Perché la sinistra è all’anno zero

Quello che segue è il testo originale dell’intervista di Annalisa Chirico a Luca Ricolfi. Una versione ridotta è uscita sul “Foglio” venerdì 7 settembre 2018.

Professore, a seguire il dibattito italiano, che sensazione ha? Si annoia, è nauseato, è indifferente…

Il dibattito non esiste, perché non c’è più l’opinione pubblica. Gli scambi di opinioni (talora di invettive) tra personaggi pubblici sono sostanzialmente irrilevanti (e questo vale anche per me e per quel che dirò). Un vero dibattito presuppone che ci siano persone autorevoli, rispettate da tutti o quasi, le cui prese di posizione obbligano gli altri a misurarsi.

Non è più così da almeno un quarto di secolo, ossia da quando si è instaurata la curiosa credenza che tutte le opinioni siano egualmente valide, una credenza su cui i grillini si sono buttati a pesce, trasformandola in un credo. Viviamo in un tempo in cui ci sono centinaia di personaggi carismatici, che si contendono i like della “ggente”, ma non ce n’è nemmeno uno che sia autorevole.

Quanto al mio stato d’animo sì, sono molto annoiato, perché non leggo o ascolto quasi mai qualcosa di interessante. Ma se devo scegliere un’espressione per il mio stato d’animo, direi che ho il mal di mare, che è un mix di nausea e senso di impotenza di fronte agli eventi.

Nel governo sono sempre più evidenti le due diverse anime. Salvini ha monopolizzato il dossier immigrazione che gli consente di capitalizzare il consenso e di monopolizzare la comunicazione. Di Maio cerca di ritagliarsi spazi sui dossier economici. Quanto può durare una simile combinazione?

Abbastanza, secondo alcuni. L’ex ministro Minniti, per esempio, la settimana scorsa ha affermato che quello fra Lega e Cinque Stelle è un patto di potere, come quello fra democristiani e socialisti ai tempi del Pentapartito: apparentemente litigavano ogni giorno, in realtà stavano ben saldi sulle rispettive poltrone.

Io sono meno pessimista di Minniti, perché intravedo una differenza fondamentale fra pentapartito e governo giallo-verde: ai tempi del pentapartito si potevano sommare le richieste dei democristiani e dei socialisti aumentando il debito pubblico, oggi è molto più difficile sommare le richieste di leghisti (flat tax) e Cinque stelle (reddito minimo, erroneamente chiamato di cittadinanza), perché il loro costo è elevatissimo, e il debito pubblico si può aumentare sensibilmente solo uscendo dall’Europa.

Il M5S ha già pronto il dopo-dimaio, con l’ala Beppe Grillo, Di Battista e Fico, quella purista, diciamo così, pronta a inaugurare il ritorno alle origini.

Saranno puri, ma sono anche molto sprovveduti. Non vedo facile un cambio di leadership, perché se il governo avrà successo Di Maio diventerà inamovibile, mentre se fallirà nessuna nuova dirigenza sarà in grado di resuscitare il Movimento.

Per Salvini si aprono praterie sterminate: sarà lui il nuovo leader del centrodestra?

Questa è la prospettiva più probabile. Però Salvini sottovaluta alcuni meccanismi, che alla lunga potrebbero ridimensionarlo. Il primo è la fine della luna di miele elettorale, che dovrebbe esaurirsi intorno a Natale. Il secondo è l’azione della Magistratura, che nel breve periodo lo ha rafforzato ma nel medio periodo potrebbe logorarlo. Il terzo è la reazione dell’elettorato moderato, che oggi rigetta l’estremismo umanitario del Pd e della Chiesa, ma domani porrebbe eccepire sull’estremismo anti-umanitario del leader leghista, specie nel caso in cui la Chiesa si decidesse ad assumere posizioni più pragmatiche e meno ideologiche di quelle attuali.

L’immigrazione è il tema che sta decidendo le elezioni in tutta Europa. Anzitutto, secondo lei siamo ancora in una fase di emergenza? A guardare i numeri, si direbbe di no. Meno 80 percento dal luglio 2017.

Quando si parla di emergenza bisogna distinguere. Se per emergenza si intende la presunta “invasione” via mare attuata attraverso gli sbarchi, non c’è dubbio che non c’è più alcuna emergenza, e che buona parte del lavoro l’ha fatto Minniti, non Salvini (anche se io non sottovaluterei il valore aggiunto simbolico apportato da Salvini: la gente sa che il governo sta facendo il possibile per impedire gli ingressi irregolari in Italia, mentre prima aveva la sensazione che i migranti ce li andassimo a prendere).

Se per emergenza, invece, si intende la presenza di un numero imprecisato ma comunque molto alto di migranti irregolari in Europa, direi proprio che l’emergenza c’è eccome, e tanto per cambiare è concentrata in Italia. Il problema vero dell’immigrazione non è più, ormai, un problema di flussi, ma è un problema di stock, ossia di flussi accumulati negli ultimi 7 anni. Facciamo due conti: fra l’inizio delle cosiddette primavere arabe e oggi sono sbarcati in Italia circa 800 mila migranti. Di questi una piccola parte, dell’ordine di 50-60 mila, aveva il diritto di entrarci in quanto rifugiato. Un’altra parte, 250-300 mila, ha ottenuto o otterrà altre forme di protezione, che tuttavia hanno per lo più carattere temporaneo. Il resto, quasi mezzo milione di persone, semplicemente risiede illegalmente in Europa.

Dove stanno costoro?

In parte stanno in Italia, dove lavorano in modo irregolare o al soldo della criminalità, in parte sono transitati in altri paesi europei, da cui, in base alle assurde regole europee, possono essere rimandati nel paese di prima accoglienza, tipicamente l’Italia. E’ questa la vera perdurante emergenza, rispetto alla quale anche Salvini non è riuscito a far nulla.

Vorrei ricordare che il tasso di criminalità relativo dei migranti è 4 in Europa e oltre 6 in Italia, ma supera 20 (e addirittura 30 secondo alcune stime) per i migranti irregolari in Italia. In concreto questo vuol dire che ci vogliono 20 o 30 italiani per fare altrettanto danno di quello che fa 1 solo migrante irregolare.

A proposito della capacità salviniana di cavalcare l’emergenza che non c’è, Marco Minniti ha parlato di “strategia della tensione comunicativa”.

Ha ragione, la Lega aumenta le paure dei cittadini. Ma si potrebbe ribattere che la sinistra ha passato gli ultimi tre decenni a smontare paure perfettamente giustificate, attuando una sorta di “strategia della DIStensione comunicativa”. Non so chi sia da biasimare di più. L’ira popolare contro il Pd è anche figlia del negazionismo della sinistra, che per anni e anni si è rifiutata di “vedere” quel che pure aveva sotto gli occhi.

