blocco dei licenziamenti, 1 o 2 milioni di posti di lavoro bruciati, un esercito di disoccupati alla disperata ricerca di un lavoro.

Oggi no, chi ha occhi per vedere non può non prendere atto che lo scenario che si sta delineando è l’opposto di quello previsto da tanti: quel che manca non sono i posti di lavoro, ma sono i lavoratori. A mia memoria non era mai successo che la difficoltà di trovare personale, specie per i piccoli esercizi, fosse così tangibile, generalizzata e conclamata. Io stesso, in questi mesi, ho raccolto diverse testimonianze sconcertanti. Ci sono attività che, per mancanza di manodopera, non hanno potuto aprire. Altre hanno dovuto lavorare a regime ridotto. Altre ancora sono state costrette a dimezzare l’attività in corso d’opera perché i neo-assunti rinunciavano dopo pochi giorni di lavoro.

Il risultato è che oggi, ancor più di ieri, alle due strozzature classiche dell’economia italiana – tasse e burocrazia – si aggiunge la strozzatura della mancanza di forza lavoro.

E’ paradossale: mentre i media sono impegnati a denunciare (giustamente) i  licenziamenti collettivi in atto in alcuni gruppi internazionali come Embraco, GKN, Whirpool, centinaia di migliaia di piccole e grandi imprese si trovano alle prese con il problema opposto: non riuscire a coprire determinati posti di lavoro (oltre 300 mila, secondo alcune stime).

E il segno più chiaro di tutto ciò è nella dinamica della disoccupazione: negli ultimi due anni il numero di persone in cerca di lavoro, anziché aumentare, è diminuito di circa 200 mila unità. Come se la risposta alla crisi occupazionale provocata dalla pandemia non fosse la ricerca di un nuovo posto di lavoro, bensì il ritiro dal mercato del lavoro.

Il risultato è che l’economia italiana, che in questi mesi sta crescendo a buon ritmo come rimbalzo rispetto al tonfo del 2020, rischia nei prossimi anni di crescere molto al di sotto del suo potenziale: un’eventualità perniciosa, tenuto conto dell’enorme debito pubblico aggiuntivo che ci stiamo accollando, e che prima o poi dovremo ripagare.

E’ dunque il momento di chiedersi: perché manca la forza lavoro necessaria a far girare l’economia a pieno ritmo?

Alcune ragioni precedono la crisi del Covid: i giovani non amano le professioni tecniche, di cui invece c’è ampia richiesta; la formazione professionale è carente e male organizzata; le facoltà scientifiche sono disertate per mancanza di basi adeguate; i salari offerti sono spesso troppo bassi.

Ma la ragione più immediata ed evidente, perché ne tocca con mano le conseguenze qualsiasi datore di lavoro, è la moltiplicazione dei sussidi, iniziata con la crisi del 2008-2012 e culminata nel varo, pochi mesi prima dell’arrivo del Covid, del reddito di cittadinanza. Un provvedimento mal disegnato, che oggi aggrava il problema storico della mancanza di personale disposto a lavorare.

Sul fatto che il reddito di cittadinanza verrà modificato ci sono pochi dubbi. Il problema, però, è di cambiarlo in un modo utile, evitando di limitarsi a un compromesso fra le esigenze di propaganda dei vari partiti.

Al di là dei dettagli tecnici, credo che i cambiamenti fondamentali dovrebbero essere due. Il primo è di distinguere nettamente due funzioni, e quindi due tipi di beneficiari: i poveri non occupabili (circa 2/3 dei percettori attuali: ragazzi, invalidi, pensionati, ecc.), e i poveri occupabili (circa 1/3 dei percettori attuali). Il secondo è di rendere efficace l’avvio al lavoro di questi ultimi, varando quelle “politiche attive” di cui si parla da tanti anni ma che nessun governo è mai riuscito a far decollare con successo.

Ma come?

Io un’idea ce l’avrei: e se a offrire lavoro ai percettori di reddito di cittadinanza fossero direttamente le imprese, saltando in tutto o in parte la inefficace interposizione dei navigator?

Con i mezzi oggi disponibili non dovrebbe essere troppo difficile costruire un database anonimizzato, dove ogni impresa può cercarsi il lavoratore con il profilo giusto, a partire da titolo di studio, lavori precedenti, luogo di residenza (non troppo lontano). All’operatore pubblico spetterebbe soltanto associare al codice identificativo di quel lavoratore un nome e un cognome, trasmettere all’interessato la data del colloquio di lavoro presso l’impresa, registrare l’esito del colloquio (assunzione, mancata assunzione, rifiuto del lavoratore).

