Perché per quest’autunno-inverno si prospetta un “lockdown energetico” ed i rischi per l’Italia

 “Nei momenti di pericolo, non esiste peccato più grave dell’inerzia”.

Dan Brown

L’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto i mercati energetici globali, generando il più grande aumento dei prezzi del petrolio dagli anni ’70. Parallelamente, i prezzi del carbone e del gas hanno tutti raggiunto i massimi storici in termini nominali. In termini reali, tuttavia, solo i prezzi europei del gas naturale hanno raggiunto i massimi storici e rimangono notevolmente al di sopra del picco precedente del 2008. Le conseguenze di tutto ciò per la crescita mondiale saranno significative: è probabile che l’aumento dei prezzi dell’energia, da solo, riduca la produzione globale di quasi l’1% entro la fine del 2023, come suggerisce una recente analisi della Banca Mondiale [1]. Ma per l’Europa – e in particolare per l’Italia – l’impennata dei prezzi del gas e dell’energia elettrica, e quindi delle relative bollette, verosimilmente imporrà la necessità di una sorta di “lockdown energetico” nel prossimo autunno-inverno. Le conseguenze di questo nuovo lockdown sono difficili da stimare, ma poiché l’aumento dei prezzi dell’energia ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi, qualora si superassero determinate soglie critiche si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. In questo articolo cercherò di illustrare tali rischi alla luce dei nuovi dati oggi disponibili, evidenziando in particolare alcune questioni chiave largamente sottovalutate dal Governo italiano.

I motivi geopolitici della recente impennata dei prezzi dell’energia in Europa

Già prima dell’inizio della guerra, i prezzi del petrolio greggio sono aumentati notevolmente a causa della ripresa economica dalla crisi del Covid, mentre l’offerta non era tornata del tutto al livello pre-crisi. La guerra ha rafforzato questo movimento al rialzo dei prezzi, poiché l’offerta russa è diminuita prima a causa delle difficoltà di trasporto e di pagamento in relazione alle sanzioni, poi per la parziale “chiusura dei rubinetti” da parte di Gazprom, che è controllata dalla Federazione Russa.

Prima della guerra, il prezzo all’esportazione della Russia seguiva da vicino il prezzo del mercato globale per il petrolio Brent, indice di alta sostituibilità di questa materia prima [8]. Dato che la Russia è solo uno dei molti fornitori di petrolio dell’Unione Europea (l’incidenza delle importazioni dalla Russia era del 12,5% per l’Italia, del 22,8% per la UE [34]), il petrolio mancante per le importazioni dell’UE dalla Russia venute meno può essere sostituito da importazioni fatte da altrove; mentre, per la Russia, le mancate esportazioni di petrolio verso l’Occidente possono essere in parte compensate dagli acquisti di India e Cina.

A differenza del petrolio, il mercato del gas è regionale. Esistono, a grandi linee, tre grandi mercati del gas a livello globale: Europa, Nord America e Asia. I prezzi su questi mercati normalmente sono correlati, poiché il gas naturale liquefatto (GNL) può essere spedito a ognuno di essi, tuttavia possono differire fra loro in modo significativo. A partire dal 2021, l’elevata domanda in Asia ha portato a una crescita importante della divergenza tra il prezzo del gas nordamericano (più basso) ed i prezzi in Asia ed Europa (più alti).

Il caso del gas si differenzia da quello del petrolio perché le importazioni europee vengono consegnate principalmente tramite gasdotti: a causa dei vincoli di trasporto, il mercato del gas non è globale (cioè con prezzi allineati fra loro a livello mondiale), ed i prezzi dei 3 mercati regionali non sono unificati, come si può vedere molto bene dalla figura seguente. In essa risulta evidente come l’impennata dei prezzi del gas sia un problema prettamente europeo, non riguarda aree lontane come USA, Giappone, etc.

Il prezzo del gas naturale (espresso in dollari USA) in diverse zone del mondo. Si noti come solo in Europa si sia avuta un’abnorme impennata del prezzo. 20 mmbtu sono equivalenti a circa 6 MWh. (fonte: World Bank and IEA) 

I prezzi del gas sono fortemente aumentati in Europa già a partire dal 2021, poiché il forte aumento della domanda legato alla ripresa economica ha incontrato un’offerta meno dinamica da parte di Paesi Bassi e Russia, con quest’ultima che a seguito delle note vicende belliche ha gradualmente smesso di servire i mercati a breve termine (onorando per un certo tempo solo i suoi contratti a lungo termine già firmati, per poi ridurre ulteriormente i flussi di gas con motivazioni di comodo). E, come succede in questi casi, il prezzo della materia prima che scarseggia si è letteralmente impennato.

Nel 2020 la Russia ha prodotto il 22% del gas mondiale, mentre l’Europa ha consumato il 13% del gas naturale prodotto nel mondo (dati Enerdata). Poiché la Russia rappresenta circa il 40% del gas consumato in Europa (e per l’Italia il 43%), la totale scomparsa di questa fornitura rappresenterebbe uno shock del 13% x 40% = 5% a livello mondiale ma molto di più a livello regionale, poiché la fornitura alternativa è limitata dalla capacità di trasporto e di rigassificazione del Gas Naturale Liquefatto importato (GNL), che oggi rappresenta soltanto il 20% della fornitura europea di gas (secondo i dati forniti da Bruegel).

Sostituire interamente le importazioni russe di gas con GNL significherebbe triplicare le forniture europee di GNL, cosa che nel breve termine non è né tecnicamente possibile (per l’offerta limitata sul mercato mondiale, e per la bassa capacità di rigassificazione aggiuntiva in Europa) né economicamente fattibile (l’Europa è in concorrenza con l’Asia sul mercato del GNL e il reindirizzamento dei flussi verso l’Europa è costoso) [7]. L’AIE prevede quindi la sostituzione con GNL solo del 13% del gas russo mancante.

Per questo, a partire dal 2021, il prezzo del gas è aumentato molto di più del prezzo del petrolio per i Paesi europei: circa +60% a marzo 2022 rispetto a febbraio; e di ben 5 volte ad aprile 2022 rispetto ad aprile 2021. Ed è per tale ragione che, specie in caso di rilevante o totale interruzione delle forniture di gas russo, gli esperti prevedono per quest’autunno-inverno un prezzo estremamente alto della materia prima (e delle relative bollette), o addirittura un razionamento quantitativo di gas e luce sul suolo europeo.

D’altra parte, l’Unione Europea non può, nel corso di quest’anno e del prossimo, sostituire del tutto le importazioni di gas naturale russo [23]. Quindi, nel breve periodo la domanda di gas dell’UE è relativamente anelastica.  In regime di monopolio, un’elasticità così bassa porterebbe la Russia a fissare un prezzo molto alto, anche in assenza di guerra. Il motivo per cui la Russia non l’ha fatto in passato è che l’elasticità sul lungo periodo è sicuramente assicurata, e quindi deve affrontare un compromesso intertemporale: un prezzo molto alto aumenta i ricavi nel breve termine, ma li diminuisce nel lungo termine.

La guerra, tuttavia, ha due effetti evidenti e importanti su questo tipo di calcolo. Il primo è un’esigenza ancora maggiore di maggiori entrate oggi, portando ad un aumento del prezzo. La seconda è che la permanenza futura o l’inasprimento delle sanzioni, nonché la chiara decisione dell’Unione Europea di svezzarsi dalle importazioni di gas russo, riducono gli effetti di un aumento del prezzo sui ricavi futuri, portando ancora una volta la Russia ad aumentare il prezzo mentre la domanda è ancora lì.

In breve, ignorando le sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare le entrate delle esportazioni di energia. Ma mentre per il petrolio ciò implicherebbe un aumento del volume delle esportazioni (dato il prezzo mondiale), per il gas comporterebbe un aumento dei prezzi (e quindi volumi di esportazione in diminuzione) [8]. I veri contratti di gas a lungo termine normalmente precludono tale comportamento, in quanto specificano l’indicizzazione dei prezzi sul petrolio o sulla borsa del gas olandese (TTF). Ma la Russia ha una certa flessibilità per spostare parte della sua offerta dalle consegne nell’ambito di contratti esistenti a vendite sul mercato non regolamentato. In altre parole, i contratti possono essere rivisti o interrotti.

Per cercare di rimpiazzare una parte del gas russo, il Governo italiano si è mosso rapidamente, attraverso gli accordi con Algeria, Angola e Congo, ma il grosso delle forniture aggiuntive non arriverà fino al 2023. L’import di gas annuale dalla Russia verso l’UE prima della guerra era di circa 155 miliardi di metri cubi. È possibile rimpiazzarne poco meno della metà attraverso maggiori forniture da Stati Uniti, Norvegia, Africa. L’Italia può inoltre contare sulla riattivazione di alcune centrali a carbone. Di conseguenza, quest’inverno il deficit di gas per il nostro paese dovrebbe arrivare, al più, al 13-18% del fabbisogno pre-crisi.

Altri shock per l’Europa collegati alla situazione attuale

Oltre al greggio e al gas naturale, la Russia esporta carbone (che viene trasportato via nave, il che lo rende altamente sostituibile con altri fornitori) e prodotti petroliferi raffinati (in particolare il gasolio), dai quali l’Europa occidentale è particolarmente dipendente poiché le capacità di raffinazione sono specifiche e difficili da sostituire a breve termine. La Russia esporta anche metalli rari (nichel, palladio, di cui è il primo produttore mondiale) per i quali la sostituzione è invece delicata, e altri prodotti (fertilizzanti, grano, legno, etc.) che vengono scambiati su un mercato mondiale.

Oltre a questi shock dell’offerta e dei relativi prezzi, gli europei devono aggiungere la perdita di mercati in Russia a causa delle restrizioni alle esportazioni, che a maggio è arrivata a raggiungere circa il 60% dei volumi esportati in quel paese nel 2021, ovvero circa lo 0,4% del PIL europeo. Inoltre, secondo l’interessante analisi di Blanchard & Pisani-Ferry [8], relativa alle implicazioni della guerra Russia-Ucraina per la politica economica dell’Unione Europea, il ritiro delle grandi aziende europee dal territorio russo rappresenterebbe da solo una perdita di circa l’1 per cento del PIL per l’economia europea.

Infine, l’invasione dell’Ucraina potrebbe innescare comportamenti precauzionali da parte di famiglie e imprese in Europa, portandole a rivedere al ribasso i propri investimenti, a risparmiare di più ed a indirizzare i propri risparmi verso asset a basso rischio. Potrebbe anche aumentare l’incertezza sui mercati finanziari, nonché accrescere ulteriormente il deprezzamento dell’euro (che nei confronti del dollaro USA è stato di quasi il 20% nell’ultimo anno), il che potrebbe sostenere le esportazioni extra-UE nel breve termine, aumentando però al contempo le pressioni inflazionistiche.

In realtà, gli shock dei prezzi dell’energia influenzano l’attività economica e l’inflazione attraverso una varietà di canali, con effetti diretti e indiretti sulle economie importatrici ed esportatrici di energia. Gli effetti indiretti possono verificarsi attraverso il commercio e altri mercati delle materie prime, attraverso le risposte di politica monetaria e fiscale e attraverso l’incertezza degli investimenti. Attraverso questi canali, i prezzi dell’energia possono anche avere ripercussioni immediate sui saldi fiscali ed esterni [1].

In Italia, l’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni ha spinto l’inflazione fino al +8,4% di agosto, ed essa è per quasi l’80% dovuta proprio all’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche. Tali valori sono ben al di sopra dell’obiettivo del 2% che la Banca Centrale Europea si era a suo tempo posta. È probabile che i prezzi aumentino più velocemente del reddito per molte persone. Ciò significa che il costo della vita per un gran numero di italiani sta pesando fortemente sul budget personale e familiare.

L’inflazione in Italia, arrivata in poco tempo a livelli record che non si raggiungevano da 37 anni. (fonte: La Verità)

I prezzi più elevati per i beni che acquistiamo dall’estero sono uno dei motivi principali di ciò. Poiché le restrizioni Covid si sono allentate in molti paesi, le persone hanno iniziato a comprare più cose, avendo accumulato livelli record di risparmi nel corso della pandemia. Ciò ha generato un’impennata della domanda globale di beni di consumo durevoli e non durevoli, portando a carenze sul mercato di alcuni semilavorati e prodotti finali, a “colli di bottiglia” senza precedenti nella produzione e nel commercio, e di conseguenza a prezzi più elevati, in particolare per le merci importate dall’estero.

Anche l’aumento dei prezzi dell’energia ha svolto un ruolo importante. I forti aumenti dei prezzi del petrolio e del gas hanno spinto verso l’alto i prezzi della benzina e le bollette dell’energia, e questi aumenti sono iniziati ben prima dello scoppio della guerra fra Russia e Ucraina. Poiché i prezzi dell’energia verosimilmente continueranno a crescere sul breve termine (e potenzialmente anche sul medio termine, specie se i paesi dell’UE non adottassero misure adeguate o il conflitto nel frattempo si estendesse ad altri paesi), ci si aspetta che l’inflazione salga ulteriormente quest’anno e che l’economia rallenti.

Infine, l’invasione russa dell’Ucraina ha portato ad aumenti assai più accelerati e più consistenti del prezzo di cose come energia e cibo. Come se non bastasse, sia la guerra che i lockdown per Covid in Cina stanno rendendo più difficile importare cose, oltre ad allungare i tempi di consegna. È probabile che ciò faccia in futuro aumentare ulteriormente i prezzi di alcuni beni. Come risultato di questi fattori, prevediamo un aumento dell’inflazione, che potrebbe far addirittura rimpiangere i valori attuali.

A questo quadro, va aggiunto lo “shock” legato al fenomeno dell’immigrazione irregolare, che, dal punto di vista dell’impatto negativo sul tessuto sociale dovuto alla male gestio dello stesso, riguarda principalmente l’Italia, e che è tale soprattutto per i numeri assoluti e senza precedenti che si vanno raggiungendo. Gli immigrati clandestini rappresentano ormai una vera e propria “quinta colonna” in Italia, per questo in qualsiasi paese occidentale serio (Australia, Giappone, Stati Uniti, etc.) tale problema viene considerato una questione di sicurezza nazionale ed è affrontato con metodi assai decisi e risolutivi.

Nei primi 8 mesi di quest’anno, secondo i dati del Viminale [20], sono sbarcati in Italia circa 57.000 migranti (principalmente di nazionalità egiziana, bengalese, tunisina, afghana e siriana), cioè ben tre volte quanti ne erano sbarcati – nello stesso periodo – due anni prima, cioè nel 2020; e potrebbero sfiorare i 100.000 entro la fine dell’anno, da confrontarsi con gli appena 11.500 del 2018 [21]. Inoltre, secondo i dati Istat relativi al 2021, gli stranieri che in Italia vivono in povertà assoluta sono oltre 1.600.000, con un’incidenza pari al 32,4%, oltre quattro volte superiore a quella degli italiani in stato di povertà assoluta (7,2%).

L’impatto dello shock energetico sull’economia di un Paese: i modelli

Una volta definiti gli shock, occorre guardare alle loro conseguenze. Ci limitiamo qui al versante energetico, cominciando dalle conseguenze dell’aumento del prezzo del petrolio sulle famiglie e sulle aziende e passando poi ad analizzare quelle dell’aumento dei prezzi del gas naturale. Ricordo che i prodotti petroliferi possono essere trovati in qualsiasi cosa: dai dispositivi di protezione individuale, plastica, prodotti chimici e fertilizzanti fino all’aspirina, vestiti, carburante per il trasporto e persino pannelli solari.

Per un paese importatore netto, un aumento del prezzo del petrolio porta a un trasferimento di reddito al resto del mondo, e quindi all’impoverimento delle famiglie, in quanto i derivati del petrolio che pesano molto sul budget familiare sono i carburanti per i veicoli e il gasolio da riscaldamento (per chi ha il riscaldamento centralizzato). Se i salari non si adeguano immediatamente all’aumento dei prezzi, il potere d’acquisto e quindi il consumo diminuiranno nel breve termine.

Le aziende, dal canto loro, non possono trasferire immediatamente sui loro prezzi di vendita i maggiori prezzi del petrolio (che incidono sui prezzi dei carburanti, su quelli del trasporto e quindi sui costi di approvvigionamento delle materie prime e di distribuzione dei prodotti finiti o semi-lavorati). Quindi i loro margini si riducono, a scapito degli investimenti. D’altra parte, quando le aziende aumentano i prezzi, preservano i loro margini ma perdono quote di mercato.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Inoltre, il calo dei redditi in altri paesi europei importatori di petrolio riduce meccanicamente la domanda estera e quindi le esportazioni del nostro Paese verso di essi. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio, a differenza di quello del gas, è uno shock globale. Poiché tutte le aziende devono far fronte a costi più elevati, gli effetti sulla competitività delle nostre aziende sono relativamente limitati.

Veniamo ora invece all’impatto dei prezzi del gas naturale. Nei modelli macroeconometrici standard, il gas non è identificato come tale e si presume che il suo prezzo segua quello del petrolio [7]. A fortiori, un’interruzione della fornitura di gas è difficile da simulare. In questi modelli, la produzione di beni e servizi dipende dal lavoro, dal capitale e da una cosiddetta “Produttività Totale dei Fattori” (PTF) esogena, definibile come la parte residua di output eccedente gli input di lavoro e capitale.

Un’interruzione nella fornitura di gas importato potrebbe essere vista come una diminuzione esogena della PTF. Tuttavia, in questi modelli keynesiani, la PTF è rilevante solo a lungo termine. Nel breve periodo, il PIL è determinato dalla domanda, sebbene i prezzi rispondano agli shock dell’offerta. Pertanto, un modello macroeconometrico standard non è in grado di tenere adeguatamente conto dell’interruzione delle catene del valore (non c’è solo il problema gas: si pensi ad es. alla scarsità di microchip, etc.).

Pertanto, si deve invece utilizzare un modello di equilibrio generale che descriva come lo shock colpisce non solo le industrie che utilizzano direttamente la materia prima che viene meno – in questo caso il gas – ma anche le industrie a valle (chimica, vetro, etc.); e come il relativo impatto sulla filiera può essere attutito dalle sostituzioni e dall’uso delle importazioni a tutti i livelli delle catene del valore. A seconda delle assunzioni del modello, si può arrivare così a stimare un determinato calo del PIL.

Tuttavia, in un’economia rigida, il riequilibrio dei mercati dopo un forte shock implica altrettanto forti variazioni dei prezzi relativi, e quindi un costo economico significativo quando alcuni prezzi si adeguano solo con ritardo. Ad esempio, le aziende del settore del vetro e ceramica, ma anche le fonderie, le cartiere, alcune aziende del settore chimico e alimentare – o comunque molte delle aziende energivore – non riescono a trasferire i costi più elevati sui propri clienti e alcune interrompono la produzione, il che si ripercuote, a cascata, su altre aziende energivore e non che utilizzavano i loro prodotti.

Perciò, è necessaria una combinazione di approcci diversi per arrivare a una stima realistica degli effetti della crisi energetica. Si possono poi aggiungere altri elementi: calo delle esportazioni verso la Russia, deprezzamento di alcuni beni, comportamenti precauzionali, politiche pubbliche, ecc. Data la complessità di queste stime, dubito che l’Europa abbia deciso di rinunciare al gas e al petrolio russo dopo aver fatto – come invece avrebbe dovuto – opportune analisi del rapporto rischi-benefici.

Blanchard & Pisani-Ferry [8] hanno stimato il drenaggio dei redditi europei dovuto a un aumento del 25% del prezzo del petrolio e del gas importato a circa 1 punto di PIL. L’aumento anno su anno del prezzo del gas è stato però assai più alto: circa 5 volte, pari al 500%, per cui l’impatto sul PIL si preannuncia assai elevato. Questa cifra costituisce una forma di costo economico sottovalutato della guerra per gli europei, un costo che potrebbe aumentare a causa di: ulteriori interruzioni dell’offerta, ricadute internazionali sfavorevoli, chiusure di imprese chiave o di intere filiere e/o “fallimenti” di massa delle famiglie più povere.

L’aumento impressionante del prezzo del gas in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di quasi 3 anni a cui il grafico si riferisce. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice della Borsa italiana del gas, ovvero del PSV (che sta per “Punto di Scambio Virtuale”). Il prezzo del gas è aumentato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

L’impatto teorico del caro-energia sui consumi e sul potere d’acquisto

La politica può – e deve – affrontare lo squilibrio tra domanda e offerta di gas e di petrolio. I responsabili politici devono dare priorità alle politiche che incoraggino una maggiore efficienza energetica e accelerino la transizione verso fonti energetiche a basse emissioni di carbonio, come il fotovoltaico e l’eolico (in particolare quello off-shore) [1]. Il conseguente miglioramento dell’equilibrio tra domanda e offerta di energia può aiutare a ridurre il rischio di stagflazione e superare i venti contrari alla crescita.

Poiché la domanda di energia è – come si dice in gergo – “anelastica” nel breve periodo, i forti aumenti di prezzo dell’energia implicano un calo significativo del potere d’acquisto delle famiglie, che dovrà essere assorbito attraverso: (i) un consumo ridotto di beni e servizi non energetici, (ii) una riduzione del risparmio o (iii) un aumento di reddito [9].Sul breve termine, per attutire gli effetti negativi delle famiglie, il sostegno temporaneo mirato ai gruppi vulnerabili può quindi avere la priorità rispetto ai sussidi energetici che potrebbero ritardare la transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio.

Ma in realtà la partita è assai più grossa. La crisi energetica, come scritto dal Financial Times, è una delle principali cause che hanno portato gli hedge fund a realizzare la più grande scommessa contro il debito italiano dal 2008. Secondo Gianclaudio Torlizzi, fondatore della società di consulenza finanziaria T-Commodity, “il prossimo governo, pur rimanendo all’interno della cornice delle regole europee, dovrà agire per ottenere le necessarie compensazioni per far fronte agli inevitabili razionamenti energetici. I prezzi dei beni energetici sono infatti destinati a rimanere estremi per molto tempo” [10].

In effetti, le variazioni del prezzo del petrolio e del gas possono riflettere sia gli shock dell’offerta di materia prima che quelli della domanda globale. L’aumento dei prezzi dell’energia non sempre porta a una contrazione dei consumi: infatti, possono anche essere una conseguenza di un aumento dei consumi a livello globale. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas trasferisce ricchezza dai paesi importatori di tali materie prime ai paesi esportatori e quell’effetto ricchezza, a sua volta, ha un impatto negativo sul consumo nei paesi importatori come il nostro, attraverso effetti moltiplicatori.

Secondo un’analisi pubblicata dalla Banca Centrale Europea (a cui hanno contribuito due italiani), “l’impatto economico di una variazione del prezzo del petrolio causata da uno shock imprevisto della domanda globale aggregata è molto diverso da quello di un aumento del prezzo del petrolio causato da una carenza imprevista nella produzione di petrolio. Pertanto, è importante comprendere fino a che punto gli aumenti del prezzo del petrolio sono guidati da diversi tipi di shock prima di formulare risposte politiche” [9].

Quando, ad esempio, i prezzi del petrolio salgono a causa di un aumento della domanda aggregata, aumentano anche i salari e la politica monetaria dovrà diventare più restrittiva. Al contrario, se i prezzi del petrolio aumentano a causa di interruzioni nell’offerta di petrolio e non ci sono effetti di secondo impatto sui salari, la politica monetaria non ha bisogno di inasprirsi per stabilizzare l’inflazione. Tuttavia, è difficile pensare che un’inflazione galoppante non contribuisca a creare un mix socialmente esplosivo.

Infatti, come osservano gli autori dello studio in questione, “poiché spendono una percentuale relativamente elevata del loro reddito per l’energia, le famiglie povere sono particolarmente colpite in termini di inflazione quando i prezzi dell’energia aumentano. In caso di un forte shock dei prezzi dell’energia, l’impatto negativo su alcune famiglie potrebbe essere così ampio da superare facilmente qualsiasi impatto positivo visto attraverso i canali macroeconomici (ad es. l’occupazione)”.

Inoltre, va sottolineato che secondo la teoria economica i prezzi dell’energia più elevati incidono sui consumi privati ​​attraverso canali sia diretti che indiretti. Un aumento dei prezzi dell’energia incide direttamente sul potere d’acquisto delle famiglie attraverso l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici (elettricità, gas, benzina, olio combustibile, ecc.). Nell’area dell’euro, circa il 30% di tutto il consumo di energia assume la forma del consumo finale da parte dei consumatori. Il resto riguarda invece l’energia utilizzata nella produzione di beni e servizi non energetici (cioè i “consumi intermedi”).

Al tempo stesso, un aumento dei prezzi dell’energia comporta un aumento dei costi di produzione dei settori non energetici e, nella misura in cui i produttori di beni e servizi non energetici adeguano i loro prezzi finali, un’ulteriore riduzione diretta del potere d’acquisto delle famiglie (l’effetto è dunque, in questo caso, indiretto). Infatti, se tali costi non possono essere trasferiti sui prezzi finali dei beni in questione, ci sarà inevitabilmente un impatto sul potere d’acquisto delle famiglie, poiché i produttori nei settori interessati taglieranno i salari o avranno minori profitti da distribuire.

Non è facile contrastare l’aumento dell’inflazione, che è determinato da molti fattori diversi: dall’aumento dei costi energetici derivanti dagli sviluppi geopolitici, dagli effetti temporanei delle formazioni dei prezzi non supportate dai fondamentali economici, dai forti shock negativi dell’offerta causati dall’aumento dei prezzi globali dell’energia (che incidono sui prezzi alla produzione e sul trasporto di materie prime e prodotti finiti), ma anche dei generi alimentari e delle materie prime agricole e non, dalle continue interruzioni nelle catene di approvvigionamento, etc.

Di fronte a questi problemi e rischi crescenti, secondo gli economisti la politica fiscale di un paese deve essere flessibile e pronta a fornire maggiore sostegno alle famiglie vulnerabili via via che la situazione peggiora. In un grave scenario al ribasso con carenza di gas e costi in aumento per i consumatori di gas, potrebbe essere necessario posticipare il ritorno alla regola europea del freno all’indebitamento affinché i governi nazionali possano assumere ulteriori prestiti per sostenere l’economia [12].

L’impatto reale su famiglie ed imprese e sul tessuto economico

I modelli macroeconometrici, per quanto sofisticati possano essere, non sono in grado di simulare in modo realistico una situazione così complessa come quella fin qui illustrata, in cui per l’Italia si sommano una serie di shock, non ultimo quello da cui siamo appena usciti, legato ai lockdown prima fisici e poi “virtuali” imposti nell’emergenza pandemica, che rappresentano peraltro solo due dei 10 grandi fattori che hanno impoverito imprese e famiglie durante la pandemia (si veda la mia analisi [3]).

Sebbene l’aumento dell’inflazione – e quindi del costo della vita – impatti apparentemente sull’intera popolazione, l’aumento dei prezzi dell’energia, in realtà, ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi. In altre parole, la spesa per gas ed elettricità in proporzione al reddito disponibile è più alta per le famiglie più povere, e rappresenta un fattore crescente nella compressione dei bilanci delle famiglie, e non solo di quelle italiane [2].

Nell’UE, i prezzi dell’energia per le abitazioni colpiscono il 20% più povero delle famiglie più di quanto non colpiscano le famiglie a reddito più elevato. Per quanto riguarda i costi di trasporto, invece, il loro aumento colpisce più le famiglie ad alto reddito che le famiglie a basso reddito in diversi paesi. In effetti, in un terzo dei paesi europei, le famiglie a reddito più elevato spendono quote maggiori del proprio reddito per la guida della propria auto rispetto alle famiglie a reddito più basso, il che riflette generalmente il possesso di un’auto che è meno comune e si concentra tra le famiglie a reddito più alto in questi paesi [13].

Il grafico mostra il rapporto tra il reddito speso per il trasporto dal 20% delle famiglie di reddito più alto e il 20% delle famiglie con il reddito più basso. 100 indica che entrambi i gruppi spendono parti uguali dei loro budget. Ad esempio, in Bulgaria, la quota di reddito dedicata ai costi di trasporto dal 20% delle famiglie più ricche è del 280% la quota del 20% delle famiglie con i redditi più bassi. Fonte: Indagine sul bilancio delle famiglie (2015) [13].

Nel nostro Paese, però, l’impatto dell’aumento dei costi di energia elettrica, gas e carburanti è stato molto più alto che in altri Paesi europei per una serie di ragioni: (1) non abbiamo l’energia nucleare e l’eolico off-shore nel mix delle fonti energetiche; (2) eravamo già prima della pandemia uno dei Paesi dell’UE che paga di più l’elettricità e il gas (si veda la mia analisi sul tema [4]); (3) le misure di mitigazione prese dal Governo negli scorsi mesi sono state largamente insufficienti e, in parte, mal concepite.

Non deve quindi stupire il fatto che la cronaca ci racconti una realtà del tutto diversa da quella fredda, edulcorata e spesso fatta di semplici “medie” dei modelli macroeconometrici. Non c’è giorno che a un gran numero di aziende italiane arrivino bollette “monstre” che le costringono – nel migliore dei casi – a fare a meno di qualche dipendente e, nel peggiore, a chiudere i battenti temporaneamente (come ad es. nel caso di alcuni hotel o di attività più energivore) oppure per sempre. Ripeto, per sempre.

Non è facile quantificare, al momento, l’impatto del caro-bollette sulle aziende in termine di “sofferenze” e di cessate attività. Tuttavia, quest’estate gli aumenti raggiunti dagli importi delle bollette luce e gas sono stati così elevati (da 3 a 5 volte più alti, se non addirittura di più, rispetto ai livelli dell’anno precedente) che non solo i settori industriali più energivori, ma anche la filiera della ristorazione, il settore alberghiero, gli allevamenti di bestiame e perfino la vendita al dettaglio ne sono stati fortemente colpiti.

Secondo un’analisi effettuata ad agosto da Confcommercio-Imprese, già solo per l’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche e per l’inflazione, “di qui ai primi mesi del 2023 in Italia potrebbero “saltare” ben 120.000 aziende del terziario di mercato e 370.000 posti di lavoro” [6]. Complessivamente, la spesa in energia per i comparti del terziario nel 2022 ammonterà a 33 miliardi di euro, il triplo rispetto al 2021 (11 miliardi) e più del doppio rispetto al 2019 (14,9 miliardi).

Tra i settori più esposti, il commercio al dettaglio – in particolare la media e grande distribuzione alimentare, che a luglio ha visto quintuplicare le bollette di luce e gas – la ristorazione e gli alberghi, i trasporti (che oltre al caro carburanti, si trovano ora a dover fermare i mezzi a gas metano per i rincari della materia prima); ma sono colpiti anche i liberi professionisti, le agenzie di viaggio, le attività artistiche e sportive, i servizi di supporto alle imprese e il comparto dell’abbigliamento. E le aziende manifatturiere non possono far lievitare i prezzi dei loro prodotti per non perdere competitività rispetto a quelle estere.

“Intere filiere produttive, fra cui quella del legno-arredo, saranno costrette a fermare la produzione, a mettere i lavoratori in cassa integrazione ed a perdere competitività sui mercati. In pratica, già ad ottobre ci sarà il ‘black out’ della nostra filiera” [16]. È questo il grido d’allarme lanciato da Claudio Feltrin, presidente di FederlegnoArredo, che rappresenta una delle filiere più importanti del made in Italy nel mondo. Non è difficile prevedere, quindi che nei prossimi mesi la richiesta di cassa integrazione avrà un “boom”.

