Quel che i mercati finanziari pensano davvero dell’Italia

Ha suscitato una certa sorpresa il fatto che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto la netta affermazione dei partiti populisti, lo spread dei titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi sia rimasto sostanzialmente immutato, intorno ai 130 punti base.

Fonte Bloomberg

L’andamento dello spread con la Germania, tuttavia, è uno strumento di valutazione molto imperfetto, e potenzialmente fuorviante. Esso non tiene conto, infatti, dell’evoluzione degli spread degli altri paesi, in particolare quelli a noi più comparabili, che possono muoversi in modo più o meno favorevole di quelli italiani.

Un indice alternativo può essere costruito facendo la differenza fra i rendimenti dell’Italia e la media dei rendimenti di Spagna e Portogallo, ovvero dei due Piigs a noi più comparabili (Irlanda e Grecia lo sono assai meno, anche se per ragioni opposte).

Fonte Bloomberg

In questo caso la traiettoria dello spread appare molto diversa: prima nettamente discendente (miglioramento dell’Italia), poi nettamente ascendente (peggioramento).

L’elemento più sorprendente, tuttavia, è il punto di svolta fra i due andamenti. Sia un’ispezione visiva sia l’analisi statistica mostrano che il punto di svolta fra le due traiettorie si colloca fra venerdì 2 marzo e lunedì 5 marzo, ovvero esattamente nel momento del voto. E ciò vale sia nel caso dello spread Italia-Spagna, sia nel caso di quello Italia-Portogallo.

Fonte Bloomberg
Fonte Bloomberg

In entrambi i casi lo spread raggiunge un minimo venerdì 2 marzo, alla vigilia del voto, e inverte la rotta, cominciando a salire, lunedì 5 marzo, primo giorno dopo il voto. Ormai il rendimento dei titoli italiani supera non solo quello dei titoli spagnoli, ma anche di quelli portoghesi.

Questo andamento non sarebbe preoccupante se, dal punto di vista obiettivo, i conti pubblici dell’Italia fossero in miglioramento. Ma non è così, sfortunatamente.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

L’indice VS, di Vulnerabilità Strutturale dei conti pubblici, messo a punto dalla Fondazione David Hume, mostra che, dopo un periodo favorevole durato circa due anni (dalla primavera del 2015 alla primavera del 2017), ora la tendenza dominante è tornata di nuovo negativa: la vulnerabilità dei nostri conti è in aumento.

[Per maggior dettagli vedi, sul sito della Fondazione David Hume

a)     il report “Conti pubblici & voto di marzo”;

b)    il saggio “La mente dei mercati: l’indice VS, una misura di vulnerabilità dei conti pubblici”.




Conti pubblici & voto di marzo

1. Tendenze di lungo periodo

La serie storica dell’indice VS dal 2009 a oggi permette di riconoscere abbastanza nitidamente alcune tendenze e processi.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

Possiamo descriverli così:

a)     nel quindicennio che va dal 2000 al 2015 la tendenza di fondo è ad un aumento della vulnerabilità;

b)    il picco di vulnerabilità del 2009, legato essenzialmente al crollo del Pil, risulta completamente riassorbito alla fine del 2011, quando scoppia la crisi dello spread;

c)     nel triennio che va dall’inizio del 2012 all’inizio del 2015 si assiste a un aumento della vulnerabilità;

d)    dalla primavera del 2015 la tendenza dominante è alla riduzione della vulnerabilità;

e)     tuttavia dalla primavera del 2017 a oggi il processo di riduzione della vulnerabilità sembra essersi arrestato, e si assiste invece a una lieve tendenza all’aumento.

Un confronto con l’andamento effettivo dei rendimenti mostra un notevole grado di incongruenza, e questo nonostante l’indice sia stato costruito per emulare la “mente dei mercati”. Questo segnala che, nel caso dell’Italia, l’orientamento della politica monetaria e i fattori contingenti e/o extraeconomici hanno avuto un ruolo molto rilevante.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

Ecco alcune osservazioni:

a)     per ben 15 anni, dal 1999 fino a tutto il 2013, i rendimenti richiesti dai mercati per i titoli di Stato italiani, salvo nel picco della recessione 2008-2009, sono sempre stati superiori a quelli suggeriti dall’indice di vulnerabilità strutturale (i mercati sono stati severi con l’Italia);

b)     dal 2014 in poi, invece, i rendimenti richiesti sono sempre stati relativamente modesti (i mercati sono stati indulgenti);

c)     solo nella primavera del 2017, per un breve periodo, rendimenti effettivi e indice VS sono risultati allineati.

d)    negli ultimi 12 mesi la tendenza principale dell’indice di vulnerabilità è all’aumento, mentre quella dei mercati è alla riduzione dei rendimenti.