Basterebbe?

No, non basterebbe, perché comunque resterebbero in piedi gli altri problemi del nostro mercato del lavoro, a partire dalla mancanza di tecnici e laureati in discipline scientifiche. Però sarebbe un passo avanti, perché almeno certi tipi di imprese (tipicamente: quelle dell’industria turistica) sarebbero messe in condizione di creare più posti di lavoro regolare.

“Sì, sono disponibile, ma solo se mi pagate in nero: non voglio perdere il reddito di cittadinanza” è una risposta che non ascolteremmo più.

 Pubblicato su Il Messaggero del 25 settembre 2021




Verso una società parassita di massa?

Da qualche tempo le spinte per l’abolizione o la modifica del reddito di cittadinanza si stanno moltiplicando. Contro il reddito di cittadinanza è da sempre schierata la destra, ma recentemente il reddito è stato attaccato anche dal partito di Renzi, che intende promuovere un referendum per la sua abolizione. Sulla necessità di modificarlo ormai convengono tutti (persino i Cinque Stelle), si tratterà solo di vedere come, quanto e quando.

Le critiche al reddito di cittadinanza sono numerosissime, e tutte vecchiotte: troppe truffe, specie da parte di beneficiari stranieri (che talora nemmeno abitano in Italia); flop dei navigator, incapaci di offrire occasioni di lavoro a un numero adeguato di richiedenti; mancata applicazione delle norme che prevedevano di impiegare i beneficiari in opere di pubblica utilità; ritiro dal mercato del lavoro dei percettori dell’assegno.

Quest’ultima è la critica più frequente, sistematicamente ripresa dai media e non solo. In una recente intervista, l’imprenditore Flavio Briatore è arrivato ad affermare che ormai “non c’è alcun giovane che ha voglia di lavorare durante la stagione estiva’’ e che ‘‘il governo doveva sospendere il reddito da maggio a ottobre” dando “la possibilità ai giovani di fare la stagione”.

E sono innumerevoli le testimonianze di imprenditori, esercenti, datori di lavoro in genere che, da tempo, denunciano la difficoltà di trovare camerieri, bagnini, cuochi, commessi, operai, informatici, meccanici, autisti, e ogni sorta di altri tipi di lavoratori, a causa del reddito di cittadinanza. Il meccanismo è chiaro: se l’assunzione è regolare, si perde automaticamente il reddito di cittadinanza, se è irregolare si rischia di perderlo in caso di controlli. Il risultato è il medesimo: una carenza di manodopera.

Sono sempre stato contrario al reddito di cittadinanza di marca grillina, e non proverò certo a difenderlo in questa sede. Voglio però sollevare un interrogativo: siamo sicuri che il grosso del problema della mancanza di manodopera stia nel reddito di cittadinanza?

Io temo di no. Guardiamo alla società italiana come era prima del reddito di cittadinanza e subito prima del Covid. Ebbene, già allora la società italiana era diventata una “società signorile di massa”, con un numero spropositato di persone – giovani e meno giovani – che si potevano permettere il lusso di consumare senza lavorare. Fra le società avanzate, già allora l’Italia (insieme alla Grecia) deteneva il record per numero di adulti inoccupati e per numero di Neet (sigla che indica i giovani che non lavorano, non studiano, né stanno seguendo un training). Già allora gli imprenditori denunciavano drammatiche carenze di manodopera specializzata e di tecnici. Già allora il tempo di lavoro era diventato, nella vita della maggior parte delle persone, una quota molto ridotta del tempo di vita, a tutto beneficio dello svago, della navigazione su internet, delle vacanze, della cura di sé, e più in generale delle attività del tempo libero. Già allora, grazie alle riforme del mercato del lavoro intervenute dopo la drammatica crisi del 2008-2011, era enormemente cresciuto il numero di percettori di sussidi. Già allora, anche nelle regioni del Nord, si erano affermati modelli di permanenza sul mercato del lavoro fondati su varie miscele di lavoro regolare, lavoro irregolare e sussidi vari. Già allora, in molte situazioni, i salari erano molto bassi, o erogati in nero, e i giovani dotati di più talento, intraprendenza e risorse familiari prendevano la via dell’emigrazione.