Ciò succederà perché – i politici sembrano ignorare questo aspetto – lo stop delle aziende energivore si ripercuoterà a cascata sull’intera filiera. E un discorso del tutto analogo si potrebbe fare per le filiere della chimica, dell’alimentare e di tanti altri settori merceologici. Quindi, se si fermano le aziende energivore, che sono il “canarino del minatore”, non si ferma solo la percentuale di aziende interessate direttamente dal caro-bolletta, ma anche l’indotto, per cui vi è una sorta di inquietante “effetto moltiplicatore”. E questo effetto sembra essere del tutto ignorato anche dagli studi degli organismi statali preposti!

Come raccontato a fine agosto da Piero Scandellari, presidente del Centergross di Bologna (la più grande area commerciale B2B europea della Moda Pronta italiana e dell’ingrosso), “abbiamo al nostro interno 680 aziende e già il 15 per cento di queste ci ha chiesto di staccare loro il gas. Sicuramente, molte devono ancora riaprire e siamo già a queste percentuali destinate a crescere. Ci aspettiamo sicuramente un intervento del Governo, ma è certo che il gas non ci sarà per tutti”.

Questi numeri rappresentano, però, solo la classica “punta dell’iceberg”, se si considera il fatto che per il prossimo autunno-inverno si presenta sempre più concretamente la necessità di un “lockdown energetico”, del quale peraltro poco trapela dal Governo, per quanto riguarda i dettagli operativi per famiglie e aziende, con una mancanza di programmazione, di comunicazione e, in generale, con una mala gestio che ricorda maledettamente quella della pandemia, già portata alla luce dal prof. Ricolfi nel suo saggio La notte delle ninfee e dal sottoscritto nelle analisi pubblicate dalla Fondazione Hume.

Inoltre, a causa degli insoluti di molte aziende, sempre più gli stessi fornitori di luce e gas o si rifiutano tout court di contrattualizzarle – nel qual caso finiscono alimentate, con sovraprezzi notevoli, dal cosiddetto “fornitore di ultima istanza” – oppure richiedono al cliente una fideiussione a garanzia, come racconta il già citato Scandellari: “l’ENI ci ha chiesto una fideiussione sulla metà di quelli che sono i nostri consumi medi annui, cioè 2,5 miliardi di metri cubi. E la vogliono nel giro di una settimana!” [5].

L’impennata dei prezzi del gas colpisce soprattutto chi compra a spot, “ma sono saltate anche fonderie che avevano contratti fissi, per il fallimento di fornitori”, spiega Dario Zanardi di Assofond [24]. In questa tempesta, il rischio di fermo produttivo è reale: “Dipende da tre variabili: non ci fermiamo se la domanda tiene, se i clienti accetteranno gli aumenti e se non saranno imposti razionamenti. Siamo in balia degli eventi e rischiamo molto, proviamo una grande frustrazione, in nostro potere non c’è nulla”. Insomma, è sempre più chiaro che il tessuto economico italiano questa volta rischia davvero di saltare.

Il “lockdown energetico” atteso per aziende, famiglie e Comuni

I siti di stoccaggio del gas quasi pieni consentono un qualche margine di sicurezza per i mesi invernali ma non sono risolutivi. Il Governo Draghi sta perciò preparando un piano su tre livelli di emergenza a seconda dell’aggravarsi della situazione [10] e, come altri paesi europei, si prepara al razionamento dell’energia, che verrebbe attuato sotto forma di una sorta di “lockdown energetico”, volto (si spera) a scongiurare l’incubo di blackout prolungati, che provocherebbero danni economici e sociali ancor maggiori.

Tra le misure del piano già scattate, c’è la riduzione della temperatura negli uffici pubblici, che non potrà essere superiore ai 19°C in inverno e inferiore ai 27°C in estate, cui si aggiungerà il taglio di un’ora nella durata di esercizio degli impianti ma, in caso di peggioramento della situazione, i tagli dovrebbero essere più drastici. Tuttavia, il contributo effettivo di tali misure è del tutto marginale, poiché è ben noto (fonte DOE [15]) che a una riduzione di 1°C sul termostato corrisponde un risparmio di appena l’1%!

Il piano potrebbe poi introdurre una riduzione di 2°C della temperatura nelle case limitando l’orario di accensione del riscaldamento in inverno (una misura nella pratica assai difficile da far rispettare, se non nei condomini dotati di riscaldamento centralizzato) e chiedendo ai Comuni di ridurre l’illuminazione pubblica nelle strade e sui monumenti fino al 40% dei consumi totali (anche in questo caso il contributo effettivo di questa misura è relativamente ridotto, e limitato praticamente ai soli orari notturni).

Al tempo stesso, gli uffici pubblici potrebbero chiudere in anticipo e anche ai negozi potrebbe essere chiesto di chiudere entro le 19 mentre i locali non dovrebbero rimanere aperti oltre le 23. In questo caso, quindi, si tratterebbe di un vero e proprio “lockdown” che non avrebbe nulla da invidiare a quello messo in atto durante la pandemia e che economicamente tanto male ha fatto a tutte le attività imprenditoriali. Reiterarlo, quindi, rende più facile immaginare il possibile disastro che si va prospettando. E tutto ciò potrebbe essere perfino insufficiente, in caso di chiusura totale del flusso di gas russo.

I rischi maggiori, tuttavia, riguarderebbero le industrie energivore, con la possibilità di subire un’interruzione della fornitura per un periodo limitato di tempo. Infatti l’Italia – come del resto altri paesi europei e non – ha da tempo implementato dei sistemi di incentivazione per aziende con grandissimi consumi, che accettano l’attivazione di un sistema transitorio di “interrompibilità energia elettrica” e “interrompibilità gas”. A fronte dell’eventualità di un’interruzione dell’approvvigionamento di energia elettrica e gas, l’azienda riceve dal Ministero un rimborso proporzionale al consumo.

L’esistenza di un piano siffatto, però, non vuol dire che le aziende e le famiglie, il prossimo autunno-inverno, siano al sicuro da guai ancora peggiori. Infatti, oltre al previsto ulteriore raddoppio degli importi delle bollette e al razionamento dell’energia, vi è comunque il rischio di possibili blackout elettrici improvvisi o imprevisti. Questo perché le reti di distribuzione sono complesse e non facili da gestire, sia per quanto riguarda l’interrompibilità (del gas) sia per quanto riguarda il distacco e il ripristino (dell’elettricità), in caso di squilibrio fra la potenza elettrica richiesta e quella disponibile in un dato momento.

Di recente, la premier francese Elisabeth Borne, intervistata dal canale tv TMC, ha avvertito che, se l’inverno sarà molto freddo, sarà necessario staccare la corrente a rotazione – per periodi di “non più di due ore” – alle abitazioni [19]. E, se ciò è quanto succederebbe in un Paese dotato di decine di centrali nucleari (dalle quali dipende per la produzione di circa il 67% della propria elettricità, mentre dal gas dipende appena per il 7%, da confrontarsi con il circa 40% dell’Italia), non è difficile immaginare per il nostro Paese uno scenario di blackout programmati del tutto simile o potenzialmente ben peggiore.

L’aumento impressionante del prezzo dell’elettricità in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di 3 anni (in alto) e degli ultimi 12 anni (in basso), a cui i due grafici si riferiscono. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice Ipex della Borsa elettrica italiana Si noti come anche in questo caso, come per il gas, l’aumento sia stato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

In Kosovo, uno dei paesi più poveri d’Europa, i blackout programmati sono già una realtà: la corrente si interrompe per 120 minuti (ovvero 2 ore) ogni 6 ore, risparmiando solo infrastrutture critiche come ospedali e alcune industrie [22]. Ciò potrebbe rivelarsi un preludio di quanto accadrà in seguito per le zone più ricche d’Europa. “Mantenere le luci accese quest’inverno sarà molto più impegnativo di quanto i governi europei ammettano”, ha dichiarato di recente un esperto. Chi è coinvolto nel settore sa che purtroppo ormai “è questione di quando, e non se, si verificherà un’escalation della crisi”.

“Il gestore della rete finlandese, in un raro esempio del tipo di trasparenza di cui c’è assolutamente bisogno, già ad agosto ha detto ai cittadini di prepararsi alle carenze quest’inverno. I governi europei hanno il dovere di chiarire con i loro elettori l’entità della crisi in arrivo. Ridurre al minimo la portata del problema o, peggio, fingere che non ci sia un problema, non manterrà la corrente in funzione questo inverno”, osserva Javier Blas, che scrive di energia e materie prime per Bloomberg.

Tuttavia, non è detto che in Italia si arrivi al razionamento ed ai blackout programmati. Questa potrebbe sembrare una buona notizia, ma non lo è, perché probabilmente significherebbe che siamo finiti nello scenario peggiore: quello per cui un grande numero di aziende, oltre a quelle più energivore, sono costrette a chiudere i battenti per sempre o, quanto meno, a fermare la produzione per alcuni mesi, con tutto quello che ciò comporta. Insomma, paradossalmente, il conseguente calo dei consumi di gas e di elettricità, insieme a quello delle famiglie costrette a consumare meno, potrebbe forse evitarci il lockdown. Non è fantasia: già a luglio, in Italia i consumi elettrici industriali sono crollati del 12% [42].

Nelle proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana fornite a giugno dalla Banca d’Italia [14], le conseguenze per le attività economiche, nello scenario della sospensione della fornitura del gas dalla Russia a partire dai mesi estivi, sono esaminate nello “scenario avverso”. Poiché per l’Italia tale sospensione sarebbe solo parzialmente compensata ricorrendo ad altre fonti, nel documento si assumono inoltre le seguenti ipotesi: un impatto diretto di tale interruzione, in particolare sulle attività manifatturiere più energivore; un significativo aumento dei prezzi delle materie prime energetiche.

Ebbene, in queste ipotesi, per il PIL la Banca d’Italia prevede una crescita media praticamente nulla nel 2022, ed in calo di oltre 1 punto percentuale nel 2023. E probabilmente – come vedremo fra poco – queste stime sono perfino ottimistiche, poiché verosimilmente non tengono conto di tutta una serie di fattori, alcuni dei quali accennati nel presente articolo. È chiaro che più si riuscirà a limitare l’impiego di gas e più si riuscirà a contenere anche l’ascesa dei prezzi, ma nel frattempo le aziende rischiano di andare gambe all’aria una dopo l’altra, come in un domino; per cui, altro che -1% di PIL!

Infine – per completare il quadro – il presidente dell’ Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), Decaro, e quello dell’Upi (Unione province italiane), De Pascale, hanno affermato in una dichiarazione congiunta che “è indispensabile che fra i provvedimenti urgenti del Governo sia compresa una misura di sostegno per i Comuni e le Province, in assenza della quale i bilanci degli enti locali sono destinati a saltare. È necessario uno stanziamento straordinario di almeno altri 350 milioni di euro per compensare l’impennata delle nostre spese energetiche, altrimenti i sindaci saranno costretti a tagli dolorosi dei servizi pubblici” [18].

I rischi socio-economici legati al possibile superamento di “soglie critiche”

La fornitura dell’energia nei 27 paesi dell’Unione Europea (escluso il Regno Unito) dipende essenzialmente da petrolio (33%, praticamente tutto importato), gas (24%, principalmente importato) e carbone (12%, principalmente importato) [8]. Altre fonti includono le rinnovabili (domestico), nucleare (essenzialmente domestico, poiché il combustibile stesso è una piccola parte del costo totale) ed elettricità importata. La Russia è per l’UE un importante fornitore di tutti e tre: petrolio, gas e carbone.

La discussione precedente ha chiarito che, a seconda di molti fattori – sia quelli che influenzano le decisioni russe sia quelli che influenzano la scelta e l’intensità delle sanzioni – vi è una sostanziale incertezza sulla futura evoluzione dei prezzi del gas, del petrolio e, di conseguenza, dei carburanti nell’Unione Europea. Il nostro Paese, però, anche a causa delle pessima gestione della pandemia da parte degli ultimi due Governi (di cui ho analizzato l’impatto sulle imprese in un mio precedente articolo [3]) non può permettersi ulteriori shock economici per aziende e famiglie, perché le prime rischierebbero l’estinzione.

Anzi, ora si rischia sul serio un’“estinzione di massa” come quelle verificatesi in passato sulla Terra, portando alla scomparsa di una frazione rilevante delle specie animali. Ma, nel caso dell’Italia, il danno non si fermerebbe alle estinzioni in sé di imprese e attività commerciali (ed alla perdita di occupazione associata), bensì si accompagnerebbe a maggiori rischi sistemici e ad una maggiore povertà. Infatti, i sussidi del Governo Conte alle imprese hanno comportato un enorme aumento del debito pubblico e, al tempo stesso, i prestiti garantiti dallo Stato hanno prodotto un forte aumento del debito privato.

Attualmente, come osservato da Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria italiana [10], “è in corso un gravissimo terremoto finanziario, perché il prezzo del gas sta continuamente moltiplicandosi, il che rischia presto di creare una grave esplosione dei costi per le imprese, con il conseguente rischio di una spirale di crisi aziendali, quindi finanziarie e occupazionali”. Né più né meno di quanto avevo prospettato già nell’aprile 2021, a un livello di dettaglio molto più spinto, in un altro mio articolo sul “boom dei prezzi” e sulla “tempesta perfetta” per l’Italia [11], al quale rimando dunque il lettore interessato.

Oggi il rischio di fallimenti a catena di imprese e di istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shockbancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile. Il successivo downgrade del rating dei Titoli di Stato italiani potrebbe completare l’opera, poiché sarebbe di fatto come il crollo di una diga. Del resto, già a ottobre 2020, il Governatore della Banca d’Italia Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati [41]. Ed a novembre 2020 la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ora, con la crisi energetica, il rischio è rinnovato, ma è anche moltiplicato di entità.

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Se il Governo non interviene, le aziende o scaricano i costi sui clienti o sospendono l’attività. Perciò Confcommercio ha chiesto al Governo di potenziare immediatamente il credito d’imposta anche per le imprese non energivore e non gasivore [25]. Un credito d’imposta del 15% per l’energia elettrica non è assolutamente adeguato agli extra-costi che le imprese stanno sostenendo ora. Occorre portarlo al 50%, ma presto, altrimenti si rischia d’innescare anche una spirale inflazionistica destinata a gelare i consumi. Il Governo, però, partorisce solo “pannicelli caldi”, e intanto qualcuno guadagna alle spalle di altri.

Infine, sebbene tutti gli italiani stiano sperimentando un aumento del costo della vita, l’energia rappresenta una quota maggiore dei budget di alcune famiglie rispetto ad altre, quindi lo shock energetico rischia di amplificare le disuguaglianze esistenti. Se a ciò si aggiunge l’aumento della criminalità e del degrado portato dalla mala gestio dell’immigrazione clandestina, è facile capire come il tessuto sociale italiano si avvicini sempre più pericolosamente verso livelli di lacerazione, o “punti di rottura”. E purtroppo nessuno sa dove si collochino esattamente le soglie critiche nei sistemi sociali ed economici.

Peraltro, pochi italiani sanno – perché nessuno glielo dice – che chi è in regola con le bollette elettriche deve oggi pure coprire alcuni buchi lasciati dai morosi: si tratta del cosiddetto “Cmor” o “corrispettivo morosità”. È questo, in sintesi, il contenuto di una delibera, la 50/2018, emanata dall’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera), che il 1° febbraio 2018 ha emanato un provvedimento che assegna ai consumatori – e non ai fornitori dell’energia – l’onere di rifondere i debiti per gli oneri generali di sistema accumulati dai morosi verso le aziende fornitrici a partire dal 1° gennaio 2016.

Gli oneri di sistema, dunque, devono sempre essere pagati dai fornitori di energia elettrica all’Authority che li ha decisi, anche sulle bollette non pagate per morosità o per altri motivi. Per ora, l’ Authority ha deciso di accollare a tutti i consumatori solo una parte degli oneri non pagati, pari a 200 milioni. E quindi, su bollette elettriche già cariche di oneri, da qualche anno si è aggiunto un nuovo prelievo a carico di chi paga regolarmente. Certo, in questi mesi gli oneri di sistema sono stati tagliati dalle bollette elettriche di famiglie e aziende con i decreti del Governo, ma questa misura è solo temporanea.

Già nel 2018, si stimava attorno al miliardo di euro l’insoluto totale delle bollette elettriche non pagate dai morosi [33]. Prima di allora, diverse aziende elettriche erano entrate in crisi, e qualcuna aveva addirittura dovuto chiudere i battenti, per questo il Governo intervenne introducendo il Cmor. D’altra parte, poiché la coperta evidentemente è corta, qualcuno dovrà pur pagare i crescenti insoluti dei clienti: se non i consumatori, le aziende fornitrici di elettricità (sempre più a rischio fallimento, come dimostravano già i numerosi default dello scorso anno in Cina, in Gran Bretagna e in altri paesi) o il Governo.

I leader europei dovrebbero dunque prendere atto del fatto che applicare sanzioni contro la Russia sul gas e sul petrolio è stata una scelta “improvvida”, per usare un gentilissimo eufemismo. L’Europa occidentale ha deciso di suicidarsi, in un senso che appare sempre meno metaforico e sempre più letterale. I nostri politici devono scegliere: o due anni di recessioni e probabili default a catena (forse pure di paesi) o addio sanzioni. E intanto l’Ungheria, membro dell’UE, si accorda con Gazprom [29] per avere 5,8 milioni di metri cubi al giorno in più (poco meno di un terzo di quanti ne riceveva l’Italia a fine agosto!).

Cosa potrebbe succedere e perché vedo il futuro dell’Italia assai “nero”

Credo che a questo punto risulti piuttosto evidente al lettore che, qualora si superassero determinate soglie critiche per il perseverare di scelte improvvide, e nell’incapacità di rimediare in tempi brevi agli errori fatti in precedenza, si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale del nostro Paese, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. Peccato, però, che l’Italia sia too big to fail, non sia la piccola Grecia condannata da Draghi & Co.!

Le avvisaglie di ciò che nel giro di un anno potrebbe succedere nel nostro Paese in questa situazione sempre più potenzialmente esplosiva all’estero ci sono già. E non mi riferisco al movimento contro il caro-vita Don’t pay UK, nato nel Regno Unito e che spinge affinché le famiglie si rifiutino di pagare le bollette a partire da ottobre [27]. Infatti, il mancato pagamento comporterebbe seri rischi, tra cui l’accumulo di debiti e l’impatto sui punteggi di credito dei clienti; pertanto, un’iniziativa del genere “funzionerebbe” solo se vi aderisse un numero di persone elevato, ben più dei circa 100.000 del Regno Unito.

Lo spread BTP-Bund è in forte risalita, dopo un breve periodo di stabilizzazione su bassi livelli. Che valori raggiungerebbe se si verificassero gli scenari più pessimistici a seguito della crisi energetica o se le famiglie italiane smettessero in massa di pagare le bollette luce e gas per i costi insostenibili? Infine, è da considerarsi un caso che lo spread abbia toccato il minimo degli ultimi 5 anni con il Governo Conte e abbia iniziato un’inversione di tendenza (cioè una salita) da quel minimo proprio in coincidenza con l’insediamento del Governo Draghi?

Penso, piuttosto, alle dimostrazioni di massa e rivolte che ci sono in diversi paesi sudamericani, in Egitto e perfino in Olanda, nel silenzio dei giornali italiani. Ma, come spiegano Becchi & Zibordi [28], “l’esempio più eclatante dell’effetto distruttivo sulle vite umane delle politiche delle élite occidentali lo si è visto nello Sri Lanka, che oggi è nel caos. La ragione dichiarata è che la nazione è in bancarotta, soffrendo la peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni e milioni di persone stanno lottando per trovare cibo, medicine e carburante. La carenza di energia e l’inflazione sono stati i principali fattori alla base della crisi”.

Come raccontano gli autori del pezzo, “i manifestanti hanno fatto irruzione nelle residenze ufficiali del Primo Ministro e del Presidente, che per paura sono fuggiti”. I leader politici del Paese avevano seguito alla lettera le direttive delle élite “verdi” occidentali che chiedevano agricoltura biologica sostenibile, seguendo criteri ambientali, sociali e di governance rivolti a ridurre la CO2 (di cui sono pieni anche i piani dell’UE). Inoltre, là il lockdown dovuto al Covid-19 è stato imposto in modo drastico (vi ricorda qualcosa?), sempre perché i leader del Paese erano allineati con le direttive dell’OMS e degli Stati Uniti.

In pratica, nell’aprile 2021 in Sri Lanka sono stati vietati i fertilizzanti sintetici, usati dal 90% degli agricoltori locali, e così successivamente l’85% di questi ha subito perdite di raccolto, con un crollo nella produzione di riso e un aumento dei prezzi del 50% in sei mesi. Il prezzo di carote e pomodori è aumentato di cinque volte. Alla fine dello scorso agosto, il presidente Rajapaksa aveva dichiarato lo stato di emergenza e, dopo di allora, il caos e la violenza sono aumentati fino a quando i leader sono tutti dovuti scappare e nelle loro ville campeggiano ora i manifestanti. La miccia di tutto? Una scelta politica improvvida.

Come, del resto, improvvide sono le sanzioni attuate nei confronti della Russia dai paesi europei, che non hanno valutato il rapporto rischi-benefici delle singole misure che stavano andando ad applicare, esattamente come – non molti mesi prima – non avevano neppure lontanamente valutato il rapporto rischi-benefici (che oggi sappiamo essere certamente sfavorevole per le persone non anziane e prive di co-morbidità) dei vaccini anti-Covid, di fatto imposti ai cittadini europei ed in particolare a quelli italiani. Insomma, di questa Europa c’è davvero da avere paura quando si tratta di questioni vitali.

Peraltro, la Russia ha guadagnato moltissimo dalle sanzioni dell’UE sul gas e sul petrolio, dato che queste hanno fatto impennare i relativi prezzi di mercato, e di certo gli acquirenti asiatici che possano sostituire in buona parte quelli europei non mancano. Quindi, anche da un punto di vista strettamente logico, perseverare con queste sanzioni dimostra la totale mancanza di buon senso di chi prende queste decisioni. Del resto, la mancanza di buon senso – e un notevole livello di ignoranza – si nota anche nel dibattito della politica su questi temi, il che non fa certo ben sperare nella soluzione dei problemi impellenti.

L’Italia si distingue sempre nel panorama europeo. Ho ancora nella mente un articolo [30] in cui i ristoratori di Lucca esprimono la loro rabbia per il caro-bollette, ma non per l’aumento in sé – o meglio non solo per quello – ma soprattutto per il fatto che, a causa di vincoli della Soprintendenza, viene loro impedito di installare i pannelli fotovoltaici che permetterebbero di salvare le loro attività. Ma è veramente incredibile vedere come in tutti questi mesi il Governo e il Ministro competente in materia non abbiano trovato il modo di rimuovere tali ostacoli, favorendo concretamente la transizione alle rinnovabili.

Ancora una volta, in effetti, si è vista la cecità del Governo nell’affrontare un maxi-problema, già vista con la pandemia. Esattamente come in quel caso si è scelta una gestione una gestione “centralizzata” e in sostanza monotematica – somministrazione di vaccini ignorando praticamente del tutto l’esistenza di farmaci efficaci in fase di prevenzione e di cura, snobbando così le cure domiciliari – oggi con il caro-bollette Governo e Ministero non fanno informazione sulle possibili soluzioni di risparmio energetico, né spingono la popolazione ad adottarle, pensando che siano sufficienti le soluzioni “calate dall’alto”.

Già nel caso del Covid abbiamo visto che puntare solo sulle soluzioni calate dall’alto – vaccini e anticorpi monoclonali, questi ultimi soltanto per Massimo Galli ed i pochi fortunati che hanno potuto usufruirne – non solo non ha evitato un gran numero di morti per Covid e per effetti avversi, ma addirittura si è rivelato un boomerang, se si considera che gli effetti avversi dei vaccini potrebbero essere anche largamente sottostimati perché a lungo termine, se non addirittura trans-generazionali. Con l’energia si sta ripetendo pari pari lo stesso errore, invece di coinvolgere la popolazione per un’azione anche dal basso.

Eppure, basta leggere il mio precedente articolo sul tema [31] per avere già alcuni esempi delle tante cose che le persone potrebbero fare per risparmiare notevolmente sulla spesa energetica (ad es. su quella per il riscaldamento invernale, che ne costituisce la voce principale). Ma se le persone non le si informa, come potranno mai contribuire alla rapida soluzione del problema energetico, che non lascerà a famiglie e ad aziende il tempo per attendere molte delle soluzioni “calate dall’alto”? In tale mancanza di informazione, purtroppo, anche i media hanno un ruolo, poiché sono quasi del tutto latitanti.

I meccanismi di formazione dei prezzi e le soluzioni adottate in altri Paesi

La struttura del mercato del gas può oggi essere vista come costituita da una Russia monopolista di fronte a un gran numero di acquirenti dell’UE che possono acquistare gas da altre fonti, ma solo a un costo in forte aumento. Come detto, anche in assenza di sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare il suo prezzo e ridurre l’offerta. Ciò, però, non spiega perché gli italiani paghino ora delle bollette gas e luce salatissime, quando il gas venduto loro – o usato per produrre elettricità – è stato in buona parte acquistato dai big player con contratti a medio o lungo termine, cioè a prezzi ben più bassi di quelli attuali.

Il gas è utilizzato fondamentalmente nella generazione di elettricità (per circa 1/3), per industria e servizi (circa 1/3) e per famiglie (un po’ meno di 1/3). È molto sostituibile in alcuni dei suoi usi (l’elettricità generata dal gas può essere sostituita da elettricità generata da altre fonti), ma assai meno per alcuni altri (un sistema di riscaldamento a gas non può bruciare petrolio o carbone). In media, Il gas russo rappresenta l’8,4% della fornitura di energia primaria nell’UE, ma ci sono ampie variazioni tra gli Stati: il Portogallo non importa gas dalla Russia, mentre l’Italia nel 2021 ne importava circa il 40% del suo fabbisogno.

Rispetto alla media della UE, il mix energetico italiano nel periodo pre-crisi si contraddistingueva per una quota maggiore di energia prodotta con il gas naturale e un peso minore di quella prodotta con il carbone e altri combustibili fossili solidi, oltre che per l’assenza di energia nucleare. Con particolare riferimento alla generazione elettrica, dal gas naturale si ottiene fino al 50% dell’elettricità prodotta nel Paese, contro il 20% circa dell’UE [35]. Pertanto, il nostro Paese dipende fortemente dal prezzo del gas, ed è interessante capire il meccanismo attraverso il quale esso si ripercuote sulle maxi-bollette di gas e luce.

A Rotterdam, esiste un mercato (il TTF) in cui viene trattata solo una piccola percentuale del gas consumato in Europa: quello che arriva per nave liquefatto (ad es. dagli USA) e che in buona parte non è soggetto a contratti a lungo termine [17]. Questo è un mercato cosiddetto “spot”, cioè dove compri e vendi ogni giorno. È solo il prezzo al TTF che nell’ultimo anno è esploso, ma esso rappresenta una piccola parte del gas totale che ci arriva ed è consumato. Tuttavia, anche tutto il resto del gas (e di conseguenza) l’elettricità venduti all’ingrosso sono esplosi di prezzo seguendo il piccolo mercato olandese. Perché?

Semplice, poiché è in atto una speculazione bella e buona (specie da parte di grossisti e big player), come messo in evidenza sia dal sottoscritto in una lunga e dettagliata analisi [26, 31], sia da Becchi & Zibordi [17], i quali osservano come “il prezzo dell’80 o 90% del gas che ci arriva via gasdotto non sia in realtà variato” (in quanto acquistato anni prima con contratti a medio o lungo termine). Ma è difficile – oltre che del tutto insufficiente per mettere un freno a questo andazzo – ottenere un tetto europeo al prezzo del gas come ha chiesto l’Italia. Le resistenze della Germania e dell’Olanda, infatti, non sembrano superabili.

Nel caso dell’elettricità, a questo effetto speculativo si somma poi il meccanismo di formazione del prezzo sulla Borsa elettrica, che è il cosiddetto criterio del prezzo marginale [4]: le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda, dopodiché il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte. Questo meccanismo andava bene trent’anni fa, quando le rinnovabili avevano una quota marginale, ma certamente non più oggi; oltretutto, anche i costi di produzione delle centrali idro-elettriche sono ora molto più bassi di quello del gas.

Il perverso criterio del prezzo marginale nella formazione del prezzo giornaliero alla Borsa elettrica, che fa piacere soprattutto ai produttori di elettricità che posseggono grandi impianti a fonti rinnovabili ma molto meno al consumatore finale. (fonte: G.B. Zorzoli / Quale Energia [43])

L’Unione Europea – seppure con grande e colpevole ritardo – sta perciò lavorando al “disaccoppiamento” dei prezzi dell’energia elettrica da quelli del gas, come da tempo richiesto da Spagna, Portogallo (che usano pochissimo gas e molte rinnovabili per produrre energia elettrica), Francia (che usa soprattutto il nucleare), e ora anche dalla Germania [40]. Così si impedirebbe alla Russia di dettare all’Europa i prezzi dell’elettricità con l’interruzione parziale o totale delle forniture di gas, sebbene non ci si potesse certo ingenuamente aspettare che Putin reagisse in modo diverso alle durissime sanzioni inflitte al proprio Paese.

Oltretutto, per le aziende esiste un tema di competitività sia rispetto alle imprese europee che extra-europee, che godono di prezzi energetici inferiori ai nostri. Alcuni Paesi hanno introdotto importanti agevolazioni che noi invece non abbiamo. Ad es. la Bormioli ha uno stabilimento in Spagna che, grazie al tetto al prezzo del gas introdotto dal Governo spagnolo, si rifornisce a prezzi molto più bassi di quelli italiani [32]. L’unica soluzione di rapida attuazione sarebbe quella di introdurre un tetto al prezzo del gas. In assenza di interventi, sia a livello europeo che nazionale, avremo un autunno di forti tensioni sociali.

Sia la Spagna che il Portogallo traggono oggi i frutti di un tetto massimo del costo del gas che è stato di recente introdotto in entrambi i paesi [39]. Il prezzo massimo è stato concordato dalla Commissione Europea (ottenendo nel contempo l’Autorizzazione a disconnettere temporaneamente la Penisola iberica dal mercato elettrico dell’UE) e il prezzo del gas utilizzato per la produzione di energia elettrica è stato fissato a 40 euro per MWh. Tenendo conto degli aumenti in corso, che probabilmente saranno necessari, si prevede che il limite di prezzo raggiungerà una media di 50 € nei prossimi 10 mesi. Il governo spagnolo si è assicurato un accordo sul fatto che rimarrà in vigore fino al 31 maggio 2023.

Spagna e Portogallo occupano una posizione unica all’interno dell’UE, perché non dipendono dalle forniture russe per il loro gas naturale come altre nazioni. La loro posizione geografica significa che importano la maggior parte delle loro forniture di gas dall’Algeria e da altri paesi. Altri vantaggi unici di Spagna e Portogallo sono che la Spagna è il paese con la più grande capacità di stoccaggio e rigassificazione del gas in Europa (ha ben 6 rigassificatori) e che il Portogallo è un leader nel settore delle energie rinnovabili nel mercato europeo. Producono una notevole quantità di energia solare, idraulica ed eolica.

Entrambe le nazioni hanno forniture energetiche incredibilmente autosufficienti. A causa della loro posizione vantaggiosa, si sono definiti un’“isola dell’energia”. Sia il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez che il suo omologo portoghese António Costa hanno utilizzato proprio questo termine. I due paesi rappresentano dunque un esempio virtuoso da seguire (la Spagna, fra l’altro, lo è stato anche nella gestione della pandemia, dove ha avuto molti meno morti e contraccolpi economici non introducendo alcun Green Pass). Dunque, questi due paesi oggi risentono ben poco della crisi energetica.