Un’analisi dell’andamento degli indicatori che contribuiscono alla definizione dell’indie VS permette di individuare i meccanismi principali che hanno condotto al suo peggioramento tendenziale negli ultimi 3-4 trimestri. Essi sono essenzialmente due: un livello di inflazione ancora troppo basso, la tendenza alla contrazione delle entrate pubbliche rispetto al Pil.

2. Uno zoom sul 2018

Un’analisi più dettagliata delle tendenze degli ultimi mesi può essere condotta osservando l’andamento settimanale dello spread e confrontandolo con quello di altri paesi, in particolare i due Piigs a noi più simili, ossia Spagna e Portogallo (l’Irlanda è da tempo fuori della crisi, la Grecia ha tuttora rendimenti fuori scala).

Fonte: Bloomberg

Come si vede lo spread dell’Italia rispetto alla Germania tende a diminuire fino alla prima settimana di febbraio, per poi invertire la tendenza: negli ultimi due mesi il trend dominante è a un leggero aumento.

Un confronto con Spagna e Portogallo, tuttavia, rivela un importante punto di svolta. Se anziché lavorare sullo spread dell’Italia considerato singolarmente, lavoriamo sullo spread relativo, ovvero sulla differenza fra lo spread dell’Italia e quello di Spagna e Portogallo (il che, ovviamente, equivale a calcolare la differenza fra i rendimenti dell’Italia e quelli di Spagna e Portogallo) possiamo notare due circostanze poco rassicuranti.

Fonte: Bloomberg
Fonte: Bloomberg

Primo. A partire dai primi di marzo di quest’anno, i rendimenti dei tre paesi cessano di evolvere in parallelo, e si assiste a un aumento del differenziale fra i rendimenti italiani e quelli di Spagna e Portogallo.

Secondo. A partire dalla seconda settimana di marzo il rendimento dei titoli italiani, che in tutto il mese di febbraio era rimasto sostanzialmente allineato a quello dei titoli portoghesi, supera sistematicamente quello di questi ultimi.

La svolta è ancora più chiara se condensiamo tutto in un unico indice, calclalndo la differenza fra i rendmenti italiani e la media dei rendimenti spagnoli e portoghesi.

Fonte: Bloomberg

Uno sguardo all’evoluzione di lungo periodo dello spread dell’Italia in confronto a quelli di Spagna, Portogallo, Irlanda (con la Francia come benchmark), rende il quadro ancora più preoccupante.

Fonte: Bloomberg

Il grafico mostra che mai, prima del 2018, il rendimento dei titoli di Stato italiani aveva superato quello dei titoli portoghesi, e mai il divario con i titoli spagonli era stato alto come oggi.

Che questa recente evoluzione dello spread sia da connettere all’esito del voto del 4 marzo è difficile da stabilire, anche perché è da circa un anno (e non da un mese) che l’indice VS segnala una tendenza all’aumento della vulnerabilità.

Resta il fatto che, sui mercati, la svolta è coincisa con la settimana del voto in Italia.

Luca Ricolfi

(Responsabile scientifico Fondazione David Hume)

 

Nota metodologica

L’indice VS, messo a punto dalla Fondazione David Hume e presentato per la prima volta il 25 ottobre 2017 a un seminario presso il MISE, misura il grado di vulnerabilità dei conti pubblici di 40 economie avanzate o relativamente avanzate. Dettagli sull’indice sono disponibili sul sito della Fondazione, saggio “La mente dei mercati: indice VS e vulnerablità dei conti pubblici”).

La principale caratteristica dell’indice è di non basarsi su valutazioni soggettive, ma esclusivamente sul comportamento effettivo dei mercati nel periodo cruciale della crisi, dall’inizio del 2009 a tutto il 2016.

L’indice è espresso in punti-base e si interpreta come una stima del rendimento che i mercati richiederebbero per i titoli di Stato decennali di un paese in assenza di fattori di perturbazione quali speculazione, vicende politiche, orientamento marcatamente restrittivo o espansivo della politca monetaria.