Insomma, rispetto a tutto questo, il Covid e il reddito di cittadinanza si sono limitati a esasperare fenomeni ampiamente presenti già prima. Durante il Covid sono stati distrutti 1 milione di posti di lavoro, ma a dispetto di ciò il numero di persone che cercano un lavoro anziché aumentare è diminuito, peraltro proseguendo un trend già in atto prima del Covid. In compenso, il numero di persone che usufruiscono di sussidi di vario tipo (disoccupazione, cassa integrazione, reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, pensione di cittadinanza, eccetera) è letteralmente esploso. Di questa esplosione il reddito di cittadinanza è solo un aspetto, e forse nemmeno il più importante.

Possiamo riassumere dicendo: in Italia è crollato il numero di persone pronte a lavorare, e si sono moltiplicati gli strumenti che, come il reddito di cittadinanza, disincentivano la ricerca di lavoro. L’Italia sta diventando una società parassita di massa, in cui una minoranza iperattiva, e talora supersfruttata, assume su di sé il carico di produrre ricchezza, mentre la maggioranza consuma senza partecipare direttamente alla produzione del reddito, e dipende sempre più dall’assistenza pubblica e dalla benevolenza dei familiari occupati.

E’ un problema, o possiamo perseverare serenamente su questa strada come abbiamo fatto negli ultimi 20 anni?

Sì, è un problema, perché la mancanza di forza lavoro fa sì che l’economia cresca largamente al di sotto del suo potenziale, e questo, con la montagna di debiti che stiamo contraendo, non possiamo più permettercelo. Ma è precisamente questo che è successo quest’anno, e si è accentuato durante l’estate: a una domanda turistica strabordante, indotta dalla crescita del turismo interno e dal desiderio di auto-risarcimento degli italiani dopo il Covid, i datori di lavoro sono riusciti a far fronte solo in parte perché non ci sono abbastanza persone disposte a lavorare alle condizioni offerte dal mercato (non di rado umilianti) e in presenza di una selva di disincentivi al lavoro. Una strozzatura che si è aggiunta ai numerosi problemi storici del mercato del lavoro italiano: la quasi totale assenza delle politiche attive, l’ostilità dei giovani al lavoro manuale e alle professioni tecniche, il ridotto numero di laureati (specie fra i maschi), la diffusione del lavoro nero, il basso livello dei salari e della produttività.

In queste condizioni, anche l’eventuale soppressione o ridimensionamento del reddito di cittadinanza, pur auspicabile come misura elementare di buon senso, rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 settembre 2021




Che idea dell’Italia?

Rischiamo tutti, credo, di giudicare questo governo solo per il “peccato originale” da cui nasce: una manovra di Palazzo, parzialmente pilotata dalle autorità europee, volta a impedire con tutti i mezzi che si ritorni al voto. Non è una novità: quando il popolo rischia di fare la scelta sbagliata, i “sinceri democratici” fanno di tutto per aiutare il popolo a non sbagliare. E la via maestra è sempre quella: impedire il voto.

Ma concentrarci sulla genesi di questo governo è sterile. Dopotutto, cosa fatta capo ha. Molto più importante, arrivati a questo punto, è capire che cosa questo governo ha in serbo per noi. Quali sono le sue priorità. Ma soprattutto: qual è l’idea dell’Italia che lo ispira? Qual è la diagnosi delle esigenze del Paese che guiderà le sue scelte?

Perché se prevedere che cosa esattamente farà è praticamente impossibile, capire qual è la sua visione dei problemi dell’Italia non è troppo difficile. E’ vero che il programma in 29 punti è estremamente generico, confuso, e completamente privo di ipotesi su come trovare le risorse per fare le innumerevoli cose che si vorrebbero fare. Però proprio quella congerie di impegni generici, alla fine, un’idea dell’Italia la trasmette.

Quale idea?

L’idea sembra questa: il problema dell’Italia sono le diseguaglianze economico-sociali. Ci sono decine di categorie che meriterebbero un sostegno e un aiuto. Il problema centrale, dunque, è un problema di redistribuzione. Sono segnali di questa visione dell’Italia le proposte più incisive del programma: riduzione del costo del lavoro ad esclusivo vantaggio del lavoratore; salario minimo a 9 euro; “giusto compenso” per i lavoratori autonomi. Proposte cui si aggiungono una miriade di spese a sostegno di gruppi, categorie e settori più o meno particolari.

