Non solo Salvini. Le origini dell’insicurezza

Fra le convinzioni più granitiche del mondo progressista vi è quella che la domanda di sicurezza, e la connessa paura dello straniero, siano l’amaro frutto della propaganda di destra, e in particolare della spregiudicatezza comunicativa di Matteo Salvini, sempre pronto ad amplificare qualsiasi episodio di violenza che veda come vittima un italiano e come autore uno straniero, specie se migrante, richiedente asilo o rifugiato.
A sostegno di questa tesi vengono citati, quasi sempre, i dati sull’andamento dei delitti, un po’ vecchiotti (fermi al 2016) ma piuttosto univoci: in era renziana i delitti totali, compresi quelli di maggiore allarme sociale come omicidi, furti, violenze sessuali, mostrano una netta tendenza alla diminuzione. Se i delitti calano, come spiegare il crescente senso di insicurezza degli italiani, nonché la conseguente impetuosa crescita della domanda di sicurezza, se non come il risultato di una manipolazione dell’opinione pubblica, scientemente aizzata ad avere paura?
Questa lettura di quel che è successo non è insensata, o puramente autoconsolatoria. Penso anch’io che, senza l’azione combinata della politica e dei media, il senso di insicurezza degli italiani non sarebbe aumentato tanto quanto è aumentato in questi ultimi anni. E tuttavia credo che, da sola, quella spiegazione non funzioni. Quando si parla di insicurezza, e si imputa la sua crescita essenzialmente agli “imprenditori della paura”, a mio parere si dimenticano due importantissimi fattori che, in questi anni, hanno contribuito non poco ad alimentare insicurezza e domanda di protezione.
Per illustrare il primo fattore riporto qualche passaggio di una mail, alquanto cruda, che ho ricevuto qualche tempo fa da un giovane studioso italiano che ha avuto la ventura di entrare per la prima volta negli Stati Uniti per un convegno. Parlando degli “sbarchi via aereo”, comincia con il farmi notare la ingombrante burocrazia dei visti d’ingresso, le domande cui tutti – bianchi e non bianchi – devono rispondere (tipo: cosa vieni a fare? quando te ne vai? a che indirizzo pernotti? quanti soldi hai?). Per poi concludere: “la mera esistenza di questa procedura di selezione degli ingressi (che fa anche un po’ paura, ci sono stemmi della polizia intimidatori ecc.) dà l’impressione che per lo meno gli USA cercano di proteggere i loro cittadini, mentre in Italia questo è l’ultimo dei problemi. C’è anche questo modo di vederla: se gli accessi fossero regolati e avessero un aspetto meno selvaggio di un barcone pieno di africani, i cittadini italiani avrebbero forse più l’impressione che allo Stato importa qualcosa di loro, cosa di cui l’americano medio non dubita”.
Naturalmente so bene che le situazioni dell’Italia e degli Stati Uniti sono molto diverse, anzi speculari (là il problema è la frontiera con il Messico, qui è il Mediterraneo), però la domanda fondamentale resta la stessa: in questi anni i nostri governi hanno dato l’impressione che allo Stato interessasse proteggere i propri cittadini filtrando rigorosamente gli ingressi?
La risposta è: assolutamente no. Per anni il messaggio è stato esattamente quello contrario: non dovete preoccuparvi, e se lo fate è perché siete preda di paure irrazionali; la nostra missione, e quindi la nostra priorità, è salvare vite umane. C’è voluto l’approssimarsi delle elezioni, e l’avvento di Minniti, per cambiare registro, ma era troppo tardi, e comunque non poteva bastare. Perché la gente non si basa sulle statistiche, ma su quel che vede: 100 mila ingressi regolari e controllati creano meno inquietudine di un solo barcone con 100 migranti che non si potranno mai respingere, anche quando risultasse che non hanno diritto ad alcuna forma di protezione. E dire che, anche a sinistra, qualcuno aveva provato a dirlo, che non c’è dialogo senza sicurezza: “la sensazione di sicurezza da entrambi i lati della barricata è una condizione essenziale per il dialogo fra le culture” scriveva Zygmunt Bauman nel 2011, giusto prima dell’inizio delle primavere arabe (Per tutti i gusti, Laterza 2011).
La rinuncia di chi ha il dovere di proteggere a prendere sul serio il proprio ruolo non è però l’unico fattore che ha fatto lievitare il senso di insicurezza. Ce n’ è anche un altro, molto più subdolo e sottile. Anche in questo caso preferisco spiegarmi con un esempio: qualche giorno fa, guardando un telegiornale, apprendo che, in vista di qualche giornata un po’ calda, le autorità stanno predisponendo una gigantesca campagna di sorveglianza e protezione denominata “estate sicura”, come se un gravissimo pericolo incombesse sulle nostre vite. Lungi da me criticare una simile lodevole iniziativa, ma non posso non notare che una campagna simile era inconcepibile anche solo un paio di decenni fa, e che sono ormai centinaia le iniziative, le pubblicità, gli eventi nei quali siamo implacabilmente avvertiti dei pericoli che corriamo, nonché dei rimedi che, per lo più a pagamento, sono a nostra disposizione purché prendiamo atto della nostra vulnerabilità. Non so se lo avete notato, ma è da anni e anni che sia la pubblicità commerciale, sia la pubblicità progresso, ci terrorizzano con quello che ci potrebbe succedere se non stiamo attenti alla placca dentaria, se non stipuliamo un’assicurazione, se non installiamo impianti di allarme nella nostra casa, se non disinfettiamo la stanza in cui gioca il bambino, se non ci sottoponiamo a controlli medici periodici, se non ci vacciniamo contro l’influenza, se non portiamo il cane e il gatto dal veterinario, se non mettiamo la mascherina anti-smog, se non scegliamo un’auto con 9 airbag (salvo aggiungere: “ma gli airbag non bastano più”, e giù dispositivi elettronici che ci avvertono di tutto e ci proteggono in ogni situazione). E questo martellamento, come stanno documentando molti studi di psicologia (specie negli Stati Uniti), non sta solo impaurendo le generazioni più anziane, ma sta forgiando una generazione di ragazzi sempre più insicura, intimorita, iperprotetta, e proprio per questo non attrezzata ad affrontare le difficoltà della vita adulta. Già una quindicina di anni fa, parlando dell’evoluzione della società americana, Hara Estroff Marano ebbe a coniare l’espressione Nation of Wimps (una “nazione di schiappe”), mentre un’altra psicologa, Jean Twenge, da poco ha pubblicato un libro (iGen, in italiano Iperconnessi, Einaudi 2018) nel cui sottotitolo i ragazzi della generazione internet sono descritti come “del tutto impreparati a diventare adulti”, proprio per l’eccesso di attenzioni protettive da parte di genitori e docenti.
E’ il progresso, ovviamente. Come si fa a non compiacersi degli standard sempre più elevati di sicurezza? Tuttavia forse sfugge l’altra faccia della medaglia: una società bombardata dall’imperativo della sicurezza, ossessivamente invitata a proteggersi da ogni sorta di minaccia, non diventa soggettivamente sempre più sicura, bensì sempre più vigile, e inevitabilmente sempre più sensibile ai problemi della sicurezza. Avete notato quanto è aumentato l’uso, soprattutto nei media, di espressioni come “sicuro”, “sicurezza”? e l’uso ossessivo, nelle situazioni più disparate, dell’espressione “mettere in sicurezza”?
Il paradosso delle campagne per la sicurezza è che il loro effetto collaterale è di aumentare il sentimento di insicurezza. Ma tutto questo non può non avere effetti anche sul modo in cui viene percepito il problema dei migranti. Più una società è impegnata in una ricerca ossessiva della sicurezza, più è destinata a mal digerire qualsiasi evento che appaia fuori controllo.
E’ la dialettica della protezione. Nella società italiana la paura dello straniero è stata certamente alimentata dalle campagne politiche anti-sbarchi e anti-Ong, ma non possiamo dimenticare che il terreno della paura era stato scrupolosamente concimato da due meccanismi, per certi versi opposti, che con Salvini nulla hanno a che fare. Il primo si ha quando chi deve proteggerti (governo) cerca di convincerti che le tue preoccupazioni sono infondate. Il secondo si ha quando chi vuole offrirti un prodotto o un servizio (pubblicità) cerca di convincerti che ti devi preoccupare. Il cocktail fra questi due grandi meccanismi della psicologia sociale, entrambi assai rigogliosi negli anni della crisi, ha reso altamente infiammabili le anime dei cittadini: è forse per questo che è bastato Salvini a farle prendere fuoco.