Anche la Francia si è mossa con intelligenza per risolvere il problema. Ha chiesto alla principale società elettrica di limitare l’aumento dei prezzi al 4% per il 2022 e fino a soddisfare la domanda a quel prezzo, chiedendo così all’azienda di assorbire una buona parte del costo, determinando una forte diminuzione anticipata dei flussi di cassa e una grande diminuzione del valore di mercato [8]. Ciò comporta un’inefficienza, in quanto il prezzo è inferiore al costo marginale, ma consente un aumento ampio del surplus del consumatore, a costo di una maggiore diminuzione del surplus del produttore.

L’Italia, invece, ha scelto strade inadeguate sia rispetto al tipo sia alla portata del problema. Infatti, ha puntato, da una parte, su una sorta di “sussidi” (peraltro non automatici) per le fasce più povere – ma i sussidi non diminuiscono la domanda di energia, contribuendo così a mantenere alti i prezzi dell’energia [8] – e, dall’altra, sulla tassazione del 25% degli “extraprofitti” delle società del settore energetico, rivelatasi un vero e proprio “flop”, con solo 1 miliardo incassato a fronte dei circa 5 previsti. Peraltro, un’aliquota del 25% è ridicolmente bassa. E meno male che quello di Draghi era il Governo dei “migliori”!

Qualche suggerimento non richiesto ai nostri futuri governanti

I rischi per il nostro Paese credo che siano stati ben illustrati in questo mio articolo, e dipenderanno dalle soluzioni attuate o meno nel frattempo. Nel breve periodo, come sottolineato dalla Relazione annuale della Banca d’Italia [34], “la possibilità di ricorrere a fornitori alternativi è limitata ai paesi già collegati attraverso gasdotto (Algeria, Azerbaigian, Libia, Norvegia e Paesi Bassi) e alle importazioni via nave di gas naturale liquefatto, tenendo conto della capacità di rigassificazione degli impianti esistenti. Nel medio periodo, un contributo essenziale potrà derivare da maggiori investimenti in fonti rinnovabili”.

In realtà, gli investimenti e gli investitori nelle rinnovabili in Italia ci sarebbero, ma sono bloccati a livello autorizzativo. La soluzione per aumentare l’indipendenza energetica e ridurre la bolletta elettrica è l’installazione di 60 GW di nuovi impianti da fonti rinnovabili nei prossimi tre anni, come spiegato [36] dal presidente di Elettricità Futura, Agostino Re Rebaudengo, il quale chiede al Governo di “autorizzare 60 GW di nuovi impianti da rinnovabili, pari a solo un terzo delle domande di allaccio già presentate a Terna. Essi faranno risparmiare 15 miliardi di Smc di gas ogni anno, ovvero il 20% del gas importato!”.

Questi 60 GW di nuove installazioni – che, darebbero un contributo oltre 7 volte superiore rispetto a quanto il Governo stima di ottenere con l’aumento dell’estrazione di gas nazionale – potrebbero provenire per 12 GW da eolico, idroelettrico e bioenergie e per 48 GW dal fotovoltaico. Se poi per ipotesi i 48 GW di fotovoltaico fossero tutti realizzati su superficie agricola, si utilizzerebbe appena lo 0,3% della superficie totale, oppure l’1,3% della superficie agricola già oggi abbandonata. Peraltro, gli impianti agrovoltaici previsti non sottrarrebbero neanche un metro quadrato di terreno!

Ciò in attesa degli accumuli elettrici (2025) e dell’eolico off-shore per aumentare la stabilità della rete. I costi di produzione di energia attraverso le rinnovabili, fra l’altro, sono calati moltissimo nell’ultimo decennio [37]: “Tra il 2010 e il 2021 i costi di produzione dell’elettricità degli impianti fotovoltaici si sono ridotti dell’88 %, mentre nello stesso periodo i costi di produzione degli impianti eolici si sono ridotti del 68%. Dati gli elevati costi di produzione dell’energia legati all’aumento del prezzo del gas, in Europa nel 2022 la produzione di energia da fonti rinnovabili è stata nettamente meno costosa”.

Già oggi le aziende che hanno investito per aumentare l’autosufficienza energetica, puntando sull’autoproduzione di energia attraverso il solare, “stanno godendo di un guadagno di competitività clamoroso verso i concorrenti”. Chi menziona il nucleare di nuova generazione come soluzione del problema energetico probabilmente non sa che una centrale nucleare impiega in media circa 14 anni e mezzo per essere costruita [38], dalla fase di progettazione fino alla messa in funzione. Pertanto, occorre puntare forte sulle rinnovabili, rimuovendo soprattutto i vincoli burocratici e amministrativi.

Da gennaio a giugno, invece, in Italia – come spiega un esperto [42] – “sono stati autorizzati grandi impianti per appena 2 GW, mentre avrebbero dovuto essere come minimo 10 volte tanto. Nel nostro Paese c’è ancora un grave problema di iter amministrativo e autorizzazioni. Questo stallo dipende prevalentemente dall’incapacità dello Stato di conciliare lo sviluppo delle rinnovabili con le strutture amministrative regionali e con il Ministero dei beni culturali. La procedura ‘VIA’ nazionale è di fatto bloccata, e le Regioni approvano a macchia di leopardo in maniera umorale. Gli unici impianti eolici di grande taglia sono stati autorizzati direttamente per firma del presidente del Consiglio. Vogliamo affrontare la crisi cosi?”.

Non c’è più spazio per il gas nel nostro sistema energetico verso la neutralità climatica: il gas continuerà a ricoprire un ruolo di accompagnamento della transizione energetica ma dovrà ridursi del 30% entro il 2030, in tutte le tipologie di consumo (per il riscaldamento, per i processi industriali, etc.) ma soprattutto nella generazione elettrica, perché è lì che disponiamo già in abbondanza di una alternativa sicura, efficace ed economica: le fonti rinnovabili, appunto, cui si aggiungeranno in futuro le rinnovabili basate sulle LENR (Low Energy Nuclear Reaction), che sembrano uscite da un libro di fantascienza ma sono reali.

Inoltre, non è pensabile di risolvere il problema energetico italiano agendo su solo uno o due fattori. Come illustrai a suo tempo in un mio lungo articolo [4], esistono ben 10 fattori che già prima della pandemia rendevano le bollette delle aziende e delle famiglie italiane fra le più care dell’Unione Europea. Frutto in molti casi di “favori” alle lobby di turno, negli anni sono state introdotte anche delle riforme che hanno disincentivato il passaggio alle fonti rinnovabili degli utenti. Quindi, se si vuole realmente prendere di petto la questione, occorre studiarsi per bene quelle 10 cause e intervenire sul maggior numero possibile.

Come osservato da Matteo Leonardi, co-fondatore e direttore esecutivo di ECCO, il think tank indipendente per il clima, il Governo Draghi ha tolto gli oneri di sistema dalle bollette elettriche “indipendentemente dai livelli di consumo e anche per le seconde case. Le misure per le famiglie sono quindi generiche e non selettive, mentre quelle per le imprese non sono sufficienti né pensate per soluzioni strutturali, di efficienza e produzione rinnovabile, anche impiegando le risorse del PNRR. Inoltre, il disaccoppiamento del prezzo del gas da quello dell’elettricità ha senso, ma solo se viene fatto non come misura di emergenza ma nell’ottica di una riformulazione complessiva del disegno del mercato elettrico” [42].

Si noti che il lockdown energetico (o “lockdown produttivo”) non si avrebbe solo in caso di futuri blackout programmati, ma si ha già ora per quelle attività produttive i cui costi dell’energia sono tali che esse sono costrette a fermarsi per non lavorare in perdita. Purtroppo, mi è capitato in più occasioni di rendermi conto che il dibattito pubblico su questi argomenti è viziato da una conoscenza della materia generalmente molto scarsa, il che rende difficile ai decisori politici di intervenire in maniera corretta, come abbiamo visto negli scorsi mesi con le misure adottate dal Governo, che non stanno evitando la morìa di imprese.

In più, abbiamo una carta stampata omologata (con poche lodevoli eccezioni), social network con la censura sempre pronta se non sei allineato, politiche sempre più coercitive e restrittive delle libertà, povertà in costante aumento, immigrazione incontrollata che aumenta la criminalità, il degrado delle città ed alimenta lo scontro sociale. Da arma di “distrazione di massa”, le fake news e le veline di regime veicolate dai media mainstream rischiano ora di diventare un’arma di “distruzione di massa” per il nostro Paese. Il tempo stringe, urge un’inversione di rotta, o arriverà presto la fine che tutti temiamo.

Mario Menichella (fisico e divulgatore scientifico) – m.menichella@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Guenette G.D. & Khadan J., “The energy shock could sap global growth for years”, Blog della World Bank, worldbank.org, 22 giugno 2022.

[2]  Office for National Statistics of the United Kingdom, “Energy prices and their effect on households”, ons.gov.uk, 1° febbraio 2022.

[3]  Menichella M., “Gli effetti della pandemia economica in Italia: perché la ‘variante imprese’ rischia di dilagare”, Fondazione David Hume, 10 febbraio 2022.

[4]  Menichella M., “Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro”, Fondazione David Hume, 10 gennaio 2022.

[5]  Raschi M., “Moltissime aziende ci hanno già chiesto di staccare il gas”, Il Resto del Carlino, 28 agosto 2022.

[6]  Redazione, “Confcommercio: a rischio 120mila imprese e 370mila posti”, askanews.it, 25 agosto 2022.

[7]  Benassy-Quere A., “Energy crisis: Europe by candlelight?”, tresor.economie.gouv.fr, 27 maggio 2022.

[8]  Blanchard O. & Pisani-Ferry J., “Fiscal support and monetary vigilance: Economic policy implications of the Russia-Ukraine war for the European Union”, piie.com, aprile 2022.

[9]  Battistini N. et al., “Energy prices and private consumption: what are the channels?”, European Central Bank, ecb.europa.eu, marzo 2022.

[10]  Giubilei F., “Il prezzo del gas va alle stelle. Verso un inverno con razionamento”, il giornale.it, 26 agosto 2022.

[11]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’”, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[12]  Germany Country Team dell’IMF, “Germany Faces Weaker Growth Amid Energy Concerns”, International Monetary Fund, imf.org, 21 luglio 2022.

[13]  Blake H. & Bulman T., “Surging energy prices are hitting everyone, but which households are more exposed?”, Ecoscope, oecdecoscope.blog, 10 maggio 2022.

[14]  Eurosystem Staff Economic Projections, “Macroeconomic Projections for the Italian Economy”, Banca d’Italia, 10 giugno 2022.

[15]  Crank J., “How Much Can You Save By Adjusting Your Thermostat?”, Direct Energy Blog, 10 aprile 2018.

[16]  Redazione, Feltrin “Senza misure contro caro-bollette, a ottobre black out filiera legno-arredo”, Italpress, 31 agosto 2022.

[17]  Becchi P. & Zibordi G., “Cosa c’è (davvero) dietro gli aumenti dell’elettricità”, nicolaporro.it, 26 luglio 2022.

[18]  Redazione ANSA, “Energia: Anci e Upi, altri 350 milioni o tagli ai servizi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[19]  Redazione, “Gazprom ferma il Nord Stream 1. Eni: ‘Consegne di gas ridotte’. La premier francese: ‘In inverno potremmo dover staccare la luce alle case’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[20]  Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, “Sbarchi e accoglienza dei migranti: tutti i dati – Cruscotto statistico del 1° settembre 2022”, interno.gov.it, 1° settembre 2022.

[21]  Cadeddu G., “Migranti, gli sbarchi in Italia dal 1997 al 2022: i dati del Viminale”, tg24sky.it, 12 maggio 2022.

[22]  Fotia F., “Escalation della crisi energetica, dai blackout in Kosovo all’allerta della Finlandia”, meteoweb.eu, 27 agosto 2022.

[23]  International Energy Agency, “How Europe can cut natural gas imports from Russia significantly within a year”, iea.org, 3 marzo 2022.

[24]  Giannoni A., “Industrie a rischio stop: ‘Energia, costi impazziti’”, il giornale.it, 1° settembre 2022.

[25]  Redazione, “Emergenza energia, ‘Occorre agire subito’”, confcommercio.it, 26 agosto 2022.

[26]  Menichella M., “Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare…”, Fondazione David Hume, 4 marzo 2022.

[27]  Allocca A., “’Non pagate più le bollette di gas ed elettricità’: in UK nasce il movimento contro il caro vita, londraitalia.com, 10 agosto 2022.

[28]  Becchi P. & Zibordi G., “Energia, inflazione, follie green: cosa imparare dalle rivolte in Sri Lanka”, nicolaporro.it, 11 luglio 2022.

[29]  Redazione ANSA, “Ungheria firma contratto con Gazprom, +5,8 mln metri cubi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[30]  “Caro bollette, la rabbia dei ristoratori di Lucca: ‘No ai pannelli solari perché l’area è protetta’”, tgcom24.mediaset.it, 30 agosto 2022.

[31]  Menichella M., “Le possibili soluzioni del problema del caro-bollette per evitare il ‘lockdown energetico’”, Fondazione David Hume, 9 maggio 2022.

[32]  Redazione, “Caro energia, il distretto del vetro e delle piastrelle verso il fermo: ‘Forni spenti in attesa che il governo intervenga. Da settembre i dipendenti saranno in cassa’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[33]  Giliberto J., “Le bollette elettriche non pagate saranno (in parte) a carico degli altri utenti”, ilsole24ore.com, 14 febbraio 2018.

[34]  Redazione, “Gas russo, Bankitalia fa il punto: ‘Fino a oggi il 43% del gas in Italia importato da Mosca’”, globalist.it, 31 maggio 2022.

[35]  I4C – Italy for Climate, “L’Italia produce il 50% dell’elettricità da gas, la più alta in UE”, italyforclimate.org, 10 giugno 2022.

[36]  “Re Rebaudengo (Elettricità Futura) sul caro bollette: ‘Il Governo autorizzi 60 GW di nuovi impianti da FER entro giugno 2022’”, Solare B2B, 28 febbraio 2022.

[37]  “Caro energia, Ref ricerche: ‘Per l’area euro costo di almeno 500 miliardi. I settori energivori ridurranno la produzione a favore dei concorrenti extra Ue’”, ilfattoquotidiano.it, 29 agosto 2022.

[38]  Jacobson M.Z., “Le 7 ragioni per cui l’energia nucleare non è la risposta per risolvere il cambiamento climatico”, greenreport.it, 3 gennaio 2022.

[39]  Redazione, “Spanish Energy Price Cap Introduced Across Spain”, rightcasa.com, 15 luglio 2022.

[40]  De Re G.M., “Bruxelles. La Ue ora si prepara a ‘sganciare’ i prezzi dell’energia da quelli del gas”, avvenire.it, 30 agosto 2022.

[41]  Scorzoni M.T., “Visco: “Covid, shock senza precedenti: farà qualche vittima tra le banche”, First online, 22 ottobre 2020.

[42]  Redazione, “Caro energia, Leonardi (Ecco): ‘Per affrontarlo indispensabile ridurre i consumi. I rigassificatori? Scommessa con rischi a carico dei cittadini’”, ilfattoquotidiano, 3 settembre 2022.

[43]  Zorzoli G.B., “La formazione del prezzo dell’elettricità e le rinnovabili”, qualenergia.it, 18 febbraio 2021.




Le possibili soluzioni del problema del caro-bollette per evitare il “lockdown energetico”

La Fondazione Hume ha pubblicato, da oltre un anno a questa parte, vari articoli che mettevano in guardia su quanto oggi sta succedendo, e cioè una “tempesta perfetta” che rischia di causare una sorta di “estinzione di massa” di interi settori dell’imprenditoria italiana. La principale – sebbene non unica – causa di questa situazione è oggi rappresentata dall’aumento “senza senso” delle bollette di luce e gas. Nelle ultime settimane è finalmente diventato chiaro anche ai non addetti ai lavori che, in Italia, il “motore primo” del caro-bollette di questi mesi è stato il meccanismo di fissazione del prezzo del gas naturale. Infatti, considerato che più del 40% dell’elettricità nel nostro Paese viene prodotta con il gas naturale in centrali a ciclo combinato e che il gas russo è a rischio – per cui si rischia una vero e proprio “lockdown energetico” che metterebbe in ginocchio l’intera nazione – la questione del gas risulta essere cruciale. Si noti che il lockdown energetico (o “lockdown produttivo”) non si avrebbe solo in caso di futuri blackout programmati dovuti, ad esempio, al taglio delle forniture di gas di Putin, ma si ha già ora per quelle attività produttive i cui costi dell’energia sono tali che esse sono costrette a fermarsi per non lavorare in perdita. Purtroppo, ci è capitato in più occasioni di renderci conto che il dibattito pubblico su questi argomenti è viziato da una conoscenza della materia generalmente molto scarsa, il che rende difficile ai decisori politici di intervenire in maniera corretta, come abbiamo visto negli scorsi mesi con le misure palliative adottate dal Governo. Vorremmo quindi qui illustrare in modo assai chiaro i problemi e accennare alle loro possibili soluzioni. Va osservato che, attualmente, l’attenzione del Governo e dei media si è spostata molto sui possibili modi di sostituzione del gas russo, perdendo di vista invece il problema del caro-bollette, che per i prezzi esorbitanti raggiunti è già potenzialmente letale per la maggior delle imprese manifatturiere italiane. L’eventuale rinuncia al gas russo farebbe salire ancor di più i prezzi dell’energia, accelerando il loro fallimento.

Il mercato dell’energia in Italia: contratti a prezzo variabile vs. a prezzo fisso  

In sintesi, come illustrato in dettaglio in un precedente articolo [1], un grande importatore di gas come ENI (che importa quasi metà del gas usato in Italia) acquista circa 2/3 del suo gas a prezzi molto bassi grazie a contratti pluriennali – in alcuni casi perfino trentennali – e solo 1/3 avendo come riferimento il prezzo “spot” (cioè attuale, e oggi altissimo) al PSV (Punto di Scambio Virtuale), la borsa del gas italiana (come vedremo quasi uguale, per prezzi e loro andamento, a quella più grande d’Europa, il TTF olandese).

La sola ENI nel 2020 denunciava a bilancio, tra il 2021 ed i successivi 30 anni, contratti di acquisto di gas a lungo termine per oltre 103 miliardi di euro [7], corrispondenti a circa 472 miliardi di metri cubi di gas, pertanto già contrattualizzati da ENI per gli anni futuri e sostanzialmente tutti del tipo “Take or pay”. Ricordando che annualmente l’Italia importa 70-75 miliardi di metri cubi di gas all’anno, i soli contratti di medio-lungo termine coprirebbero dunque completamente 6-7 anni di fabbisogno nazionale.

I pagamenti futuri dell’ENI a fronte di obbligazioni contrattuali, come rendicontati sinteticamente nel Rapporto sul bilancio annuale 2020 della Società. Si noti come gli impegni di acquisto di gas naturale siano quasi esclusivamente di tipo “take or pay”. (fonte: ENI – Relazione finanziaria annuale 2020 [7])

Invece, i grossisti italiani medi e piccoli che vendono il gas ai clienti finali lo acquistano in gran parte sul PSV da ENI o altri big player, perciò a prezzi legati alle quotazioni sul PSV-TTF. Di conseguenza, molti clienti finali pagano il gas naturale – la componente “materia prima” nella bolletta gas – il prezzo del PSV + uno “spread”, cioè un differenziale che rappresenta il margine di guadagno del venditore.

La stessa cosa succede, peraltro, per le bollette elettriche, dove il prezzo di riferimento è il Prezzo Unico Nazionale (PUN), legato alla Borsa elettrica italiana; per cui il prezzo della componente energia delle bollette elettriche è di solito dato da PUN + spread, e anche in questo caso lo spread varia da venditore a venditore, ed è il parametro spesso confrontato dagli utenti nella scelta di quest’ultimo.

Si noti, però, che questo prezzo di vendita vale solo per i contratti cosiddetti “a prezzo variabile” sottoscritti dai clienti finali, che di solito sono appunto indicizzati ai prezzi dell’energia sulle suddette borse. Una cosa simile succede anche per i mutui a tasso variabile: chi li stipula dovrà infatti rimborsare un tasso fissato con il criterio: Euribor + spread, dove l’Euribor è la componente variabile del tasso.

E come per i mutui esistono, in alternativa, i mutui a tasso fisso, anche per luce e gas esistono pure i contratti “a prezzo fisso” (o bloccato, di solito per 24 mesi), che sono convenienti quando si prevede una crescita dei rispettivi prezzi; e sono del tutto svincolati dal prezzo al PSV-TTF, sia perché i prezzi sono fissi sia poiché ad es. ENI vende a quei sottoscrittori il gas acquistato a basso costo con contratti pluriennali.

Mercato libero e mercato a maggior tutela: differenze e convenienza

Si noti che, nel mondo dell’energia italiano, esiste da una ventina d’anni: (1) il cosiddetto “mercato libero”, in cui il cliente finale può scegliere fra contratti luce e gas a prezzo variabile e contratti a prezzo fisso, e (2) il “mercato a maggior tutela” (in cui si trovano la maggior parte degli italiani), nel quale i contratti sono solo a prezzo variabile, ma il prezzo è fissato dall’Authority per l’energia, Arera, trimestralmente.

Arera fissa per i successivi tre mesi le tariffe di gas e luce – che dovrebbero garantire sul mercato in maggior tutela gli utenti meno esperti (famiglie e imprese piccole per fatturato e numero di dipendenti) – sulla base delle previsioni degli aumenti dei prezzi per i tre mesi seguenti; a questi si aggiungono le variazioni avute nei tre mesi precedenti con le correzioni fra prezzi stimati e prezzi effettivi.

In pratica, mentre i prezzi dei contratti a prezzo variabile di luce e gas sono indicizzati ai prezzi spot (ovvero attuali) sulle rispettive borse nazionali, le tariffe di Arera hanno come riferimento, rispettivamente, i futures (cioè i prezzi attesi fra 3 mesi) sulla Borsa elettrica italiana per l’elettricità e, per il gas, i futures sul TTF di Rotterdam, la principale borsa del gas in Europa, usata perché più liquida di quella italiana (il PSV).

Tuttavia, come si può vedere dalla figura seguente, l’andamento nel tempo del prezzo sulla borsa del gas italiana (PSV) è del tutto analogo a quello sulla borsa olandese (TTF). Di conseguenza, legare il prezzo del gas all’una (come nelle vendite fra grossisti e nei contratti a prezzo variabile con i clienti finali) o all’altra (come nelle tariffe trimestrali fissate da Arera) in pratica non fa granché differenza.

Confronto fra l’andamento del prezzo “spot” (in pratica, attuale) del gas naturale sulla borsa italiana di riferimento (PSV) e su quella olandese (TTF). Si noti come i due prezzi viaggino strettamente “a braccetto”, e quindi indicizzare il prezzo del gas nei contratti all’uno o all’altro sia praticamente indifferente. (fonte: elaborazione degli autori su dati European Gas Spot Index e GME)

Già in un proprio rapporto del 2015 relativo agli anni 2012-13, la stessa Authority per l’energia aveva trovato (e dunque ammesso) che i clienti domestici, le partita Iva e le PMI passate al mercato libero pagavano luce e gas il 15-20% di più rispetto al mercato a maggior tutela. In effetti, le tariffe in regime di maggior tutela risultano di solito più basse di quelle sul mercato libero, ma non sempre.

Infatti, tutto dipende dall’andamento dei prezzi delle materie prime energetiche. Se i prezzi di queste ultime aumentano, un contratto a prezzo fisso (che è disponibile soltanto sul mercato libero) può consentire al sottoscrittore un risparmio rispetto a un utente in regime di maggior tutela. Il viceversa è vero quando i prezzi delle materie prime energetiche scendono, favorendo le bassissime tariffe di Arera.

Le ragioni del caro-gas in Italia: prezzi legati alle borse vs. prezzi “doganali”  

Negli ultimi vent’anni, i prezzi del mercato “spot” TTF (e quindi anche del PSV, che come visto lo replica fedelmente) erano sempre andati di pari passo con i prezzi del gas naturale cosiddetto “doganale” (cioè del gas importato dall’estero tramite metanodotti e metaniere) rilevati al passaggio delle dogane dell’Unione Europea ai fini delle accise da applicare: secondo Arera, la correlazione fra i tre prezzi (spot TTF, metano doganale, gas liquido doganale) era di ben 0,95, ovvero altissima.

Già intorno ad aprile dello scorso anno, il prezzo dei futures del gas naturale sul TTF aveva iniziato a divergere fortemente da quello del gas naturale “2711”, che è quello “destinato alla combustione per usi civili e industriali, nonché all’autotrazione” (e come tale sottoposto ad accisa); ma è alla fine del 2021 che il prezzo del gas sul mercato TTF si separa in maniera davvero eclatante da quello dei gas doganali.

Un grafico che presenta l’evoluzione del prezzo del gas naturale da gennaio 2020 a febbraio 2022. La curva azzurra rappresenta il prezzo sul TTF olandese, la curva rossa il prezzo doganale – cioè effettivamente pagato dagli importatori italiani di gas – mentre la curva verde è un’elaborazione fatta da Arera per fissare trimestralmente il prezzo del gas per i clienti finali in regime di Maggior Tutela. (fonte: Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, mostrato nella trasmissione “Spotlight” di RaiNews24 del 22/4/22)

Si noti come, nella figura qui sopra, la curva rossa relativa al prezzo del gas doganale – ovvero al suo prezzo reale di importazione – sia molto più regolare rispetto alla curva azzurra che mostra, invece, il prezzo del gas sui mercati finanziari e che, da aprile dello scorso anno, è letteralmente “impazzita”. L’area del grafico che sta fra la curva azzurra e quella rossa è dunque quella cosiddetta degli “extra-profitti”.

Quanto si è verificato, in fondo, non stupisce, perché da un lato (quello dei gas “doganali”), vi sono contratti relativi a consegne “fisiche” che coprono periodi anche lunghi di fornitura (pluriennali) ed esigenze reali di vendita od acquisto di gas; dall’altro (mercato spot TTF), si tratta invece di contratti a breve termine guidati da obiettivi di rendimento, in altre parole da pura speculazione finanziaria.

Inoltre, a differenza delle normali borse, il PSV e il TTF non sono borse regolamentate: si tratta infatti di mercati cosiddetti OTC (Over The Counter), in cui le transazioni si effettuano sulla base di contratti bilaterali. Dunque, non possono essere assimilati alla Borsa elettrica o alle borse azionarie, con tutte le conseguenze che ne derivano e che sono ora chiare a tutti (ad es. la possibilità di manipolazione, resa facile soprattutto in periodi di scarsi scambi borsistici in termini di volumi trattati).

In pratica, negli ultimi mesi l’impatto sulle bollette dei clienti finali è stato enorme, poiché a dicembre scorso il prezzo mensile del gas al TTF superava i 100 €/MWh (mentre quello giornaliero è arrivato addirittura a 180 €/MWh), un aumento di circa 10 volte rispetto al prezzo di giugno 2021, cioè di appena 6 mesi prima; e, soprattutto, mentre fino ad aprile 2021 il prezzo al TTF e quello doganale erano quasi uguali, a dicembre il prezzo del gas al TTF risultava quasi triplo rispetto a quello doganale.

Sebbene il prezzo della componente energia incida grosso modo per circa la metà sulle bollette dei clienti domestici, esso impatta in maniera ben più rilevante sulle bollette delle imprese medio-grandi e delle attività più energivore, con il risultato che questi enormi aumenti di prezzo si sono trasferiti in maniera pesante sul “totale a pagare” della loro bolletta, come ben sappiamo dalle cronache.

Un sistema da riformare subito insieme a quello della Borsa elettrica

Nelle scorse settimane, si è discusso molto sulle possibili ragioni di quest’anomalia senza precedenti. Qualcuno ha tirato in ballo un possibile “cartello” fra i principali player del gas europei, ma i principali investitori sul mercato TTF sono normalmente i più grandi trader di materie prime (Vitol, Trafigura, Glencore) e le grandi società finanziarie di Wall Street (Morgan Stanley, Goldman Sachs).

Pertanto, queste entità hanno una potenza economica e “di fuoco” verosimilmente assai maggiore per manipolare – deliberatamente o meno – il mercato, operando di fatto come cosiddette “mani forti”. Il seguente grafico, che mostra i “volumi” trattati sul TTF negli ultimi mesi, fa vedere che i volumi a un certo punto sono crollati, segno che tutti i “big” che volevano investire sul gas l’avevano ormai fatto.

L’andamento del prezzo del gas sul TTF olandese, con i relativi volumi di scambio (le barre verticali verdi rappresentano gli acquisti, mentre le rosse sono le vendite). Si noti come verso la fine di settembre i volumi in questione siano enormemente diminuiti (per tutto il periodo evidenziato dal riquadro marrone che abbiamo aggiunto), per cui il prezzo del gas (usato come riferimento per molti contratti dei clienti finali italiani) era facilmente alterato anche da scambi relativamente modesti.

Quando i volumi di scambio sono piccoli, bastano pochi acquisti per alterare (ad es. far crescere) in maniera significativa i prezzi su un dato mercato, per cui questo potrebbe spiegare l’accaduto senza ipotizzare necessariamente del dolo. Ma, al tempo stesso, ciò mostra che questo meccanismo di formazione del prezzo del gas per il cliente finale è del tutto fuori controllo e dunque va quanto prima cambiato.

ENI impiega il 12% del gas importato per l’autoconsumo (in pratica, per produrre energia elettrica), il 10% lo vende ai propri clienti finali, mentre il grosso – ovvero il restante 78% – lo vende ad altri grossisti italiani sul PSV, cioè a prezzi tipicamente molto più alti di quelli dei contratti pluriennali con cui lo acquista, realizzando così oggi un enorme “extra-gettito” (miliardi di euro in pochi mesi) non giustificato, ed i cui impatti sono evidenti negli utili atipici del 2021 [6].

Nella tabella in alto, sono mostrati gli impieghi di gas di ENI e dei grossisti italiani nel 2020. Si noti come gli operatori più grandi del mercato all’ingrosso vendano soprattutto ad altri operatori più piccoli (sul PSV ai relativi prezzi), mentre gli operatori piccolissimi vendono soprattutto ai clienti finali, come risulta chiaramente se si guarda la tabella in basso, relativa all’approvvigionamento di gas dei grossisti italiani nel 2020. Da questa seconda tabella si vede che ENI si approvvigiona sul PSV per circa il 32% del suo gas, mentre i grossisti grandi e medi per circa l’80%, per cui il loro approvvigionamento tramite importazioni dall’estero è sostanzialmente marginale e di fatto limitato a pochissimi grandi player, come ad es. Enel, Edison, etc. (fonte: ARERA, Relazione annuale – Stato dei servizi 2020)

Come si può scoprire dalle precedenti tabelle, ENI acquista circa 2/3 del gas naturale di cui si approvvigiona con dei contratti pluriennali (dunque a prezzi “bassi”) e 1/3 a prezzi “alti” (sul PSV-TTF). Viceversa, vende a prezzi “alti” (a clienti finali e altri grossisti) circa i 2/3 del totale di gas acquistato, per cui su almeno 1/3 del gas acquistato può lucrare degli extra-profitti enormi (dell’ordine di vari miliardi nel solo 2021).

Purtroppo, distorsioni non meno gravi si verificano sulla Borsa elettrica, dove da circa 20 anni le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda, dopodiché il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte: è il cosiddetto criterio del marginal price [3].