Le piace il modello australiano del “no Way”?

Non ne conosco i dettagli, ma vorrei dire una cosa di mero buon senso storico in proposito. Noi europei illuminati accusiamo di razzismo, disumanità, xenofobia qualsiasi Stato che, in una forma o nell’altra, schieri l’esercito ai propri confini, impedendo l’entrata illegale sul suo territorio. Ma questo è semplicemente normale, è quello che da che mondo è mondo gli Stati e gli imperi hanno sempre fatto, contro ogni tipo di ingresso irregolare. I confini e le dogane servono a questo, a proteggere un territorio. Su questo l’Europa ha preso un incredibile abbaglio logico: prima abbiamo fatto cadere i dazi interni (fra aree del Paese), poi abbiamo fatto cadere le barriere commerciali fra Stati europei (mercato comune), poi con Schengen abbiamo consentito la circolazione delle persone nello spazio europeo. Infine, abituatici all’idea che chiunque può andare dove vuole, non ce la siamo sentita di difendere sul serio le frontiere dell’Europa, quasi che il confine Italia-Africa fosse assimilabile a quello fra Belgio e Olanda.

Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

A mio parere, la strada giusta non è chiudersi dentro la “fortezza Europa” e non accettare più uno straniero, ma garantire che gli ingressi siano esclusivamente legali, attraverso i corridoi umanitari e un afflusso controllato di migranti economici.

Da uno studio dell’istituto Cattaneo, emerge che per il 70 percento degli italiani gli immigrati presenti sul territorio nazionale sarebbero quattro volte quelli effettivi (circa il 7% della popolazione).

Ma lo sa l’Istituto Cattaneo che la maggior parte degli intervistati non fa di mestiere né lo statistico né lo scienziato sociale?

Lo sa che le credenze numeriche dei cittadini sono QUASI SEMPRE sbagliate, in qualsiasi campo le si indaghi? Se da un sondaggio venisse fuori che la maggior parte degli italiani pensa che i morti sul lavoro siano più di 5000 all’anno, anziché 1000 come effettivamente sono, che cosa ne dedurremmo? Credo che ci limiteremmo a dire che gli italiani sono preoccupati per la sicurezza sui posti di lavoro, e non ci azzarderemmo certo ad accusare i sindacalisti di essere “imprenditori della paura”…

Sulla vicenda della capotreno di Trenord che ha pronunciato parole irripetibili a proposito degli zingari lei ha detto che, al di là della forma, il senso dell’annuncio era sensato.

Lo ribadisco. Chiunque non viaggi in business class o con l’auto di servizio, e sia costretto a prendere treni locali, conosce perfettamente lo stato d’animo di esasperazione, impotenza, e anche di umiliazione, che nella gente normale suscita l’anarchia sui treni presi d’assalto da bande di passeggeri non-paganti, non importa se costituite da tifosi, bagnanti, gang giovanili, questuanti, zingari, o qualsiasi altro gruppo di persone che semplicemente se ne infischia delle regole. La cosa curiosa è che chi reagisce al mancato rispetto delle regole viene accusato di razzismo, xenofobia, intolleranza del diverso, e chi si proclama civile e “umano” se la prende con chi reagisce, anziché con chi viola le regole del vivere civile.

Perchè nella sinistra progressista l’ideologia sembra prevalere ancora sul senso comune? Perchè la sinistra, e i suoi rappresentanti, paiono così distanti dalla “gente”?

Non “paiono”, lo sono proprio, forse irrimediabilmente. Pur avendo, come sociologo, studiato il fenomeno, confesso che l’incapacità della sinistra di osservare la realtà con distacco conserva per me qualcosa di misterioso, quasi fosse un difetto genetico. La persona di sinistra tipica, che sia un politico o semplicemente un simpatizzante impegnato, si distingue per la sua completa mancanza di curiosità per il diverso (a meno che sia esotico), e per l’ostinazione con cui – in qualsiasi situazione – cerca solo ed esclusivamente la conferma della giustezza delle proprie convinzioni. Sul piano psicologico credo che il meccanismo sia chiaro: il militante di sinistra si nutre di autostima, e ha quindi un continuo insaziabile bisogno di conferme di essere nel giusto o, come ama dire, di rappresentare “la parte migliore del Paese”. Perché non riesca a liberarsi di questa sindrome, tuttavia, non arrivo a comprenderlo, visto che l’auto-accecamento ideologico è per lo più controproducente.

Alle volte, come direbbe Altan, mi vengono idee che non condivido, ad esempio questa: forse è di destra semplicemente chi non ha un grave deficit di autostima, e può quindi permettersi di reggere il disprezzo dei benpensanti.

Dalle statistiche del prof Barbagli, emerge che gli immigrati commettono alcuni reati (furti, borseggi etc) in percentuale maggiore degli italiani. Ma dirlo è indice di razzismo.

Barbagli è uno dei pochissimi sociologi di sinistra in cui la curiosità scientifica prevale sulla volontà di dimostrare una tesi politica formulata a priori, ossia prima di vedere i dati. E lo è da sempre. E’ lui che ha scritto Immigrazione e criminalità in Italia, un libro di vent’anni fa che squarciava il velo. Ma quasi nessuno, a sinistra, volle accettare quei dati, perché riconoscerli avrebbe fatto crollare il mito della intrinseca bontà del fenomeno migratorio.

La cultura di sinistra in Italia fornisce la più impressionate conferma empirica della teoria della riduzione della dissonanza cognitiva, formulata dal grande psicologo sociale Leon Festinger nel 1957: quando la realtà smentisce le nostre credenze non cambiamo le credenze, ma cerchiamo di reinterpretare la realtà per rimetterla d’accordo con le credenze che ci fanno stare bene. Negando i dati, o ignorandoli, naturalmente.

Dal 2013 sono arrivati in Italia 700mila migranti, attualmente si contano 135mila ricorsi per richieste d’asilo. Qualcuno si domanda dove siano finiti tutti gli altri…I più hanno usato l’Italia come terra di passaggio per spostarsi in nord Europa. Chi rimane da noi di solito entra nell’economia illegale. Ma se lo dici sei razzista.

Esatto, è in questo senso che dicevo che non è vero che l’emergenza sia finita. L’emergenza sono le legioni di irregolari in Europa, che circolano senza averne diritto. Nessuno sa esattamente quanti siano, ma un rapido conto con i pochi dati disponibili suggerisce che non possano essere meno di un milione di persone.

Lei crede alla storia che gli italiani siano diventati razzisti?