La sinistra e l’immigrazione. Intervista a Luca Ricolfi

Il Pd esce moribondo dalle amministrative. Un tracollo annunciato?

Sì e no. Si poteva anche supporre che, visto il tradimento” dei Cinque Stelle, molti elettori di sinistra potessero tornare all’ovile. Così non è stato, probabilmente perché l’atteggiamento dei cittadini italiani verso il governo, in questo momento, è di tipo sperimentale: prima di bocciarli, vediamo quel che combinano.

Lei ha spesso insistito sui limiti della sinistra che non ha capito l’importanza del tema della sicurezza. Ma nello sprofondare dei dem c’è solo o soprattutto questo? Quanto pesano temi come le banche o il Jobs Act?

Secondo me poco. Se gli italiani fossero imbufaliti con il Pd per il Jobs Act avremmo assistito a un trionfo di LEU.

Renzi si è dimesso da segretario ma è ancora in prima fila. Quanto ha inciso?

Renzi (e Boschi) hanno fatto molto per rendere antipatica tutta questa nuova classe dirigente del Pd, ma la sconfitta è innanzitutto politica. E secondo me, in ultima analisi, è dovuta a un’unica causa gli italiani si sono sentiti presi in giro, per non dire derisi. Presi in giro quando, con 3 milioni di disoccupati e 5 milioni di poveri, veniva loro raccontato che la situazione era molto migliorata, per merito del governo. Derisi quando veniva loro spiegato che non dovevano preoccuparsi della criminalità e degli sbarchi, perché e entrambi erano diminuiti.