In pratica, il Prezzo Unico Nazionale (PUN) rilevato sulla Borsa elettrica è il risultato di aste che coprono la richiesta di energia prevista, ora per ora, con l’elettricità offerta da vari operatori (Enel Energia, A2A, Acea, Sorgenia, etc.). Nelle aste si accetta, cioè si “dispaccia”, prima l’offerta più economica e poi, via via, i “pacchetti” più cari, fino a coprire tutto il fabbisogno giornaliero.

Dunque sulla Borsa elettrica – dove nasce il già citato PUN, ovvero il prezzo di circa i 2/3 dell’elettricità venduta in Italia – il prezzo a MWh dipende dalla fonte più cara selezionata (anziché da una media pesata sulle varie fonti selezionate), per cui i produttori di energie rinnovabili (e pulite), già premiati con incentivi appositi del Governo, realizzano un “extra-gettito” anche in questo caso non giustificato.

Perché occorre cambiare subito i meccanismi attuali di formazione del prezzo

Per ogni metro cubo di gas naturale scambiato fisicamente nel mondo reale, oggi sui mercati finanziari ne vengono scambiati almeno 10, attraverso successivi passaggi tra compagnie produttrici-importatrici (o grandissimi importatori internazionali) e grossisti grandi e medi e dettaglianti.

Così le decisioni prese dai grandi investitori influenzano ogni giorno il prezzo del gas – sia per i clienti finali con contratto in regime di Maggior Tutela (in virtù dell’algoritmo usato da Arera per la fissazione della componente Gas naturale) sia per i clienti finali con contratti sul mercato libero del tipo a prezzo variabile – da anni non è più legato a quello dei contratti pluriennali con i Paesi fornitori da cui originano i gasdotti che arrivano in Italia.

La serie storica dimostra che il prezzo del gas “finanziario” è sempre stato prossimo al valore del gas doganale, cioè al valore realmente pagato per il gas. Ma, come abbiamo visto in precedenza, un anno fa è cambiato tutto: il prezzo sul mercato TTF legato alla speculazione finanziaria si è distaccato sempre più dal prezzo doganale – ovvero da quello reale – “impazzendo” e ripercuotendosi sulle nostre bollette [2].

I prezzi mensili del gas naturale in Europa sul mercato “spot” TTF confrontati con i prezzi dei gas “doganali” (importati con metanodotti e metaniere) rilevati al passaggio delle dogane dell’Unione Europea. Qui il picco del gas naturale al TTF è più basso rispetto ai picchi giornalieri perché si tratta di una media mensile, ma è pur sempre un aumento di circa 10 volte rispetto al prezzo di giugno 2020. (figura tratta dall’analisi di Bidoia L., “Le speculazioni che hanno stravolto il mercato del gas europeo”, pricepedia.it, 31 dicembre 2022)

Inoltre, il meccanismo attuale che lega il prezzo del gas – per i clienti finali con contratti in regime di Maggior Tutela (ma di fatto anche per quelli sul mercato libero con contratti a prezzo variabile) – al prezzo sul TTF olandese ci espone a una doppia dipendenza dall’estero: la prima per la materia prima (poiché l’Italia importa attualmente il 97% del gas che utilizza) e la seconda per il prezzo del gas, giacché i prezzi su tale borsa salgono, appunto, per la speculazione degli investitori (in prevalenza stranieri).

Se non si interviene subito cambiando i meccanismi di fissazione del prezzo di gas ed elettricità per i clienti finali, si rischia in tempi brevi una sorta di “estinzione di massa” delle imprese italiane: in particolare di quelle manifatturiere e di tutte le attività più energivore, che non sono necessariamente attività produttive (si pensi ad es. alle lavanderie, ai supermercati con i tanti frigoriferi, etc.).

Infatti, se il costo dell’energia sale al punto da rimanere per un prolungato periodo di tempo al di sopra di una determinata soglia critica (che varia da settore merceologico a settore merceologico e da azienda ad azienda), non ci sono accantonamenti o “spalle forti” che tengano: in molti casi, potrebbero essere sufficienti soli 2-3 mesi oltre soglia per mettere l’attività fuori gioco e portarla al fallimento.

Ciò è ancor più vero per il settore manifatturiero, nel quale il costo dell’energia usata per le lavorazioni è solo una delle 5 componenti del prezzo finale di un prodotto, insieme al costo delle materie prime, al costo dei trasporti per la consegna dei prodotti, al costo della manodopera ed al margine di guadagno. Poiché anche i costi di materie prime e carburanti sono in crescita, il margine di guadagno presto si azzera.

Usando quindi un’efficace metafora, è un po’ come se una città subisse un’inondazione al punto che il livello dell’acqua sommerge sempre più i vari negozi non per 1-2 giorni, bensì per mesi. È evidente che – chi prima e chi dopo – questi negozi a un certo punto chiuderebbero. Le misure prese fin qui dal Governo sono utili quanto delle dighe di cartone contro l’acqua, o come il voler tirar via l’acqua a mano con dei secchi.

Il fatto che le prime a fallire siano le imprese più energivore – di fatto, una sorta di “specie sentinella” che avvisano dell’inizio dell’estinzione di massa – fa sì che il processo sia graduale abbastanza da rischiare di sottovalutarne la gravità, secondo il famoso principio della rana bollita di Noam Chomsky. Un’eventuale rinuncia al gas russo, tuttavia, accelererebbe il processo in modo drammatico e irreversibile.

Qual è la mossa più importante che Draghi e Cingolani dovrebbero fare?

Attualmente ci troviamo in una situazione che negli scacchi si chiama “zugzwang”, cioè “il giocatore è obbligato a muovere sapendo che qualsiasi cosa faccia è costretto a subire lo scacco matto oppure una perdita di materiale, immediata o a breve termine”. Il fatto che tocchi al Governo muovere e che tutte le mosse a disposizione conducano a delle perdite non significa, però, che non vi sia una mossa migliore.

Infatti, come il lettore avrà capito, il problema del caro-bollette (presente e futuro) non si può risolvere – al fine di mitigarne i danni sul tessuto economico – se non si cambia con estrema rapidità i meccanismi di fissazione dei prezzi del gas naturale e dell’elettricità. Tutte le altre mosse portano allo scacco matto ed a perdite ingenti: in altre parole, sono fumo negli occhi, un palliativo che non risolve un bel niente.

Ad esempio l’idea fatta circolare, nelle scorse settimane, da parte del Governo, di porre un tetto europeo ai prezzi del gas – nei confronti del quale Germania e Olanda hanno detto “no” – sarebbe solo una sorta di “lasciapassare” per l’aumento definitivo dei prezzi. Infatti, i prezzi insostenibili di oggi sono 5 volte i prezzi di un anno fa, per cui “i buoi sono già scappati” e porre un tetto a un livello così elevato (od anche intermedio) è del tutto inutile: basti considerare ad es. che i prezzi dei contratti di approvvigionamento di lungo e lunghissimo termine sono assistiti da clausole revisionali.

Qual è dunque la mossa migliore che ha il Governo? Per quanto riguarda il gas, è quella di sostituire l’indicizzazione attualmente basata sulle (imprevedibili e opache) borse del gas con un meccanismo del tutto diverso, legato ai “prezzi doganali” (ovvero reali), cioè a quelli dei contratti pluriennali stipulati dagli importatori italiani (metanodotti) e alle consegne fisiche di gas naturale liquido (GNL).

Il ministro Cingolani ha più volte sottolineato pubblicamente come il fatto che i prezzi dei contratti pluriennali – frutto di accordi bilaterali fra aziende – siano secretati costituisca un ostacolo insormontabile all’attuazione di un meccanismo basato su tali prezzi. Ma in realtà non è così, come ha di recente spiegato Marcello Minenna, direttore generale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.

Infatti, nella trasmissione “Spotlight” di RaiNews24 del 22 aprile, dal titolo “La stangata”, il giornalista Luca Gaballo ha realizzato uno scoop, perché l’intervistato Minenna ha rivelato come sia oggi possibile passare a un meccanismo di formazione del prezzo del gas basato sui prezzi reali dei flussi fisici di questa materia prima, e non più su quelli di piattaforme finanziarie non regolamentate e per nulla trasparenti.

Marcello Minenna mentre spiega a Luca Gaballo il possibile intervento per ridurre il caro-bollette.

Come osserva Minenna, «nel momento in cui ci sono grandi flussi di liquidità disponibili sui mercati finanziari – e questo è l’effetto dei vari interventi di stabilizzazione dell’economia che si sono svolti per via delle crisi finanziarie globali e anche della pandemia – è chiaro che i mercati finanziari rischiano di incorporare molta più volatilità del mercato reale. Occorre dunque prendere atto di tale situazione».

«Si dovrebbe riorientare il mercato reale verso gli approvvigionamenti reali» è la semplice soluzione che Minenna propone. Semplice perché potrebbe essere implementata proprio grazie all’Agenzia che dirige, e che effettua la registrazione puntuale e verificata degli scambi di gas che avvengono nel mondo fisico. Grazie ai computer e alla digitalizzazione, quindi, oggi per la prima volta questo si può fare.

Implementazione pratica della soluzione di Minenna e chi ne beneficia

Come spiega ancora Minenna [4]: «in passato, anche per limiti dovuti ai sistemi informatici – parliamo di milioni di dichiarazioni doganali – c’erano dei tempi di rilevazione e di elaborazione, correzione del dato tali per cui il dato delle importazioni di gas del 1° di marzo era disponibile, sotto forma di dato medio certificato, magari verso metà aprile. Oggi, con la transizione digitale, questi tempi si sono molto ridotti».

Pertanto, conclude Minenna, «questi dati di approvvigionamento possono essere un punto di riferimento”, ad es. per la formazione del prezzo di vendita del gas naturale ai clienti finali, e in particolare per i contratti indicizzati. A questo punto occorrerebbe, in uno dei prossimi decreti sul caro-bollette, un emendamento che introduca l’ancoraggio del prezzo del gas fissato da Arera al mercato reale, non più al TTF.

Svincolare il prezzo del gas in bolletta dall’indice TTF è anche quanto chiesto dai senatori del Movimento 5 Stelle in una mozione a prima firma Pesco, depositata in Senato il 17 marzo [5]. «In questo momento”, sostengono giustamente i senatori nella mozione, “l’ancoraggio al TTF è l’elemento che più di tutti sta determinando l’aumento delle bollette del gas naturale per gli utenti in regime di maggior tutela».

La cosa interessante, sottolineata da Luca Gaballo, è che per realizzare questo ancoraggio con il metodo suggerito da Minenna «non serve conoscere i dettagli segreti degli accordi commerciali stipulati da ENI o da altri importatori: basta la media delle fatture pagate su cui l’Agenzia delle Dogane calcola l’accisa”. E ricorda che “non è solo una questione di equità: è in ballo la sicurezza energetica del nostro Paese».

Dunque, problema risolto? No, perché i clienti finali in regime di maggior tutela che usufruiscono delle tariffe fissate da Arera sono soltanto la maggior parte delle famiglie italiane e una parte delle imprese con un numero di dipendenti inferiori a 50 e un fatturato annuo inferiore a 10 milioni di euro. E comunque entrambi questi soggetti dovranno passare anch’essi al mercato libero entro il 31 dicembre 2023.

Detto in altre parole, rimangono fuori da questa possibile riforma i clienti del mercato libero che hanno contratti a prezzo variabile sostanzialmente indicizzati al PSV + uno spread, che comprendono – molto verosimilmente – la maggior parte delle piccole, medie e grandi imprese italiane. Nessuna riforma, infatti, è prevista per questo tipo di clienti, che sono proprio quelli più “a rischio estinzione”.

Pare quindi evidente che questo del Parlamento sia l’ennesimo intervento palliativo, che non risolve il problema alla radice e che mostra come i politici ed i legislatori non abbiano capito a fondo né il problema né l’enorme posta in palio. Per comprendere perché oggi siamo in questa situazione, giova probabilmente ripercorrere quello che è successo negli ultimi decenni nel mercato dell’energia.

Un quadro riassuntivo della situazione illustrata nel testo. Come si vede, le proposte di riforma proposte finora si riferiscono solo al meccanismo di fissazione del prezzo del gas nel mercato di maggior tutela, che però non impatta sulle medie e grandi imprese (nonché sulle piccole con più di 50 dipendenti e 10 milioni di fatturato), giacchè tutte queste sono state costrette a passare al mercato libero entro il 31 dicembre 2020. 

Perché occorre ritornare a importare il gas con contratti pluriennali

Prima della liberalizzazione del mercato dell’energia, in Italia vi era un monopolio, con due fornitori pubblici di luce (Enel) e gas (ENI). Quest’ultimo acquistava il gas importato dall’estero con contratti pluriennali. Nel 1999, con il Decreto Bersani che ha liberalizzato il mercato dell’energia, si è voluto smantellare tale monopolio e favorire la nascita della concorrenza, con l’obiettivo di avere prezzi più bassi.

Sono così nate la Borsa elettrica italiana (istituita nel 2004, un anno dopo la nascita del TTF a Rotterdam) e la Borsa del gas (istituita nel 2007 ma partita con il PSV nel 2010), mentre i fornitori di energia ed i grossisti si sono via via moltiplicati di numero, e oggi superano abbondantemente i 200 in entrambi i tipi di fornitura (luce e gas). Ma possiamo dire che ciò ha comportato un risparmio per l’utente finale?

Evidentemente in generale no, dato che sostanzialmente ciò che è successo è che si è passati sempre più dall’acquisto del gas attraverso contratti pluriennali all’acquisto tramite le neonate borse, dove i prezzi ora (da un anno a questa parte) non riflettono più i prezzi doganali (e dunque quelli dei contratti pluriennali), bensì sono molto più alti. Dunque, è necessario porre con urgenza rimedio a questa situazione.

Il modo più logico è, semplicemente, quello di tornare il più possibile indietro, allo status quo ante, per quanto sia ovviamente irrealistico pensare di rimettere il genio nella lampada, ovvero ritornare a un monopolio statale. Il punto chiave è che bisogna tornare a dei prezzi non solo agganciati ai prezzi di importazione reali, ma soprattutto tornare a importare il gas con contratti pluriennali.

Per la verità, ENI (che acquista circa il 47% del gas importato dall’Italia) si approvvigiona già per circa il 60% con importazioni a lungo termine (a basso prezzo), ma gli altri grossisti operanti sul mercato italiano si approvvigionano di gas in buona parte sul PSV (ai relativi prezzi). Quindi non c’è più un ampio uso dei contratti pluriennali, che oggi sono alla portata solo di pochissimi grandi player nostrani.

Il Governo dovrebbe pertanto incentivare l’acquisto del gas con contratti “Take or Pay”, alla stregua di quanto fa da sempre ENI (che è controllata al 30% dallo Stato). L’espressione “take or pay” indica semplicemente una clausola applicata ai contratti di fornitura di lungo periodo, la quale implica un impegno da parte della compagnia acquirente a prelevare un certo quantitativo di gas naturale in un certo lasso di tempo. Se l’acquirente non ritira la quantità di gas concordata, con il Take or Pay la paga ugualmente.

Per poter fare questo, però, vanno parallelamente semplificate le procedure e gli obblighi da parte degli importatori, che molto rischiano nelle transazioni fisiche di import ed export. Per questa ragione, già nel 2012 l’ENI considerava questo tipo di accordi di medio-lungo periodo (con i produttori di gas che assicurano gran parte delle forniture al nostro Paese) troppo onerosi e acquistava parte del suo gas sul PSV (cosa che le consente anche di diminuire i propri rischi e di giustificare la vendita del suo gas a prezzi legati al PSV).

Ma, siccome questi contratti sono strategici per la sicurezza energetica nazionale, ENI pretendeva che a farsene carico fossero lo Stato e i cittadini, attraverso le bollette. L’Authority per l’energia rimandava la questione all’allora Governo Monti, che nel maxi-decreto sulle liberalizzazioni del gennaio 2012 ha stabilito (nell’art. 16) che il prezzo del gas per il mercato a Maggior Tutela debba essere calcolato dall’Authority tenendo conto (pro quota) anche dei mercati spot (cioè giornalieri) del gas e non solo dei contratti pluriennali Take or Pay (agganciati al prezzo del petrolio), come invece accaduto fino ad allora [8].

Ciò all’epoca sembrava sensato, perché in quel periodo il prezzo del gas importato dalla Russia in Italia con contratti di approvvigionamento a lungo termine era di 34 centesimi, mentre quello “spot” in Olanda (sul TTF, il mercato di riferimento) era di soli 21 centesimi [9]. Ma all’epoca era così solo perché c’era la crisi (non a caso, qualcosa di simile – cioè un prezzo di borsa più basso di quello dei contratti pluriennali – si è ripetuto durante la pandemia, quando i prezzi alla borsa del gas sono crollati): per esempio, nel 2004 il prezzo in Italia era di 30 centesimi e quello spot sul TTF era di 70, cioè il prezzo di borsa era più del doppio».

In realtà Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, segnalò subito che il nuovo sistema introdotto dal Governo Monti non avrebbe fatto calare i prezzi nelle bollette [9]: «Il nuovo sistema farà pesare il mercato spot ad es. al 10% e questo in teoria farà calare il prezzo della materia prima, diciamo, da 34 a 32 centesimi. Ma come fa una compagnia a essere obbligata per decreto a vendere a 32 se i contratti con il fornitore sono a 34? Un conto sarebbe dire alle compagnie di fare dei contratti che impongano un X per cento di “spot”, ma mettere solo un parametro di prezzo a posteriori che senso ha?».

Si noti che, dal 2013, il prezzo del gas (inteso come la componente energia in bolletta) per i clienti finali con contratti sul mercato di Maggior Tutela è stato agganciato da Arera interamente al prezzo dei future sul TTF [10], quindi slegandolo del tutto dal prezzo dei contratti pluriennali e ponendo le basi per il disastro attuale a cui ora bisogna cercare – il più rapidamente possibile – di porre rimedio.

E oggi anche le offerte PLACET (cioè “a Prezzo Libero A Condizioni Equiparate di Tutela”) per i clienti finali, che tutti i fornitori sul mercato libero sono (da alcuni anni) obbligati a inserire fra i contratti che il cliente può scegliere, “prevedono un prezzo indicizzato al TTF determinato in ogni trimestre come media aritmetica delle quotazioni forward trimestrali OTC relative al trimestre in questione, presso l’hub TTF, rilevate da ICIS-Heren con riferimento al secondo mese solare antecedente il medesimo trimestre” [11].

Gli altri interventi che occorrerebbe attuare con urgenza sul versante del gas

Fondamentale, per poter abbassare le bollette dei clienti finali italiani rispetto al costo del gas, è anche comprendere che l’Italia non dovrebbe avere solo un grande importatore (ENI), ma occorrerebbe dividere il mercato dell’importazione su decine di operatori, realizzando una vera concorrenza sul fronte degli accordi bilaterali pluriennali (con prezzi a basso costo) e svincolandosi sempre più dalle borse (PSV, TTF). Il tutto tenuto conto di quanto segue.

Di fatto, per far si che si ritorni all’uso generalizzato di contratti pluriennali (che hanno tipicamente prezzi indicizzati al prezzo del petrolio greggio), sarebbe innanzitutto necessario: (1) fissare delle quote massime di importazione di gas per i grandi player non produttori di gas (escluse, quindi, le grandi compagnie del gas che godono di contratti pluriennali solo in virtù dei loro progetti di investimento in ricerca, pompaggio e trasporto del gas), affinché anche altri grossisti possano fare tali contratti; (2) spingere i player italiani (ad esempio, tramite una premialità fiscale) ad aumentare la quota di gas importato con contratti a medio e lungo termine.

Inoltre, poiché in regime di concorrenza niente garantisce che i prezzi di vendita ai clienti finali sarebbero agganciati ai prezzi dei contratti pluriennali – se non forse per i contratti a prezzo fisso – occorrerebbe (3) legare i prezzi dei contratti a prezzo variabile a quelli dei contratti pluriennali, verosimilmente con un meccanismo tipo quello illustrato da Minenna, ma imposto anche al mercato libero.

Ovviamente, sul mercato libero i singoli operatori / grossisti potrebbero poi aggiungere, per i contratti a prezzo variabile, un proprio spread (come avviene già oggi). Quella che cambierebbe sarebbe quindi solo la componente indicizzata del prezzo, che oggi è legata a una borsa e che in un prossimo futuro dovrebbe essere invece legata sostanzialmente ai prezzi di importazione reali della materia prima.

Non dovrebbe sfuggire, quindi, che la soluzione del problema caro-bollette del gas vada cercata in una real politik che tuteli per davvero imprese e famiglie. Non pensiamo proprio che, in questo “nuovo mondo” in cui siamo entrati, ci potrebbe essere spazio per la pura operatività di trading da parte della finanza speculativa. Ciò in quanto potrebbe presto mancare persino la capacità fisica di prodotto, specie nel caso che esca di scena la Russia. In tal caso la pressione sui prezzi salirebbe alle stelle.

In conclusione, solo intervenendo sul meccanismo di fissazione del prezzo di tutti i clienti finali con contratti oggi indicizzati al PSV o al TTF – che nel caso delle imprese sono ormai per la quasi totalità sottoscritti sul mercato libero – ci si può svincolare dai prezzi non reali delle borse del gas. Basti pensare che, già all’indomani dell’apertura della borsa del gas, il costo della materia prima quasi raddoppiò.

Dato però che, realisticamente, è improbabile che un Governo come quello italiano – già dimostratosi inadeguato rispetto ad altri paesi (come ad es. la Spagna e il Regno Unito) nel gestire la pandemia sulla base delle evidenze fornite dalla letteratura scientifica – possa cambiare in poco tempo i meccanismi di fissazione del prezzo del gas nelle bollette, ben venga nel frattempo la tassazione degli extraprofitti realizzati dalle compagnie energetiche, purché non sia fatta certamente alle aliquote attuali (10%) e nemmeno a quella del 25% di cui oggi si vocifera sui media [12], bensì almeno dell’80%, con successiva immediata ridistribuzione fra tutti i clienti finali più colpiti di questi extraprofitti lucrati.

Sulle bollette elettriche si somma un secondo effetto che amplifica il primo

Naturalmente, occorrerebbe intervenire anche sul versante “luce”, cambiando l’attuale meccanismo di fissazione del prezzo sulla Borsa elettrica, che andava bene trent’anni fa, quando le rinnovabili avevano una quota marginale, ma certamente non più oggi. A causa del criterio oggi usato – quello del prezzo marginale illustrato in precedenza – i produttori di energie rinnovabili fanno extra-profitti à gogo.

I prezzi medi mensili dell’indice Ipex (Italian Power Exchange), cioè della Borsa elettrica italiana. Anche il prezzo dell’elettricità è letteralmente “esploso” negli ultimi mesi, essendo salito di 14 volte dai valori di maggio 2020 (21,8 €/MWh). Ciò come inevitabile conseguenza dell’anomala impennata dei prezzi spot TTF del gas naturale, perché circa il 40% dell’elettricità utilizzata in Italia è prodotta con il gas naturale. L’aumento del prezzo del gas è amplificato dal meccanismo di fissazione del prezzo sulla Borsa elettrica, anacronistico ed eticamente ingiusto, che consente ai produttori di energie rinnovabili extra-profitti esagerati che si ripercuotono sulle tasche dei clienti finali. (fonte: elaborazione degli Autori su dati GME)

Si ha così l’evidente assurdo che, perfino se avessimo – in un dato momento – il 99,9% dell’elettricità venduta sulla Borsa elettrica prodotta con fonti rinnovabili (quindi a costo quasi zero), l’“ultimo kWh” prodotto con il gas la farebbe costare tutta come se fosse prodotta con il gas. Una vera presa in giro per gli Italiani che oggi, in una situazione di costi delle bollette alle stelle, non è più tollerabile.

La cosa interessante di cui nessuno sembra essersi reso conto è che il criterio del prezzo marginale attualmente utilizzato per fissare il prezzo del kWh sulla Borsa elettrica amplifica fortemente il caro-bolletta elettrico, che dunque è la somma di due componenti separate: (1) quella dovuta all’anomala impennata dei prezzi sulle borse del gas (PSV e TTF); (2) quella dovuta, appunto, al criterio del prezzo marginale.

Se si osserva la precedente figura relativa al prezzo medio mensile dell’elettricità sulla Borsa elettrica italiana, si vede che esso è aumentato di circa 14 volte da maggio 2020 a marzo 2022, mentre nello stesso periodo di tempo il prezzo medio mensile del gas è aumentato di 6,8 volte (passando dai 19,8 €/MWh di gennaio 2020 ai 135,5 €/MWh di marzo di quest’anno), ovvero quasi esattamente della metà.

Poiché il gas incide per circa il 40% sul mix energetico nazionale per la produzione di energia elettrica, l’aumento atteso delle bollette elettriche in assenza del criterio del prezzo marginale (sostituito da una semplice media pesata come chiediamo) sarebbe stato assai inferiore: verosimilmente, di 3 o 4 volte (anziché di 14 volte), dato che le rinnovabili non sono legate all’acquisto di materie prime energetiche.

Ciò permette di stimare quanto i due diversi contributi hanno inciso sul caro-bolletta elettrica italiano. Infatti, se ipotizziamo che in assenza del criterio del prezzo marginale l’aumento delle componente materia prima nelle bollette elettriche sarebbe stato di 4 volte, questo vuol dire che l’aumento del prezzo del gas è responsabile solo del 28% dell’aumento totale della componente elettricità delle bollette.

Pertanto, il grosso dell’aumento del costo di un kWh elettrico per i clienti finali – in pratica, circa il 72% di esso – è dovuto al criterio del prezzo marginale, che fa pagare uno sproposito anche i kWh prodotti quasi gratuitamente attraverso il sole (fotovoltaico), il vento (eolico) e l’idroelettrico. Donde la necessità, per ritornare a una situazione di prezzi accettabile, di eliminare il criterio del prezzo marginale.

Un quadro riassuntivo relativo ai contratti con i clienti finali per le forniture elettriche. Poiché i prezzi della componente energia sono legati al Prezzo Unico Nazionale (PUN) sulla Borsa elettrica, per i clienti con contratti a prezzo variabile si trasferiscono al cliente gli effetti dei due meccanismi di fissazione del prezzo (quello del gas e quello della luce), che pertanto necessitano di essere entrambi completamente modificati quanto prima per ritornare a una situazione sostenibile per le imprese italiane.

Gli interventi palliativi del Governo non curano le cause della malattia

Purtroppo, il cambiare i meccanismi di fissazione del prezzo (specie del gas per i clienti sul mercato libero) richiede una comprensione del problema e una volontà politica che ad oggi non vediamo. D’altra parte, la questione del caro-bollette non può essere risolta con interventi “tampone” che alleviano soltanto un po’ i sintomi (e solo per certi tipi di clienti finali), rischiando così di essere una sorta di boomerang.

Ad esempio, il dare la possibilità di pagare le bollette di luce e gas a rate (senza l’applicazione di interessi) è solo un trucco contabile, una sorta di maquillage, poiché l’importo annuo pagato dai consumatori non cambierà di un centesimo. E non basta da solo un intervento sulla bolletta che vada a toccare soltanto (e temporaneamente) gli oneri di sistema, così come non basta da sola la transizione alle rinnovabili.

Come abbiamo visto già nella lotta alla pandemia, anche in campo energetico la politica italiana sembra mancare di quella visione e concretezza di altri Paesi dell’UE, e si continuano di fatto a favorire le lobby, non ponendo l’interesse del cittadino al primo posto. In molti casi, poi, si approfitta dell’ignoranza delle persone per gettar loro fumo degli occhi, facendo credere che si stiano risolvendo i problemi.

Per esempio, il Decreto bollette 2022, diventato da poco legge con il via libera definitivo in Senato, ha fra i suoi punti cardine l’utilizzo dei climatizzatori negli edifici pubblici: prevede infatti che, dal 1° maggio, questi non possano portare gli edifici a misurare una temperatura minore di 25 °C d’estate e maggiore di 21 °C d’inverno (tenendo conto del margine di tolleranza di 2 gradi previsto dal decreto stesso).

Peccato, però, che: (1) i valori tollerati siano praticamente gli stessi normalmente usati, per cui si fa finta di cambiare tutto per non cambiare, in realtà, nulla; (2) l’abbassamento di 1 °C del riscaldamento non porti a un risparmio del 6% della spesa come scritto dai media italiani, ma solo dell’1-2%; (3) la platea interessata, quella degli edifici pubblici, sia piccola, per cui il risparmio di gas per il Paese risulta irrisorio: <0,1%.

In conclusione, il proseguire nel curare gli effetti anziché le cause della malattia rischia di portare le imprese produttive e il nostro Paese sull’orlo del baratro. La semplice introduzione di altre misure palliative e di un tetto al prezzo del gas non risolverebbero il problema e, anzi, rischierebbe di essere la pietra tombale al rientro a quotazioni storiche. I veri rimedi sono altri, e forse sarebbe ora che qualcuno si “svegliasse”.

Naturalmente, è a questo punto evidente al lettore che l’eventualità di un’interruzione alle forniture di gas russe non solo provocherebbe blackout e razionamenti, ma anche un’impennata ulteriore dei prezzi di gas e luce. Tutto ciò si sommerebbe agli effetti già tremendi del caro-bollette attuale. Pertanto, verrebbero messi a rischio il tessuto produttivo e la tenuta sociale del nostro Paese, che era già una polveriera per l’impatto economico delle misure adottate dal Governo nella gestione della pandemia.

Occorre tenere infatti presente che, secondo i dati forniti da Snam (la società che gestisce la rete italiana di distribuzione del gas) – relativi al 2018 ma rimasti altamente stabili negli ultimi anni – in Italia la domanda (e quindi il consumo) di gas sono ripartiti come segue: per circa il 40% provengono dal settore residenziale (cioè dalle famiglie), per circa il 32% dal settore termoelettrico e per circa il 25% dal settore industriale. Dunque, poiché la Russia ci fornisce il 40% del nostro fabbisogno di gas, traete voi le conclusioni.

Domanda e consumo di gas naturale in Italia per settore, espressi in miliardi di metri cubi. (fonte: Snam)

Alcune cose che ogni famiglia può fare per minimizzare il caro-bollette

Quest’ultima sezione è dedicata a ciò che le singole persone e le famiglie possono fare per mitigare l’impatto del caro-bollette sulle proprie tasche e quindi, in ultima analisi, sul nostro Paese. Infatti, l’urgenza della situazione è tale che, se si confidasse soltanto sull’azione del Governo, si potrebbe assistere all’eventuale soluzione dei problemi “a babbo morto” o, addirittura, non vederla mai.

Vi sono, essenzialmente, tre versanti su cui tutti noi possiamo agire, che sono: (1) fornitori luce e gas e relativi contratti; (2) risparmio energetico; (3) energie rinnovabili. Sebbene le opportunità e le tecnologie oggi disponibili in questo campo siano troppo numerose per essere qui illustrate tutte, si darà un qualche esempio per far capire come il contributo del singolo nel risolvere il problema sia fondamentale.

Sul fronte delle bollette, l’optare per contratti luce e gas a prezzo fisso fa risparmiare in periodi in cui si prevedono ulteriori aumenti, ma anche la scelta del timing e dell’operatore contano molto. L’ideale sarebbe stipularli quando i prezzi del gas sono più bassi (nei mesi “spalla”, ovvero nelle mezze stagioni) e, nel caso luce, con operatori che producano il 100% della propria energia da fonti rinnovabili, non solo per risparmiare ma anche al fine di incentivare gli operatori che vanno in quella direzione.