Le conseguenze effettive della stragrande maggior parte di queste misure sono tre: più  debito pubblico, maggiori costi per le imprese, ulteriore riduzione dei posti di lavoro regolari.

Ma è fondata l’immagine dell’Italia che guida questa diagnosi e questi rimedi?

In un certo senso sì. Se davvero si pensa che il problema cruciale dell’Italia sia la redistribuzione della ricchezza, e inoltre si aderisce alla filosofia della “decrescita felice”, più volte invocata dai grillini (ed esplicitamente sottoscritta da uno dei ministri del nuovo governo), allora non è un problema il fatto che l’aumento dei costi per le imprese distrugga occupazione e riduca la torta del Pil: avremo tutti sempre meno  ricchezza, ma almeno – grazie al saggio intervento dello Stato – sarà distribuita in modo più equilibrato. Nel momento in cui la decrescita non è un tabù, anzi magari è diventato un risultato desiderabile, l’assistenzialismo va benissimo.

Se però si pensa che, per fare le mille cose di cui si dice esservi assoluto bisogno, dalle nuove infrastrutture al potenziamento della scuola e della sanità, ci vogliono più risorse, molte di più di quelle di cui disponiamo oggi, allora l’assoluta mancanza di proposte incisive per rendere meno difficile fare impresa (e creare occupazione) diventa un problema serissimo. Il fatto che la riduzione del cuneo fiscale vada tutta in busta paga, senza incidere sui costi dell’impresa, è un segnale preoccupante. Come è preoccupante che si parli di salario minimo a 9 euro, un livello che molte imprese (specie al Sud) non si potrebbero permettere. Ed è ancora più preoccupante che non una parola venga spesa sul flop del reddito di cittadinanza, fin qui capace di elargire un reddito, ma del tutto incapace di offrire un lavoro.

La realtà, temo, è che la diagnosi di questo governo confonde le cause con gli effetti. E’ vero, molti stipendi e salari in Italia sono troppo bassi, ma la ragione per cui lo sono è solo in minima parte l’avidità e la mancanza di scrupoli di alcuni datori di lavoro. La vera ragione è che la nostra produttività è bassa e, caso unico nel mondo sviluppato (insieme a quello della Grecia), è ferma da venti anni. Pensare che le cose possano andare a posto alzando le retribuzioni della minoranza che ha già un lavoro, senza aver prima disboscato l’immane rete di tasse e adempimenti che soffocano i produttori, è una pericolosa illusione.

Capisco che l’idea possa piacere agli ideologi della decrescita felice, e sia perfettamente in linea con la visione del mondo dei grillini. Capisco di meno che se la stia facendo piacere il Pd, un partito che fino a poche settimane fa ancora non aveva preso congedo dalla cultura del lavoro, e anzi proprio su questo punto orgogliosamente rivendicava la propria diversità dai Cinque Stelle.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 settembre 2019



Un futuro senza lavoro?

Uno spettro si aggira sulle economie occidentali: lo spettro della scomparsa del lavoro.

Spaventati dal progresso tecnologico, dall’avanzata dell’automazione, dai successi dell’intelligenza artificiale, dalla crescita senza precedenti delle reti di comunicazione, sono sempre più numerosi gli osservatori e gli analisti che profetizzano la nascita di una società completamente diversa da quelle del passato. E se alcuni cercano di vedere il lato positivo di questi processi, immaginando un’umanità liberata, in cui l’ozio creativo prende il posto del duro lavoro, più numerosi sono quanti sottolineano il lato distruttivo, per non dire catastrofico, di questi processi. E’ anzi diventato una sorta di spietato esercizio contabile quello di calcolare quanti e quali tipi di lavoro sono destinati a scomparire nel giro di 10, 20, 30 anni, travolti dal progresso tecnico e organizzativo.

E poiché il sospetto che si sta facendo strada è che il numero di posti di lavoro distrutti non sarà, come in passato, compensato da altrettanti posti di lavoro di tipo nuovo, c’è chi comincia a domandarsi: se i posti saranno sempre di meno, e il lavoro diventerà un attributo di pochi eletti (o sfortunati), quale sarà il destino di tutti gli altri? Che cosa faranno, ma soprattutto come si manterranno, coloro che non hanno un lavoro?