Come studioso provo imbarazzo nel vedere tanti colleghi dare credito a questa tesi, che indubbiamente ha un’utilità politica, ma è priva di sostegno empirico. La tesi dell’italiano diventato razzista si basa su un errore logico. Dal fatto che si osino esprimere sentimenti di ostilità verso gli immigrati si deduce un cambiamento degli atteggiamenti di fondo degli italiani. Non si vuole capire che quel che è successo è molto più semplice: nel clima precedente all’avvento di questo governo, certe idee non potevano essere espresse per timore di essere stigmatizzati dalla cultura dominante cattolico-democratica-accogliente, mentre ora trovano libero corso perché esistono un governo e una maggioranza che le sostengono.

In breve, gli italiani ieri come oggi non sono razzisti, ma semplicemente ostili all’immigrazione incontrollata, perché ne vedono le conseguenze, nei quartieri popolari, nelle scuole, presso le ASL. La differenza è che ieri tacevano intimiditi dal clima dominante, ora si sentono più liberi di dire la loro. Il meccanismo è lo stesso di 25 anni fa, quando vinse Berlusconi: la maggioranza degli italiani è sempre stata cauta e conservatrice, ma solo dopo il 1994 è diventato relativamente facile dichiararsi “di destra”.

E’ sempre il medesimo errore, che si ripete eguale a sé stesso. Quando perdono le elezioni, i progressisti credono che gli italiani siano cambiati, e siano improvvisamente diventati nostalgici, fascisti, xenofobi, razzisti, mentre quel che accade è molto più elementare: in certi momenti l’egemonia culturale della sinistra si allenta, e quindi gli italiani si sentono liberi di dire quel che pensano. Non è bello, ma è tutto qui. Siamo un popolo fondamentalmente conservatore e acquiescente, che ogni tanto – quando il costo dell’esternazione si abbassa – rivela quel che pensa

Perchè, se tutte le statistiche confermano il calo dei reati, le persone si sentono più insicure?

Per vari motivi, ma forse due sono più importanti degli altri. Il primo è che fa parte della modernità (e del welfare stesso!) uno spettacolare, talora ossessivo ed eccessivo, aumento degli standard di sicurezza. Se la televisione ti terrorizza persino per le tue placche dentarie, è logico che tu ti preoccupi ancora di più di non essere derubata, picchiata, violentata, accoltellata per strada o all’uscita da una discoteca. Il secondo motivo è l’ineccepibile teorema-Serracchiani: se a farti del male è un ospite, che noi abbiamo salvato in mare, rifocillato e accolto, hai tutto il diritto di indignarti molto di più.

Non trova paradossale che si accusino, a ragione, gli “impresari della paura” quando cavalcano emergenze inesistenti come l’invasione straniera mentre c’è una forma di sudditanza verso chi agita l’emergenza femminicidio, anch’essa smentita dai numeri.

Sì, è paradossale ma è la norma. Fra le ineguaglianze del nostro mondo c’è anche il trattamento discriminatorio cui vengono sottoposte alcune delle “buone cause”, a fronte del trattamento privilegiato riservato ad altre. Ci sono in giro per il mondo decine di migliaia di buone cause, ma solo alcune ricevono supporto finanziario e adeguato sostegno morale. Nessuno si impegnerebbe per la causa delle nonne non autosufficienti, ma il salvataggio di una specie rara di volatili in Amazzonia può ricevere milioni di like. Così è per i temi politici: la nostra è una cultura dei diritti di alcune specifiche minoranze (o presunte tali: le donne sono maggioranza…), che però diventa completamente muta di fronte ai diritti meno glamour (ad esempio che i ponti e le scuole non crollino, o che le case popolari siano occupate da abusivi).

Mentre sulla nave Diciotti si consuma un braccio di ferro con decine di persone ammassate per giorni, e due soli bagni in uso, Matteo Renzi è impegnato nelle riprese del programma tv sulle bellezze di Firenze.

Mi sembra una fotografia perfetta del ragazzo di Rignano.

Qual è il suo giudizio su Renzi? Lei vede leadership alternative emergenti? A ottobre ci sarà la Leopolda: lei parteciperebbe nelle vesti di sociologo per parlare di immigrazione e dintorni?

Sulla mia partecipazione, mai dire mai. Però tenga presente che, almeno finora, la sinistra – cui pure appartengo – mi ha sempre considerato radioattivo, e tenuto rigorosamente fuori del suo circuito.

Quanto a Renzi, sono fra gli ingenui che ha fatto la coda alle primarie per fargli vincere la partita con Bersani. Il mio giudizio è lo stesso che i cinesi danno su Mao Tse Tung (o come diavolo si scrive oggi): “70% giusto, 30% sbagliato”.

Oggi non lo rivoterei, non per gli errori che ha commesso, ma perché non li ha riconosciuti, quando farlo sarebbe stato utilissimo e salvifico per il Pd. Detto questo, non vedo leader più validi di lui, se a un leader si chiede anche energia e capacità di entrare in sintonia con i cittadini. Calenda e Minniti sono ottimi, ma non mi sembrano avere la stoffa del leader. Cuperlo, di cui ho grandissima stima, è un intellettuale del Novecento (anzi dell’Ottocento, se badiamo alla cortesia e alla signorilità dei modi). Zingaretti è solo un Bersani più giovane. Umanamente il mio preferito è Richetti, ma non so se abbia la stoffa del leader.

Veniamo ai temi economici. Lei ha criticato il decreto dignità. Adesso, dopo il crollo di ponte Morandi, il vicepremier Di Maio annuncia che il governo procederà alla revisione delle concessioni, e che alternativamente si procederà a nazionalizzazioni o a modifica delle clausole contrattuali…Certo, messa così, fa un po’ paura. (effetto sugli investitori, è bene tornare allo stato padrone? Etc)

No, tornare allo Stato padrone è una pessima idea. Ma rinunciare alla vigilanza, al controllo, alla trasparenza, come finora tutti i governi hanno fatto, è forse anche peggio.

In due mesi gli investitori esteri hanno ridotto l’esposizione sull’Italia per oltre 70 miliardi di euro. Ora l’Italia guarda anche alla Cina come possibile finanziatore del debito pubblico. Ma Di Maio ha rassicurato tutti dicendo che è “allarmismo infondato” e che il governo punterà sul “contatto diretto” con gli investitori.

Spero che Di Maio, quando dice queste stupidaggini, poi si faccia una risata davanti allo specchio. Se invece prende sul serio quel che dice, la situazione può diventare molto pericolosa.

Lei crede alla tesi del “complotto” dei mercati? Si evocano da più parti i “poteri forti” che non vorrebbero questo governo…

La tesi del complotto non regge, perché i mercati (cioè gli investitori) si preoccupano solo di far soldi, non certo di rovesciare i governi. Quel che c’è di vero, però, nella visione paranoide del ruolo dei mercati, è che può accadere che i mercati scommettano al ribasso su un paese, trascinandolo nel baratro. E’ successo nel 2011, anche perché parte dell’establishment europeo puntava sulla caduta del governo Berlusconi, potrebbe benissimo risuccedere oggi.