Altro risparmio sulle bollette luce e gas si può avere tramite il confronto, con appositi comparatori, fra le offerte di due o più fornitori, che si può fare solo se: (1) le loro offerte hanno lo stesso tipo di indicizzazione (ad es. sono tutte indicizzate al PUN); (2) si conoscono i costi fissi mensili scelti e applicati da ciascuno di essi, poiché non è solo il costo della materia prima a determinare la nostra spesa in bolletta. A questo riguardo, possiamo consigliare l’uso dei comparatori online di Altroconsumo e di Arera.

Sul versante del risparmio energetico, al di là dei consigli banali del web, molto si può fare, a cominciare dall’applicare in casa (l’ideale è a monte dell’interruttore generale) un misuratore di potenza elettrica assorbita, che mostra i consumi dei propri apparecchi elettrici ed elettronici. Si scoprirà così i consumi nascosti degli apparecchi elettrici ed elettronici quando sono in stand-by (ed evitabili con appositi “stand-by killer”), che la pompa di calore consuma molto anche quando pare al minimo grazie all’inverter, etc.

La strada per l’indipendenza energetica di una famiglia poggia su 3 pilastri, su cui vi è poca (e in genere superficiale) informazione da parte dei media, mentre essa sarebbe ora più che mai preziosa. Chi ne ha la possibilità, può puntare direttamente all’obiettivo finale: autoprodursi l’energia utilizzata in casa con le fonti rinnovabili. In alternativa, un mix di interventi ad hoc di vario tipo può portare a un contenimento della bolletta energetica, ma purtroppo questi non sono in genere granché noti al grande pubblico.    

Il principale consumo energetico delle famiglie è il riscaldamento invernale, seguito dal raffrescamento estivo. Tuttavia, chi passa molte ore al PC – o comunque seduto – può ridurre sensibilmente la bolletta elettrica invernale usando sotto i piedi un tappetino riscaldante da pochi watt che può essere acquistato per una manciata di euro sui principali portali di e-commerce (uno di noi ha così dimezzato la bolletta di marzo rispetto all’anno precedente, mentre a molti Italiani questa raddoppiava).

Un’altra tecnologia economica che dovrebbe essere adottata in ogni casa italiana e che si ripaga in pochissimo tempo è la Ventilazione Meccanica Controllata (VMC) effettuata applicando uno o più ventole con accoppiato un estrattore di calore (ceramico) – le si trova in vendita sul web con numerosi marchi (ad es. Ventolino ed altri) – a semplici fori ad hoc nella parete esterna, garantendo così un ricambio d’aria continuo degli ambienti trattenendo però in casa il calore d’inverno e il fresco d’estate.

Con questa semplice tecnologia (che costa dai 300 euro in su e che nulla a che vedere con gli ingombranti e costosi apparecchi di VMC usati per scuole e grandi uffici), è possibile ottenere una serie di benefici: (1) risparmio finanche del 20% sulla climatizzazione della casa; (2) si evita l’uso delle forme di riscaldamento più dispendiose poiché il ricambio d’aria è spalmato su molte ore (fino a 24); (3) si migliora, anzi ottimizza, la qualità dell’aria indoor (poiché si minimizzano la CO2, gli inquinanti e gli eventuali virus presenti).

Sul versante delle rinnovabili, invece, pochi sanno che anche chi non dispone di un tetto può risparmiare con il fotovoltaico sulla bolletta elettrica semplicemente optando per il cosiddetto fotovoltaico plug&play, cioè da balcone o terrazzo: un kit di pannelli removibili (con o senza accumulo in batterie) che si collega a una presa elettrica di casa, e che grazie all’inverter di cui è dotato il kit darà priorità di prelievo da parte degli elettrodomestici della corrente così prodotta / accumulata.

Sebbene il fotovoltaico plug&play in Italia sia limitato agli 800 W di potenza nominale massima, i kit sono economici, e quelli con una potenza nominale fino a 350 W non necessitano né di installazione (per cui non è necessario ricorrere a installatori, che “snobbano” questi kit perché loro non ci guadagnano) né di burocrazia: si comprano e si usano per l’autoconsumo, previo invio solo di una semplice Dichiarazione Unica (il modulo è scaricabile dal sito di Arera) al Distributore locale, senza obblighi o costi ulteriori.

Inoltre, oggi è possibile usufruire del risparmio delle rinnovabili anche in altri modi: ad es. acquistando da ènostra – la prima cooperativa energetica in Italia che produce energia rinnovabile attraverso un modello di partecipazione – una quota (costo unitario 500 euro), o più d’una, di un grande impianto fotovoltaico o eolico sito in un’opportuna zona d’Italia; per cui si avrà in cambio una certa quota annuale di energia elettrica al costo fisso di soli 6 cent/kWh, svincolandosi così del tutto dal prezzo di borsa.

Se invece si vuole andare nella direzione della totale indipendenza energetica della propria casa e/o garantirsi da eventuali blackout, conviene optare per un impianto fotovoltaico “stand-alone” molto sovradimensionato nei pannelli, e soprattutto nell’accumulo (tipicamente a batteria, preferibilmente del tipo litio-ferro-fosfato, ovvero LiFePo4), rispetto a un normale impianto fotovoltaico connesso in rete. E un eventuale generatore diesel o micro-eolico può assicurare un backup, come su un camper.

Una volta che si opti per il FV stand-alone, non solo non ha più senso avere un contratto gas (si cucina e si riscalda l’acqua con l’elettricità gratuita fornita dal Sole) ma, se il sistema ha un accumulo a batteria ben dimensionato per i propri consumi (in questo ci si può aiutare con i numerosi tutorial o simulatori in inglese che si trovano online), in teoria ci si potrebbe staccare dal fornitore luce: temporaneamente si perderà l’“agibilità” della casa, necessaria per affittarla o venderla, ma il risparmio sarà totale.

Se dunque vi fosse una campagna di informazione dell’opinione pubblica da parte del Governo e dei media su tutte le opportunità offerte oggi dal mercato (qui ne abbiamo solo accennate alcune), la si potrebbe coinvolgere nella soluzione del problema, ed in poco tempo abbattere in misura potenzialmente più che significativa il fabbisogno energetico in ambito residenziale. Di questi tempi, non sarebbe poco! Invece, come durante la lotta alla pandemia la comunicazione istituzionale è latitante.

Vorremmo qui esprimere la nostra gratitudine a tutte le persone che hanno indirettamente collaborato alla realizzazione di questo articolo, fornendo materiali, commenti o anche solo utili spunti di riflessione. Un estratto di questo articolo è stato pubblicato su Atlantico Quotidiano il 30 aprile.

Mario Menichella (fisico e divulgatore scientifico) – m.menichella@gmail.com

Alfonso Scarano (analista finanziario indipendente) – scaralfonso2021@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Menichella M., “Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare…”, Fondazione David Hume, 4 marzo 2022.

[2]  Bidoia L., “Le speculazioni che hanno stravolto il mercato del gas europeo”, pricepedia.it, 31 dicembre 2022.

[3]  Menichella M., “Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro”, Fondazione David Hume, 10 gennaio 2022.

[4]  Gaballo L., “La stangata”, puntata di Spotlight andata in onda su RaiNews24 il 22 aprile 2022.

[5]  Redazione, “Gas, M5S chiede revisione formula del prezzo tutela”, annotrecentogiorni.com, 18 marzo 2022.

[6]  Bruschi G., “Eni, l’utile 2021 è il più alto degli ultimi 10 anni: pronta la quotazione di Plenitude. Tutti i dati di bilancio”, firstonline.info, 18 febbraio 2022.

[7]  ENI, Rapporto di bilancio della società, pubblicato in “ENI – Relazione finanziaria annuale 2020”, eni.com, 2020.

[8]  Zuliani F., “In difesa della buona politica: la strategia italiana del gas”, ilpost.it, 1° maggio 2013.

[9]  Grassia L., “Più mercato e più trivelle per tagliare i prezzi del gas”, lastampa.it, 22 gennaio 2012.

[10]  Arera, “Mercato del gas naturale – Determinazione delle componenti relative ai costi di approvvigionamento del gas naturale”, arera.it, 5 febbraio 2015.

[11]  Arera, “Offerte standard per i clienti finali – PLACET”, arera.it, 2 maggio 2022.

[12]  Di Cristofaro C., “Aumento della tassa sugli extra-profitti non spaventa gli energetici”, ilsole24ore.com, 3 maggio 2022.




L’Ucraina e noi – Il sentimento della vergogna

La politica internazionale ha le sue regole, una sua logica, il suo pacchetto di criteri di valutazione. Ne so poco, anzi quasi niente. Mi sono sempre occupato di altri temi, forse meno importanti, sicuramente più nazionali che internazionali. Perciò su questa guerra scoppiata in Europa non sono titolato a parlare, e infatti non lo farò.

Quello di cui vorrei parlare è qualcosa di più intimo, è qualcosa che succede dentro di me e, suppongo, possa succedere anche ad altri. Vorrei parlare di un sentimento, che probabilmente nasce proprio dall’ignoranza, dal non essere esperti di geopolitica e di strategie militari, dal fatto di vedere le cose con l’occhio ingenuo della persona comune. Un sentimento che, non mi è bene chiaro perché, è bandito dal discorso pubblico. Non emerge mai esplicitamente. Non se ne discute, o forse non se ne deve discutere.

Quel sentimento è la vergogna. Ma forse sarebbe più esatto dire: doppia vergogna. Vergogna perché, nonostante i disperati appelli del presidente Zelensky, l’Occidente, l’Europa (e ovviamente anche l’Italia) non sono disposte a fornire alcun aiuto concreto al popolo ucraino, al di là delle fantomatiche e inefficaci “sanzioni durissime”. Ma vergogna, anche, perché non solo non siamo disposti a correre alcun rischio per aiutare gli ucraini, ma stiamo trasformando in spettacolo la tragedia altrui. Comodamente seduti davanti ai teleschermi, veniamo inondati da maratone televisive come quelle del Quirinale o, in passato, quelle delle guerre del Golfo.

E’ come se, vedendo una banda di bulli che picchia a sangue un bambino, noi ci limitassimo a minacciarli di non invitarli più alle nostre feste, e in compenso non ci facessimo scappare l’occasione di filmare tutto. Eppure ci hanno insegnato che è vile voltarsi dall’altra e far fina di niente davanti a uno stupro. E che non è bello, quando c’è un incidente per strada, fare ressa intorno ai feriti non per soccorrere ma per vedere lo spettacolo.

Sono paragoni sbagliati?

Forse sì, se la domanda è soltanto: cos’altro potremmo fare?

Ma forse no, se la domanda è: che cosa siamo diventati, come cittadini e come operatori dell’informazione?

Già, che cosa siamo diventati?

A me sembra che una parola condensi tutto: siamo diventati spettatori, e come tali veniamo trattati. L’informazione, specie in tv e su internet, si preoccupa poco di farci capire e molto di assicurarci un intrattenimento permanente, h24. Quanto a noi, cittadini del ricco ed evoluto occidente, quel che ci è chiarissimo almeno da mezzo secolo (da quando i giovani americani ripudiarono la guerra del Vietnam) è che la guerra non fa per noi. Possiamo condannare, esprimere solidarietà, indignarci, accogliere profughi, imporre sanzioni economiche, ma aiutare un popolo aggredito no. Quello resta fuori del nostro orizzonte morale. Le uniche guerre che siamo disposti a fare sono quelle per i nostri stretti interessi, possibilmente solo dal cielo, meglio se affidate agli anglo-americani.

E’ un bene? E’ una conquista di civiltà? Potremmo fare diversamente?

Non ho le risposte. Ma mi accontenterei che provassimo a riflettere. E a non rimuovere. Il sentimento della vergogna è del tutto bandito dalla retorica del discorso pubblico, ma a me pare, in questo momento, il più appropriato, per non dire il più onesto. Quanto alla fuoruscita della guerra dal novero delle cose concepibili è sicuramente una conquista di civiltà. Ma non è solo questo: è anche il segno che tutto ciò che costa fatica, comporta rischi, richiede impegno e spirito di sacrificio è a sua volta uscito dal radar delle nostre vite. E non da ieri, né solo in Europa: la psicologa israeliana Hara Estroff Marano aveva descritto la mutazione nei giovani americani già due decenni fa in un libro significativamente intitolato A Nation of Whimps (una nazione di schiappe).

Forse la domanda che dovremmo farci è se, in un mondo che non è ancora tutto sulla nostra lunghezza d’onda, possiamo permetterci di essere quello che siamo. Il grado di civiltà di un paese, o di un continente, può anche essere eccessivo, non solo insufficiente. Si racconta che, a Yalta, a chi gli faceva presente che il Papa avrebbe preferito un altro assetto del mondo, Stalin avesse chiesto: quanto divisioni ha il Papa? Dev’essere la stessa domanda che si è fatto Putin: quante divisioni ha Ursula von der Leyen?




Dante, Santagata e l’italianità

Uno dei guai dell’Italia è che nessuno si rassegna a fare soltanto il proprio mestiere. Neppure il “grande dantista Marco Santagata” aveva resistito alla tentazione di invadere il campo (non suo) della storia delle idee. Facendo dell’ironia gratuita su Dante “fondatore dell’italianità” aveva detto: “Sono centinaia gli intellettuali che hanno raccontato Dante come l’eroe nazionale. Ma è un ritratto falso. Per Dante, l’Italia non esisteva. Nel suo tempo, che era il Medio Evo, esistevano tante piccole formazioni politiche che si facevano la guerra tra loro. L’idea dello stato nazione è nata secoli dopo, e non poteva rientrare nell’orizzonte dantesco. Dante aveva in mente l’Impero: un’istituzione sovranazionale che doveva garantire la pace, la prosperità e la sicurezza di tutti i cristiani. Ma che vuole, nella storia succede continua-mente che si prendano i fatti culturali e li si rileggano alla luce delle esigenze del momento”.

“Per Dante l’Italia non esisteva” ma davvero? Davvero, almeno quanti di noi avevano fatto il liceo, avevamo dimenticato che, per il ‘ghibellin fuggiasco’, a detenere la suprema legittimità politica era l’Impero—di cui il nostro paese, però, sarebbe dovuto essere lo splendido ‘giardino’? Quante idee sbagliate ci avrebbe trasmesso la vecchia scuola se non ci fossero i demistificatori alla Marco Santagata buonanima e al vivo e vegeto Alessandro Barbero (quello che raccontava in TV che se i Persiani avessero vinto a Salamina per la Grecia non sarebbe cambiato niente, con l’aria beffarda: “beh beccati questa verità scomoda, incarta e porta a casa!”..)! Sennonché da umile storico delle idee faccio rilevare che le ragioni per cui Dante viene ritenuto ‘fondatore dell’italianità’ sono sostanzialmente tre: la linguaLe genti del bel paese là dove ‘l sì suona», (Inf. XXXIII, vv. 79-80) ; la geografia—la sicurezza con cui il Sommo Poeta delimitò i confini d’Italia–«Sì com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna» (Inf., Canto IX, 113-114); un’etnia culturale ( come diremmo oggi), con una sua individualità e interessi distinti dalle altre: «Ahi serva Italia di dolore ostello/nave senza nocchiero in gran tempesta/ non donna di provincia ma bordello» (Purg. Canto VI,76-78) Per il resto, Dante è un uomo del Medio Evo che mai avrebbe potuto pensare a uno stato nazionale italiano, un progetto che evoca idee rivoluzionarie e la ‘democrazia dei moderni’—patriota è una parola coniata, nella sua sostanza etico-politica, dalla Rivoluzione francese e ripresa nel Risorgimento dai ‘modernizzatori’, nemici giurati dell’Ancien Régime, ovvero degli Imperi e, in ispecie, degli ultimi discendenti degli Asburgo. Del cui Impero il Vate fiorentino fu il convinto cantore: “O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia e dovresti inforcar li suoi arcioni”,( Purg.,Canto VI,97-99).  Questo Dante , non a caso, mandava in visibilio i teorici dell’universalismo fascista ,che ritenevano superati i miti della ‘nazione’ e della patria’ e che guardavano non più al Risorgimento ma all’Impero di Roma, alle sue ‘quadrate legioni’, agli Stati-Civiltà etc.,  ma non credo che il buon Santagata avrebbe ‘gradito’ l’antinazionalismo del pagano Julius Evola..

Forse è venuto il momento di finirla con le picconate ai miti ‘scolastici’: la storia non è fatta per épater les bourgeois ma per far capire da dove veniamo e come il passato ha contribuito a renderci quel che siamo. Continui, pertanto, la benemerita ‘Società Dante Alighieri’ a far conoscere al mondo la nostra grande cultura, al riparo dall’ironia dei beaux esprits. Sì, Dante politicamente non ha nulla a che vedere con lo stato nazionale ma, nella definizione di una identità culturale contano solo la politica, il tipo di Stato che si ha in mente, le sue istituzioni? O non anche la lingua, le arti, il territorio, il senso di una ‘comunità di destino’? E se questi ultimi fossero irrilevanti, non sarebbe la riprova di un virus totalitario (“tutto è politica e tutto si risolve in politica!”) da cui stentiamo a liberarci? Si difende un’eredità spirituale, una lingua, una cultura indipendentemente dal tipo di Stato che si ha in mente: Carlo Cattaneo era un grande patriota italiano ma, prima del 48, non gli sarebbe dispiaciuto vedere il Lombardo-Veneto membro di uno ‘splendido dogato’—quale avrebbe potuto essere l’Austria di Maria Teresa e dell’assolutismo illuminato. Forse in un periodo come l’attuale in cui si sono fortemente indeboliti il senso dell’appartenenza e l’orgoglio delle grandi produzioni artistiche e scientifiche che, nel corso dei secoli, si sono registrate nelle diverse regioni della penisola , in anni in cui i fattori culturali sono divenuti irrilevanti (in qualche Facoltà di Lettere si insegnava Letteratura italiana in inglese e si leggevano I promessi sposi in traduzione), c’è qualcuno che può pensare:in mancanza di uno stato unitario italiano, come si può parlare di italianità? In realtà, questa antiretorica è più preoccupante della retorica delle celebrazioni ufficiali.

Ha scritto Giovanni Belardelli, storico delle dottrine politiche e autore del miglior saggio che io conosca sulle idee di Giuseppe Mazzini: “Attraverso il culto di Dante si affermava così la figura dell’intellettuale come moralista, aspro critico dei difetti dei propri connazionali”.

Cito Nicola Mirenzi, Dante l’italiano (“HuffPost del 5 dicembre 2020): “Era fondamentale rifare gli italiani. Secondo la gran parte dei patrioti, lunghi anni di dominio straniero avevano compromesso il popolo, rendendolo vile e corrotto. E l’emblema di questa italianità deteriore divenne Petrarca, che aveva la colpa di essere stato un poeta cosmopolita, a suo agio presso le corti europee. Mentre Dante, no: era rimasto intatto. Ai loro occhi, era l’incarnazione dell’italiano intransigente, l’uomo che aveva scelto con sdegno l’esilio pur di non piegarsi al nuovo potere di Firenze. L’esilio stabiliva una connessione esistenziale tra loro e Dante. Come Dante, anche molti patrioti avevano preferito pagarla cara lontano da casa anziché piegarsi allo straniero. Come Dante, testimoniavano con la vita l’attaccamento alle virtù civiche e all’ideale nazionale. Come Dante, potevano perciò anche permettersi di ridire sugli altri italiani. ‘Spesso gli esuli – mi racconta Berardelli – vivevano in condizioni miserabili all’estero, ma sapere di essere fedeli all’esempio dantesco era di grande conforto morale’”. Tutto vero, tutto innegabile ma le ‘mitologie’ non bastano a fare e a spiegare la storia. Se Dante fosse stato solo l’”italiano intransigente”, l’uomo di carattere con la ‘c’ maiuscola il fatto di essere divenuto il simbolo dell’italianità sarebbe davvero inspiegabile. (E perché Dante e non Francesco Ferrucci se è veritiero l’omaggio che gli tributava Goffredo Mameli: “Dall’Alpi a Sicilia/Dovunque è Legnano/,Ogn’uom di Ferruccio/ Ha il core, ha la mano?”).

Sempre citando Mirenzi, “nemmeno Vittorio Sermonti lasciò mai credere il contrario, sebbene con la lingua di Dante abbia deliziato a lungo gli italiani, e senza ricorrere al trucco dell’icona pop. Nel Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, venne chiamato a tenere tre giorni di lezioni nell’aula del Palazzo dei gruppi parlamentari. Premise che non aveva alcuna voglia di parlar bene dell’Italia, e che ne avrebbe parlato semplicemente con amore. Poi, raccontò che fu Virgilio a inventare la parola Italia, Dante a promuovere ‘le parlate sgangherate degli italiani alla nobile esattezza del latino’ e Verdi a rendere l’italiano finalmente popolare. Si guardò bene dal dire che Dante aveva creato l’Italia. Concesse qualcosa sulla lingua, ma specificando che si trattava di un azzardo: ‘Vogliamo dire che Dante ha fondato le basi teoriche dell’italiano?’ E diciamolo”.

Confesso un profondo fastidio per l’insostenibile leggerezza del pensare. Mettiamo da parte miti, falsi credenze, ingenuità ideologiche e guardiamo ai fatti nudi e crudi: è vero o non è vero che Dante scrisse uno dei più grandi capolavori letterari di tutti i tempi, la Divina Commedia, in italiano (una lingua, sembra, nata non a Firenze ma alla Corte di Federico II con Giacomo da Lentini e altri poeti della sua Scuola)?; è vero o non è vero che per lui l’Italia era, forse, un’espressione geografica ma un’espressione geografica tutt’altro che immaginaria e non priva, in ogni caso, di risonanze sentimentali ? è vero o non è vero che il destino della penisola—i suoi problemi, le sue traversie, le sue memorie—gli stava molto a cuore e che parlando di bolognesi, di veneziani, di genovesi, di pisani, di fiorentini ne parlava come di rami di uno stesso albero sino al punto da sentire le loro ‘peccata’ come vergogne di famiglia?

Giuseppe Mazzini, Ugo Foscolo, Carlo Cattaneo, Cesare Balbo i grandi spiriti del ‘riscatto nazionale’ onorarono tutti in Dante il Padre dell’Italianità: incontrandoli nell’altro mondo, Marco Santagata e Vittorio Sermonti li sottoporranno alla doccia fredda del demisticatore televisivo Alessandro Barbero: “Guardate che Dante non era un patriota. Come credevate voi ma un imperialista?” “Scherza coi fanti ma lascia stare i santi” si diceva nel buon tempo antico.




Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale

Anestetizzati da mesi di pandemia, in Italia si sta forse un po’ perdendo il senso della realtà ed, a mio avviso, si sottovalutano i rischi – potenzialmente sistemici – insiti nella situazione mondiale attuale. In Cina, Paese che ha ormai sostituito gli Stati Uniti come “locomotiva dell’economia mondiale”, ormai da qualche settimana si chiudono a turno le fabbriche, nelle strade si spengono i semafori e nelle case i forni a microonde, si fermano gli ascensori e viene meno la copertura telefonica 3G, tutto a causa dei frequenti blackout; e si mettono in allerta migliaia di città sul blocco dell’acqua per mancanza di elettricità, in quanto all’eccesso di domanda prodotto dalla ripresa post-Covid si è sommato il crollo della produzione energetica delle centrali a carbone, combustibile di cui sono state bloccate le importazioni dall’Australia per la violenta guerra commerciale con questo Paese, che chiedeva un’inchiesta sull’origine del SARS-CoV-2. Il risultato è che ora c’è scarsità di componenti, di semi-lavorati e di prodotti finiti, nonché un rilevante aumento dei prezzi delle materie prime, del cibo, dei carburanti e di luce e gas. Si rischiano, pertanto, anche in Italia interruzioni di produzioni e frammentazioni di intere filiere, inflazione galoppante, crescenti “default” di aziende e famiglie ed, a cascata, un’impennata delle sofferenza bancarie, che rappresentano una “spada di Damocle” per un Paese come il nostro, con il secondo debito pubblico più grande al mondo; per non parlare dell’impatto imprevedibile, sui mercati e sulle banche, dell’eventuale scoppio della “bolla immobiliare” cinese. Oggi, insomma, il mondo sta temendo un nuovo “contagio” proveniente dalla Cina – e sarebbe il secondo – ma questa volta è di tipo economico-finanziario, e potrebbe avere delle ricadute geopolitiche importanti, oltre che un impatto potenzialmente notevole sulla vita di tutti noi. Ma cosa sta succedendo davvero in Cina e, soprattutto, che cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi nel nostro Paese e nell’area dell’Indo-Pacifico (dove vive metà della popolazione mondiale, transitano alcune delle principali vie di navigazione e sono in aumento preoccupante le frizioni e le provocazioni fra Cina e altri Paesi)? Esiste davvero il rischio di una ingestibile pandemia finanziaria o, addirittura, di un conflitto armato? È la vera “variante impazzita”, il cigno nero “che spazza via tutto” (facendo impallidire, a confronto, le nostre preoccupazioni per il Covid) o è soltanto un’esagerazione di alcune Cassandre?

Un’altra potenziale minaccia dalla Cina: lo “scoppio” della bolla immobiliare

Dopo la pandemia arrivata dalla Cina – che è stata un vero e proprio “cigno nero”, per quanto in parte prevedibile, dopo quelle di SARS e di MERS – dalla Cina rischia di arrivare un’altra potenziale minaccia – se volete, un secondo “cigno nero” – legata al probabile fallimento della società Evergrande, un grandissimo player dell’economia cinese: 200.000 dipendenti che, con l’indotto, salgono a ben 3,8 milioni [25]. Precedentemente nota come Hengda Group, Evergrande è stata fondata nel 1996 dall’uomo d’affari Hui Ka Yan a Guangzhou, nel sud della Cina. La Evergrande Real Estate è un colosso dell’immobiliare e possiede attualmente più di 1.300 progetti in più di 280 città in tutta la Cina. Ma il più ampio Gruppo Evergrande ora comprende molto più del semplice sviluppo immobiliare. Le sue attività spaziano dalla gestione patrimoniale alla produzione di auto elettriche e alla produzione di alimenti e bevande. Possiede persino una delle più grandi squadre di calcio del paese: il Guangzhou FC. Il signor Hui era una volta la persona più ricca dell’Asia e, nonostante abbia visto la sua ricchezza precipitare negli ultimi mesi, ha una fortuna personale di oltre 10 miliardi di dollari, secondo Forbes.

Evergrande è venuta a trovarsi nei guai perché si è espansa in modo aggressivo per diventare una delle più grandi aziende cinesi, prendendo in prestito più di 300 miliardi di euro. L’anno scorso, Pechino ha introdotto nuove regole per controllare l’importo dovuto dai grandi promotori immobiliari. Le nuove misure hanno portato Evergrande a offrire le sue proprietà a grandi sconti per garantire che arrivassero soldi per mantenere a galla l’attività [23]. Ora sta lottando per far fronte al pagamento degli interessi sui suoi debiti, ed ha un indebitamento di circa 305 miliardi di dollari. Ma, considerando anche tutto l’indotto (banche, scoperture, etc.), in realtà le cifre in ballo in caso di default sono pari al doppio del Pil italiano. Per l’incertezza sul suo futuro, il prezzo delle azioni di Evergrande è crollato di circa l’80% quest’anno. Le sue obbligazioni sono state anche declassate dalle agenzie di rating del credito globali a un gradino dal livello di spazzatura. Anche se ancora il default non è stato dichiarato perché teoricamente la società ha ancora tempo per pagare i debiti, è chiaro a tutti – ed implicitamente confermato da dirigenti ed autorità – che non lo farà perché non ha i mezzi per farlo. Solo il Governo cinese potrebbe salvarla per evitare un effetto Lehman Brothers, ma ciò creerebbe al tempo stesso un precedente pericoloso.

Confronto del debito di Evergrande (indotto escluso) con quello della Lehman Brothers, a cui viene spesso accostata. La banca d’affari americana, quando è fallita, il 15 settembre 2008, aveva un patrimonio di 680 miliardi di dollari e 613 miliardi di debiti (si è trattato del più grande fallimento nella storia degli Stati Uniti). Ciò che era significativo di Lehman era il numero di paesi che vi avevano investito. Il suo crollo ha portato a un calo del valore dell’economia mondiale. A causa della complessa rete dell’economia globale, un altro grande crollo come quello di Evergrande potrebbe essere una pessima notizia.

Ci sono diversi motivi per cui i problemi legati all’eventuale default di Evergrande sono seri [23]. In primo luogo, molte persone hanno acquistato proprietà da Evergrande ancor prima che iniziassero i lavori di costruzione. Hanno pagato depositi e potrebbero potenzialmente perdere quei soldi se la società fallisce. Ci sono poi le aziende che fanno affari con Evergrande – comprese le imprese di costruzione e progettazione e i fornitori di materiali – le quali corrono il rischio di incorrere in gravi perdite, che potrebbero costringerle al fallimento. Il terzo motivo è il potenziale impatto sul sistema finanziario cinese. La ricaduta finanziaria sarebbe di vasta portata. Secondo quanto riferito dalle testate locali, “Evergrande deve soldi a circa 171 banche nazionali ed a 121 altre società finanziarie”. Se Evergrande fallisce, le banche e altri istituti di credito potrebbero essere costretti a prestare meno. Ciò potrebbe portare a quella che è nota come “stretta creditizia”, cioè quando le aziende faticano a prendere in prestito denaro a tassi convenienti. Una stretta creditizia sarebbe una pessima notizia per la seconda economia mondiale, perché le aziende che non possono prendere in prestito hanno difficoltà a crescere e in alcuni casi non sono in grado di continuare a operare. Ciò potrebbe anche innervosire gli investitori stranieri, che potrebbero vedere la Cina come un luogo meno attraente per investire con sicurezza i propri soldi.

Le gravissime ricadute potenziali del crollo di una società così pesantemente indebitata ha portato alcuni analisti a suggerire che Pechino potrebbe intervenire per salvarla. Mattie Bekink, della Economist Intelligence Unit (EIU), la pensa così: “Piuttosto che rischiare di interrompere le catene di approvvigionamento e far infuriare i proprietari di case, pensiamo che il governo probabilmente troverà un modo per garantire che il core business di Evergrande sopravviva”. Altri, però, non ne sono sicuri. In un post sull’app di chat cinese e sulla piattaforma di social media WeChat, l’influente caporedattore del quotidiano Global Times sostenuto dallo stato, Hu Xijin, ha affermato che Evergrande non dovrebbe fare affidamento su un salvataggio del governo e invece deve salvarsi. Ciò si accorda anche con l’obiettivo di Pechino di tenere a freno il debito societario, il che significa che un salvataggio di così alto profilo potrebbe essere visto come un cattivo esempio. D’altra parte, però, le autorità comuniste sono colpevoli di non aver saputo controllare con attenzione le attività e i bilanci del colosso immobiliare. Si parla, inoltre, di casi di corruzione diffusa [25]. Insomma, in un Paese “normale” sarebbe stato uno scandalo enorme. Ma le proteste in piazza che si sono viste (soprattutto sul web) rappresentano una grande novità, poiché nella Repubblica Popolare le manifestazioni pubbliche sono severamente vietate.