Una relazione riservata, e più tecnica, è stata fornita alla Compagnia di San Poalo (che ha in parte sostenuto la ricerca) e al MISE.




Conti pubblici, una farsa che dura da molti anni

La Commissione europea non è soddisfatta dei nostri conti pubblici. Nel linguaggio paludato e un po’ criptico che caratterizza gli scambi fra gli uffici del ministero dell’Economia e quelli della Commissione, ci ha fatto sapere che i nostri conti non la convincono, né sul 2017 né per il 2018.

Una prima lettera è partita alla fine di ottobre. Ma la risposta del ministro Padoan non ha convinto. Lo ha detto chiaramente il vicepresidente della Commissione, il finlandese Jyrki Katainen, la settimana scorsa: “Tutti possono vedere che la situazione in Italia non migliora”.

Quindi un’altra lettera è in corso di preparazione, e sarà inviata a breve al nostro Governo. Ma il giudizio finale della Commissione sui conti pubblici dell’Italia arriverà solo a maggio 2018, quando i buoi della spesa pubblica saranno già scappati dalle stalle.

Questo rituale, che si ripete tutti gli anni, è curioso. In autunno il Governo vara la cosiddetta Finanziaria, con relativo assalto alla diligenza da parte di sindacati e gruppi di pressione. La Commissione europea esprime dubbi e richieste di chiarimento, ma poi lascia fare, rimandando il giudizio definitivo alla primavera dell’anno dopo. Quando la primavera arriva si comincia a capire che i numeri dei conti pubblici non potranno mai essere quelli promessi perché l’economia, quella birichina, vuol fare tutto di testa sua e non si adegua alle previsioni dei governanti italiani. A quel punto però è tardi, e tutto quel che la Commissione Ue può fare è raccomandare una “manovrina” correttiva, e di comportarsi meglio l’anno successivo. Il nostro governo risponde che sì, si impegnerà molto (da un po’ di tempo però preferisce parlare di “sforzi” messi in atto, o da mettere in atto), e che gli obiettivi mancati quest’anno saranno raggiunti l’anno prossimo. L’anno prossimo arriva, le cifre non sono quelle messe nero su bianco l’anno prima, e la commedia ricomincia.

Poiché si tratta di una commedia, è abbastanza inutile rileggersi il copione nei minimi dettagli, entrando nelle infinite diatribe che caratterizzano questi balletti di cifre, apparentemente tecnici ma in realtà tutti politici: con quale modello statistico calcolare il PIL potenziale e l’output gap, come determinare l’avanzo primario strutturale, quali sono i margini di flessibilità cui l’Italia ha diritto.

Meglio andare direttamente al punto: come stanno evolvendo i conti pubblici dell’Italia?

Per rispondere a questa domanda occorre, a mio parere, distinguere due aspetti del problema. Il primo aspetto è la salute delle nostre finanze pubbliche, il secondo è la loro capacità di resistere ad un’eventuale impennata dei tassi di interesse. Anche se, nel lungo periodo, si tratta di due facce della stessa medaglia, nel breve periodo possono divergere un po’: un paese come il nostro, con conti in cattiva salute, può risultare più o meno vulnerabile a seconda dell’andamento di altri aspetti della sua economia.

Se ragioniamo sulla salute, quel che dobbiamo chiederci è come stanno evolvendo i due fondamentali indicatori di malattia, ovvero il rapporto debito/PIL e l’avanzo primario strutturale (corretto per il ciclo e le una tantum). Ebbene, su entrambi i fronti le cose non vanno bene, come ha mostrato in modo inoppugnabile Veronica De Romanis usando serie storiche prodotte da organismi internazionali (dati e grafici reperibili sul nostro sito). Nonostante le promesse renziane di ridurlo, il rapporto debito/PIL è oggi più alto che nel 2013-2014, e presumibilmente non inizierà a scendere in modo apprezzabile neanche quest’anno (anzi, secondo la Commissione europea aumenterà leggermente). Ancora più grave la situazione dell’avanzo primario corretto per il ciclo, che negli ultimi anni è sempre peggiorato, e presumibilmente continuerà a farlo quest’anno.

