Insegnare contro vento – di Lorenzo Morri, Alberto Gualandi, Francesco Genovesi (insegnanti di scuola secondaria superiore)

Il rapido sviluppo delle tecnologie digitali e la loro estensione a ogni ambito della vita privata e pubblica sta facendo nascere una nuova “religione”? Che oggi si abbia nei confronti della digitalizzazione del mondo umano e naturale un atteggiamento di “salvifica attesa” – dalla medicina alla finanza, dalla ricerca scientifica alla pubblica amministrazione, dall’organizzazione del lavoro alla mobilità urbana, alla crisi climatica – è sotto gli occhi di tutti. Quei pochi che in ciò intravvedono i segni di una profonda mutazione antropologica, di cui è opportuno sottolineare i rischi, appaiono inguaribili scettici. Persone ingenue che si oppongono ridicolmente al corso della storia (e al “verbo” che la anima).

Si prenda l’istruzione. Il Pnrr ha destinato ingenti fondi a un’innovazione degli ambienti di apprendimento imperniata sulle dotazioni digitali. Che la frontiera del progresso didattico passi necessariamente per la digitalizzazione è uno dei dogmi della nuova religione. Nessuna discussione pedagogica ne è a fondamento, né sostanzia il documento “Scuola 4.0” che illustra le linee ministeriali. L’enunciato secondo cui si scalzerebbe così lo schema anacronistico della lezione frontale appare puramente ideologico. Pluridecennali sperimentazioni didattiche d’epoca pre-digitale hanno messo in questione la “frontalità” – operazione che esige, del resto, non meri investimenti, ma una riflessione sui fini dell’educazione e sulla non neutralità degli strumenti, cioè sull’intrinseca capacità di strumenti diversi di prefigurare fini diversi.

Ma i dogmi non si discutono. Nessuno scrupolo sui pericoli a cui bambini e adolescenti sono esposti dalla già massiccia mediazione digitale delle esperienze di vita, a cui “Scuola 4.0” si accoda: riduzione della memoria di lavoro e a lungo termine, dell’empatia e della concentrazione, delle aree cerebrali dell’astrazione e del giudizio etico ecc. Nessuno scrupolo sul fatto che la scuola possa ridursi a luogo di addestramento e applicazione di procedure, anziché essere spazio sociale delle domande di senso, del dialogo, della conoscenza disinteressata, ovvero delle dimensioni fondamentali dell’umano nella sua crescita corporea e mentale. Nessuno scrupolo, infine, sugli opachi interessi commerciali che si soddisfano, anche grazie ai sistemi di raccolta dati sottesi ai canali di produttività e condivisione on-line di Big Tech.

Farsi carico di questi scrupoli richiede oggi davvero una buona dose di eresia, quella che professano le personalità della cultura e gli insegnanti che stanno sottoscrivendo Insegnare contro vento. Per la difesa della relazione educativa dalla “religione del digitale” (https://www.gruppoabele.org/it-schede-1663-insegnare_contro_vento)

* Questo testo, con il titolo di Scuola digitale: i motivi dei prof “contro vento”, è stato pubblicato su “Il Corriere della Sera” del 30 maggio 2023.




Chiediamo troppo ai ragazzi?

Stanno suscitando una certa inquietudine le notizie che, negli ultimi tempi, riferiscono di giovani in crisi, specie in ambito scolastico. Fra le fonti di disagio, spesso vengono menzionate le eccessive pretese di insegnanti e genitori, ma anche ansie e frustrazioni che possono nascere nel gruppo dei pari. La diagnosi prevalente sembra essere quella che sottolinea l’insostenibilità delle pressioni competitive che il mondo degli adulti eserciterebbe sui ragazzi, chiedendo loro più di quanto possano dare.

C’è ovviamente del vero in ciascuna di queste letture, ma credo sia bene distinguere. I problemi del liceo classico, di cui tanto si parla, riguardano meno del 6% dei ragazzi, e sono di natura molto diversa da quelli degli altri licei e degli istituti tecnici e professionali. Nella mia ormai lunga esperienza di genitore e docente, quel che più mi ha colpito, negli ultimi decenni, non è certo l’eccesso di competitività, che spesso si attribuisce al classico, ma un fenomeno del tutto diverso, per certi versi opposto, che si può osservare a occhio nudo un po’ in tutti gli ordini di scuola: par la maggior parte delle famiglie, da molti anni a questa parte, la stella polare è il binomio serenità + promozione. L’importante non è che la scuola sia eccellente, o che il figlio primeggi, ma solo che sia promosso e non subisca frustrazioni. Se non fosse così, anziché legioni di genitori che se la prendono con gli insegnanti per gli insuccessi dei figli, vedremmo un vasto movimento che chiede alla scuola come mai il livello sia sceso così tanto.

Ed è qui che interviene il problema dei licei classici, e più in generale delle scuole esigenti, che per fortuna esistono anche in altri indirizzi. La strage di ragazzi che abbandonano i licei per passare a scuole più facili si spiega con il fatto che il primo anno di scuola secondaria superiore è anche il primo momento in cui la scuola smette di scherzare, ossia non sottostà all’obbligo non scritto di intrattenere e promuovere (quasi) tutti. Negli anni ’60 questo passaggio alla “scuola vera” avveniva dopo la 5aelementare, e infatti la scuola media inferiore faceva ancora stragi. Mentre oggi il passaggio alla scuola vera avviene solo dopo la 3a media, e a fare stragi ci pensano i licei.

C’è un’importante differenza, però, fra ieri e oggi. Negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.

Non è tutto, però. Una vasta letteratura internazionale, soprattutto psicologica e sociologica, da almeno vent’anni ci avverte che i figli dei baby boomers, ovvero i genitori dei ragazzi di oggi, oltre ad accettare il declino della qualità dell’istruzione e a rompere la storica alleanza con gli insegnanti, si sono resi responsabili di un altro disastro: la formazione di una generazione fragile, ipersensibile, ultra-bisognosa di protezione, affamata di approvazione, incapace di tollerare gli insuccessi e di gestire le difficoltà. In una parola: una generazione non-resiliente, per usare una espressione che il Pnrr ha reso di moda.

Chiunque abbia frequentato le scuole negli anni ’60 può testimoniare che le pressioni che insegnanti e genitori, allora alleati, esercitavano sui ragazzi e le ragazze erano enormemente superiori a quelle di oggi. Personalmente, ricordo i miei anni di scuola media come anni di terrore, di ansia, di spasmodica attenzione a non sbagliare. Ma anche di grandi soddisfazioni, scolastiche ed extra-scolastiche.

Dunque il punto cruciale non può essere che si chiede troppo ai ragazzi. Il punto, semmai, è che nessuno, allora, pensava di avere “diritto al successo formativo”, alla serenità, a supporti psicologici, al riconoscimento di ogni esigenza o aspirazione. Non lo pensavamo noi ragazzi, non lo pensavano i nostri genitori, non lo pensavano i nostri insegnanti, perché quelle cose non le vedevamo come diritti esigibili, ma come possibili conquiste. Oggi ai ragazzi si chiede molto di meno, ma proprio questo chiedere di meno li rende fragili, perché li lascia disarmati verso gli ostacoli e le asperità della vita, scolastica e non. Siamo sicuri che sia la strada giusta?