I mercati finanziari globali sono stati tutti in allerta, in queste settimane, poiché il gigante immobiliare cinese a corto di liquidità doveva affrontare diversi test chiave in questi giorni. Lo sviluppatore immobiliare più indebitato al mondo era infatti destinato a rispettare una serie di scadenze per il pagamento degli interessi obbligazionari, per un totale di decine di milioni di dollari. Poiché la società faceva fatica a soddisfare tali pagamenti, ha iniziato a rimborsare alcuni investitori nella sua attività di gestione patrimoniale con delle proprietà. Inoltre, invece di pagare i 47,5 milioni, che non avevano in cassa, hanno ceduto un pacchetto di azioni – si parla di 1,5 milioni di azioni – a una banca locale collegata al governo cinese. Detto altrimenti, si tratta di uno “scaricabarile”, di una soluzione tipo Monte dei Paschi di Siena: in sostanza, il settore privato sta scaricando il “barile” nel settore pubblico, per cui poi saranno i cinesi e la Banca centrale cinese a pagare. Tutto questo mentre la Banca centrale cinese inietta miliardi – il 22 settembre ne ha messi 15,5 Mld (€) – che vanno a finire nelle banche commerciali, verosimilmente per coprire, “a mo’ di pezze”, le perdite in bilancio legate all’esposizione a Evergrande. Ma non sappiamo fino a che punto lo Stato interverrà: l’opacità del sistema informativo cinese non ha finora consentito di capire come Xi Jinping e il suo gruppo dirigente intendano affrontare il grosso del problema.

Come spiega il prof. Michele Marsonet [25], “in Cina, il nuovo statalismo promosso dal Partito indurrebbe a credere che il governo interverrà con una ristrutturazione del debito di Evergrande. Si tratterebbe però di un’operazione assai difficile dal punto di vista finanziario, i cui costi ricadrebbero inevitabilmente sulle spalle dei contribuenti. L’alternativa è lasciare che il colosso immobiliare fallisca, adottando la stessa strategia utilizzata nel celebre caso del crac di Lehman Brothers nel 2008. Si tratta di capire se Xi Jinping, che intende farsi eleggere ‘presidente a vita’, può permettersi una simile via d’uscita. In fondo la Repubblica Popolare ha continuato a prosperare grazie a una sorta di ‘patto sociale’ che promette ai cittadini una crescita continua in cambio della rinuncia ad alcune libertà fondamentali, e tale soluzione segnerebbe per l’appunto la fine del patto di cui sopra”. In effetti, a differenza che in altri Paesi, in Cina da anni investono in Borsa anche milioni e milioni di persone del popolo, senza alcuna esperienza, perché sanno che la crescita sarà in qualche modo “garantita” dall’intervento statale.

Un’eventuale crisi economica e finanziaria della Repubblica Popolare Cinese avrebbe effetti deleteri nel mondo intero, essendo quasi tutti i principali Paesi legati al “carro” cinese. Ma, come scrive Salvatore Dimaggio [24], “il grande dubbio è capire se quello di Evergrande è solo un gigantesco caso isolato oppure se segna l’inizio del temuto scoppio della ‘bolla immobiliare’ (nel frattempo, anche la cinese Fantasia Holding, che ha un debito di 12,3 miliardi di dollari, è sull’orlo del default [63], ndr). Tante autorità economiche e finanziarie erano state da tempo messe in guardia sull’evoluzione anomala del settore immobiliare assolutamente tipica delle speculazioni delle bolle. Tuttavia, le banche centrali sono sempre state molto timide – anzi assenti – su questo fronte. I falchi della Banca Centrale Americana hanno più volte sottolineato come si sarebbe dovuto intervenire con forza per stroncare le dinamiche della bolla immobiliare. Tuttavia sono rimasti sostanzialmente inascoltati e la Banca Centrale Americana è rimasta immobile sulle sue politiche. Come del resto anche la Banca Centrale Europea. A questo punto è assai complesso capire se la bolla immobiliare si sgonfierà in modo naturale e graduale o se il caso di Evergrande è un fenomeno destinato a ripetersi magari con modalità molto diverse anche in altre parti del mondo”.

La bolla immobiliare cinese (e quella di Hong Kong) erano già diversi anni fa preoccupanti per le loro dimensioni assai maggiori rispetto a quella statunitense, scoppiata nel 2007 con la crisi dei mutui subprime. (fonte: Chinese property bubble bigger than subprime, HSBC)

Tre Paesi quasi sull’orlo del “caos” per ragioni diverse: Cina, Regno Unito e Italia

All’apparenza, dunque, la Cina potrebbe sembrare sull’orlo del caos per la vicenda Evergrande. Ma, in realtà, non è così. Infatti, secondo il giornalista economico Andrea Muratore [26], “il Dragone non intende ‘punire’ Evergrande condannandola al fallimento rifiutando esplicitamente un intervento, come è successo nel 2008 negli USA con Lehman Brothers, ma è disposta a ritardare l’intervento a quando sarà necessario per impedire lo scoppio della bolla”. E spiega: “Secondo il Wall Street Journal, il governo di Xi Jinping avvisa da giorni i funzionari locali ad essere ‘pronti per la possibile tempesta’. Le agenzie governative di livello locale e le imprese statali, scrive il quotidiano finanziario USA, avrebbero ricevuto l’ordine di intervenire solo all’ultimo momento nel caso in cui Evergrande non riuscisse a gestire i propri affari”. A dimostrazione del fatto che, come molti rilevano da tempo, quella cinese non è una vera economia di mercato, bensì uno strano sistema – privo di trasparenza – dominato totalmente dal Partito-Stato, al quale sono legati a filo doppio anche i tanti miliardari spuntati come funghi dopo le riforme nominalmente privatistiche promosse da Deng Xiaoping [25]. L’agenzia di rating Fitch ha già stimato che lo scandalo Evergrande porterà a un rallentamento del Pil cinese, che dovrebbe passare dall’8,4 all’8,1 percento. Capirai.

Come spiega ancora Muratore, “le banche cinesi ed estere esposte a Evergrande stanno già operando accantonamenti sulle perdite”. La finanza occidentale e i decisori politici devono capire la big picture e rendersi conto del fatto che sostanzialmente il rischio Evergrande è già stato nelle scorse settimane prezzato, interiorizzato e messo in conto dai mercati e che ogni possibile slavina sarà unicamente dovuta allo sdoganamento del panico”. Se però qualcuno pensasse che in Cina “Tutto va ben, Madama la Marchesa!”, in quanto il governo cinese probabilmente eviterà a Evergrande un default che provocherebbe conseguenze sistemiche, o comunque cercherà di depotenziare l’impatto della vicenda (ma la verità è che ancora non si sa per certo se il futuro di questa crisi ci riserverà solo alta marea oppure uno tsunami), si sbaglierebbe di grosso. Difatti, quella che veramente preoccupa gli analisti occidentali è un’altra crisi cinese, quella energetica, che sta provocando grandissimi danni soprattutto alle piccole e medie imprese, ma non solo [27], spingendo gli analisti a tagliare le previsioni di crescita economica del Dragone per quest’anno dall′8,2% al 7,7%, ma potrebbe persino trattarsi di una previsione al ribasso troppo ottimista [42]. Non è un caso che Bloomberg abbia pubblicato in queste settimane un articolo dal titolo significativo: “La crisi dell’energia in Cina è il prossimo shock economico dopo Evergrande”. In realtà, però, il suo impatto potrebbe essere decisamente più grande e meno facile da gestire.

Come spiegato alla fine di settembre da Giuseppe Rodio su Wall Street Italia [27], “nella provincia di Guangdong (la numero uno per produzione industriale in Cina, e quindi possiamo dire nel pianeta), il governo ha ordinato alle piccole e medie imprese (PMI) considerate ad alto consumo energetico di chiudere 3 giorni a settimana a causa della carenza di energia. Almeno 9 province cinesi sono colpite da interruzioni di energia elettrica, con aziende costrette a chiudere per 3 giorni alla settimana. Tra queste, troviamo le province di Jiangsu, Zhejiang (da cui peraltro arrivano oltre il 90% dei cinesi che vivono in Italia, ndr) e la sopra citata Guangdong, le potenti zone industriali che da sole valgono quasi un terzo dell’intera economia cinese. Considerando il fatto che siamo a settembre e di inverno a Pechino fa davvero molto freddo, sembra si tratti della punta di un iceberg… Del resto, nella provincia di Jilin, una compagnia idrica locale ha scritto giorni fa un post sul suo profilo social di WeChat dicendo che “le interruzioni o i limiti irregolari, non pianificati e non annunciati dureranno fino a marzo 2022, e le interruzioni di corrente e acqua diventeranno la norma” [42]. Un vecchio detto di Wall Street dice ‘se l’America starnutisce, l’Europa si becca il raffreddore’. Cosa succederà al mondo, se alla Cina viene la polmonite? Ma, soprattutto, questi “colli di bottiglia temporanei”, come li ha definiti il presidente della Fed Jerome Powell, e dovuti in parte alla forte spinta produttiva connessa alle riaperture, risultano invece essere alquanto strutturali, poiché derivano in parte dal processo di transizione energetica dal carbone alle rinnovabili ed in parte – come vedremo – dalla “guerra” commerciale nei confronti dell’Australia [2] e dal riscaldamento globale.

La Cina è nel bel mezzo di una crisi dell’approvvigionamento energetico (in particolare, di carbone, che lì è ancora ampiamente usato nonostante l’elevato livello di inquinamento che produce il bruciarlo), la quale è diventata molto critica nelle ultime settimane, minacciando intere reti elettriche e spingendo gli analisti a tagliare le previsioni di crescita economica per l’anno. La metà delle 31 giurisdizioni provinciali cinesi – da quelle industriali nel sud a quelle nel nord-est – impongono ormai il razionamento dell’elettricità, ma la scarsa comunicazione e la tempistica poco chiara hanno lasciato il pubblico arrabbiato nell’oscurità, innescando un allarme diffuso tra gran parte della popolazione e facendo precipitare il settore dell’industria nel caos [27]. Le Autorità hanno avvertito che l’intera rete elettrica rischia il collasso se l’elettricità non viene razionata. Diversi fornitori, ad esempio, di Apple e Tesla hanno così annunciato chiusure di fabbriche per giorni per rispettare gli ordini delle autorità locali di razionare l’elettricità. Ma le interruzioni diffuse non si limitano alle fabbriche, nonostante in Cina queste siano le prime a dover ridimensionare i consumi. I residenti di grattacieli sono stati costretti a prendere le scale in città dove sono stati sospesi i servizi di ascensore per risparmiare elettricità. Nel Guangdong, è stato chiesto ai residenti di smettere di usare l’aria condizionata e di affidarsi alla luce naturale al posto delle lampadine elettriche [28].

Le ragioni principali della mancanza di energia nel sud della Cina sono diverse da quelle che la causano nel nord. Il sud sta esaurendo l’energia idroelettrica; il nord sta soffrendo per la diminuita disponibilità del carbone per la guerra commerciale con l’Australia (di cui vedremo più avanti la causa) e per l’aumento del suo prezzo per l’elevata domanda dovuta alla ripresa [29]. Il Guangdong ottiene circa il 30% della sua elettricità dall’energia idroelettrica, generata nella vicina provincia dello Yunnan. Ma un’estate più calda della media a causa del riscaldamento globale ha prosciugato i bacini idrici e fatto evaporare la fornitura di energia nello Yunnan. Allo stesso tempo, l’aumento dei volumi delle esportazioni di prodotti ha causato un picco nella domanda di energia industriale nel Guangdong, portando a una carenza di energia. Anche la domanda locale di energia idroelettrica dello Yunnan è aumentata. La spinta di Pechino a decarbonizzare il suo settore industriale ha spinto le fonderie di alluminio assetate di energia a trasferirsi nella provincia ricca di idroelettrico, e ciò ha accresciuto la concorrenza per l’energia verde locale. Infine, nel nord del Paese, ricco di centrali elettriche a carbone, un certo numero di province hanno superato già ad agosto la quota delle emissioni inquinanti introdotta dal governo nel 2019, e quindi la loro azione immediata è stata quella di iniziare a razionare l’elettricità. La Cina guarda al gas naturale liquido (GNL) per ridurre l’utilizzo del carbone, e l’Australia è insieme al Qatar il principale produttore mondiale di GNL.

Schema riassuntivo delle cause della carenza di elettricità in Cina. (fonte elaborazione dell’Autore)

Ma la Cina non è l’unico Paese che in queste settimane sembra quasi sull’orlo del caos. Sia pure per motivi in parte diversi, anche il Regno Unito è in balia di una doppia emergenza, tra il forte aumento dei prezzi delle forniture domestiche di luce e gas (con decine di utilities fallite in pochi mesi, dirottando centinaia di migliaia di utenti verso nuovi fornitori) e la scarsità di carburante alle stazioni di servizio (con un quarto delle pompe a secco, lunghe code e disagi), con il governo costretto a mobilitare l’esercito come misura temporanea per riattivare i rifornimenti di benzina nel Paese [30]. Per non parlare degli scaffali dei supermercati vuoti o quasi vuoti, ed anche in questo caso all’origine della crisi vi è la carenza di camionisti, tradizionalmente provenienti dall’Europa dell’Est (in quanto accettavano compensi molto più bassi rispetto agli autotrasportatori anglosassoni), provocata dalla Brexit ed acuita dalla pandemia, nonché da fenomeni di accaparramento del carburante e del cibo [31]. L’aumento dei prezzi di luce e gas e dei carburanti è dovuto, invece, all’aumentare della domanda internazionale di gas, petrolio e suoi derivati, ed è accentuata dalla speculazione da parte degli investitori finanziari che non sono interessati alla consegna “fisica” e che sfruttano il cosiddetto “contango” (che permette ad alcuni investitori di acquistare petrolio oggi, immagazzinarlo, bloccare quel prezzo e venderlo mesi dopo con un enorme profitto).

In Italia, invece, la situazione è solo all’apparenza migliore rispetto al Regno Unito, poiché ai problemi già illustrati in un mio articolo di aprile [32] – come i ristori del tutto insufficienti rispetto al danno subito con lockdown, chiusure “a colori” e restrizioni varie, ed il conseguente aumento dei fallimenti di attività e delle sofferenze bancarie, etc. – se ne sono sommati altri. Il turismo italiano è ormai in profondo rosso, mentre i bar ed i ristoranti in vendita non si contano più. Anche da noi mancano ora dei componenti per l’industria costringendo al blocco di intere produzioni [35]; e materie prime, cibo, carburanti ed energia hanno prezzi sempre più alti (e non parlo solo dell’elettricità; per il caro-gas da noi si sono già dovute fermare delle industrie [56]), alimentando l’inflazione e mettendo sempre più persone in difficoltà. E qui vorrei evidenziare un fatto che fa capire perché nel Regno Unito siano già fallite delle utilities energetiche: come spiegava un anno fa Diego Pellegrino, portavoce dei fornitori privati di energia [37], “subito dopo il periodo di lockdown, le punte degli insoluti da parte degli utenti riguardo la fornitura di energia da noi sono state del 40%; ma, a differenza di quanto è avvenuto all’estero, il governo da un lato ha bloccato i distacchi per morosità ma dall’altro non ha previsto fondi per aiutare un settore che ha registrato un calo degli incassi, non del fatturato, poiché i crediti sono a bilancio e la riduzione del fatturato avviene solo successivamente, quando vengono contabilizzate le perdite sui crediti. Però gli impatti finanziari sono immediati: le aziende possono fallire non solo per un calo del fatturato, ma anche per crisi di liquidità!”.

Un altro problema incombente, in Italia, è quello del green pass per il lavoratori delle piccole e medie imprese (PMI), che ha tutta l’aria di essere una “bomba a orologeria” pronta ad esplodere se non viene disinnescata. L’applicazione pratica in maniera coercitiva con l’obbligo sul posto di lavoro della certificazione verde a partire dal 15 ottobre rischia di mettere in ginocchio tante piccole imprese (per non parlare delle potenziali ricadute sul Pil), poiché ci sono ancora circa 3 milioni di dipendenti del settore privato non vaccinati. Unioncamere ha avvertito che in moltissimi casi bastano una o due assenze per fermare l’attività delle PMI. Ma, in tanti casi, la perdita di dipendenti o collaboratori non vaccinati porterà, verosimilmente, addirittura al fallimento delle attività più piccole, in quanto trovare figure specializzate è oggi difficilissimo [33]. Si tenga presente che il numero di addetti medi per impresa è in Italia è di circa 3,5: l’assenza di un solo dipendente equivale, quindi, in media al 33% della forza lavoro, cosa che non sembra essere stata tenuta in alcun conto da chi ha partorito, letteralmente unico al mondo, un’idea così “geniale”. Un problema simile si presenta nel trasporto locale e soprattutto nella logistica, poiché circa un quarto dei camionisti è non vaccinato, e da qui a sotto Natale le merci rischiano di rimanere ferme e accumularsi nei porti, a cominciare da quello – importantissimo – di Genova [34].

Infine, in tutti e tre i Paesi qui analizzati, un problema emergente è quello della mancanza di manodopera. Come spiega Gianluca Modolo [53], “si cercano disperatamente lavoratori per le fabbriche. Con i migranti interni che non migrano più, con i giovani neolaureati che di andare a fare gli operai non ne vogliono sapere e con una popolazione che invecchia sempre più velocemente, l’economia ha un problema di carenza di manodopera”. Modolo parla della Cina, ma non notate che questa situazione somiglia non poco a quella italiana? Nel Regno Unito la mancanza di manodopera è legata soprattutto alla Brexit ed ai salari troppo bassi per certi lavori. In Cina, invece, come racconta Modolo, “molti non lasciano più le città (il Covid ha accelerato questo trend) e, nonostante i bonus offerti dagli imprenditori, molti giovani non hanno nessuna voglia di spaccarsi la schiena alla catena di montaggio con orari duri e paghe comunque ancora basse. Possono permettersi di attendere più a lungo, protetti nel frattempo da mamma e papà, e cercano opportunità nel crescente settore dei servizi, attirati anche dalle nuove occupazioni – a volte bizzarre – che stanno nascendo. Fashion blogger, vlogger, dietologi per animali domestici, giocatori di e-sport, stilisti di abiti tradizionali: paghe migliori e meno fatica”. In Italia, si tende a spiegare la carenza di manodopera solo con il reddito di cittadinanza [54]; ma siamo davvero sicuri che basti a spiegare il trend in atto?

In Cina, molti dei millennial che sono cresciuti in un’era dominata dai social media non sono interessati a lavori mal pagati e con poche prospettive, considerato anche che nelle grandi città i prezzi delle case sono saliti alle stelle nel corso degli anni (per dare un’idea, a Shanghai il prezzo medio a mq di una casa è 33 volte più alto che a Chicago). Uno dei nuovi lavori molto in voga fra i giovani è quello dell’influencer, un settore la cui economia nella sola Cina è stata valutata, nel 2016, in circa 8,4 miliardi di dollari da CBNData. Nella foto, alcuni dei tanti influencer orientali spuntati letteralmente dal nulla. (fonte: Chinoy.tv)

La guerra commerciale fra Cina e Australia innescata dal coronavirus

Sebbene i legami economici tra Cina ed Australia siano fioriti dagli anni ’90, dalla fine del 2019 le due nazioni sono state coinvolte in una guerra commerciale quasi senza quartiere che ha lasciato entrambi i paesi a subire conseguenze economiche. Le lamentele dell’Australia vanno dalla mancanza di trasparenza sull’origine del Covid-19 a gravi preoccupazioni per i diritti umani che, per usare le parole del ministro degli Esteri australiano Marise Payne, sono “profondamente inquietanti” [3]. Nel frattempo, la Cina ha presentato all’Australia un elenco di rimostranze, tra cui interferenze con gli affari interni, diffusione di retorica anti-cinese e blocco degli investimenti basati su “motivi di sicurezza nazionale opachi e infondati”. I disaccordi hanno coinvolto ampi settori di entrambe le economie, i giganti della tecnologia, e i politici di entrambe le parti si sono scambiati accuse al vetriolo. I prodotti australiani hanno sempre più attratto una classe media cinese in crescita e la loro insaziabile domanda di materie prime come carne di manzo, vino e aragosta ha contribuito a guidare la prosperità economica australiana. E per molto tempo entrambi i paesi ne hanno beneficiato. Allora, perché ricorrere a una guerra commerciale? E chi sta davvero vincendo?

Un eccellente pezzo di Pete Carpenter [2], uscito ad aprile di quest’anno, spiega molto bene quanto accaduto: “La Cina ha imposto barriere commerciali con apparentemente poca risposta dall’Australia. Il motivo è l’importanza relativamente elevata per l’Australia del commercio transfrontaliero tra i due. Eventuali dazi o restrizioni australiani reciproci sulle importazioni cinesi danneggerebbero in modo significativo le imprese e l’economia dell’Australia. Il rapporto tra i due paesi si è deteriorato da quando l’Australia ha sostenuto una richiesta per un’inchiesta internazionale sulla gestione del coronavirus da parte della Cina quando la pandemia è diventata una questione internazionale. Le cose sono peggiorate costantemente e, alla fine del 2020, le agenzie di stampa australiane hanno riferito che l’ambasciata cinese aveva minacciato il governo australiano di ulteriori azioni; e ha consegnato un elenco di presunte lamentele nei confronti di Canberra (che includevano anche le ‘incessanti interferenze’ nell’approccio della Cina a Hong Kong e Taiwan). La Cina ha così adottato diverse misure selettive che ostacolano il commercio australiano, che vanno dall’imposizione di dazi all’imposizione di divieti e restrizioni”. Esse sono costate all’Australia, nella sola prima metà del 2021, circa 4 miliardi di dollari, ma la sua economia si è dimostrata assai resiliente, e la perdita è stata compensata da un aumento con il resto del mondo [43].

Carpenter fornisce diversi dettagli che aiutano a inquadrare meglio la situazione: “analizzando le relazioni commerciali, la Cina è il più grande partner commerciale dell’Australia e di gran lunga la sua principale destinazione di esportazione. L’Australia è una delle poche nazioni sviluppate sulla Terra che esporta più in Cina di quanto non importi dalla Cina. la Cina assorbe circa 1/3 di tutte le esportazioni australiane. L’esportazione di gran lunga più grande è il minerale di ferro. Fra il 2014 e il 2019 le esportazioni australiane verso la Cina sono raddoppiate e le importazioni sono aumentate del 42%. Dopo l’inizio del battibecco, impattato comunque anche da un rallentamento degli scambi dovuto alla pandemia globale, nella prima metà dello scorso anno il commercio è sceso in modo significativo ed è stato in realtà sostenuto solo dal minerale di ferro. La Cina ha imposto tariffe/restrizioni su carbone, vino, orzo, aragoste, legname, carne rossa e cotone. Infine, con il nuovo stimolo industriale in Cina, il governo cinese ha concesso l’autorizzazione alle centrali elettriche per importare carbone senza restrizioni di sdoganamento ad eccezione dell’Australia. Il carbone è la terza più grande esportazione dell’Australia verso la Cina”.

Scrive ancora Carpenter: “L’orzo ha dazi dell’80,5% che impediscono di fatto le esportazioni australiane in Cina. La Cina ha affermato che l’Australia stava scaricando l’orzo sui mercati cinesi danneggiando i produttori locali. L’Australia ha presentato ricorso all’OMC. Il vino ha ricevuto dazi anti-dumping tra il 107% e il 212%, a seguito dell’indagine anti-dumping cinese sulle importazioni di vino dall’Australia. La Cina ha sospeso le importazioni da 6 fornitori di carne bovina, presumibilmente per problemi di etichettatura e salute. Alla fine del 2020, gli esportatori di agnello non sono stati in grado di esportare nel mercato cinese sotto le restrizioni per il Covid-19 e ora le esportazioni di miele, frutta e prodotti farmaceutici verso la Cina sono a rischio. Tonnellate di aragoste vive sono rimaste bloccate negli aeroporti e nei centri di smistamento cinesi, in attesa di ispezione da parte della dogana. Non sorprende che la Cina non abbia introdotto alcuna restrizione sulla più grande esportazione australiana verso la Cina, quella di minerale di ferro. Questo poiché la Cina dipende dal minerale di ferro dell’Australia (oltre il 60% proviene da tale Paese) ed è sempre più importante per la Cina a causa degli stimoli aggressivi all’economia guidati dall’industria”.

Il giornalista economico australiano Stephan Bartholomeusz chiariva, già a maggio, gli altri aspetti della vicenda [1]: “Deve essere fonte di crescente frustrazione per i burocrati cinesi il fatto che i propri successi economici stiano schiacciando i loro sforzi per sanzionare l’Australia per i nostri commenti poco diplomatici sulle origini della pandemia e sul trattamento riservato dalla Cina agli uiguri nella regione dello Xinjiang. Sebbene le sanzioni su orzo, vino, aragoste, carbone e altri prodotti siano state pungenti, sono state molto più che compensate dall’insaziabile domanda cinese di minerale di ferro e gas naturale liquido (GNL) e dall’impennata dei prezzi di entrambi. Se questa è una guerra commerciale, l’Australia sta vincendo abbastanza profumatamente la sua prima fase. Il prezzo del minerale di ferro è superiore a $ 200 la tonnellata e i prezzi del GNL sono rimbalzati dalla pandemia ai livelli visti l’ultima volta due anni fa. Per quanto riguarda il carbone, i produttori australiani hanno risposto ai divieti della Cina spostando le loro esportazioni altrove, in particolare in India. Anche se i produttori potrebbero non ottenere gli stessi prezzi di prima, la Cina è costretta ad acquistare carbone di qualità inferiore a prezzi più elevati, mentre i suoi concorrenti beneficiano della manna inaspettata del carbone australiano di alta qualità a prezzi inferiori”.

L’andamento, alla Borsa di New York, dei prezzi dei futures dei tre principali combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone) negli ultimi 5 anni, fino alla data dell’8 ottobre. Si noti come, a salire enormemente rispetto alla media degli anni precedenti, siano stati solo il gas naturale e il carbone, guarda caso entrambi largamente usati dalla Cina per la produzione di elettricità. L’impatto è quindi enorme sia per gli utenti di gas domestici e industriali sia sulla bolletta elettrica di quei Paesi – come purtroppo l’Italia – che d’inverno hanno ancora un contributo modesto da parte delle fonti rinnovabili (fonte: Trading Economics)

Dunque, nonostante il danno che ha fatto ad alcune categorie di esportazione con le sue tariffe e altre sanzioni, la Cina non è stata in grado di danneggiare i produttori australiani delle due grandi materie prime che contano davvero: ferro e gas naturale liquido. Come spiega inoltre Bartholomeusz, “la Cina potrebbe acquistare più GNL dal Qatar e dagli Stati Uniti (in effetti si è impegnata nell’ambito della tregua commerciale dell’era Trump per acquistare più GNL dagli Stati Uniti, ed è in trattative con il Qatar per acquisire azioni nel più grande nuovo progetto del mondo e ha ampliato le sue relazioni con Turkmenistan), ma il GNL è un prodotto scambiato a livello internazionale e la domanda nell’Asia del Pacifico è abbastanza forte da consentire la ridistribuzione dei carichi australiani altrove, come è avvenuto per il carbone. Un fattore di complicazione sussidiario è che le società energetiche statali cinesi hanno grandi partecipazioni azionarie multimiliardarie e contratti a lungo termine con i principali esportatori australiani di GNL, quindi danneggiare l’industria australiana danneggerebbe le stesse imprese pubbliche cinesi”.

Come chiarisce ancora il giornalista australiano, “la Cina ha cercato di ritirare lo stimolo correlato alla pandemia che ha iniettato nella sua economia lo scorso anno come parte di uno sforzo più ampio per ridurre l’indebitamento, decarbonizzare e migliorare la produttività della sua base industriale. C’è anche il sospetto che la Cina stia accumulando le sue scorte di materie prime vitali in mezzo a crescenti tensioni geopolitiche. Naturalmente, non è nell’interesse a lungo termine né dell’Australia né della Cina che le relazioni diplomatiche e commerciali continuino a deteriorarsi, ma nel frattempo, nonostante i danni che ha arrecato ad alcune categorie di esportazione con i suoi dazi e altre sanzioni, la Cina non è stata in grado di ferire i produttori australiani delle due grandi materie prime che contano davvero. Infatti, le sue azioni hanno spinto le aziende australiane – dai produttori di vino ai minatori di carbone agli esportatori di GNL – a cercare nuovi mercati e ridurre la loro dipendenza dalla Cina, cosa probabilmente positiva per gli interessi nazionali a lungo termine dell’Australia”. Forte della lezione di questo “harakiri”, la Cina ha concordato con gli USA di Biden una “exit strategy” sulla questione dell’origine del SARS-CoV-2, in forza della quale il Dragone ammetterà che è sfuggito accidentalmente dal laboratorio di Wuhan [39].

Conseguenze del “caos” cinese sull’economia dell’Italia: il possibile “contagio”

Quando in Italia arriveranno nel pieno gli effetti che lo shock energetico sta provocando in Cina, e se dovesse arrivare entro qualche mese anche il default del colosso immobiliare Evergrande, la situazione nel nostro Paese diverrebbe – verosimilmente – seria. La crescita del Pil e il “miracolo economico” di cui hanno parlato molti giornali italiani si manifesterebbero per quello che sono: pura propaganda. L’inflazione potrebbe raggiungere valori senza precedenti da quando c’è l’euro (nonostante il mantenimento del quantitative easing della BCE), mettendo in ulteriore difficoltà soprattutto le famiglie e le fasce più povere della popolazione. Dunque, la situazione attuale in Cina è pericolosa non solo per i cinesi, ma per tutti, specie in Paesi con un elevatissimo debito pubblico come l’Italia. Il principale quotidiano economico-finanziario, Il Sole 24 Ore, ha scritto, in queste settimane: “Se la storiella raccontata dai banchieri centrali, che raccontano ai giornali finanziari che l’inflazione è temporanea, fosse solo una favola? Se così fosse, il boom economico post-Covid potrebbe essere vicino al capolinea. Di fronte ai problemi della Cina, alle code dei benzinai in Gran Bretagna, i mercati hanno avuto un brusco risveglio”. Anche la banca giapponese Nomura ha sottolineato che “i mercati hanno due problemi combinati: Evergrande e lo shock energetico”.

Insomma, la realtà è assai meno rosea – per usare un eufemismo – di quel che ci viene raccontato dalla narrazione ufficiale (che poi è, né più né meno, quanto succede con il Covid su temi rilevanti quali vaccini, green pass, terapie domiciliari, scuole e trasporti, etc.). D’altra parte, è comprensibile che su certi temi Mario Draghi sia “intoccabile” da parte dei giornali italiani, e che il green pass abbia funzionato anche come un’eccezionale “arma di distrazione di massa”. Tuttavia occorre tornare alla (cruda) realtà. Quanto fin qui illustrato rischia di contagiare l’economia mondiale. Una delle più note testate economiche del mondo, Bloomberg, ci dice che “il rischio è che le filiere degli approvvigionamenti vadano in pezzi proprio sul finire dell’anno, quando la produzione raggiunge il picco, in vista delle festività natalizie, degli ordini da evadere in mezzo mondo. In Cina, gli imprenditori sono colpiti dai pesanti tagli alle forniture energetiche. Si stanno chiudendo porti, scali aerei”. Insomma, come prosegue l’articolo, “la tempesta perfetta comincia a profilarsi all’orizzonte. La filiera di prodotti USA di alto contenuto tecnologico è a rischio: Apple, Tesla, Microsoft, HP, Dell, etc. Tanto è vero che i fornitori di iPhone e di microprocessori hanno imboccato la strada del lavoro svolto di notte”. Nonostante ciò, il sistema potrebbe incepparsi.