Se dalla salute dei conti pubblici passiamo alla capacità di resistenza (o al suo opposto: la vulnerabilità), il quadro si fa un po’ meno scoraggiante. La vulnerabilità dei conti pubblici, ovvero il rischio che una nuova crisi finanziaria faccia schizzare in alto lo spread (come nel 2011-2012), non dipende solo dall’ampiezza del debito pubblico ma anche da altri fattori, come il debito privato, l’andamento del Pil e quello dell’inflazione. Se, per misurare la vulnerabilità, usiamo l’indice di vulnerabilità strutturale elaborato dalla Fondazione David Hume, possiamo notare che la vulnerabilità dei nostri conti pubblici è leggermente aumentata nel triennio 2014-2016, ma nel corso del 2017 risulta in diminuzione, cioè in sensibile miglioramento (dati e grafici sul nostro sito). La ragione è molto semplice: grazie alla ripresa in atto in tutta Europa, anche l’economia italiana sta andando meglio, e questo rende i nostri conti pubblici un po’ meno vulnerabili di quanto lo fossero negli anni scorsi.

Possiamo stare tranquilli, dunque?

Direi proprio di no. Sfortunatamente stiamo per entrare in un periodo di forti rischi finanziari, non solo perché lo scudo del Quantitative Easing della Bce sta per venir meno, ma perché è piuttosto probabile che, in futuro, cambino le regole che oggi consentono alle banche di contabilizzare fra gli attivi i titoli di Stato del proprio Paese, anche se quest’ultimo è fortemente indebitato. Se queste regole venissero cambiate, e i titoli del debito pubblico venissero svalutati in base al grado di deterioramento dei conti pubblici di ogni paese, l’Italia correrebbe rischi molto seri. E, forse, qualche politico si pentirebbe amaramente di aver sciupato questi anni, in cui – grazie alla riduzione dei tassi di interesse – qualcosa si poteva fare e invece così poco è stato fatto.

Articolo pubblicato su Panorama



Ma la crescita non è nemica del risanamento

Se c’è un punto su cui tutte le forze politiche concordano, è quello dei nostri conti pubblici. Non già nel senso che esista un piano comune e condiviso per affrontare il problema del debito pubblico, ma per la ragione opposta: a nessun partito piace toccare il tema, meno che mai impegnarsi con cifre precise. E comunque, a giudicare dai discorsi con cui i leader cercano di attirare consensi, per nessuno, proprio per nessuno, la riduzione del debito è una priorità.

E’ questo, a mio parere, il più importante elemento di convergenza e di sostanziale unità del ceto politico italiano, al di là delle quotidiane scaramucce su tutto il resto. Alla maggior parte dei politici, che stiano al governo o stiano all’opposizione, piace raccontare le cose così: la nostra priorità è la crescita, ovvero l’aumento del reddito e dell’occupazione, e non possiamo certo comprometterla sottostando ai diktat dell’Europa (ma qualcuno semplifica: ai diktat della Merkel), che ci impongono l’austerità e così bloccano lo sviluppo.

Questo tipo di argomentazione ha due punti deboli, innanzitutto sul piano logico. Il primo è che non si può contrapporre fra loro un obiettivo (la crescita) e uno strumento di politica economica (l’austerità). Sarebbe come se, in un viaggio verso Parigi, con un’automobile che va ancora avanti ma fa fumo dal cofano, chi vuole portare l’automobile da un meccanico venisse accusato dagli altri passeggeri di non volerli portare a Parigi. Il secondo punto debole è che, a sua volta, l’austerità non è una politica ma è uno spettro di politiche possibili, accomunate soltanto dall’obiettivo di ridurre l’indebitamento pubblico di un paese. A un estremo le politiche che puntano tutte le loro carte sull’aumento delle tasse, all’altro le politiche che si concentrano sulla riduzione e la riqualificazione della spesa.

Il vero problema, quindi, non è di scegliere fra austerità e crescita, ma come conciliare crescita e risanamento dei conti pubblici. O, meglio ancora, come risanare i conti pubblici secondo modalità che favoriscano la crescita, evitando che il risanamento indebolisca il paziente anziché guarirlo. Il dilemma, in altre parole, non è fra crescita e austerità ma, semmai, fra austerità “buona” e austerità “cattiva”, per usare l’efficace terminologia dell’ultimo libro di Veronica De Romanis (L’austerità fa crescere, Marsilio 2017). Dove per austerità buona si intende una correzione dei conti pubblici che privilegia la riduzione della spesa corrente, anziché l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, cavalli di battaglia dell’austerità cattiva.