L’Ocse certifica che l’Italia è l’unico paese del G7 dove la crescita economica rallenta. Forse si stanno realizzando i sogni grillini di “decrescita”..Lei prevede che sarebbe una decrescita “felice” à la Latouche?

La “decrescita infelice” l’abbiamo già avuta nel 2008-2014. Da questo governo io non mi aspetto decrescita, ma un tonfo, se Tria e Mattarella non ce la fanno a fermare i due scavezzacolli.

Da dove dovrebbe ripartire, secondo lei, l’alternativa al fronte populista? Dall’europeismo? Dal lavoro? …Giuliano Ferrara dice che i sovranisti vanno contrastati non per quello che fanno, ma per quello che sono. Si riferisce all’idea dei muri, dell’antiglobalismo, delle paure infondate etc

Non credo che, oggi come oggi, uno schieramento pro-Europa abbia molte possibilità di successo, chiunque lo guidi. Dire che “ci vuole più Europa” è stato uno sbaglio enorme, quando i difetti dell’Unione europea erano sotto gli occhi di tutti da almeno 3 legislature. Basterebbe rileggere (anzi leggere, perché sicuramente a sinistra non l’hanno letto) Rischi fatali, la spietata analisi dell’Europa che Giulio Tremonti fece all’inizio della legislatura 2004-2009.

Per me demonizzare il cosiddetto sovranismo è una sciocchezza, che potrà portare solo a una Caporetto politica del “fronte democratico”, o come diavolo vorranno chiamarlo. La critica dell’Europa non può essere monopolio del fronte populista, ma andrebbe sostanzialmente condivisa. Dovrebbe essere un presupposto comune di tutte le forze politiche, come la democrazia è stata l’orizzonte comune di destra e sinistra. L’Europa ha portato alcuni vantaggi, ma politicamente ha fallito. Se non si riconosce questo, se ci si trincera dietro la stanca retorica del “sogno europeo”, si consegna l’Europa ai suoi nemici.

Una volta accettato che TUTTI siamo profondamente scontenti dell’Europa, e che su tante cose i populisti hanno le loro ragioni, si può cominciare a spiegare – se ci si riesce – dove e perché le loro non sono le soluzioni ottimali. Che esistono soluzioni migliori. E che certi rischi, primo fra tutti il collasso dell’euro, non li vogliamo correre.

Intervista a cura di Annalisa Chirico pubblicata su Il Foglio del 7 settembre 2018



La gestione dell’immigrazione. Intervista a Luca Ricolfi

Perché Salvini cavalcando la battaglia contro gli sbarchi ha conquistato gli italiani?

Perché gli sbarchi, anche quando sono pochi (come oggi, e come prima di Mare Nostrum) vengono percepiti come una sorta di prepotenza, aggravata dal ricatto umanitario, come se i migranti dicessero: “voi siete così civili che ci dovete salvare in mare e accogliere una volta a terra”.

La chiusura a riccio dei confini (soprattutto dei porti) operata dal Viminale è stata applaudita dagli italiani. Perché questa paura verso l’integrazione dei migranti?

La maggior parte degli italiani non ha paura dell’integrazione, ma che l’integrazione fallisca, come in effetti è successo.

Quale è la portata di responsabilità della crisi economica e del dilagare dei social, rispetto alla crescente rabbia razzista?

Lei è sicuro che ci sia una “crescente rabbia razzista”? Penso che, ammesso che vi sia una crescita dei sentimenti razzisti, qualche responsabilità vada cercata anche nei media “seri”, che amplificano episodi marginali che ci sono sempre stati.

Un annuncio di Trenord dagli altoparlanti dei vagoni contro “gli zingari sui treni che hanno rotto i c…” ha fatto il pieno di commenti positivi su Facebook. Perché il popolo del web è unanime contro i rom e sinti?

Non esiste un popolo del web sostanzialmente diverso dal popolo non-web, semplicemente il popolo non web è invisibile, mentre il popolo-web è iper-visibile per definizione. Ma entrambi condividono l’ostilità verso i rom e i sinti, un sentimento che non è nuovo e non è solo italiano.

 “La ruspa” di Salvini e gli sgomberi dei campi rom sono sempre accolti con grande favore da destra e da sinistra.

Da dove nasce la diffidenza collettiva verso questi popoli?

Dall’esperienza. Anche se non mancano le persone di origine rom/sinti che lavorano e vivono normalmente, il fatto che una percentuale elevata (nessuno sa esattamente quale) dei membri di queste comunità viva di accattonaggio e di furti non può che suscitare diffidenza in chi vive del proprio lavoro, e magari fatica a sbarcare il lunario.

Dai sondaggi pochi italiani si dicono razzisti, ma la percezione di un ritorno dell’odio contro gli stranieri è molto forte. Qual è il reale sentimento sociale?

Più o meno quello degli ultimi decenni, con la differenza cruciale per cui oggi chi ha sentimenti razzisti, o meglio sentimenti che i media e gli intellettuali etichettano come razzisti, si sente più legittimato ad esprimerli. Ma nella maggior parte dei casi il razzismo non c’entra, semmai quel che interviene è un meccanismo di generalizzazione, che tocca un po’ tutti, anche i più illuminati difensori dei rom. Se non ci crede prenda 1000 Vip progressisti, e controlli quanti di loro hanno assunto, o assumerebbero, una colf di etnia rom/sinti…

La sinistra italiana è stata spazzata via dai populisti perché ha fallito sulla questione migranti?

Sì e no. Il problema degli sbarchi è stato sostanzialmente risolto da Minniti, ma la sinistra anziché rivendicare il risultato ha cercato di nasconderlo, continuando con la retorica del “noi siamo quelli che salvano vite umane in mare”.

Passare da “accogliamo tutti” a “non accogliamo nessuno” da un giorno all’altro che conseguenze può avere sulla società italiana?

Non accogliere nessuno lascia irrisolti i due problemi principali: gli irregolari presenti (almeno mezzo milione), e le esigenze delle imprese, che di migranti economici hanno tuttora bisogno.

Intervista pubblicata su Quotidiano Nazionale il 9 agosto 2018




Il muro tra Buoni e Cattivi

Mi piacerebbe intervenire nel dibattito, scottante, sui migranti. Dire come la penso, tra amici, conoscenti, vicini di casa, magari a una cena, o nell’atrio di un cinema, o durante una passeggiata al mare, in montagna.