Infatti, quanto può davvero essere temporaneo un shock nella catena dei rifornimenti che sembra derivare da premesse di natura decisamente strutturale? Il reperimento di componenti (ad esempio i chip), materie prime (ad es. il grano) e di materiali (ad es. l’acciaio) è un grosso problema: c’è scarsità sul mercato. L’anno scorso molte aziende italiane si sono fermate per il Covid, mentre ora rischiano di fermare le produzioni per i materiali che non arrivano o che costano troppo. Negli ultimi 20 anni abbiamo creato sistemi economici basati su una supply chain (la catena di produzione e distribuzione) globale, e abbiamo sviluppato anche un modello di produzione just in time, dove tutto viene prodotto e consegnato al cliente in tempi brevi. Tutto ciò rende il nostro sistema produttivo molto fragile. E che succederà in futuro ai prezzi, ai ricavi di vendita e ai margini aziendali se la prima manifattura del pianeta opera 2 giorni a settimana da qui a marzo, se non oltre? D’altra parte, i prezzi di materie prime, carburanti, energia e prodotti finiti sono già di per sé destinati ad andare alle stelle perché, come ho spiegato nel mio articolo di aprile [32]: (1) una frenata dell’economia cinese esercita pressioni al ribasso sui prezzi delle commodities mentre, viceversa, un’impetuosa ripresa come quella in atto per la sostanziale risoluzione dell’emergenza pandemia in USA ed Europa, li fa impennare; (2) noi ora siamo appena nella prima fase di un cosiddetto “superciclo” delle materie prime, quella in cui i primi investitori cominciano a investire, esacerbando la salita dei prezzi.

Ho cercato di chiarire le cose nella figura qui sotto. All’origine di tutto c’è stato un boom della domanda dovuto alla ripresa post-Covid, prima in Cina e poi negli altri paesi, ma favorito anche dalle grandi masse di liquidità immesse in questi anni nel sistema economico da tutte le principali banche centrali [40]. A questa già di per sé eccezionale domanda si è sommata, verosimilmente, una crescente domanda di prodotti cinesi generata dal boom dell’e-commerce avvenuto durante il lockdown, che ha spostato ormai gli acquisti (spesso superflui) di moltissime persone sulle piattaforme online [36], che tendono a far comprare i prodotti di origine cinese, sui quali hanno maggiori margini di guadagno. Questo boom della domanda – parallelamente al venir meno, alla Cina, di importanti fonti energetiche – ha causato l’aumento dei prezzi delle materie prime e la carenza di elettricità, con l’interruzione di molte produzioni per diversi giorni alla settimana (Goldman Sachs ha svelato che il problema energetico sta creando problemi al 40% delle aziende cinesi). Questa situazione, a sua volta, sta causando, anche in Italia numerosi problemi: (1) la scarsità di componenti essenziali (con la conseguente interruzione delle filiere di rifornimento); (2) la scarsità di prodotti (con le conseguenti difficoltà economiche per molti rivenditori finali); (3) l’aumento dei prezzi (con il conseguente aumento dell’inflazione e delle difficoltà di arrivare a fine mese per le famiglie).

Una figura che illustra le varie cause e gli effetti a breve termine della complessa situazione attuale illustrata nel testo, che parte dalla Cina e impatta sulla maggior parte dei Paesi occidentali (e non solo), Italia in primis per la sua vocazione manifatturiera. (fonte: elaborazione dell’Autore)

L’espressione che ho usato nel titolo di un precedente paragrafo, “quasi sull’orlo del caos”, potrebbe esservi apparsa un po’ forte per la situazione attuale (seppur gravida di pericoli); ma a molti sfugge il fatto che le moderne società tecnologiche, a differenza di quelle rurali, sono in realtà estremamente fragili, come del resto già evidenziato dall’ing. Roberto Vacca nel suo famoso libro Medioevo prossimo venturo. Pochi ricordano che, nel 2008, quando i prezzi del petrolio e dei carburanti toccarono il loro record assoluto, la conseguente serrata degli autotrasportatori in Francia rischiò di mettere in ginocchio il Paese. Infatti, sono sufficienti soli tre giorni di mancati approvvigionamenti di cibo per svuotare i supermercati, e solo qualche giorno di più senza rifornimenti di cibo e carburanti per passare, potenzialmente, dalla civiltà al caos. Quello vero. Come ho scritto in passato, gli impatti della crisi da Covid sono essenzialmente di tre tipi: sanitari, economici e sociali; tuttavia, mentre conosciamo piuttosto bene le soglie “di rottura” del sistema sanitario, poco o nulla sappiamo delle soglie di rottura dei sistemi economici e sociali in un Paese avanzato, e quindi non abituato a gestire crisi caratterizzate da stress molto forti e prolungati di varia natura.

Come osserva Marco Lupis sull’Huffington Post, “la crisi energetica cinese è ancora più preoccupante quando si pensi che arriva proprio quando i produttori e gli spedizionieri fanno a gara per soddisfare la domanda di ogni cosa, dall’abbigliamento ai giocattoli all’elettronica, per la stagione dello shopping natalizio di fine anno, e si sommano alle problematiche in materia di approvvigionamento già sconvolte dall’aumento dei costi delle materie prime, dai lunghi ritardi nei porti e dalla carenza di container” [42]. “La crisi energetica cinese sta iniziando a colpire le persone nel luogo in cui vivono, ha scritto invece Bloomberg, “aggiungendo il rischio di instabilità sociale alle potenziali interruzioni della catena di approvvigionamento globale”. Ma, al di là dell’impatto sociale – dai contorni al momento imprevedibili – quello che a mio avviso più preoccupa, specie in Paesi ad altissimo indebitamento pubblico come l’Italia o con banche imbottite di derivati (come ad es. la Deutsche Bank tedesca), è la ricaduta, il “contagio”, di questa “tempesta perfetta” sia nei confronti del sistema finanziario (quando il mercato borsistico, ancora drogato dal “monetadone” delle banche centrali, si concentrerà sui fondamentali, ovvero sul fatturato e sulla redditività delle società quotate) sia, soprattutto, del sistema bancario, perché è in caso di default bancari che la situazione può sfuggire di mano e diventare potenzialmente irreparabile [32].

Le tensioni geopolitiche fra Cina e USA e la “spada di Damocle” su Taiwan

Se un eventuale “cigno nero” potrebbe venire da quanto fin qui illustrato, il fatto di scamparvi non significherebbe comunque che con la Cina si possano dormire sonni tranquilli sul breve e medio termine. Infatti, vi è sul tappeto anche la “questione Taiwan”, che alimenta forti tensioni geopolitiche fra la Cina da un lato e gli Stati Uniti (ed i suoi alleati nell’area) dall’altro. Ricordo che Cina e Taiwan (grossa isola a sud-est della Cina con 23 milioni di abitanti) hanno governi separati dalla fine della guerra civile cinese nel 1949. Pechino ha cercato a lungo di limitare le attività internazionali di Taiwan ed entrambe si contendono l’influenza nella regione del Pacifico. La tensione è aumentata negli ultimi anni e Pechino non ha escluso l’uso della forza per riprendersi l’isola, in quanto – al di là delle dichiarazioni ufficiali che vedremo – Xi Jinping ha lanciato la politica dell’autosufficienza cinese, e quest’isola è strategica in tal senso perché lì ha luogo oltre il 50% della produzione mondiale di semiconduttori (chip), fondamentali per realizzare computer, auto, smartphone, etc. Sebbene Taiwan sia ufficialmente riconosciuta solo da una manciata di nazioni, il suo governo democraticamente eletto ha forti legami commerciali e informali con molti paesi. Come la maggior parte delle nazioni, gli Stati Uniti non hanno relazioni diplomatiche ufficiali con Taipei (la capitale di Taiwan), ma una legge statunitense richiede di fornire all’isola i mezzi per difendersi.

Come riportato dalle cronache internazionali [4] – piuttosto trascurate dalla maggior parte dei media italiani – a gennaio Taiwan ha segnalato per due giorni consecutivi una “grande incursione” di aerei da guerra cinesi, una dimostrazione di forza che ha coinciso con i primi giorni del mandato del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, ed a cui ha fatto seguito un’esercitazione simile che ha portato a un avvertimento da parte di Washington. Il ministero della Difesa di Taiwan ha detto che otto bombardieri cinesi in grado di trasportare armi nucleari, quattro caccia e un aereo antisommergibile sono entrati nella sua zona di identificazione della difesa aerea sudoccidentale autodichiarata. Come spiegava la corrispondente della BBC [4], “la Cina vede la Taiwan democratica come una provincia separatista, ma Taiwan si considera uno stato sovrano. Gli analisti affermano che la Cina ha voluto così testare il livello di sostegno di Biden a Taiwan. Le esercitazioni, infatti, sono arrivate giorni dopo l’insediamento del nuovo presidente americano, che dovrebbe mantenere la pressione sulla Cina su un’ampia gamma di questioni tra cui diritti umani, controversie commerciali e la questione di Hong Kong e Taiwan, che è stata una delle principali spine nel deterioramento delle relazioni tra i due poteri. E, da quando Biden è salito al potere, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha riaffermato il suo ‘solido impegno’ per aiutare Taiwan a difendersi”.

La corrispondente della BBC dava poi altre informazioni utili per capire la situazione: “L’amministrazione Trump aveva stabilito legami più stretti con Taipei, aumentando le vendite di armi e inviando alti funzionari nel territorio nonostante i feroci avvertimenti della Cina. Giorni prima di lasciare l’incarico, il segretario di Stato Mike Pompeo ha però revocato le restrizioni di vecchia data sui contatti tra funzionari americani e taiwanesi. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian ha affermato a gennaio che le attività militari statunitensi nella regione non sono buone per la pace: ‘Gli Stati Uniti inviano frequentemente aerei e navi nel Mar Cinese Meridionale per mostrare i muscoli. Questo non favorisce la pace e la stabilità nella regione’. Ha poi condannato un gruppo di portaerei statunitensi che all’epoca navigava nel Mar Cinese Meridionale come ‘una dimostrazione di forza’. Gli Stati Uniti affermano che si tratta di un esercizio di ‘libertà di navigazione’. La sostanza delle politiche della nuova amministrazione statunitense su Cina e Taiwan resta da vedere ma, in risposta, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che gli Stati Uniti continueranno ad approfondire i propri legami con l’isola”.

Si noti che, per anni, la Cina si era astenuta dal volare nella zona di identificazione della difesa aerea sud-occidentale di Taiwan, anche se ne aveva il diritto: tali zone, infatti, non sono riconosciute dal diritto internazionale. Quindi il governo taiwanese chiama “incursioni” i sorvoli della Cina, ma tecnicamente non lo sono. Gli analisti ritengono che la Cina abbia voluto mostrare insoddisfazione nei confronti di come l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente taiwanese Tsai Ing-wen abbiano cambiato lo status quo negli ultimi quattro anni [4]. Solo perché c’è stato un cambiamento nel presidente degli Stati Uniti, non significa che Pechino smetta di affermare quello che ha visto a lungo come suo diritto di volare nel proprio cortile. Ha voluto anche mettere in guardia il presidente Tsai dal compiere ulteriori passi verso l’indipendenza formale. Verosimilmente – e cosa ancora più importante – Pechino ha voluto inviare un messaggio forte all’inizio della presidenza di Joe Biden sul fatto che la questione di Taiwan è pericolosa e ha voluto ricordargli di non giocare con il fuoco incoraggiando la signora Tsai, come fatto dall’amministrazione Trump. Sperava che Biden riducesse il rischio riducendo il sostegno a Taiwan. Indipendentemente dal motivo, potrebbe essere però ora difficile convincere Pechino a tornare ai vecchi tempi più gentili.

I taiwanesi sono abituati a vivere all’ombra di un conflitto latente in corso. Da quando il Partito Nazionalista Cinese, o Kuomintang, ha perso la guerra civile cinese ed è fuggito a Taiwan nel 1949, il Partito Comunista Cinese ha voluto prendere il controllo [5]. Ma la calma potrebbe essere ingannevole. Non è completamente chiaro cosa stia realmente pianificando la Cina e se gli Stati Uniti interverranno per conto di Taiwan, se necessario. La Cina, intanto, si arma e aumenta la pressione militare su Taipei. Già l’anno scorso l’aviazione cinese ha ignorato la linea mediana dello Stretto di Taiwan, che funge da linea di demarcazione non ufficiale, più spesso di quanto non avesse fatto da decenni, con gli aerei militari che sono entrati nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan (ADIZ) quasi ogni tre giorni. La Cina rivendica Taiwan come proprio territorio. “Stiamo affrontando una gigantesca minaccia militare”, ha affermato in primavera l’ex ministro della Difesa taiwanese Michael Tsai. Al Congresso nazionale del popolo di marzo, i governanti comunisti della Cina continentale hanno chiarito quanto Taiwan fosse importante per la loro strategia. Il ministro degli Esteri Wang Yi ha affermato che non c’è “spazio per compromessi o concessioni” sulla questione. Ha anche avvertito gli Stati Uniti di smettere di “giocare con il fuoco” [5].

Al momento, sembra che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, come il suo predecessore Donald Trump, continuerà a sostenere Taiwan, che è di grande importanza geostrategica nella regione del Pacifico occidentale. Quando a marzo il presidente cinese Xi Jinping – che il finanziere George Soros ha definito “repressivo in casa e aggressivo all’estero” – ha chiesto all’esercito popolare di essere pronto per la battaglia, la parola “Taiwan” non è stata pronunciata, ma l’idea è rimasta sospesa nell’aria. Il morale e l’addestramento dell’esercito taiwanese giocheranno probabilmente un ruolo importante nel determinare se Taiwan sia davvero pronta a difendersi in caso di emergenza. Ma sia in termini di numero di truppe che di modernizzazione, Taiwan è molto indietro rispetto alla Cina, nonostante le forniture regolari di armi del valore di miliardi dagli Stati Uniti. Il budget militare ufficiale della Cina da solo è 16 volte quello di Taiwan. In termini di dimensioni, l’esercito di 170.000 uomini di Taiwan (di cui la metà attivi) è paragonabile a quello della Germania, che ha un numero di abitanti tre volte e mezzo superiore. In mare, la Cina ha decisamente il sopravvento: è in procinto di costruire una terza portaerei mentre Taiwan ha due sottomarini operativi, che risalgono però agli anni ’80. Nel 2016, a Taiwan il servizio militare, che i giovani di solito completano dopo gli studi, è stato ridotto a quattro mesi, ma Tsai non pensa che sia abbastanza lungo.

Le differenti forze militari della Repubblica Popolare Cinese da una parte e di Taiwan dall’altra a confronto. Per quanto riguarda i soldati di Taiwan, sono state considerate solo le truppe attive. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati dello U.S. Department of Defense)

Anche l’amministrazione Biden e la Cina non hanno desistito dal “mandarsela a dire”. A giugno, una delegazione di senatori statunitensi ha visitato Taiwan per annunciare la donazione di 750.000 dosi di vaccino contro il Covid-19 [6]. Ma l’offerta è stata una grande provocazione secondo Pechino, che ha imbrigliato l’apparente rifiuto di Taipei di accettare la sua offerta di vaccini contro il coronavirus di fabbricazione cinese. Taipei, d’altra parte, ha accusato Pechino di bloccare i suoi sforzi per acquistare vaccini a livello internazionale, piuttosto che cercare di aiutare. Ma il più grande pugno nell’occhio a Pechino non è stato l’accordo sulla donazione del vaccino in sé, ma l’aereo militare americano (un C-17 cargo) parcheggiato sulla pista. Lv Xiang, un esperto cinese di relazioni internazionali, ha osservato che la visita è stata “la provocazione più seria” degli Stati Uniti da quando Biden è entrato in carica, e che la Cina “non resterà a guardare”. In precedenza, i media statali cinesi avevano avanzato minacce di guerra contro la presenza di aerei militari statunitensi a Taiwan. Ad agosto, alla notizia che un aereo spia della Marina USA poteva essere decollato da Taiwan, il Global Times – giornale controllato dal Partito Comunista cinese – aveva affermato che Taipei e Washington stavano “giocando con il fuoco”.

La risposta cinese non si è fatta attendere. Alcuni giorni dopo, nella prima metà di giugno, la Cina ha fatto volare 28 aerei da guerra nello spazio aereo controllato da Taiwan, la più grande sortita del suo genere da quando il governo taiwanese ha iniziato a pubblicare informazioni sulle frequenti incursioni lo scorso anno [7]. Il ministero della Difesa di Taiwan ha dichiarato di aver fatto decollare gli aerei, dispiegare sistemi di difesa missilistica e di aver emesso allarmi radio mentre gli aerei cinesi sono entrati nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan. L’incursione è arrivata un giorno dopo che i leader della NATO avevano espresso preoccupazione per la Cina come una crescente minaccia alla sicurezza. Il giorno prima, i leader del Gruppo dei Sette nazioni riuniti in Europa si erano impegnati a lavorare insieme contro le politiche economiche “non di mercato” della Cina e avevano criticato la Cina per i diritti umani. Il ministero degli Esteri cinese aveva condannato entrambe le dichiarazioni. L’amministrazione Biden ha promesso legami più stretti con Taiwan, anche se i due non hanno relazioni diplomatiche formali. Il Dipartimento di Stato ha esortato Pechino a cessare gli sforzi per intimidire l’isola e ad avviare invece il dialogo [7].

La Cina descrive tali voli come di routine. Grandi sortite hanno spesso seguito azioni di Taiwan o degli Stati Uniti che Pechino disapprova. Ad aprile, la Cina aveva inviato 25 aerei militari nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan dopo che il Dipartimento di Stato aveva affermato che stava rendendo più facile per i funzionari statunitensi incontrare i funzionari taiwanesi. Il numero totale di intrusioni, quest’anno, ha già superato le circa 380 che si sono avute in tutto il 2020 [52]. Ad aprile, le navi di Pechino hanno circumnavigato Taiwan con i gruppi d’attacco delle sue portaerei e hanno supportato le forze di terra e i marines in esercitazioni anfibie che simulavano un’invasione di Taiwan. Il 1° ottobre, giorno in cui la Cina ha celebrato la sua festa nazionale, Pechino ha inviato nello spazio aereo di Taiwan ben 38 aerei da guerra (seguiti da altri 39 il giorno dopo e nei due giorni successivi), con quelle che sono le più grandi incursioni mai registrate nei confronti dell’isola [10]. Il premier di Taiwan Su Tseng-chang ha subito commentato che la Cina “sta costruendo in modo disperato il suo potere militare e sta minando la pace regionale, compiendo atti di bullismo. È evidente che il mondo, la comunità internazionale, respinge con forza un simile comportamento da parte della Cina”. Il ministero della Difesa ha specificato che sono stati inviati messaggi radio e che il sistema di difesa anti missilistica è stato attivato. Tra gli aerei inviati da Pechino erano presenti anche dei cacciabombardieri H-6, in grado di trasportare armi nucleari.

La Cina sta andando davvero verso una possibile guerra nel Pacifico?

Come ha detto a giugno, davanti al Congresso americano, il presidente dei capi di stato maggiore congiunti, il generale Mark Milley [8], “la Cina vuole la capacità di invadere e tenere Taiwan entro i prossimi sei anni, ma potrebbe non volerlo fare a breve termine”. Milley ha affermato che la testimonianza al Congresso, a inizio anno, dell’ex comandante del comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti, l’ammiraglio Phil Davidson, e dell’attuale comandante John Aquilino, secondo cui la Cina si stava preparando a prendere Taiwan entro i prossimi sei anni, si basava sui commenti fatti dal leader cinese Xi Jinping all’Esercito Popolare di Liberazione. “È dunque una capacità”, ha spiegato Milley, “non un intento di attaccare o impadronirsi. La mia valutazione è una valutazione operativa. Hanno l’intento di attaccare o sequestrare l’isola nel breve termine, definito come il prossimo anno o due? La mia valutazione di ciò che ho visto in questo momento è no, ma potrebbe sempre cambiare. L’intento è qualcosa che potrebbe cambiare rapidamente. La difficoltà di un’invasione di Taiwan è ancora una grande barriera. Non lo vedo accadere di punto in bianco. Non c’è motivo per questo e il costo per la Cina supera di gran lunga il beneficio. Il presidente Xi ed i suoi militari fanno il calcolo e sanno che un’invasione – per conquistare un’isola così grande, con così tante persone e con le capacità difensive dei taiwanesi – sarebbe straordinariamente complicato e costoso”.

A marzo, l’ammiraglio Davidson aveva detto al Senato americano che la minaccia di un’invasione di Taiwan era accelerata [8]: “Temo che stiano accelerando le loro ambizioni di soppiantare gli Stati Uniti e il nostro ruolo di leadership nell’ordine internazionale basato su regole; da tempo affermano di volerlo fare entro il 2050. Sono preoccupato che spostino questo bersaglio più vicino. Taiwan è chiaramente una delle loro ambizioni prima di allora. E penso che la minaccia si manifesti durante questo decennio, anzi nei prossimi sei anni”. Sempre a marzo, l’ammiraglio Aquilino disse al Senato che la difesa di Taiwan era il più grande problema militare nella regione [8]: “La preoccupazione più pericolosa è quella di una forza militare contro Taiwan. Questo problema è molto più vicino a noi di quanto la maggior parte di voi pensi”. Intanto, la presentazione del budget per l’anno fiscale 2022 non conteneva fondi adeguati per la costruzione di navi per mantenere la flotta statunitense ai livelli numerici attuali, né denaro sufficiente per la cosiddetta “Pacific Deterrence Initiative”, lanciata l’anno prima proprio per contrastare la Cina e le crescenti minacce nel Pacifico. Inoltre, con appena un terzo della flotta di caccia F-122 realmente operativo e con i problemi legati agli aerei F-35, vari osservatori militari si domandano se gli Stati Uniti avrebbero una potenza di combattimento credibile – con le sole armi convenzionali – in un’eventuale crisi contro una potenza come la Cina, o anche solo nel caso in cui dovessero combattere un singolo aggressore alla pari [51].

Il fatto che le sorti del mondo siano oggi in mano a due persone piuttosto anziane – come il settantottenne Biden (ritenuto dai suoi stessi elettori “non mentalmente idoneo”) e il sessantottenne presidente cinese Xi Jinping (che aspira a rimanere al suo posto a vita, costi quel che costi) – non lascia del tutto tranquilli. Il discorso tenuto, il 1° luglio, al centenario del Partito Comunista Cinese (PCC) dal presidente Xi Jinping ha trasmesso la determinazione del suo regime in molti modi [9]: “Coloro che tentano di creare un cuneo tra il partito e la nazione cinese”, ha affermato, “incontreranno un grande muro d’acciaio forgiato da oltre 1,4 miliardi di cinesi”. Si è poi impegnato a rafforzare il controllo centrale sul partito, avvertendo coloro che si oppongono alla sua missione che saranno eliminati “come virus”. Ha elogiato il “coraggio di combattere e la forza d’animo per vincere” del partito, rendendo il Partito Comunista Cinese “invincibile”. Si è impegnato ad espandere e modernizzare l’Esercito di Liberazione Popolare (PLA) per difendere la “sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo” cinesi. Ha insinuato che Taiwan è una parte del territorio sovrano cinese, e qualsiasi sforzo verso l'”indipendenza di Taiwan”, quindi, sarà ostacolato con forza. Ad alcuni sono sembrate le dichiarazioni di un leader che prepara il suo paese al conflitto.

Joe Biden sta diventando il presidente più imbarazzante della storia degli Stati Uniti fra gaffe, vuoti di memoria, discorsi senza senso, come si è visto quest’estate in occasione di eventi internazionali. Nonostante ciò, è accompagnato dalla valigetta contenente i codici che il presidente degli Stati Uniti userebbe per autenticare un ordine di lancio di missili nucleari quando non è alla Casa Bianca. Sebbene qualsiasi presidente presumibilmente si consulterebbe con dei consiglieri prima di ordinare un attacco nucleare, non vi è alcun obbligo di farlo, e l’attacco avverrebbe nel giro di pochi minuti dalla decisione.

Xi Jinping, nel discorso del centenario, ha insistito sul fatto che “risolvere la questione di Taiwan e realizzare la sua completa riunificazione con la madrepatria sono i compiti storici incrollabili del Partito Comunista Cinese e l’aspirazione comune di tutto il popolo cinese” [52]. Inoltre, se per raggiungere questo obiettivo inizia un conflitto, Xi sa che la linea rossa taiwanese degli Stati Uniti, anche se a volte sfocata e fugace, probabilmente esiste ancora. L’intervento americano potrebbe portare con sé Giappone, Australia, probabilmente Corea del Sud, Filippine e Vietnam, e forse perfino la NATO, con il rischio di una escalation che potrebbe portare all’impiego di armi di distruzione di massa. Secondo alcuni, Xi comprende che un conflitto regionale è probabile, e un conflitto globale possibile, se la Cina attacca Taiwan; da qui, forse, un certo “candore” del suo discorso. Al tempo stesso, “l’Esercito Popolare di Liberazione Cinese (PLA) può espellere, sparare colpi di avvertimento o persino abbattere aerei militari stranieri che sconfinano nello spazio aereo cinese”, hanno avvertito gli osservatori militari cinesi a metà luglio, dopo che un secondo aereo dell’aeronautica statunitense (un C-146A) è atterrato sull’isola di Taiwan in meno di due mesi (il primo era stato quello dei senatori per i vaccini) senza chiedere il permesso del governo cinese [12]. Ciò ha innescato risposte severe da parte del Ministero della Difesa cinese, il quale ha dichiarato che “qualsiasi intrusione di navi o aerei stranieri nello spazio aereo o nelle acque territoriali cinesi comporterà gravi conseguenze”, ed ha avvertito gli Stati Uniti, per l’ennesima volta, di smettere di “giocare con il fuoco”.

Ad altri osservatori, come il prof. Michele Marsonet [47], il discorso di Xi Jinping per il centenario ha ricordato “il celebre discorso in cui Benito Mussolini definì l’Italia ‘una nazione di proletari, armati di 8 milioni di baionette’, pronti a combattere contro i carri armati delle plutocrazie, e pure contro quelli russi. A ben guardare, il Duce nutriva davvero ambizioni belliche, come la sua politica successiva dimostrò ampiamente”. La presa militare di Taiwan potrebbe essere dunque la prossima tappa, dopo la forzata “normalizzazione” di Hong Kong con leggi speciali, repressioni e l’introduzione di una pesante censura [48, 49]. “I servizi segreti americani e britannici”, spiega Marsonet, “hanno chiarito ai rispettivi governi che Pechino ha già elaborato dettagliati piani d’invasione, nei quali marina, aviazione e forze da sbarco anfibie sono destinate a giocare un ruolo cruciale. Ciò che resta da capire è sino a che punto USA, Regno Unito e Giappone siano disposti a correre in difesa di Taiwan qualora lo scenario teorico dianzi delineato diventasse realtà. Parimenti, occorre appurare sino a che punto la Repubblica Popolare sia davvero pronta a innescare un conflitto che ben difficilmente resterebbe circoscritto alla sola Taiwan. Molto dipende, ovviamente, dall’atteggiamento di Joe Biden. Gli USA sono gli unici a poter davvero contrastare l’eventuale invasione, pur con un supporto più limitato di britannici e giapponesi. Pechino ha il vantaggio della grande vicinanza all’isola, mentre gli alleati occidentali dovrebbero agire da distanza ben maggiore”.

Le notizie degli ultimi giorni, purtroppo, non contribuiscono a ridurre la minaccia. Infatti, da una parte Biden, dopo la 4 giorni di incursioni aeree cinesi su Taiwan, ha cercato di stemperare i toni (pur avendo i militari USA, in questi mesi, aumentato l’attività di addestramento a Taiwan [61]), dichiarando ai giornalisti “ho parlato con Xi di Taiwan. Siamo concordi, ci atterremo all’accordo di Taiwan. Abbiamo chiarito che non si dovrebbe fare altro che rispettare l’accordo” [59]. Dall’altra parte, subito dopo Xi Jinping gli ha risposto, alle celebrazioni per i 110 anni dalla Rivoluzione del 1911, “Taiwan è una questione interna alla Cina e non ammette interferenze esterne. Il secessionismo di Taiwan è il più grande ostacolo alla riunificazione nazionale, una seria minaccia al ringiovanimento nazionale”, assicurando con toni perentori che “la riunificazione completa del nostro Paese ci sarà e potrà essere realizzata [..] I compatrioti su entrambi i lati dello Stretto di Taiwan dovrebbero stare dalla parte giusta della storia e unire le mani per ottenere la completa riunificazione della Cina e il ringiovanimento della nazione cinese, ma coloro che dimenticano la loro eredità, tradiscono la loro madrepatria e cercano di dividere il paese, non avranno una buona fine”. “Nessuno dovrebbe sottovalutare la determinazione, la volontà e la capacità del popolo cinese nel salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale”, ha infine messo in guardia il presidente [60].

Insomma, Pechino considera Taiwan come una provincia cinese ribelle ed è pronta a riunificarla a sé anche con l’uso della forza, se necessario. Dalla salita al potere della presidente Tsai Ing-wen, la Cina ha intensificato la pressione militare e politica su Taipei, che, al contrario, ha rafforzato la sua convinzione di essere un Paese indipendente, libero e democratico. Le incursioni aeree sull’isola sono, per il momento, realizzate per “proteggere la sua sovranità” e per contrastare la “collusione” tra Taiwan e gli Stati Uniti. “La Cina sarà in grado di organizzare un’invasione su vasta scala di Taiwan entro il 2025”. Lo ha affermato nei giorni scorsi il ministro della Difesa dell’isola Chiu Kuo-cheng [41]. E l’establishment cinese, da parte sua, ha avvisato che, “se ci saranno truppe americane sull’isola di Taiwan, le schiacceremo con la forza”. Infatti, rispondendo a un tweet del senatore repubblicano John Cornyn, che ad agosto, per errore, aveva scritto che gli USA hanno 30.000 soldati a Taiwan (in realtà, oggi i militari USA nell’isola sono poche decine di istruttori), il cinese Global Times ha ammonito sul fatto che [11] “le truppe di stazionamento statunitensi nell’isola di Taiwan violano gravemente gli accordi firmati quando Cina e Stati Uniti hanno stabilito le loro relazioni diplomatiche, nonché tutti i documenti politici tra i due paesi. Sono anche in contrasto critico con il diritto internazionale e persino con il diritto interno degli Stati Uniti. Equivalgono a un’invasione e occupazione militare della provincia cinese di Taiwan. Sono un atto di dichiarazione di guerra alla Repubblica popolare cinese”. Con queste premesse, chi tocca Taipei si scotta.

Sullo sfondo, vi è inoltre l’aspra guerra commerciale in atto fra Stati Uniti e Cina, iniziata sotto la presidenza Trump con la famosa “guerra dei dazi” ed il ritiro delle licenze a Huawei (scomparsa così da Android e dai servizi Google) e proseguita con le accuse pubbliche del tycoon al Paese asiatico “di aver rubato la proprietà intellettuale statunitense a un tasso di centinaia di miliardi di dollari all’anno”, condita dall’invito alle aziende americane “a tornare a casa” [45]. Ed in effetti, come osservava a luglio Il Sole 24 Ore [44], “nell’intercertezza generale che caratterizza i rapporti attuali tra le due prime potenze mondiali, è cominciata una vera e propria fuga delle multinazionali dalla Cina. Le multinazionali che hanno già deciso di lasciare la Cina sono più di 50. L’elenco è lungo. Ad esempio Apple, una delle società simbolo americane, ha cominciato a produrre i suoi auricolari wireless AirPods in Vietnam e sta per avviare l’assemblaggio degli ultimi modelli di iPhone in India”. Stessa cosa, peraltro, stanno facendo molti colossi giapponesi (Sharp, Nintendo, Kyocera, etc.), trasferendo in Filippine e Vietnam i siti produttivi. Con Biden, la guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina non ha cambiato rotta, ma si è trasformata in una sorta di “guerra fredda” spinta da ideologie diverse, una battaglia fra democrazia e autocrazia [46]: egli ha finora amplificato le politiche del suo predecessore rafforzando le alleanze anti-cinesi e implementando ulteriori sanzioni, per cui le relazioni bilaterali fra i due Paesi sono al loro minimo.