Ma a che punto si trova l’Italia, su questo percorso?

Piuttosto indietro, purtroppo. Nel periodo più acuto della crisi (2012-2013) la politica economica ha privilegiato l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, ossia precisamente i due caposaldi dell’austerità cattiva. Quanto agli ultimi anni, purtroppo, la tenuta dei conti pubblici è stata assicurata più dalla riduzione degli interessi sul debito (in gran parte imputabile alla politica della Bce) che da un aumento dell’avanzo primario, che è anzi un po’ peggiorato tra il 2013 e il 2016. E, anche se il peso delle tasse e delle spese rispetto al Pil si è ridotto di qualche decimale, il livello dell’interposizione pubblica resta molto alto, e non certo a causa di un rilancio degli investimenti.

Accanto a queste criticità, per fortuna, esiste anche qualche segnale confortante. L’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici (indice VS), elaborato dalla Fondazione David Hume per 40 paesi e 18 anni (dal 1999 a oggi), mostra sì un peggioramento dell’Italia fra il 2011 e il 2013, ma anche una stabilizzazione fra il 2014 e il 2016, e una tendenza al miglioramento nel corso del 2017. Inoltre, un confronto con le valutazioni delle Agenzie di rating (Fitch, Moody’s, Standard & Poor’s), suggerisce che il loro giudizio sia troppo severo nei confronti dei conti pubblici italiani, specie riguardo alla situazione dell’anno in corso.

E tuttavia sarebbe un grave errore prendere spunto da questi, pochi e limitati, elementi rassicuranti, per rimuovere per l’ennesima volta il risanamento dei conti pubblici dall’agenda politica. Questo per almeno due buoni motivi.

Il primo è che il miglioramento dell’indice VS (Vulnerabilità Strutturale) nel corso del 2017 è dovuto soprattutto alle previsioni di crescita del Pil e al ritorno dell’inflazione, non certo a una riduzione del rapporto debito/Pil. Il secondo è che l’indice non rivela soltanto che le Agenzie di rating sono (forse) troppo severe con noi, ma anche che i mercati sono stati (finora) troppo generosi, nel senso che hanno permesso all’Italia di indebitarsi a tassi più favorevoli di quelli che i mercati stessi fisserebbero in assenza di fattori più o meno contingenti (il Quantitative Easing della Bce, ad esempio). Una tendenza, quella a concederci tassi relativamente bassi, che si sta rapidamente esaurendo, e potrebbe persino cambiare di segno quando il Quantitative Easing volgerà alla fine.

Ma la vera ragione che suggerisce di non rinunciare a percorrere risolutamente la strada del risanamento è che esso non è essenziale solo per proteggerci da nuove tempeste finanziarie, ma anche per permettere un ritorno alla crescita che sia solido, duraturo e, soprattutto, abbastanza vivace da consentire un aumento significativo dell’occupazione. Il fatto che, sia pure lentamente e faticosamente, si stia tornando ai livelli occupazionali pre-crisi, non deve farci dimenticare che, in questi ultimi anni, l’Italia ha anche conquistato un triste primato, che prima non deteneva: siamo il paese con il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 28 ottobre 2017



La mente dei mercati: l’indice VS, una misura di vulnerabilità dei conti pubblici

Come misurare la vulnerabilità dei conti pubblici

Questo articolo riporta una breve sintesi dei risultati di una ricerca che la Fondazione David Hume ha condotto negli ultimi anni sulla vulnerabilità dei conti pubblici delle economie avanzate[1].

1. A che serve una misura di vulnerabilità

Quando un paese ha un debito pubblico troppo elevato, gli investitori richiedono tassi di interesse più alti per sottoscrivere i suoi titoli di Stato: il rischio di non essere rimborsati, o di esserlo solo in parte, innalza il prezzo del prestito concesso. Accade così che i rendimenti dei titoli del debito pubblico possano toccare livelli molto alti, anche al di sopra dei tassi che normalmente vengono considerati usurari. Nel caso della Grecia, ad esempio, al culmine della crisi (febbraio 2012), i tassi sono arrivati a sfiorare il 30%. Quanto all’Italia, c’è stato un momento, alla fine del 2011, in cui i tassi si sono avvicinati pericolosamente alla soglia dell’8%, da molti considerata un punto critico, oltre il quale diventa pericolosissimo spingersi.