Ora nel Pd si potrebbe anticipare il congresso all’autunno, così da scegliere un nuovo segretario. Ma è quello che serve? E soprattutto, va svolto con le primarie o è un rito svuotato?

Le primarie sono un ottimo strumento per proclamare un leader, coinvolgendo non solo gli iscritti. Per cambiare linea, invece, ci vorrebbe un vero congresso, preparato nei circoli (una volta si chiamavano sezioni), con relazioni dure e contrapposte. Se fossi del Pd, mi ispirerei al vecchio PCI, non al modello del “partito leggero” emerso in era veltroniana.

Nel crollo generale sembra profilarsi la candidatura a segretario del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, fautore di un centrosinistra largo. È un profilo adeguato, a suo avviso? E bisogna comunque ripartire da un campo di centrosinistra?

Preferisco il fratello. Scherzi a parte, la risposta è un doppio no: se qualcosa di nuovo deve nascere, non può essere guidato da un vecchio professionista della politica, né è realistico pensare che possa aver successo riverniciando il centro-sinistra.

Calenda, arrivato tre mesi fa nel Pd, propone già di superarlo e di creare un “fronte repubblicano”. Che ne pensa? Il Pd è davvero un paziente che non si può più salvare?

Probabilmente Calenda ha ragione nel diagnosticare l’inguaribilità del Pd. Però non credo che la soluzione sia il “fronte repubblicano”, almeno se per fronte repubblicano si intende una santa alleanza contro i barbari, nello stile delle mobilitazioni francesi contro i Le Pen, padre e figlia. Il fronte può funzionare se i cittadini percepiscono l’incombere di un pericolo mortale, come il fascismo, il nazismo, l’odio razziale. Non mi sembra questo il caso, oggi in Italia. Pochi pensano che Salvini e Di Maio costituiscano un simile pericolo.

Se proprio dobbiamo immaginare una mobilitazione da fronte, penso che l’unica eventualità che potrebbe attivare una formula del genere sia il rischio di uscita dalla zona euro, uno scenario che sì, effettivamente potrebbe mobilitare un fronte impaurito dal salto nel buio.

Nelle amministrative gli unici che si sono salvati dalla tempesta sembrano i candidati più “rossi”, come quello che ha vinto a Brindisi. È un segnale del fatto che la gente chiede un partito di sinistra radicale al posto di un partito moderato?

Non credo, penso che nelle elezioni amministrative si scelga soprattutto la persona che ci appare più seria o, nelle situazioni in cui prospera il voto di scambio, la persona che ha più possibilità di garantire favori.

Come si risponde da sinistra sul tema immigrazione? Come si può contrastare il Salvini che vuole chiudere i porti?

A me l’unica risposta di sinistra pare questa: accogliere tutti quelli che possiamo (ovvero molti meno di oggi), ma poi smetterla di abbandonarli come facciamo da anni: la sinistra deve integrare gli immigrati, non aprire le porte e poi infischiarsene. Chiudere i porti non è la soluzione, ma riaprirli solo quando gli altri paesi mediterranei (Spagna e Francia, innanzitutto) avranno accettato di fare la stessa cosa, è più che ragionevole.

Intervista a cura di Luca De Carolis pubblicata su Il Fatto Quotidiano del 27 giugno 2018



Crimine e Immigrazione in Italia

1. Introduzione

Da alcuni decenni, e più in particolare dagli anni 1980, studi condotti in quasi tutti i Paesi dell’Europa Occidentale hanno rilevato tassi di criminalità per gli immigrati stranieri significativamente più alti di quelli registrati per la popolazione nativa. Si tratta di risultati almeno in parte sorprendenti, perché studi precedenti condotti negli anni 1950 e 1960 nei Paesi europei di forte immigrazione – Germania, Svizzera, Francia, Belgio e Regno Unito – avevano invece rilevato per gli immigrati stranieri tassi di criminalità sostanzialmente non superiori a quelli dei nativi. Inoltre studi recenti e meno recenti condotti in Paesi non europei caratterizzati da forte immigrazione (Canada, Stati Uniti e Australia) non hanno prodotto dati che possano sostenere la tesi di una particolare propensione alla criminalità da parte degli immigrati stranieri.