Ma non lo faccio quasi mai. Mi sembra di avere un muro davanti, dove non riesco a trovarmi un varco. Un muro di frasi fatte, parole d’ordine, formule precostituite. Mi sembra che le persone ormai girino con questo muro attorno, senza accorgersene. Almeno, le persone che mi capita d’incontrare, di frequentare maggiormente. Dovrei dire le persone che fanno parte del mio mondo, ma che non saprei bene come definire. I ceti abbienti? Gli istruiti? I benestanti, i professionisti? Sì, un misto di tutto ciò, e altro, anche gente non così istruita e non così benestante, più media. E anche le punte estreme, intellettuali, scrittori e studiosi e giornalisti, noti e meno noti. Non so. Dovrei dire “ceti medi riflessivi”, per usare l’espressione di Ginsborg, che mi sembra la migliore ma comunque non mi soddisfa.

Di queste persone mi disturba il partito preso, l’appartenenza aprioristica, il disprezzo per l’altro, il parlare per formule, le parole d’ordine con cui riconoscersi a vicenda: se le usi, bene, appartieni allo stesso reggimento e vieni incluso, apprezzato, vezzeggiato. Se non le usi, sei fuori: appartieni ipso facto all’esercito nemico.

E quali sarebbero, poi, questi due eserciti? Credo che non esistano. Credo che esista una sola parte, che si è creata l’altra. Un po’ come, in Fichte, l’Io oppone a sé il Non-io. Voglio dire che emerge una sola rappresentazione delle cose, ed è la rappresentazione che la minoranza che si sente eletta ha dato, una volta per tutte e fin dall’inizio. In questa rappresentazione unica e univoca ci sono due schiere contrapposte. Ma in realtà ce n’è una sola, che ha costruito l’altra. Così, da una parte, per dirla in breve, ci sono i buoni dell’accoglienza-tolleranza-solidarietà; e dall’altra i cattivi della morte, desolazione, disuguaglianza, egoismo, sopruso, disprezzo della vita umana. E le due parti sono drasticamente definite: nella prima schiera intellettuali, scrittori, giornalisti, professionisti d’ogni genere paladini del Bene: i pochi, “illuminati”; e nella seconda il popolo bruto e rozzo dei sentimenti ignobili: i molti, dunque per contrapposizione, “bui”.

“Uomini e no”, così una recente copertina dell’”Espresso”.

Dovrei appartenere, in quanto scrittrice, alla prima schiera. Per mestiere e per cultura, dovrei stare con gli Illuminati. Ma vorrebbe dire riconoscermi in un pensiero pre-stabilito, consegnarmi agli automatismi ideologici, usare la retorica dei buoni sentimenti. Non ce la faccio. Mi vergogno delle parole dolciastre e ipocrite, e anche del compiacimento sottile di esibire le virtù, civiche, umanitarie, solidali. L’autocompiacimento azzera ogni eventuale virtù. E mi sembra troppo facile e tranchant spostare il discorso dal campo della politica alla morale, è qualcosa che taglia ogni possibile confronto, e ogni analisi. Azzera le parole. E noi ora abbiamo bisogno non solo di immagini crude e dolenti che “scuotono le coscienze” (come ci offre tanto giornalismo del cuore), ma anche, e soprattutto, di parole il più possibile chiare e oggettive, che illustrino e spieghino con esattezza le cose come stanno, e che si spingano a prospettare qualche possibile soluzione.

Penso ci siano molte persone normali, e anche diversi intellettuali non arruolati, che vorrebbero parlare ma non lo fanno, intimiditi dal muro di voci sicure e giudicanti. Persone perbene, che non hanno voglia di esporsi alla pubblica gogna, di vedere le loro idee, appena nate e magari incerte e titubanti, stritolate dai Maestri del Bene. E scelgono di tacere. Parlare vorrebbe dire essere subito etichettati tra coloro che pensano cose che è bene non pensare; o che non pensano esattamente le cose che è bene pensare. Anche se il loro pensiero fosse estremamente dubbioso e pieno di interrogativi, per il solo fatto di non mostrare le certezze granitiche dei Buoni, verrebbero collocati tra i Cattivi.

C’è una specie di costrizione al silenzio, all’astensione, alla reticenza. O meglio, non tanto una costrizione quanto una pressione, una… induzione: si è indotti, dal clima intorno, a stare zitti. Non è vigliaccheria, o timidezza. È piuttosto una rassegnazione malinconica, venata di senso dell’inutilità. Il fatto grave è che questo silenzio aiuta l’egemonia degli altri, l’affermarsi del loro unico pensiero, e il dilagare della loro retorica sdolcinata.

È su questo silenzio coatto che bisognerebbe interrogarsi. Se tutti coloro che non sono Cattivi, non vogliono la morte dei migranti in mare, né le ruspe e i rastrellamenti, ma nello stesso tempo non si riconoscono nel semplicismo delle soluzioni dei Buoni né nella loro arroganza morale, nell’esibire le virtuose formule della loro superiorità; se costoro rompessero il silenzio e si convincessero a parlare, forse i muri che ci troviamo davanti cadrebbero.

E i cosiddetti intellettuali (studiosi, professori, scrittori, artisti, attori, registi e affini…)?

Noi scrittori, per esempio. Annaspiamo, mi sembra. Ripetiamo stanche formule, mantra ideologici sopravvissuti. Interveniamo ogni tanto, sui giornali, alla radio, in tivù, sui social. Lanciamo slogan, promuoviamo manifestazioni, oppure compiamo (o annunciamo che compiremo) gesti simbolici eclatanti (e subito mediatici). E firmiamo appelli. Perché continuiamo imperterriti a firmare appelli (sempre più scarni e ignorati, peraltro)? Perché questi esibizionismi verbali, vistosi e inutili (e a costo zero!), che inducono al sospetto di una mera autopromozione?

E poi, perché gli scrittori dovrebbero avere voce in capitolo, oggi? Perché più di altri, quali sarebbero i loro meriti? Perché gli scrittori e non i medici, gli psicanalisti, gli architetti? E perché non i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai, gli imbianchini? O si dà per scontato che questi ultimi, non avendo studiato, parteggerebbero di sicuro per i Cattivi, rozzi, brutali, amorali e incivili?

Mi chiedo quale dovrebbe essere oggi il ruolo dell’intellettuale, ammesso che debba averne uno. Domanda molto novecentesca, e abusata. Non so proporre un ruolo chiaro, ma credo che non debba ridursi a questo schierarsi così retorico e prevedibile, a questa stucchevole aria di voler sempre salvare il mondo da catastrofi imminenti e apocalittiche. Catastrofi a volte addirittura auspicate, invocate, perché risulti meglio la cattiveria dei Cattivi e la bontà degli eroici custodi del Bene…

Il primo compito, mi viene da dire, sarebbe quello di rinchiudersi da qualche parte e riflettere, informarsi e studiare. E, per un certo tempo almeno, tacere. Stare a vedere. Pensare. Considerare gli aspetti più nascosti, meno ovvi, più controversi. E poi, semmai, porre interrogativi, provare a scardinare schemi, a vedere la scena da più di un angolo visuale. Aiutando a individuare un possibile itinerario… Essere scomodi, certo, sempre. Ma con tutti! Con il nemico, ma anche con chi la pensa come noi. Meglio ancora, stabilire dopo chi è con noi e contro di noi, non a priori, e non con questo sprezzante senso di superiorità.