Ma come fa un paese a proteggersi contro i rischi di una crisi del suo debito sovrano? Come fa a sapere in anticipo che potrebbe sopravvenire una crisi? Come fa ad accorgersi che è seduto sopra una polveriera? Come fa, in altre parole, a misurare la propria vulnerabilità?

Apparentemente, la risposta è semplice: basta non indebitarsi troppo. Ma questa è una risposta insoddisfacente. Non solo perché non tutti i paesi sono come la Germania, che ha un’economia capace di crescere senza aumentare il debito, ma perché il nesso fra debito pubblico e rendimenti non è lineare: esistono paesi, come il Giappone, che riescono ad approvvigionarsi sui mercati a tassi molto bassi nonostante un enorme rapporto debito/Pil (oltre il 200%), ed esistono paesi, come la Romania, che sono costretti a pagare tassi relativamente elevati a dispetto di un rapporto debito/Pil molto contenuto.

Si potrebbe allora pensare di usare direttamente i rendimenti dei titoli di Stato, eventualmente corretti per l’inflazione, come misure di vulnerabilità. Questa strada, tuttavia, è resa impraticabile da almeno due circostanze.

La prima è che i mercati attraversano lunghi periodi di sonno, nei quali letteralmente ignorano le differenze fra paesi. È stato questo il caso dei primi 9-10 dieci anni dell’euro, nei quali i tassi richiesti a paesi come la Germania sono stati analoghi a quelli richiesti a paesi come la Grecia.

 

(Fonte:ECB)

La seconda circostanza è che i tassi sono fortemente condizionati dalla politica monetaria delle banche centrali, che può sostenere artificialmente i corsi dei titoli di Stato di un paese o, nel caso della Banca centrale Europea durante la crisi, di un gruppo di paesi deboli o ritenuti tali.

Se né il rapporto debito/pil né i tassi di mercato sono un buon metro per valutare la vulnerabilità dei conti pubblici, si potrebbe puntare sulle valutazioni dei debiti sovrani forniti dalle maggiori agenzie di rating, le “tre sorelle” Moody’s, Fitch e Standard and Poors’, con le loro scale a una ventina di posti, da AAA a D.  Sarebbe ragionevole, in altre parole, supporre che il rating sia una sorta di termometro della salute dei conti pubblici. Quando il rating è buono (tripla o doppia A) i conti pubblici del paese non corrono rischi, quando è cattivo (B) o pessimo (C) gli interessi sui titoli di Stato tendono ad essere elevati e rischiano di subire drastici incrementi in caso di crisi.

Sfortunatamente, tuttavia, anche questa strada non funziona bene, per diversi motivi. Il primo è che anche le Agenzie di rating, come i mercati, attraversano periodi di sonno, in cui non si accorgono delle enormi differenze di vulnerabilità che sussistono fra paesi.

Il secondo è che, tendenzialmente, il giudizio delle Agenzie segue e non precede quello dei mercati. Una misura di vulnerabilità dovrebbe essere predittiva e non postdittiva del comportamento dei mercati.

La realtà è che sia le Agenzie di rating sia i mercati sono due black box di cui non conosciamo i circuiti interni ma di cui sappiamo che funzionano in modi diversi, spesso molto diversi. Una comparazione sistematica delle valutazioni delle Agenzie e di quelle dei mercati su 24 paesi (quelli con informazioni complete) dal 1999 al 2016 ha rivelato che i casi di valutazioni coerenti sono più o meno quanti i casi di valutazioni incoerenti o in aperto conflitto (con le Agenzie che indicano un miglioramento quando i mercati segnalano un peggioramento; o viceversa).

Eppure, conoscere il grado di vulnerabilità dei conti pubblici di un paese sarebbe essenziale, per gli investitori come per i governanti. Se vulnerabilità significa, essenzialmente, esposizione al rischio di aumenti futuri dei tassi, una misura di vulnerabilità può essere una guida preziosa per implementare strategie di selezione del portafoglio che tengano conto di fattori (di debolezza o di forza) che sono già presenti, ma di cui i mercati potrebbero accorgersi solo in futuro, quando una crisi dovesse esplodere o viceversa rientrare.