Certamente, però, la attuale situazione immigratoria in Europa è peculiare. Negli anni 1990 in media, circa 1,65 milioni di immigrati l’anno hanno raggiunto l’Europa Occidentale. Dal 2001, il flusso di arrivi per anno ha raggiunto e superato i due milioni. Nello stesso periodo gli Stati Uniti – ossia il Paese dell’immigrazione nell’immaginario collettivo – ha ricevuto un flusso immigratorio inferiore: circa un milione per anno. Questo flusso minore e più costante verso gli Stati Uniti è stato anche il risultato di più stretti controlli in quella nazione, che hanno incrementato indirettamente la pressione migratoria verso l’Europa. Pochi tra gli stessi europei sono consapevoli del fatto che è l’Europa oggi la vera terra dell’immigrazione internazionale e che notevoli differenze esistono tra l’Europa e gli Stati Uniti in termini di flussi immigratori. In effetti, l’incremento del flusso immigratorio è stato più forte in Europa che negli altri Paesi interessati dall’immigrazione internazionale. Inoltre, solo una frazione degli immigrati in Europa proviene dall’Europa stessa, dall’America del Nord, dal Giappone, dall’Australia etc., mentre la loro maggior parte – costituita di regola di lavoratori poco qualificati – proviene da Paesi sottosviluppati e culturalmente lontani: cosa considerata per lo più sfavorevole alla loro assimilazione e integrazione. Per di più, una parte non trascurabile dell’attuale immigrazione verso l’Europa è composta da individui su cui non è stato esercitato un effettivo controllo migratorio da parte del Paese ospitante: individui che, sono o sono stati clandestini, irregolari, richiedenti asilo privi dei requisiti per ottenere lo status di rifugiati etc., e che mediamente presentano maggiori problemi di integrazione rispetto a coloro che possiedono un ineccepibile profilo immigratorio. Queste caratteristiche rendono l’immigrazione attuale verso l’Europa diversa anche da quella verso l’Europa Occidentale negli anni 1950 e1960, quando gli immigrati provenivano per lo più dalla stessa Europa, e erano in prevalenza soggetti a controllo migratorio da parte dei Paesi ospitanti. All’interno dell’Europa Occidentale, l’Italia rappresenta un caso critico per più di un aspetto. Paese di emigrazione – e non di immigrazione – fino al 1973, l’Italia aveva, ancora nel 1981, una popolazione immigrata pari a solo il 0,4%. Dagli inizi degli anni 1990 ha avuto però luogo una tumultuosa crescita dei flussi immigratori e, tra il 1995 e il 2005, la popolazione immigrata straniera è passata dall’1,8% al 4,7%, per poi continuare a crescere fino all’8,3% nei dieci anni successivi. Al 2017, l’Italia costituiva il quarto Paese d’Europa, dopo Germania, Regno Unito e Francia, per numerosità della popolazione immigrata dall’estero (6,05 milioni, pari al 10,2% della popolazione residente), cifra che comprende, oltre ai cittadini stranieri, anche gli italiani nati all’estero ritornati in Italia e gli immigrati divenuti cittadini italiani; alla stessa data, l’Italia era, significativamente, il terzo Paese d’Europa dopo Germania e Regno Unito per popolazione straniera (5,07 milioni, pari al 8,4% della popolazione residente), cifra che comprende solo cittadini stranieri e apolidi. Questo rapido e largamente incontrollato incremento del flusso immigratorio – e in particolare della presenza di stranieri – avveniva nonostante l’alto tasso medio di disoccupazione (circa 10% della forza lavoro 1995-2015), l’elevato livello d’ineguaglianza economica (indice Gini = 34,7 contro, ad es. il 31,4 della Germania), la rigidità del mercato del lavoro (OECD Employment Protection Index = 2,8 contro, ad es., l’1,6 del Regno Unito) e il basso livello della libertà economica del Paese (Index of Economic Freedom: 62,5 contro, ad es., il 78,0 del Regno Unito): tutti aspetti sfavorevoli all’integrazione e al benessere economico degli immigrati.

Non sorprendentemente, in Italia, come del resto in gran parte degli altri Paesi d’Europa, il tema dell’integrazione degli immigrati e del loro contributo alla criminalità ha suscitato un acceso dibattito. Questo tema è stato al centro della discussione politica e ha evidentemente pesato sui risultati elettorali dei vari partiti politici tradizionali, anche per via della crescita di nuovi partiti caratterizzati da programmi che prevedono espressamente il controllo dell’immigrazione straniera e la repressione della criminalità ad essa associata. Il dibattito intorno a questi problemi è stato palesemente caratterizzato da una miscela di emozioni e posizioni ideologiche pregiudiziali, a tutto danno della possibilità di una più oggettiva analisi dei fatti e dei rimedi effettivamente attuabili.

Anche tra gli scienziati sociali il dibattito sul tema del legame tra immigrazione e criminalità è stato intenso, e spesso non privo di connotazioni ideologiche. In realtà, le principali teorie criminologiche suggeriscono alti tassi di criminalità nella popolazione straniera immigrata. Così avviene in effetti con gli studi che si inspirano alla cosiddetta anomia e alla deprivazione relativa, che suggeriscono che una società caratterizzata da un’alta pressione culturale verso il successo materiale e contemporaneamente da limitate e ineguali opportunità di raggiungere lecitamente tale obiettivo comporti un’alta propensione al crimine e ad altre forme di devianza: cosicché gli immigrati, che mediamente possiedono modesta istruzione, bassi salari e alto livello di disoccupazione, dispongono di minori opportunità di conseguire il successo con mezzi leciti e costituirebbero conseguentemente un gruppo più propenso alla delinquenza. Nella stessa direzione si muovono gli studi che fanno capo alla cosiddetta teoria economica del crimine, i cui autori, ispirandosi al pensiero di Cesare Beccaria, ritengono che gli individui scelgono liberamente e razionalmente il crimine quando il suo beneficio (il ricavo) è superiore al suo costo (la sanzione). Poiché il beneficio del crimine è calcolato rispetto a quello delle alternative lecite, ci si attende che gli immigrati – carenti di opportunità lecite – abbiano una più alta propensione alla criminalità. Non molto distanti sono gli studi ispirati alla concezione marxista ortodossa del rapporto tra società e crimine. Questi studi suggeriscono che la società capitalistica diffonda valori di egoismo individualistico e che le sue forti diseguaglianze socio-economiche generino risentimento nei sottoprivilegiati. Tutto ciò induce questi ultimi a ricorrere al crimine per conseguire i beni materiali e le soddisfazioni loro negate dal sistema, e genera altresì azioni antisociali, anche prive di utilità economica, dettate da risentimento. Gli immigrati stranieri, proprio perché in larga parte marginali al sistema capitalistico e chiaramente sottoprivilegiati, costituirebbero un gruppo fortemente esposto al rischio di criminalità.