E’ in questo contesto che, sempre più spesso, viene evocata la necessità di un “reddito di base”, talora qualificato anche come universale, incondizionato o di cittadinanza (nulla a che fare con quello dei Cinque stelle, che è una normalissima forma di reddito minimo: quanto ben congegnata lo vedremo solo fra 2-3 anni). Esiste addirittura un network di università e centri studi che di reddito di base si occupa da oltre trent’anni, cercando di sensibilizzare sul tema opinione pubblica e studiosi (si chiama BIEN, ossia Basic Income Earth Network). L’idea è tanto semplice quanto difficile da realizzare: fornire a tutti, ricchi e poveri, un minimo vitale permanente e incondizionato, in modo da non scoraggiare la ricerca di un lavoro (se il sussidio è per gli inoccupati, il timore di perdere il sussidio può scoraggiare la ricerca di un’occupazione, o indurre a cercare solo lavori in nero).

Come si vede, si tratta di un modo di raccontare i problemi del mercato del lavoro molto diverso dagli approcci classici. Nella tradizione socialista e socialdemocratica l’obiettivo fondamentale della politica economica è ridurre al minimo al disoccupazione, offrendo un lavoro a tutti (è il mito della “piena occupazione”). Nella tradizione liberale si dà per scontato che non tutti riescano, anche impegnandosi, a mantenersi con il proprio lavoro, e quindi si caldeggia un qualche tipo di sostegno economico per chi è rimasto indietro (imposta negativa, sussidi ai poveri). Ma né gli uni né gli altri partono dal timore che l’era del lavoro sia destinata a finire, e che quindi diventi inevitabile erogare un reddito a tutti.

Nei fautori del reddito di base, invece, la profezia di una drastica contrazione dei posti di lavoro sembra svolgere un ruolo cruciale. La cosa curiosa, tuttavia, è che l’evidenza empirica a sostegno di questa profezia è quanto mai frammentaria, aneddotica, per non dire evanescente. E’ anche possibile, naturalmente, che fra 20 o 30 anni ci troveremo a constatare la scomparsa di milioni di posti di lavoro, nonché una contrazione complessiva del tasso di occupazione. Ma nel frattempo, che cosa dicono i dati? Quali sono le tendenze in atto nelle economie avanzate o relativamente avanzate? Si può affermare, ad esempio, che dopo la lunga crisi iniziata nel 2007-2008 il tasso di occupazione è oggi più basso di quello di una decina di anni fa?

Nel caso dell’Italia la risposta è purtroppo affermativa: fra il 2007 e il 2017 (ultimo anno per cui sono disponibili dati completi), il tasso di occupazione è diminuito. E lo stesso vale per altri paesi colpiti da violente crisi finanziarie, come la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, Cipro, ma anche per paesi più solidi come Norvegia e Stati Uniti. Se però guardiamo al complesso dei paesi avanzati (appartenenti all’Oecd o all’Unione Europea) il quadro che ci si presenta è ben diverso. Su 41 paesi avanzati, sono solo 9 quelli in cui il tasso di occupazione è diminuito, e sono ben 29 (più del triplo!) i paesi in cui è aumentato (nei restanti 3 paesi il tasso è il medesimo di 10 anni fa). E fra i 29 paesi che hanno aumentato l’occupazione ben 12 appartengono all’Eurozona. Questo significa, in sintesi, che la teoria secondo cui, nelle società avanzate, sarebbe in atto una tendenza a distruggere più posti di lavoro di quanti se ne creino, è sostanzialmente incompatibile con i dati.

Di qui, forse, una lezione. Può anche darsi che, in certi paesi, ci si debba prima o poi rassegnare a garantire un reddito a un esercito di inoccupati, che altrimenti non avrebbero di che sostentarsi. Quel che non possiamo fare, tuttavia, è considerare questa scelta, che è tutta politica, come una sorta di scelta obbligata, conseguenza ineluttabile del progresso tecnico o dell’iper-modernità divoratrice di posti di lavoro. No, la realtà è che nella maggior parte dei paesi avanzati si è riusciti, a dispetto del progresso tecnico e della lunga crisi del 2007-2013, a creare più posti di lavoro di quanti se ne perdevano. Se qualche paese è rimasto indietro, è solo a sé stesso (e all’inadeguatezza della sua classe dirigente), che deve guardare.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 2 febbraio 2019