Quanto ai governi, è chiaro che una misura di vulnerabilità dei conti pubblici capace di anticipare evoluzioni future li proteggerebbe da due rischi, uno ovvio, l’altro più sottile. Quello ovvio è di non risanare i conti pubblici solo perché i mercati non si sono ancora accorti della malattia, un’eventualità che ben si attaglia ai casi di Grecia, Portogallo, Italia, che nel primo decennio dell’euro hanno immeritatamente beneficiato del doppio sonno dei mercati e delle Agenzie. Il secondo rischio da cui una misura di vulnerabilità accurata potrebbe proteggere un paese e il suo governo, è quello di subire, nei periodi di crisi, una valutazione dei mercati e delle Agenzie peggiore di quella che la salute di suoi conti pubblici giustificherebbe.

Ecco perché può essere utile disporre di un indice che misuri il grado di vulnerabilità dei conti pubblici.

2. Indice VS e mente dei mercati

A questo scopo, come FDH, abbiamo messo a punto l’indice VS, o indice di Vulnerabilità Strutturale. L’idea-base su cui poggia l’indice VS è di misurare lo stato di salute dei conti pubblici di un paese in un modo che, al tempo stesso, rifletta la “mente dei mercati”, ossia il modo in cui i mercati giudicano i conti pubblici di un paese, e nello stesso tempo non sia sensibile agli elementi contingenti (fluttuazioni di breve periodo, politica monetaria espansiva o restrittiva) che in un particolare momento concorrono alla formazione dei rendimenti dei titoli di Stato.

L’unità di misura dell’indice sono i punti-base, e la sua interpretazione è la seguente: l’indice VS misura i rendimenti che, in base ai suoi fondamentali, dovrebbero avere i titoli di Stato di un paese se i mercati lo giudicassero con i parametri che mediamente hanno utilizzato negli anni 2009-2016, ossia nel periodo successivo al fallimento di Lehman Brothers.

L’indice è stato calcolato per 40 economie avanzate, o relativamente avanzate[2], per tutti gli anni che vanno dall’introduzione dell’euro (1° gennaio 1999) al 2016. Attualmente stiamo lavorando a una nuova versione dell’indice, con cadenza più frequente (trimestre o mese), e capacità di stimare anticipatamente il consuntivo dell’anno in corso.

Ed ecco, in estrema sintesi, alcuni risultati.

1. L’equazione dell’indice permette di scoprire quali sono, per la “mente dei mercati”, i fondamentali che contano e quelli che non contano, e soprattutto quanto contano, ossia quali effetti hanno sui rendimenti; sorprendentemente fra i parametri che non contano c’è il deficit pubblico, mentre un’importanza cruciale rivestono il debito pubblico detenuto da investitori esteri, l’inflazione e la competitività.

2. Applicato al periodo 1999-2016 l’indice VS mette in evidenza il deterioramento dei conti pubblici di Grecia, Portogallo, con molti anni di anticipo (dai primi anni 2000), quando né i mercati né le Agenzie di rating emettevano segnali di rischio.

Come si vede l’indice di vulnerabilità strutturale (linea azzurra) punta decisamente verso l’alto a partire dal 2003-2004 sia in Grecia sia in Portogallo.

Quanto agli altri due paesi che hanno dovuto chiedere aiuto alla Troika (Spagna e Irlanda) l’indice VS mette in evidenza il deterioramento dei rispettivi conti pubblici con qualche anno di anticipo (dal 2006-2007 in Spagna, dal 2006-2008 in Irlanda).

4. Nel caso dell’Italia, la serie storica dell’indice VS mostra che:

a) la tendenza di lungo periodo (dal 2000 al 2009) della vulnerabilità strutturale è all’aumento;

b) tuttavia, nel periodo immediatamente precedente la crisi di fine 2011, la vulnerabilità era in sia pur lieve diminuzione;

c) negli ultimi 4 anni la vulnerabilità strutturale tende a diminuire in termini assoluti, ma ad aumentare in termini relativi, ossia rispetto alle altre economie avanzate.