Le altre dispute della Cina nel Pacifico e gli attriti al confine con l’India

Ma se in questi ultimi due anni la forza aerea cinese ha violato la zona di difesa aerea di Taiwan più volte di quanto mai registrato prima del 2020, con un marcato aumento in sortite simili, i rischi di una guerra regionale – o addirittura globale – non sono legati solo alle mire verso quest’isola. Nel 2020, infatti, la Cina è stata coinvolta in una serie di litigi [50], alcuni dei quali hanno provocato la morte di 20 soldati nel caso della disputa sul confine del Kashmir tra Pechino e l’India, paese (come USA e Cina) dotato di un fornito arsenale nucleare e di missili balistici, ed ora orientato a schierarsi con gli Stati Uniti proprio per le acuite tensioni con Pechino. È stata anche coinvolta in controversie con il Giappone, l’Australia e molti dei paesi che circondano il Mar Cinese Meridionale, come ora accenneremo brevemente. Laddove una volta il Partito Comunista Cinese evitava molteplici coinvolgimenti con i suoi vicini, la nuova politica del Dragone sembra essere un riflesso della posizione molto più aggressiva del presidente cinese Xi Jinping, con tutto ciò che potenzialmente ne potrebbe conseguire, volutamente o per errori di valutazione.

Nella primavera del 2010, i funzionari cinesi hanno comunicato agli omologhi funzionari statunitensi che il Mar Cinese Meridionale era “un’area di ‘interesse principale’ non negoziabile” e alla pari con Taiwan e il Tibet nell’agenda nazionale [14]. Nel 2013, la Cina ha iniziato a costruire isole artificiali nelle Isole Spratly e nella regione delle Isole Paracel. In realtà, la costruzione di isole nel Mar Cinese Meridionale, principalmente da parte del Vietnam e delle Filippine, va avanti da decenni. Sebbene la Cina sia arrivata tardi al “gioco della costruzione dell’isola”, i suoi sforzi sono stati tuttavia su una scala senza precedenti, poiché dal 2014 al 2016 ha costruito più nuova superficie in isole di quanto tutte le altre nazioni abbiano costruito nel corso della storia; e dal 2016 ha posizionato attrezzature militari su una delle sue isole artificiali, a differenza degli altri pretendenti [14]. Dal 2015, gli Stati Uniti e altri stati come la Francia e il Regno Unito hanno condotto operazioni di  libertà della navigazione nella regione. Il presidente Donald J. Trump aveva sottolineato l’importanza di tali operazioni e di garantire un accesso libero e aperto al Mar Cinese Meridionale, rafforzando il sostegno ai partner del sud-est asiatico. Anche in risposta alla presenza decisa della Cina nel territorio conteso, il Giappone ha venduto navi militari e attrezzature alle Filippine e al Vietnam per migliorare la loro capacità di sicurezza marittima e per scoraggiare l’aggressione cinese.

Le isole Spratly e le isole Paracel, due delle zone del Mar Cinese Meridionale – ricco di risorse energetiche sottomarine (petrolio e gas) – dove la Cina sta costruendo delle isole artificiali.

Le vaste rivendicazioni di sovranità della Cina sul mare – e gli 11 miliardi di barili stimati di petrolio non sfruttato ed i 4 trilioni di metri cubi di gas naturale – hanno antagonizzato i pretendenti concorrenti: Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam [15]. Già negli anni ’70, i vari paesi hanno iniziato a rivendicare isole e varie zone nel Mar Cinese Meridionale, come le Isole Spratly, che possiedono ricche risorse naturali e aree di pesca. Le tensioni tra la Cina e le Filippine si sono recentemente riaccese, anche a seguito di esercitazioni congiunte con gli USA. Nel luglio 2016, la Corte permanente di arbitrato dell’Aia ha emesso la sua sentenza su un ricorso presentato contro la Cina dalle Filippine nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), pronunciandosi a favore delle Filippine su quasi tutti i fronti. Sebbene la Cina sia firmataria del trattato internazionale che ha istituito il tribunale, rifiuta tuttavia di accettare l’autorità della corte [15]. Negli ultimi anni, oltre ad accumulare sabbia sulle barriere coralline esistenti aumentando fisicamente le dimensioni delle isole o creando del tutto nuove isole, la Cina ha costruito porti, installazioni militari e piste di atterraggio, in particolare nelle già citate isole Paracel e Spratly, dove ha ora, rispettivamente, venti e sette avamposti. La Cina, inoltre, ha militarizzato Woody Island, schierando aerei da combattimento, missili da crociera e un sistema radar.

Gli Stati Uniti, che mantengono importanti interessi nell’assicurare la libertà di navigazione e nel garantire le linee marittime di comunicazione (SLOC), hanno espresso sostegno per un accordo su un codice di condotta vincolante e altre misure di rafforzamento della fiducia [15]. Le affermazioni della Cina minacciano gli SLOC, importanti passaggi marittimi che facilitano il commercio e il movimento delle forze navali. Gli Stati Uniti hanno un ruolo importante nella prevenzione dell’escalation militare derivante dalla disputa territoriale. Il trattato di difesa di Washington con Manila potrebbe trascinare gli Stati Uniti in un potenziale conflitto tra Cina e Filippine per i notevoli giacimenti di gas naturale o le lucrose zone di pesca nel territorio conteso. L’incapacità dei leader cinesi e del sud-est asiatico di risolvere le controversie con mezzi diplomatici potrebbe anche minare le leggi internazionali che disciplinano le controversie marittime e incoraggiare l’accumulo di armi destabilizzanti. A settembre, l’amministrazione Biden ha annunciato che gli Stati Uniti e il Regno Unito aiuteranno l’Australia a schierare sottomarini a propulsione nucleare, che potrebbero consentire all’Australia di pattugliare parti del Mar Cinese Meridionale, rendendo questo Paese il settimo al mondo a possedere questo tipo di armamento [15, 22]. Si noti che non riuscire a impedire a Pechino di impossessarsi di Taiwan o di completare il suo dominio sul Mar Cinese Meridionale rischierebbe di far retrocedere gli Stati Uniti a potenza militare di secondo livello nel Pacifico Occidentale.

Quest’anno, gli Stati Uniti hanno inviato il gruppo d’attacco della portaerei USS Ronald Reagan nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale per ben due volte. Ma è interessante fare un breve riassunto cronologico [15] delle tensioni “marittime” che hanno riguardato, negli ultimi mesi, Cina da una parte e Filippine e Stati Uniti dall’altra. Il 5 aprile le Filippine hanno protestato per le centinaia di barche cinesi nel sud della Cina. Il 12 aprile gli Stati Uniti hanno messo in guardia la Cina dall’aggressione verso le Filippine. Il portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti Ned Price ha affermato che un attacco alle Filippine “innescherà” gli obblighi degli Stati Uniti nell’ambito di un trattato di difesa comune. Il 4 maggio le Filippine e gli Stati Uniti hanno dato il via a due settimane di esercitazioni militari tra le crescenti tensioni tra Filippine e Cina sul Mar Cinese Meridionale. Il 12 luglio la Cina ha protestato contro le attività navali statunitensi nel Mar Cinese Meridionale, la sua seconda denuncia in due giorni: la Cina ha affermato che il cacciatorpediniere missilistico USS Curtis Wilbur è entrato illegalmente nelle sue acque intorno alle contese Isole Paracel. Il 3 agosto la storia si ripete con un’altra nave USA e Pechino ha esortato le forze armate statunitensi a fermare tali “provocazioni”. La settima flotta USA risponde che la nave ha condotto un’operazione per la libertà di navigazione, in conformità con il diritto internazionale [15].

Ma il problema vero è ora l’ambiguità strategica degli Stati Uniti, evidente soprattutto sulla questione di Taiwan [62]: le posizioni volutamente ambigue di Biden sul tema, come sottolinea Lorenzo Vita su InsideOver [59], “non stanno consentendo al Dragone di sapere con certezza se gli americani scenderebbero mai in campo per difendere Taiwan da un’ipotetica invasione dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese. Per decenni, la cosiddetta Dottrina dell’ambiguità strategica adottata dagli USA ha funzionato alla grande. Adesso Biden è chiamato a un sostanziale cambio di passo, visto che i rapporti di forza nell’area indo-pacifica stanno cambiando a velocità folle. Fin qui, gli Stati Uniti sapevano di essere tecnologicamente e militarmente più avanzati rispetto alla Cina. Dunque, l’adozione dell’ambiguità strategica su Taiwan consentiva a Washington di congelare una situazione spinosa e, al tempo stesso, di mantenere le relazioni commerciali con Pechino. Nei decenni passati il Dragone non avrebbe mai osato superare la linea rossa, con il rischio di ritrovarsi i cannoni delle navi USA puntati addosso. Ora la situazione è completamente capovolta. Gli Stati Uniti si mostrano vicinissimi a Taiwan, senza però dire esplicitamente di esser disposti a intraprendere azioni belliche per difendere l’alleato. Tutto ciò non basta più, perché la Cina, consapevole dei propri mezzi bellici, è ora disposta a scoprire le carte americane e correre il rischio di un conflitto armato”. Con il rischio di una escalation che potrebbe portare a uno scambio nucleare.

Occorre poi segnalare le tensioni fra Cina e Giappone per le contese Isole Senkaku, che si trovano nel Mar Cinese Orientale tra il Giappone, la Repubblica Popolare Cinese e Taiwan. Esse sono state di proprietà privata di una serie di cittadini giapponesi per la maggior parte degli ultimi 120 anni. Il 24 gennaio 2021 il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin ha riaffermato l’impegno dell’America a difendere le isole Senkaku, che è previsto dall’articolo 5 del Trattato di Sicurezza USA-Giappone [16]. Gli USA si oppongono anche a qualsiasi tentativo unilaterale di cambiare lo status quo nel Mar Cinese Orientale. Sebbene Taiwan e la Cina abbiano rivendicato pubblicamente le isole per la prima volta nel 1971, non ci sono stati incidenti di rilievo fra i tre stati riguardo alle isole fino agli anni ’90. Dal 2004, tuttavia, diversi eventi, tra cui scontri navali, aerei da combattimento, sforzi diplomatici e massicce proteste pubbliche, hanno aggravato la disputa. Le tensioni Cina-Giappone continuano ad aumentare poiché entrambi i paesi migliorano le loro capacità militari (in particolare i loro sistemi radar e missilistici) nella regione. Tuttavia, sebbene il Ministero della Difesa giapponese abbia riferito che il numero di volte in cui l’esercito giapponese ha dovuto far decollare i jet in risposta alle incursioni aeree cinesi è diminuito del 41% nel 2017, il numero è aumentato nel 2018 e nel 2019 [17]. Un incidente militare accidentale o un errore di calcolo politico da parte della Cina o del Giappone potrebbero dunque coinvolgere gli Stati Uniti in ostilità armate con la Cina.

In ultimo, ma non meno importanti, ci sono le tensioni con l’India. Infatti, a oltre un anno dal sanguinoso scontro al confine tra India e Cina del giugno 2020, le due parti rimangono in una situazione di stallo e la linea sfocata di controllo effettivo (LAC) che segna il loro confine himalayano è più militarizzata che forse in qualsiasi momento dai tempi della guerra sino-indiana del 1962. I rapporti indicano che circa un quarto di milione di soldati sono di stanza vicino al confine, principalmente dalla parte indiana, ma entrambe le parti hanno aumentato gli schieramenti nell’ultimo anno [18]. L’India ha ora circa 200.000 truppe concentrate sul confine, che è un aumento di oltre il 40% rispetto allo scorso anno e un aumento di 50.000 negli ultimi mesi. La Cina, da parte sua, ha gradualmente aumentato la sua presenza di truppe, per lo più negli ultimi mesi, ad almeno 50.000, da circa 15.000 dell’estate dello scorso anno, secondo l’intelligence indiana e funzionari militari. E ricercatori del James Martin Center for Nonproliferation Studies hanno studiato le immagini satellitari per scoprire “più di 100 nuovi silos per missili balistici intercontinentali in un deserto vicino alla città nord-occidentale di Yumen” [18], il che segnala un’importante espansione delle capacità nucleari di Pechino, preoccupante se si considera che pure l’India ha un arsenale nucleare.

I rischi latenti fra strategie geopolitiche, “fame” di risorse energetiche e Covid-19

Insomma, anche a livello geopolitico e militare la situazione cinese è gravida di grandi potenziali pericoli che in Europa sembrano essere largamente sottovalutati dai media generalisti, forse distratti dalla pandemia. USA, Giappone, Australia e India sono tutti legati alla Cina da rivalità storiche e attriti contingenti. A luglio, un alto funzionario della difesa degli Stati Uniti – il contrammiraglio Mike Studeman, il massimo ufficiale dell’intelligence per il comando dell’Asia orientale – in una conferenza ripresa anche dal Washington Times [13] ha emesso un duro avvertimento sulle intenzioni cinesi in Asia e oltre, affermando che la crescente potenza militare di Pechino ha aumentato il rischio di scatenare una guerra contro uno stato vicino, in particolare Taiwan. Ha inoltre detto che l’attuale situazione di stallo degli Stati Uniti con Pechino potrebbe essere riassunta in due parole usate dal generale Douglas McArthur nel discutere il fallimento nell’evitare la Seconda guerra mondiale: “Troppo tardi. Troppo tardi per comprendere lo scopo mortale di un potenziale nemico. Troppo tardi per rendersi conto del pericolo mortale. Troppo tardi nella preparazione. Troppo tardi per unire tutte le forze possibili per la resistenza”. Ha inoltre affermato che le forze militari statunitensi stanno rafforzando armi e attrezzature per quando potrebbe scoppiare un conflitto nella regione nei confronti di Taiwan o di un altro Alleato o partner americano.

In questi giorni l’esercito USA sta dispiegando nella sua base sull’isola di Guam, nel Pacifico, due batterie del sistema israeliano “Iron dome” di difesa anti-aereo e anti-missile come deterrente per eventuali attacchi cinesi [57]. Nel frattempo, il 7 ottobre il “Connecticut”, un sommergibile nucleare d’attacco statunitense della classe Seawolf (come quello in figura), mentre navigava in immersione nel Mare Cinese Meridionale (acque in cui la Cina rivendica la quasi totale sovranità), ha avuto una collisione contro un misterioso “oggetto non identificato” (si esclude un altro sottomarino) ed undici membri dell’equipaggio sono rimasti feriti [58]. Sono in corso delle indagini per capire l’accaduto. (fonte: U.S. Department of Defense)

D’altra parte, gli Stati Uniti hanno anche un altro problema. Come scrive Roberto Vivaldelli [19], “‘Joe Biden è un politico ritenuto non all’altezza ed adeguatamente preparato per guidare la superpotenza USA’. Ad affermarlo non un nemico qualunque di Washington ma per tanti anni l’uomo più ricercato d’America, Osama Bin Laden, in una lettera datata maggio 2010 diffusa dalla stampa americana, quando Biden era vicepresidente degli Stati Uniti”. In effetti, la disastrosa ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan sta costando caro al Presidente USA in termini di consenso e credibilità: per la prima volta l’inquilino della Casa Bianca è seriamente messo in discussione dall’opinione pubblica in maniera bipartisan, compresa quella democratica e progressista. Ma questo potrebbe essere solo l’inizio. Nel frattempo, Giappone e Australia, potenze regionali, sono accomunate dal problema di contenere l’aggressiva politica cinese. Non a caso, quest’estate l’ambasciatore del Giappone ha invitato il governo australiano a prendere in considerazione esercitazioni militari congiunte nel Mar Cinese Orientale [20]. E anche l’Australia non è stata con le mani in mano, dato che a metà settembre ha annunciato, insieme a Stati Uniti e Regno Unito, la nascita di un patto militare Australia-USA-UK (Aukus), volto a limitare la potenza cinese nell’area indo-pacifica [22].

Come spiegato di recente da Manuel Pietrobon – sintetizzo un po’ il suo articolo [21] – “gli Stati Uniti si trovano in quella sterminata regione biogeografica che è l’Indo-Pacifico per ottemperare ad un imperativo strategico: impedire alle potenze dell’Eurasia di scardinare il sistema degli stretti costruito dalla Compagnie delle Indie Orientali di Sua Maestà durante l’epoca del cosiddetto imperialismo del libero commercio. La sopravvivenza di Taiwan e lo status del Mar Cinese Meridionale sono dunque fondamentali nel quadro del contenimento della Repubblica Popolare Cinese in una condizione terrestre, la lotta alla transizione multipolare e il boicottaggio del secolo asiatico. E come gli Stati Uniti intendono affrontare ognuno dei succitati fascicoli è noto: ricorrere alla collaudata ‘strategia della catena di isole’ (Island Chain Strategy), concepita dall’ex Segretario di Stato USA John Foster Dulles agli albori della guerra fredda, più precisamente nel contesto della guerra di Corea. Dulles credeva che il potenziale destabilizzativo di un’alleanza sino-sovietica in chiave antiamericana, se non azzerato completamente, potesse essere ridotto in maniera critica stabilendo una catena contenitiva nel Pacifico occidentale. Senza conoscere questa strategia, non si potrebbero comprendere la centralità di Taiwan per gli Stati Uniti e il rafforzamento del dispositivo militare americano nelle acque del Mar Cinese Meridionale”.

La Cina, da parte sua, è mossa pure dall’interesse per le risorse di quell’area: gas e petrolio. Del resto, con i costi di produzione in aumento, i produttori di energia cinesi stanno già facendo pressioni sul governo per consentire l’impensabile: lasciare che i consumatori sostengano i costi [29]. Fino a due anni fa, il governo consentiva ai produttori di energia di aumentare le tariffe elettriche di appena il 10% per tenere conto di un improvviso aumento dei costi operativi. Ma, nell’ottobre 2019, il pianificatore statale cinese – ovvero la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (NDRC) – ha ordinato il congelamento degli aumenti dei tassi e non ha fissato una data di fine per la politica. Ad agosto, 11 produttori di energia nel nord della Cina hanno presentato una petizione al governo per consentire agli operatori di rete di aumentare i prezzi per gli utenti finali. Se i costi alle stelle non possono essere trasferiti agli utenti, hanno avvertito i produttori di energia, quelle 11 società rischiano il fallimento. Secondo alcuni, “se vuoi avere un approccio alla decarbonizzazione guidato dal mercato devi esporre gli utenti finali al vero costo dell’energia”. Ma ciò in realtà è falso, perché i maggiori costi sostenuti dai consumatori finali riflettono semplicemente gli aumenti dei prezzi della materia prima, per cui né ripagano i danni prodotti dall’inquinamento delle centrali né, tanto meno, finanziano la transizione verso fonti di energia rinnovabili e/o più pulite.

La sfida, per Pechino, sarà dunque ridurre al minimo l’interruzione delle forniture elettriche costringendo la sua gente, in qualche modo, a finanziare il cambiamento. Insomma i problemi cinesi, anche in questo ambito, non sono molto diversi da quelli che angustiano i Paesi occidentali, Italia in primis (avendo il nostro Paese, già in epoca pre-Covid, sostanzialmente i costi dell’energia più alti fra i Paesi dell’UE). Fra l’altro, si potrebbe pensare che in Cina il Covid abbia impattato poco, dato che il lockdown interessò una regione relativamente piccola del Paese e che la circolazione virale fu rapidamente soffocata, ma non è così. La chiusura economica in risposta all’epidemia di Covid-19 ha lasciato il suo impatto drammatico e senza precedenti sull’intera economia cinese, non ultime le sue piccole e medie imprese (PMI), le quali, rappresentando la parte del leone del Pil e dell’occupazione, sono cruciali per la stabilità della Cina. Nel primo trimestre del 2020, il prodotto interno lordo (Pil) cinese si è contratto del 6,8%. Era la prima volta che la Cina registrava una crescita negativa dal 1976. Xi Jinping dichiarò quindi di voler aumentare il sostegno alle grandi imprese statali, ma nel frattempo molte delle PMI cinesi stavano cedendo alla pressione (fra l’altro, a marzo 2020, oltre il 95% delle aziende più grandi aveva ripreso le operazioni, ma delle PMI solo il 60%). Per questo, Pechino ha poi messo anche il sostegno delle PMI in cima all’agenda, rendendolo un punto focale nella sua battaglia contro i danni economici causati dall’epidemia di Covid-19 [38].

Il Governo cinese, molto meglio di quello italiano, ha capito che, se le PMI vengono lasciate fallire, l’effetto sul tessuto economico e sociale potrebbe essere diffuso e grave. Infatti, a differenza dei grandi gruppi o conglomerati con ampie riserve di liquidità, linee di credito e sostegno del governo come protezione, le PMI hanno poco riparo dalla tempesta. L’importanza di una rapida ripresa per i piccoli imprenditori cinesi non può essere sopravvalutata. Le PMI in Cina rappresentano l’80% dei posti di lavoro dipendente, il 60% del Pil e circa la metà del gettito fiscale nazionale. Sono motori vitali dell’economia cinese, popolano la classe media e guidano la transizione del paese verso una crescita basata sui consumi. Liquidazioni su larga scala minaccerebbero non solo la performance economica complessiva del paese, ma anche la sua stabilità sociale [38]. Siamo sicuri che il Governo italiano sia conscio del fatto che un rischio simile lo sta correndo anche l’Italia, da una parte per l’“onda lunga” dei lockdown totali e di quelli “a colori” e, dall’altra, per l’introduzione del green pass obbligatorio nel mondo del lavoro? La mia sensazione è che si stia pure da noi scherzando con il fuoco, e – sostanzialmente – improvvisando, senza nemmeno fare uno straccio di previsioni su quale sarà l’impatto concreto di queste misure sui generis sulle imprese, sulle famiglie e sul Pil. Non dico che occorra essere pragmatici come i Governi inglese e cinese, ma almeno non essere “ciechi”!

Il peso delle PMI nell’economia cinese ed in quella italiana a confronto. In entrambi i casi, si tratta di un peso assai rilevante. Nel 2017 le PMI italiane hanno fatturato 886 miliardi (pari al 51% del Pil di quell’anno) e impiegavano 4,1 milioni di lavoratori (2,2 lavoravano in aziende piccole e 1,9 in aziende di medie dimensioni), pari al 77% dei lavoratori dipendenti italiani (che nel 2017 erano circa 5,3 milioni).

In conclusione, risulta evidente come, a parte le questioni geopolitiche che ho cercato di evidenziare, all’origine dei principali problemi di due Paesi così lontani come Cina e Italia vi siano, da una parte, il Covid con l’impatto dei suoi prolungati lockdown e le tante “magagne” da nascondere (compresa quella dell’origine del virus) e, dall’altra, la carenza di risorse energetiche, che non pare essere un problema di soluzione né facile né, tanto meno, immediata. Se si considera che siamo solo all’inizio del periodo invernale e che la dinamica dei prezzi delle materie prime difficilmente potrà essere invertita – a meno che non si verifichi, nel frattempo, qualche “cigno nero” non certo auspicabile – si può capire come sia fondamentale comprendere a fondo le cause che ci hanno portato in questa situazione ed iniziare, al tempo stesso, a considerare delle soluzioni “serie” (non limitandosi a “pannicelli caldi”, come l’aver annullato temporaneamente, fino al 31 dicembre, gli “oneri generali di sistema” e l’aver potenziato il “bonus sociale” per le famiglie povere [55]). L’Asia, infatti, è un’area del mondo che divorerà sempre più energia, essendo diventata con la globalizzazione il cuore produttivo del mondo. E l’energia elettrica è vitale, per una civiltà tecnologica e complessa come la nostra, un po’ come il sangue lo è per una persona; se questa è insufficiente, per qualsiasi motivo, oppure troppo costosa per essere usata, la civiltà stessa – esattamente come nel caso di una persona che ha un’emorragia o una ferita seria – rischia. E moltissimo.

Riferimenti bibliografici

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[2]  Carpenter P., “Australia-China Trade War And Its Implications”, Intuition, 13 aprile 2021.

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[10]  “Cina, l’accusa di Taiwan: «Ha inviato nei nostri cieli 38 aerei dacaccia». La più grande incursione mai registrata”, Il Messaggero, 2 ottobre 2021.

[11]  “If there are US troops present on Taiwan island, China will crush them by force: Global Times editorial”, Global Times, 17 agosto 2021.

[12]  “US, DPP warned as military aircraft lands in Taipei”, Global Times, 15 luglio 2021.

[13]  Zhao W., “US Pacific intel chief warns of likely Chinese military attack against Taiwan”, i24News, 12 luglio 2021.

[14]  “Territorial disputes in the South China Sea”, Wikipedia, 2 ottobre 2021.

[15]  Council on Foreign Relations, “Territorial Disputes in the South China Sea”, Global Conflict Tracker, 1° ottobre 2021.

[16]  “Senkaku Islands dispute”, Wikipedia, 2 ottobre 2021.

[17]  Council on Foreign Relations, “Tensions in the East China Sea”, Global Conflict Tracker, , 1° ottobre 2021.

[18]  Niewenhuis L., “China beefs up military position with more Indian border units, desert missile silos, navy forces”, SupChina, 2 luglio 2021.

[19]  Vivaldelli R., “Joe Biden? Totalmente impreparato, parola di Bin Laden”, InsideOver, 22 agosto 2021.

[20]  Hurst D., “‘We are in the same boat’: Japan urges Australia to join forces to address challenge of China”, The Guardian, 21 luglio 2021.

[21]  Pietrobon M., “Nella mente degli Stati Uniti: l’Indo-Pacifico e la catena di isole”, InsideOver, 1° ottobre 2021.

[22]  “Aukus, il nuovo patto militare Australia-USA-UK spaventa la comunità internazionale: ‘Rischio proliferazione nucleare incontrollata’”, Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2021.

[23]  Hoskins P., “China: What is Evergrande and is it too big to fail?”, BBC News, 30 settembre 2021.

[24]  Dimaggio S., “Evergrande è praticamente al default. L’immobiliare mondiale trema”, I love trading, 2 ottobre 2021.

[25]  Marsonet M., “Dopo il Covid un’altra minaccia dalla Cina: la bolla immobiliare spaventa i mercati e il Partito comunista”, Atlantico Quotidiano, 25 settembre 2021.

[26]  Muratore A., “La ‘bomba’ Evergrande pronta ad esplodere?”, InsideOver, 23 settembre 2021.

[27]  Rodio G., “Ma che Evergrande, la tempesta perfetta Cinese arriva da Energy & Gas”, Wall Street Italia, 28 settembre 2021.

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[32]  Menichella M., “Il “boom” dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la “tempesta perfetta”, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[33]  “Obbligo green pass al lavoro, attenzione: piccole imprese rischiano lo stop”, La Voce Apuana, 27 settembre 2021.

[34]  Canessa F., “Green pass, allarme camionisti: ‘Il 25% non è vaccinato, a Genova possibili blocchi a oltranza’”, Genova24, 2 ottobre 2021.

[35]  Savelli F., “Chip, perché non ce ne sono più? Le ragioni della crisi (e gli effetti su di noi)”, Il Corriere della Sera, 7 settembre 2021.

[36]  Itlab Srl, “Boom degli e-commerce e delle vendite online.Come sono cambiati gli acquisti online durante Covid-19”, Ansa.it, 25 gennaio 2021.

[37]  Valentini C., “Il 40% non paga le bollette”, Italia Oggi, 3 novembre 2020.

[38]  Holzmann A. & Karbflet M., “Supporting China’s SMEs affected by Covid-19 is crucial to avoid a socioeconomic disaster”, Mercator Institute for China Studies, 12 maggio 2020.

[39]  “Coronavirus fuggito dal laboratorio, Usa e Cina trovano l’accordo sulla exit strategy: ‘Pechino ammetterà l’errore’”, Tgcom24, 19 luglio 2021.

[40]  Cottarelli C. et al., “Che fine ha fatto la liquidità immessa dalle banche centrali?”, Osservatorio Conti Pubblici Italiani, 14 luglio 2020.

[41]  “Taiwan: ‘La Cina pronta a invaderci entro il 2025’. Biden cita il rispetto di un ‘imprecisato’ accordo con Xi”, La Stampa, 6 ottobre 2021.

[42]  Lupis M., “Il gigante Cina ha fame di energia e rallenta”, Huffington Post, 28 settembre 2021.

[43]  Westcott B., “China’s ‘political pressure’ on Australian economy isn’t working, treasurer says”, CNN Business, 6 settembre 2021.

[44]  Baarlam R., “Cina, la grande fuga delle multinazionali dai dazi americani”, Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2019.

[45]  “Trump: la Cina ruba la nostra proprietà intellettuale, imprese USA tornino a casa”, HDBlog.it, 25 agosto 2019.

[46]  Huang Y., “The U.S.-China Trade War Has Become a Cold War”, Carnegie Endowment for International Peace, 16 settembre 2021.

[47]  Marsonet M., “L’ora di Taiwan? Pechino minaccia l’opzione militare. L’Occidente la difenderebbe?”, Atlantico Quotidiano, 19 luglio 2021.

[48]  “Hong Kong’s national security law: 10 things you need to know”, Amnesty International, 17 luglio 2020.

[49]  Modolo G., “L’attivista Nathan Law: ‘A Hong Kong ormai è un crimine anche solo parlare’”, msn.com, 28 luglio 2021.

[50]  Cuscito G., “Oltre il confine, tutte le dispute tra India e Cina”, Limes Online, 11 giugno 2020.

[51]  Mauri P., “Gli Stati Uniti saranno in grado di combattere e vincere la prossima guerra?”, InsideOver, 15 luglio 2021.

[52]  Mauri P., “Biden e Xi Jinping d’accordo sul mantenere lo ‘status quo’ su Taiwan”, InsideOver, 6 ottobre 2021.

[53]  Modolo G., “Paghe basse e orari infiniti: i giovani cinesi dicono “basta”. E le fabbriche restano senza lavoratori”, la Repubblica, 29 agosto 2021.

[54]  Ricolfi L., “Reddito di cittadinanza, perché non farlo gestire alle imprese?”, Il Messaggero, 25 settembre 2021.

[55]  Arera, “Energia: intervento del Governo riduce impatto aumenti, +29,8% per elettricità e +14,4% per gas. Impatto zero sulle famiglie in difficoltà”, arera.it, 28 settembre 2021.

[56]  Pagni L., “Industrie in allarme per il caro-gas: a Ferrara il primo stop alla produzione”, la Repubblica, 7 settembre 2021.

[57]  Trevithick J., “The Iron Dome Air Defense System Is Heading To Guam”, The Drive, 8 ottobre 2021.

[58]  Trevithick J., “One Of The Navy’s Prized Seawolf Class Submarines Has Suffered An Underwater Collision (Updated)”, The Drive, 7 ottobre 2021.

[59]  Vita L., “La strategia di Biden sulla Cina può rivelarsi un boomerang”, InsideOver, 8 ottobre 2021.

[60]  Redazione ANSA, “Xi: ‘Taiwan sarà riunificata alla Cina, no a interferenze esterne’”, ansa.it, 9 ottobre 2021.

[61]  Trevithick J., “American Forces Have Been Quietly Deployed To Taiwan With Increasing Regularity: Report, The Drive, 7 ottobre 2021.

[62]  Marsonet M., “Pechino aumenta la pressione su Taiwan: il vero banco di prova della presidenza Biden”, Atlantico Quotidiano, 9 ottobre 2021.

[63]  Speranza M., “Non solo Evergrande: ecco Fantasia, un altro gigante cinese è a un passo dal default”, money.it, 7 ottobre 2021.

13 ottobre 2021