Conclusioni non molto differenti, ma raggiunte da punti di partenza quasi opposti, caratterizzano la cosiddetta teoria del controllo sociale. Gli studi che si rifanno a questa corrente, ritengono che le condizioni di deprivazione assoluta e relativa non siano determinanti per la propensione al crimine, mentre lo sarebbero il controllo sociale esercitato sull’individuo e la minaccia della perdita di relazioni interpersonali e di opportunità sociali e lavorative come conseguenza di aver commesso dei reati. Poiché molti immigrati stranieri, specialmente se di recente immigrazione, hanno scarsi rapporti interpersonali nella società ospitante e dispongono di scarse opportunità sociali e lavorative, anche il controllo sociale su di loro è limitato e la propensione alla criminalità è di conseguenza maggiore.

La principale corrente di pensiero che invece rigetta l’ipotesi di una relazione causale tra immigrazione straniera e crimine è costituita dalla cosiddetta teoria della costruzione sociale della criminalità. In questa corrente di pensiero confluiscono teorizzatori dell’etichettamento del deviante, studiosi radicali neo-marxisti, fautori delle proposizioni antiscientifiche del postmodernismo, e simili. Il comune denominatore di questa corrente consiste nel ritenere che tanto la definizione di ciò che costituisce crimine, quanto la individuazione di chi commette crimini siano espressione del potere. Più in particolare, questa corrente ritiene che coloro che sono comunemente definiti criminali non siano caratterizzati da specifici retroterra criminogeni né da una personale propensione al crimine, ma siano più semplicemente individui che il sistema dominante (tramite le agenzie del controllo sociale, cioè le forze dell’ordine e l’autorità giudiziaria) arbitrariamente seleziona e identifica come tali, sulla base della loro appartenenza a gruppi sociali deboli e marginali, come appunto gli immigrati stranieri. Tale corrente di pensiero rigetta conseguentemente l’ipotesi di utilizzare i dati ufficiali sul crimine come indicatori del fenomeno criminale reale, in quanto considera questi dati come sottoprodotti dell’azione arbitraria delle agenzie di controllo sociale gestite dal sistema dominante. Torneremo nelle conclusioni su questo argomento.

2. Dati

I dati su cui si basa questa indagine provengono dall’Istat (l’Istituto Nazionale Italiano di Statistica)[1] e derivano da due fonti originarie. La prima fonte è costituita dagli archivi delle procure della repubblica. I dati derivati da questi archivi sono stati resi pubblici dall’Istat a cominciare dal 1988: essi permettono quindi una analisi della loro evoluzione nel tempo sin da un periodo che corrisponde ad una prima consistente presenza di immigrati stranieri in Italia. Questi dati si riferiscono sia ai delitti denunciati sia agli individui denunciati, nonché ai condannati in via definitiva. Denunciati e condannati sono suddivisi per origine, con la distinzione fra nati in Italia e provenienti dall’estero. I dati non distinguono invece tra cittadini italiani e stranieri. Ciò comporta che tra gli immigrati denunciati e condannati siano ricompresi, senza distinzione, insieme ai cittadini stranieri, anche i cittadini italiani nati all’estero, il cui numero è peraltro piccolo quando paragonato a quello degli stranieri, nonché gli immigrati stranieri successivamente naturalizzati italiani, il cui numero è decisamente cresciuto dopo il 2012. D’altra parte, i dati delle procure non permettono di distinguere i nati in Italia per origine, cosicché le analisi seguenti devono necessariamente ignorare la quota di immigrati di seconda generazione tra i denunciati e i condannati. Si tratta di una carenza preoccupante dei dati italiani, anche perché le seconde generazioni avranno un peso crescente nel futuro del Paese. Ci si augura che le necessarie informazioni siano rese presto disponibili, in modo da potere affrontare e studiare questo tema in modo non diverso da come si fa in altri Paesi europei.