3. Indice VS, rating delle Agenzie, rendimenti

Forse il modo più efficace di usare l’indice VS è di metterlo a confronto con gli altri due principali strumenti di valutazione della salute dei conti pubblici, ossia i rendimenti dei titoli di Stato decennali sui mercati e il rating dei debiti sovrani forniti dalle Agenzie. Il primo confronto (con i mercati) può essere effettuato direttamente, perché l’indice VS è espresso in punti base, ovvero può essere interpretato come una sorta di rendimento “dovuto”: l’indice VS indica quali rendimenti richiederebbero i mercati se si basassero esclusivamente sui fondamentali e si comportassero con il livello medio di severità espresso nel periodo 2009-2016, allorché – a differenza che nel decennio di esordio dell’euro – erano “all’erta” e non “in sonno”.

Per il secondo confronto, dato che le Agenzie di rating adottano scale ordinali, le abbiamo convertite in punti base, imponendo la medesima media e la medesima deviazione standard osservate per i rendimenti. Inoltre, per il 2017, per il quale si hanno solo dati parziali, abbiamo effettuato una stima del valore dell’indice VS utilizzando tutta l’informazione disponibile fino a ottobre.

Il risultato è piuttosto chiaro, e si può riassumere in quattro punti.

Primo.  Nonostante gli sforzi di risanamento dei governi Monti e Letta, fra il 2011 e il 2013 la vulnerabilità dei nostri conti pubblici (linea azzurra) è aumentata di circa 150 punti base. Questo cambiamento è stato iper-segnalato dalle agenzie di rating, ma non dai mercati, che hanno invece reagito con una riduzione dei rendimenti.

Secondo. Fra il 2013 e il 2016 l’indice VS di vulnerabilità strutturale è rimasto sostanzialmente stabile (lievissimo miglioramento[3]), mentre gli altri due indici, ovvero il rating delle agenzie (linea rossa) e i rendimenti sui mercati (linea grigia tratteggiata) si sono mossi in direzioni opposte: le Agenzie hanno ulteriormente penalizzato l’Italia, i mercati hanno concesso rendimenti sempre più bassi.

Terzo. Come conseguenza di questi andamenti, il 2016 ha registrato il massimo di divaricazione fra il giudizio delle Agenzie e quello dei mercati, con uno scarto che – adottando una scala comune – è arrivato a sfiorare i 500 punti base.

Quarto. Nel 2017, secondo le nostre stime, la vulnerabilità strutturale dell’Italia (indice VS) mostra un significativo miglioramento, proprio mentre il giudizio dei mercati (rendimenti) si fa più severo. Quel che ne risulta è una convergenza fra le due traiettorie, che ora paiono fornire sostanzialmente la medesima valutazione sulla salute dei nostri conti pubblici. Del tutto opposto è l’andamento del rating delle Agenzie, che risente del declassamento del debito italiano BBB+ a BBB operato da Fitch nel mese di aprile.

La conclusione è amara: troppo tenere, o troppo distratte, quando avrebbero dovuto avvertitici della debolezza dei nostri fondamentali, le Agenzie di rating appaiono invece troppo severe oggi che i nostri conti stanno migliorando. Non sarebbe un problema se, dal rating delle Agenzie, non dipendessero pesantemente le scelte dei grandi investitori internazionali. E, soprattutto, se da tempo non si parlasse di nuove regole per valutare i titoli di Stato detenuti dalle banche: ove il valore di questi dovesse essere alterato in funzione del rating delle Agenzie, la tendenza delle Agenzie stesse a sopravvalutare il grado di vulnerabilità dell’Italia potrebbe costarci piuttosto cara.

Da questo punto di vista disporre di un indice che dipende solo dai fondamentali, insensibile sia agli umori dei mercati sia alle valutazioni, presumibilmente anche (lato sensu) “politiche”, della Agenzie di rating, potrebbe rivelarsi uno stimolo a fare di più quando siamo sopravvalutati e uno scudo per difendere la nostra reputazione quando siamo gravemente penalizzati.

[1] La ricerca ha usufruito di un contributo della Compagnia di San Paolo.
[2] Per economie avanzate o relativamente avanzate (o paesi ERA) intendiamo tutti i paesi europei, o extraeuropei ma appartenenti all’Ocse (41 paesi in tutto). Nella nostra analisi ne abbiamo considerati 40 perché nel caso dell’Estonia mancano i dati dei rendimenti dei titoli di Stato.
[3] Al lieve miglioramento in termini assoluti si è accompagnato invece un netto peggioramento relativamente agli altri paesi.