Amos Oz, in una recente intervista al Tg1: “I nemici non si amano. Ma si deve dialogare, con i nemici”. Dialogare, non urlare formule contro il nemico. Sembra che abbiamo bisogno di un nemico, per esistere. Preferiamo esibire un nemico, più che un pensiero.

Siamo tutti frastornati e confusi, inutile proclamarsi per principio i migliori, unici detentori della Verità. Più utile parlarsi davvero, gli uni con gli altri, consapevoli che forse le scelte che saremo chiamati a compiere, in questa fase storica che forse si chiamerà Estinzione della civiltà europea, sono difficili, persino tragiche, e non si lasciano ridurre alla comoda opzione fra arruolarsi nell’esercito del Bene o in quello del Male.

Se proprio devo scegliere, io sto con i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai e gli imbianchini.

Mi stanno a cuore anche le ragioni di questi cosiddetti “cattivi”, che tanto dispiacciono a noi intellettuali. Mi capita di parlare con qualcuno di loro, a volte, anche solo superficialmente, ma quel tanto che basta per accorgermi che la loro “cattiveria”, poi, non è altro che una massiccia dose di buonsenso e disperazione. Non credo che, se manifestano paure, siano paure vigliacche, colpevoli. Mi chiedo piuttosto se non siano anche loro vittime, insieme ai poveretti degli sbarchi. Vittime almeno quanto i migranti che “accogliamo” nei containers per poi farli diventare schiavi e servi, braccianti della raccolta dei nostri pomodori e badanti dei nostri anziani. Parlo dei ceti più deboli, degli italiani che faticano a sopravvivere e abitano in quartieri periferici o degradati, dove subiscono spesso furti e aggressioni. Hanno paura ogni sera di tornare a casa, si sentono stranieri nelle loro città, nei loro quartieri, nella propria casa, nelle classi dei loro figli, accerchiati da altre lingue, altri costumi, altre religioni. Mai protetti, e per giunta additati come razzisti, ignobili, ingenerosi. Sono vittime anche loro. Ma vittime nostrane, italiane, “bianche”: troppo simili a noi, troppo poco esotiche?

La fragilità appartiene a tutti. “Di che reggimento siete/ fratelli?/ Parola tremante /nella notte/ Foglia appena nata/ Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/dell’uomo presente alla sua fragilità/ Fratelli”.

Chi firma appelli saturi di retorica, chi fa girare video edificanti sui social, chi lancia i suoi anatemi sui novelli nazisti, spesso non ha idea di come viva la maggioranza della gente. Abita nelle sue “isole” lontane e lussuose, e predica un’accoglienza che di fatto non sa cosa sia. Accoglienza è una parola meravigliosa. Ma non dovrebbe rimanere solo una parola, tanto meno una metafora. Sono stupita di quanto poco sia intesa in senso letterale, concreto, presso i ceti medi riflessivi. Mi sembra il solito “Armiamoci e partite”. Indigniamoci e accogliete.

Bisognerebbe dare il buon esempio. Fare un gesto vero, letterale, di accoglienza. Ne vedo ben pochi, di questi gesti, nel mondo della classe agiata: com’è possibile? Allora meglio dismettere l’enfasi e la retorica, astenersi dal predicare, e dal giudizio sprezzante.

Sto leggendo Buzzati, Il reggimento parte all’alba, ora ripubblicato nelle bellissime edizioni Henry Beyle. Non l’avevo mai letto. È un inno alla nostra ineluttabile mortalità, al fatto che tutti nasciamo per morire, che a tutti compete questa partenza, un giorno.

“Tutti senza eccezione nella città e anche fuori nelle campagne, valli, rive del mare, per quanto è esteso il mondo, tutti in certo modo appartengono a un reggimento e i reggimenti sono innumerevoli, nessuno sa quanti sono, e nessuno sa neanche quale sia il suo reggimento (…). Però, quando un reggimento parte, chi gli appartiene, pure lui deve partire.

Altri dicono invece che si tratta di navi. Ciascuno è iscritto come passeggero di una nave senza sapere dove sia né il nome. E sono navi strane capaci di salpare dal centro di un arido deserto o dalla precipitosa gola di una montagna. Ma reggimento o bastimento è lo stesso, il fatto è che un bel giorno ciascuno di noi deve partire”.

Ecco, anche Buzzati parla di navi. Bastimenti. Andar per mare. E morire. Ma così come ne parla lui, nessuno è buono o cattivo. Scompaiono gli eserciti, le fazioni, i Giusti e gli Sbagliati, gli Illuminati e i Bui. Di colpo, siamo su un altro piano, pacificato. Nulla di più… egualitario.

Per fortuna ci sono i libri. Soprattutto i libri che non abbiamo letto, che ci sono sfuggiti, nella vita, e che quindi troviamo a un certo punto, inaspettati, sorprendenti. Dovremmo dedicarci a scovarli, e leggerne il più possibile, prima che la nave arrivi, invece di blaterare le formule del Pensiero Dominante. Leggere è da sempre il modo migliore di non lasciarci dominare.




Migranti/Dilaga l’appellite, ultima moda salva-coscienze

A giudicare dalla crisi di “appellite” che da qualche tempo ha colto diversi personaggi pubblici, con particolare veemenza nel mondo degli scrittori (Veronesi, Saviano, finalisti Strega), sembrerebbe che in Italia siano possibili solo due posizioni. Da una parte i sinceri democratici, preoccupati dell’involuzione “autoritaria, xenofoba e razzista” degli italiani, nonché decisi a schierarsi dalla parte del Bene; dall’altra parte tutti gli altri, che ignorano gli appelli dei maestri di virtù per viltà, ignavia, opportunismo, o semplicemente in quanto popolo rozzo e insensibile, stregato dalla propaganda leghista.

Eppure, a quanti non hanno deciso di rinunciare completamente a usare la ragione, dovrebbe essere chiaro che, per chi deve governare l’Italia, non ci sono – in materia di immigrazione – due sole opzioni, di cui una feroce e l’altra umana. No, purtroppo per chi deve decidere, ieri come oggi, ci sono solo alternative tragiche. La scelta non è fra il bene e il male, ma fra due (e forse anche più di due) differenti specie di male. Ecco perché, a mio modo di vedere, il primo dovere di chi studia e di chi informa non è quello di schierarsi risolutamente a favore di uno dei due mali, ma quello di raccontare il lato oscuro di ogni scelta, quel lato che, proprio perché occulta una tragedia, i politici si ostinano a non vedere, ma soprattutto a non dire.