Una seconda fonte di informazioni su immigrati e criminalità è costituita dai dati provenienti dalle forze dell’ordine e raccolti dal Ministero dell’Interno. I dati non permettono una ricostruzione dell’andamento nel tempo del legame immigrazione-crimine simile a quella possibile con i dati delle procure. I dati delle forze dell’ordine, tuttavia, presentano il vantaggio di distinguere i denunciati secondo la loro cittadinanza, e permettono quindi – almeno per il periodo più recente –  di approfondire la situazione riguardante specificamente gli immigrati stranieri. I dati dei denunciati provenienti dalle forze dell’ordine, peraltro, non coincidono numericamente con quelli delle procure. Il sistema della giustizia italiano prevede l’obbligatorietà della azione penale per l’autorità giudiziaria: tuttavia, questa ultima decide di proseguire l’azione penale soltanto nei confronti di una parte dei denunciati, e archivia il resto dei casi. Per questo motivo, i numeri provenienti dalle procure sono inferiori a quelli provenienti dalle forze dell’ordine: i denunciati per i quali l’autorità giudiziaria decide di proseguire l’azione penale rappresentano circa il 60% del numero complessivo dei denunciati da parte delle forze dell’ordine, e sono più propriamente definiti imputati, piuttosto che semplicemente denunciati.

Nei grafici delle pagine seguenti presenteremo le serie storiche basate sui delitti e sugli imputati adulti nati all’estero riportati dalle procure; in seguito, nella Tabella 1, prenderemo in considerazione, per un raffronto, anche i denunciati adulti stranieri (quindi, solo cittadini stranieri e apolidi) riportati dalle forze dell’ordine e i condannati con sentenza definitiva nati all’estero. Nei grafici, mostreremo anche le cifre riguardanti la popolazione di immigrati dall’estero in Italia, popolazione che comprende, come si è detto, oltre agli stranieri, anche gli immigrati con cittadinanza italiana. Si tratta, anche in questo caso, di dati provenienti dall’Istat. Tutte le curve dei grafici sono state trattate con tecnica di livellamento per ridurre il rumore di fondo, ossia le variazioni sul breve periodo.

3. Andamento della criminalità in Italia e coinvolgimento della popolazione immigrata

Per ottenere una rappresentazione soddisfacente della criminalità in Italia e del coinvolgimento in essa della popolazione immigrata, non è necessario esaminare tutti i singoli delitti, cosa che potrebbe essere anche fuorviante. I casi, peraltro non numerosi, di “Ingresso abusivo nel fondo altrui” costituiscono un buon esempio di quanto appena detto. I delitti sempre considerati in ogni rapporto sulla criminalità, e conseguentemente quelli su cui si effettuano di regola le comparazioni internazionali, sono gli omicidi volontari, le violenze sessuali e le rapine. Questi delitti rientrano nella categoria dei delitti di violenza, anche se nel caso della rapina vi è un ulteriore aspetto che ricade nel concetto di delitto contro il patrimonio. Vi sono tuttavia altri delitti particolarmente degni di considerazione o per la loro gravità o per la loro grande diffusione. Questo ultimo aspetto è rilevante, perché delitti molto diffusi comportano un impatto altrettanto diffuso e quindi tendono – con qualche parziale eccezione – a recare danno a una parte considerevole della popolazione. Nelle pagine seguenti, esamineremo quindi anche altri delitti: delitti di violenza, come le lesioni personali volontarie, molto più diffuse degli omicidi, e la violenza, resistenza etc. a pubblico ufficiale, di particolare rilevanza per quanto concerne l’ordine pubblico. Ci occuperemo anche di estorsione e di associazione a delinquere, delitti comunemente ritenuti di significativa gravità. Nel caso dell’associazione a delinquere si tratta di un fatto criminale collegato ad altri delitti, spesso gravi, ma che il codice punisce indipendentemente dal fatto che quei delitti siano stati o no effettivamente commessi, perché ritenuto di per sé in grado di attentare all’ordine pubblico e di generare allarme sociale. Ci occuperemo inoltre di sfruttamento della prostituzione, un delitto comunemente percepito come particolarmente odioso, anche per via degli altri delitti che frequentemente lo accompagnano, quali minacce, estorsioni ed anche lesioni nei confronti delle vittime. Prenderemo in considerazione anche il cosiddetto traffico di droga, un delitto che le leggi penali attuali in Italia considerano della massima gravità (le pene detentive previste sono tra le più severe, arrivando fino a 22 anni di reclusione). A questa lista è opportuno aggiungere il furto, che costituisce il delitto di gran lunga più diffuso e che quindi coinvolge il più grande numero di vittime. Ci occuperemo infine del totale dei delitti, un dato riassuntivo comunemente usato per calcolare il tasso complessivo di criminalità in una nazione. Non prenderemo invece in considerazione i delitti strettamente connessi con il fatto stesso dell’immigrazione, come il “procurare l’ingresso illegale dello straniero”, che può essere compiuto sia da stranieri sia da nativi, o la violazione del “divieto di reingresso dello straniero espulso”, che evidentemente può essere commesso solo dagli stranieri. Si tratta in effetti di delitti che hanno saltuariamente colpito l’attenzione dei cittadini, ma che non possono essere ritenuti effettivamente rilevanti né per gravità né per diffusione.

Cominceremo ora con il delitto da sempre percepito come fatto di massima gravità criminale, l’omicidio volontario. La Figura 1 mostra un andamento chiaramente discendente dei casi di omicidio volontario, compiuto e tentato, in Italia, a partire dagli anni 2002-2003. Tale andamento discendente non è una caratteristica dell’Italia: in effetti, gli omicidi volontari mostrano una tendenza alla diminuzione in quasi tutti i Paesi europei nel corso degli ultimi decenni. La percentuale di immigrati tra i denunciati per omicidio in Italia per i quali si è ritenuto di dovere proseguire l’azione penale è invece cresciuta interrottamente fino all’inizio degli anni 2010 ed è chiaramente molto più alta della percentuale di immigrati nati all’estero tra la popolazione residente in Italia.

Figura 1. Evoluzione dei casi di omicidio volontario, incluso tentato, in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

All’aumento percentuale degli immigrati imputati per omicidio volontario corrisponde anche un loro aumento in numero assoluto. Dal 2006 al 2015, ad esempio, gli immigrati denunciati per omicidio in Italia passano da 415 a 530, mentre i denunciati nativi diminuiscono da 1382 a 1160. L’aumento della percentuale di immigrati sul totale dei denunciati per questo reato dipende pertanto non solo dall’aumento del valore assoluto dei denunciati immigrati ma anche dal calo negli ultimi anni degli imputati nativi.

Figura 2. Evoluzione dei casi di lesioni volontarie in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 2 mostra la situazione delle lesioni volontarie in Italia. Il loro numero, a differenza di quello degli omicidi volontari, è fortemente aumentato negli ultimi decenni, passando da circa 30 a circa 110 l’anno per 100.000 abitanti. Al tempo stesso è anche notevolmente aumentata la percentuale di immigrati sul totale degli imputati per questo reato, tanto che la curva nel tempo di tale percentuale e la curva dei casi di lesioni mostrano andamenti similari. La percentuale di immigrati sul totale degli imputati per lesioni, per gli ultimi anni di cui abbiamo i dati, è circa 25%, leggermente inferiore a quella degli immigrati imputati per omicidio volontario. Anche il numero degli immigrati imputati per lesioni volontarie in Italia è cresciuto nel tempo e, nel periodo qui considerato (quasi tre decenni) è passato da circa 400 per anno a circa 11.000. È peraltro interessante notare che anche il numero dei nativi imputati per lesioni volontarie è cresciuto notevolmente e, nello stesso arco di tempo, è passato da circa 25.000 a circa 35.000 per anno. Le lesioni volontarie sono solo in relativamente piccola parte (un quarto dei casi) attribuite a ignoti. Ciò significa che gli imputati per lesioni volontarie coprono gran parte dei casi di lesioni noti alla giustizia. Si può in conclusione affermare che il forte aumento delle lesioni registrate in Italia sia dovuto a un incremento del contributo dato a questo reato tanto dagli immigrati (anche per la loro aumentata incidenza sulla popolazione residente in Italia) quanto dai nativi.

Figura 3. . Evoluzione dei casi di violenza sessuale in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

Esaminando il grafico dell’evoluzione dei casi di violenza sessuale in Italia (Figura 3), si ha l’impressione che il forte aumento dei casi di questo reato – che, nel periodo considerato, sono passati da poco più di 2 a quasi 10 per 100.000 abitanti – sia strettamente associato alla parallela evoluzione della percentuale di immigrati imputati per questo reato. In effetti, le due curve – quella dei casi di violenza sessuale e quella della incidenza degli immigrati sul totale imputati di violenza sessuale – sembrano procedere pari passu. Riteniamo peraltro che sia bene approfondire la materia. Nel triennio 1995-97, all’inizio del periodo di forte crescita delle violenze sessuali, gli imputati nativi sono 1713 e nel triennio 2013-15 sono 1949, mentre gli imputati immigrati aumentano da 317 a 1050. Basandosi sulle cifre riguardanti gli imputati, e tenendo conto del fatto che i casi di violenza sessuale attribuiti a soggetti noti sono oltre la metà del totale dei casi di questo reato conosciuti alla giustizia, si può pertanto ritenere che il vasto aumento delle violenze sessuali registrate in Italia sia associato sia ad un crescente contributo a questo reato da parte dei nativi, sia, ma in maggior misura, alla crescita del contributo degli immigrati.

Figura 4. Evoluzione dei casi di sfruttamento della prostituzione in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 4 mostra la situazione riguardante i casi di cosiddetto “sfruttamento della prostituzione”, casi che si riferiscono in effetti ad una più ampia fattispecie penale che criminalizza “chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui” (Legge 20 feb. 1958, n. 75). Dalla Figura, si possono agevolmente notare alcuni fatti: negli anni più recenti, gli immigrati costituiscono quasi i due terzi degli imputati, raggiungendo la percentuale più alta tra i reati di maggior gravità o diffusione; per gran parte del periodo in esame vi è stata una crescita parallela della percentuale degli immigrati imputati e del numero dei casi registrati di sfruttamento della prostituzione. I casi di sfruttamento si sono quintuplicati nel corso degli anni, passando da 0,5 a 2.5-2,8 agli inizi degli anni 2000, per poi stabilizzarsi e decrescere lievemente. Gli imputati nativi per sfruttamento passati da circa 400 l’anno all’inizio del periodo a 700 circa agli inizi degli anni 2000 e sono poi diminuiti lievemente. Gli imputati immigrati, invece, sono passati da valori omeopatici all’inizio del periodo a circa 600 all’inizio degli anni 2000 e hanno poi continuato ad aumentare fino a circa 1.000 alla metà degli anni 2010. Il reato di sfruttamento della prostituzione è del resto caratterizzato da un assai limitato numero di casi attribuiti a ignoti: solo un quarto circa del totale dei casi registrati. I soggetti imputati coprono pertanto gran parte dei casi di questo reato conosciuti alla giustizia. Si può quindi ritenere che l’aumento complessivo dei casi di sfruttamento della prostituzione registrati in Italia sia associato soprattutto alla crescita del contributo a questo reato dato dagli immigrati, e che la più recente stabilizzazione e poi riduzione dei casi sia associata a un declino del contributo dei nativi, contributo che era stato peraltro anch’esso crescente fino agli anni 2000.