Oggi quel lato oscuro è innanzitutto l’inferno libico. I morti nella traversata nel deserto, di cui non si saprà mai il numero. Le decine di migliaia di persone detenute in campi legali (sotto l’autorità del governo libico), in condizioni disumane. Ma, ancora più terribile, le decine di migliaia di persone ammassate in campi illegali per ottenere un riscatto in denaro o per essere vendute e rivendute come schiavi. E poi c’è l’altro lato oscuro (ma forse è solo la punta dell’iceberg), le migliaia di morti in mare per raggiungere l’Europa, fra traversie e drammi di cui pochi sanno. Chi volesse avere un’idea vivida di tutto ciò può leggere Non lasciamoli soli, un bellissimo libro di testimonianze che Francesco Viviano e Alessandra Ziniti hanno da poco pubblicato con Chiarelettere.

E’ con questo lato oscuro che ogni politica migratoria, quale che sia il suo orientamento, si trova a fare i conti. Può cercare di occultarlo, e spesso ci riesce anche, ma non può cancellarlo. Vale per le politiche di chiusura, ma anche per quelle di apertura.

Prendiamo, ad esempio, la linea Minniti-Salvini. So benissimo che fra Minniti e Salvini ci sono differenze, che la visione del problema migratorio è radicalmente diversa ma, nel breve periodo e sul piano concreto, i capisaldi sono sostanzialmente i medesimi. Ostacolare le partenze, con l’aiuto della guardia costiera libica. Frenare il flusso dal Niger alla Libia meridionale, con l’aiuto delle tribù locali. Aumentare i controlli dei campi legali da parte dell’Onu. Aprire corridoi umanitari direttamente dall’Africa. Incentivare i rimpatri assistiti di chi non ha diritto alla protezione internazionale. Il prezzo è che migliaia di migranti che cercano di entrare in Europa via mare restano intrappolati nell’inferno libico, o vi vengono riportati dalle vedette libiche. Secondo le mie stime, negli ultimi mesi quasi metà dei partenti vengono intercettati e riportati indietro dalla guardia costiera libica. E, anche se è vero che ad attenderli c’è “personale internazionale con le pettorine azzurre”, resta il fatto che la destinazione sono i campi di detenzione governativi, controllati da militari non di rado corrotti e in combutta con i trafficanti di uomini. Questo è il lato imbarazzante della linea dura, inaugurata dal governo Gentiloni (con Minniti) e sostanzialmente confermata dal governo Conte (con Salvini).

Vediamo l’alternativa, ovvero la linea seguita dai governi di Letta e Renzi (ricordo che è stato Enrico Letta a lanciare l’operazione Mare nostrum). Questa linea non si preoccupava né di frenare gli ingressi dal Niger alla Libia, né di imporre la presenza delle organizzazioni internazionali in Libia, né di aprire canali umanitari in Africa, né di rafforzare la guardia costiera libica. Il nucleo era: lasciamoli partire, e aiutiamoli a non morire in mare. I benefici sono sempre stati chiari, e ampiamente sottolineati:  centinaia di migliaia di persone hanno avuto la possibilità di entrare in Europa, perlopiù sbarcando in Italia. Ma i costi?

Vediamoli. Il primo, il più evidente, è stato di moltiplicare i morti in mare. Nel biennio 2012-2013, ovvero subito prima di Mare nostrum, il numero di morti in mare era  relativamente basso, negli anni dell’apertura (2014-2016) è quasi decuplicato. Oggi torna a scendere, ma solo perché è crollato il numero delle partenze (la rischiosità dei viaggi sta invece aumentando). È il dramma della linea dell’apertura: riesce a portare più persone in Europa, ma moltiplica anche i morti. Ed è terribile che, in tutti gli anni del regno di Renzi, non una sola riflessione si sia sentita su questo prezzo dell’apertura.

C’è però anche un altro lato oscuro della linea dell’apertura, ed è il tributo che, senza volerlo, essa paga ai sequestri di persona e allo schiavismo: più persone si mettono in viaggio, più persone attraversano il confine meridionale della Libia. Lì la norma è essere catturati, rinchiusi in un campo illegale gestito da miliziani senza scrupoli, essere umiliati, torturati, stuprati, finché le famiglie (informate via telefono dalle urla strazianti dei prigionieri) non pagano il riscatto richiesto; altrimenti il destino è essere venduti come schiavi, o uccisi perché ormai invendibili come schiavi. Questo business, forse, è ancora più redditizio di quello dei trasferimenti via mare in Europa. La linea dell’apertura verosimilmente lo alimenta, perché il tam-tam corre veloce e, se si sa che ci sono buone possibilità di partire via mare, più persone tentano di raggiungere la Libia dall’Africa centrale, per la gioia dei trafficanti di uomini che controllano buona parte del territorio libico.

Ecco perché dicevo che, purtroppo, la scelta che sta di fronte alla politica non è fra il bene e il male, ma fra due mali diversi. Perché le azioni hanno conseguenze, e spesso le conseguenze sono diverse dalle finalità che si perseguono. Anche se volessimo ignorare del tutto il punto di vista dei ceti popolari, convinti da anni di accoglienza anarchica che in Italia non c’è più posto, e volessimo invece preoccuparci solo del bene dei migranti, il dilemma resterebbe. Non è evidente che il male che facciamo chiudendo sia più grande di quello che facciamo aprendo; così come non è evidente il contrario. Per questo le scelte della politica, almeno finché l’Europa resterà ignava come ha fatto fin qui, non possono che essere tragiche. Non c’è modo di perseguire il bene senza provocare il male. Per chi non vuole autoaccecarsi, come fece Edipo, non c’è “la cosa giusta” da fare, ma solo la scelta fra due corsi d’azione entrambi tragici nelle catene di conseguenze che mettono in moto.

E precisamente per questo gli appelli accorati al nostro “lato umano” mi sembrano quanto meno fuori bersaglio, un logoro esercizio di ostentazione etica, forse buono per rassicurare qualche coscienza, ma incapace di farci fare un solo passo nella comprensione del dramma dei migranti.

 




Gli sbarchi e l’inferno libico

Se dovessimo basarci solo sui freddi numeri, dovremmo concludere che il problema degli sbarchi è stato quasi completamente risolto. Fatto 100 il numero medio di arrivi nel periodo anteriore alle “primavere arabe” (dal 1997 al 2010), siamo passati a 780 nel 2016, per poi ripiegare a 214 alla fine dell’era Minniti (gennaio-maggio 2018), e infine sotto quota 100 nell’era Salvini-Di Maio (giugno luglio 2018).

Fu vera gloria?

Per certi versi sì. Checché ne dicano i dirigenti del Pd, che nei giorni scorsi hanno affermato che i morti in mare sono aumentati, è vero il contrario: fra il 2107 e il 2018 i morti in mare nella rotta centrale del Mediterraneo (quella più pericolosa, che porta in Italia) si sono pressappoco dimezzati (la fonte è OIM, Organizzazione Internazionale per le migrazioni).

Ma per altri versi no, non fu vera gloria. Proprio per niente. Intanto bisogna dire che la riduzione del numero dei morti è dovuta solo alla diminuzione del numero delle partenze. La pericolosità dei viaggi, invece, è aumentata: nel 2017 il rischio di perire nella traversata verso l’Italia era già alto, oggi è ancora più alto. Ma il punto centrale è che la frenata agli arrivi, pur avendo ottenuto risultati politici non disprezzabili (sostanzialmente: l’Europa si è scossa dal proprio torpore pluriennale), non ha minimamente scalfito i due problemi fondamentali che abbiano di fronte, come italiani e come europei.

Come italiani il nostro problema fondamentale ormai non sono più gli sbarchi attuali, bensì la somma degli sbarchi passati. Detto crudamente: la massa di centinaia di migliaia di migranti che si aggirano sul nostro territorio senza averne diritto, una massa cui in futuro rischiano di aggiungersi i migranti che noi abbiamo salvato e registrato, che sono passati in altro paese europeo, e che i paesi “fratelli” (specie Austria, Francia e Germania) hanno ogni intenzione di restituirci: una minaccia che nel legnoso linguaggio dell’Unione viene dissimulata sotto l’etichetta “problema dei movimenti secondari”.

Come europei siamo messi ancora peggio. Il problema di fondo dell’Europa è che l’Africa vorrebbe trasferirsi nel Vecchio continente. E lo vuole per un sacco di motivi, alcuni ottimi, altri discutibili, ma tutti reali. Il più importante è che molti paesi africani sono semplicemente invivibili, fra guerre, dittature, corruzione, fame, siccità, carestie, traffico di esseri umani. La complicazione è che “noi” siamo 500 milioni (in calo), “loro” 1 miliardo e 200 milioni, destinati a diventare 2 miliardi e più nel giro di due o tre decenni: giusto il tempo di vedere i nostri neonati di oggi prendere una laurea domani.

Come si risolve questo problemuccio?

Una soluzione, abbastanza gettonata nel mondo progressista, è la rassegnazione entusiasta, se mi si consente questo ossimoro. L’idea è che le migrazioni siano un fenomeno “epocale”, che la mescolanza fra popoli e culture sia più un bene che un male, e che si tratti solo di gestire (con politiche di accoglienza e integrazione) le legittime aspirazioni di diverse centinaia di milioni di persone di trasferirsi in Europa.

A questa soluzione, per ora, si contrappone solo un’idea, tanto rozza quanto confusa, di limitare gli sbarchi e “aiutarli a casa loro”, come è diventato di moda dire oggi. In Italia questa linea prende le vesti di un crescente trasferimento di risorse verso il governo libico (o meglio: verso uno dei tre poteri in lotta fra loro in Libia, quello di Sarraj a Tripoli). Noi regaliamo motovedette, istruttori, soldi, e speriamo che così non facciano partire nessuno, e poco per volta escano dal caos e dalla miseria.

Ma è una soluzione?

A me pare di no. La maggior parte delle testimonianze dirette che giungono dalla Libia ci rivelano che i legami tra governo, milizie e trafficanti sono piuttosto stretti. L’Italia fornisce soldi e mezzi, ma non esercita alcun reale controllo sull’uso che ne vien fatto. Nonostante gli accordi e i protocolli negoziati dal precedente governo, dall’Onu e dagli organismi internazionali con i governi libici, nonostante il successo di alcuni esperimenti (come i rimpatri e i centri sotto l’egida dell’ONU), la situazione nel paese africano resta drammatica, e negli ultimi mesi sta peggiorando rapidamente. In una recente conferenza stampa i rappresentanti dell’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) hanno dovuto riconoscere che il sovraffollamento dei campi di detenzione si sta aggravando, e che i numeri sono scoraggianti: a fronte di decine di migliaia di rifugiati, l’Europa si è impegnata ad accoglierne appena 4000, e ne ha di fatto accolti poco più di 200.

Certo non tutti i campi in cui vengono ammassati i migranti sono eguali (alcuni sono illegali e gestiti direttamente dai trafficanti, altri sono governativi, altri vedono la presenza delle Ong), ma le testimonianze di trattamenti inumani, stupri, violenze, estorsioni, ricatti, persino di vendite come schiavi, sono difficilmente confutabili, o derubricabili a eccezioni. Vale per oggi, nell’era Salvini, ma valeva anche ieri, nell’era Minniti, con l’unica mortificante differenza che prima la stampa progressista si barcamenava o chiudeva un occhio, mentre ora si indigna 24 ore su 24: sublime ipocrisia dell’umanitarismo a senso unico.

È strano, molto strano, che a chi proclama di voler limitare gli arrivi, sia esso un “sincero democratico” o un bieco politico “populista”, non venga mai in mente che impedirli con l’intimidazione e la sopraffazione fisica, delegando ai libici il lavoro sporco, non può che moltiplicare la disperazione, e rafforzare la volontà di sbarcare in Europa, costi quel che costi.

Insomma, quel che non capisco, pur condividendo l’idea che in Europa si debba entrare esclusivamente in modo legale, è come mai, oggi come ieri, siamo così timidi quando ci rapportiamo a paesi come la Libia: un paese che, a differenza di altri paesi africani, non ha ancora firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati (1951), e pone non pochi ostacoli alla presenza di osservatori internazionali e all’azione delle organizzazioni umanitarie. Forse siamo timidi perché siamo politicamente deboli e isolati, o semplicemente perché siamo ricattabili a causa dei nostri interessi economici (l’Eni è presente in Libia). Eppure dovremmo riflettere. Se davvero vogliamo “aiutarli a casa loro”, non possiamo non porci il problema, sollevato quasi dieci anni fa da Dambisa Moyo (africana trapiantata negli Stati Uniti), dell’uso dei fondi che affluiscono in Africa, troppo spesso finiti nel circuito della corruzione anziché alle popolazioni cui erano destinati (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, Rizzoli 2010). Soprattutto dovremmo condizionare i nostri aiuti e il nostro supporto a un minimo di garanzie sui migranti, nonché alla possibilità di aprire in territorio africano canali legali e funzionanti di ingresso in Europa (sempre che l’Europa riesca ad essere meno avara di quanto si sta rivelando oggi).

Perché i numeri e i tempi contano. Un flusso ragionevole e ordinato di ingressi in Europa può solo arricchire il Vecchio Continente, ma la finzione che tutto vada bene nell’inferno libico rischia solo di alimentare una bomba che, prima o poi, non potrà che esplodere, travolgendo tutto e tutti.