Figura 5. Evoluzione dei casi di furto in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

Il quadro mostrato dalla Figura 5, riguardante l’evoluzione dei casi di furto in Italia, si presenta a prima vista come notevolmente differente da quello delle lesioni, delle violenze sessuali e dello sfruttamento della prostituzione e invece più simile a quello degli omicidi volontari. I tassi di furti registrati per popolazione residente sono, alla fine del periodo esaminato, simili a quelli registrati all’inizio e inferiori ai tassi massimi registrati intorno alla metà degli anni 1990. La percentuale di immigrati tra gli imputati per furto cresce nel contempo in modo evidente e si assesta negli anni più recenti tra il 35 e il 40%. Il numero di immigrati imputati cresce corrispondentemente nell’arco di tempo considerato e passa da circa 6.000 a 20.000 e più. Il numero dei nativi imputati, invece, nello stesso arco di tempo, decresce e passa da circa 50.000 a circa 37.000. Per quanto il numero di imputati per furto sia piccolo rispetto al numero totale di casi di furto registrati, si può avanzare l’ipotesi che la diminuzione dei tassi di furto negli anni più recenti sia l’effetto di un minore contributo dato a questo reato dai nativi.

Figura 6. Evoluzione dei casi di rapina in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 6, che presenta l’andamento complessivo dei casi di rapina in Italia, segnala una loro diminuzione negli anni più recenti, simile a quella dei furti e degli omicidi e in contrasto coll’andamento delle lesioni, delle violenze sessuali e dello sfruttamento della prostituzione. A fronte di questa flessione dei casi di rapina noti alla giustizia, si nota un incremento quasi lineare nel tempo della percentuale di immigrati imputati per questo reato: percentuale che si avvicina al 45% del totale imputati. Il numero di immigrati imputati cresce corrispondentemente nel tempo da circa 300 a più di 4.000 per anno, mentre quello dei nativi imputati scende lievemente da circa 6.500 a 5.700 per anno.

Figura 7. Evoluzione dei casi di estorsione in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 7 mostra l’evoluzione dei casi di estorsione in Italia. La curva riguardante questi reati presenta un andamento sinusoidale, caratterizzato da una rapida crescita nel periodo iniziale, un lungo periodo di stabilità e una nuova crescita negli anni più recenti. La percentuale di immigrati imputati per questo reato cresce invece in modo piuttosto costante nel tempo, ma raggiunge negli anni più recenti dei valori massimi comunque inferiori a quelli registrati dagli immigrati per tutti i precedenti reati. Il numero di immigrati imputati per estorsione passa, nel periodo considerato, da meno di 50 a 1.200-1.300 per anno. Il numero dei nativi imputati per estorsione è nel periodo iniziale di circa 400 l’anno, raggiunge poi rapidamente valori massimi intorno ai 700 per anno, si mantiene su tali livelli per molti anni, e poi decresce negli ultimi anni.

Figura 8. Evoluzione dei casi di traffico di droga in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 8 mostra l’evoluzione dei casi del “traffico di droga” in Italia: più propriamente, secondo il D.P.R. 309 del 1990, i casi di violazione delle norme disciplinanti “produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope”. La curva dei casi di traffico di droga mostra una rapida ascesa alla fine degli anni 1980; un lungo periodo di crescita mediamente più contenuta e una flessione negli anni più recenti. La percentuale di immigrati sul totale degli imputati cresce rapidamente quasi fino alla fine degli anni 1990, poi più lentamente, raggiungendo peraltro valori intorno al 40%, quindi simili a quelli del furto, ma inferiori a quelli della rapina e, di molto, a quelli dello sfruttamento della prostituzione. Il numero degli immigrati imputati parte negli anni 1980 da circa 2.000 per anno; raggiunge il suo massimo nel 2008 (15.000 immigrati imputati) e decresce poi fino a circa 12.000 imputati per anno. Il numero dei nativi imputati per traffico di droga, già alto negli anni 1980 (circa 27.000 imputati per anno), cresce successivamente e poi decresce negli anni più recenti fino a circa 18.000 imputati per anno. La flessione, registrata dal 2009, della curva dei casi di traffico di droga conosciuti alla giustizia sembra essere associata più al decrescente contributo dei nativi che a quello – peraltro anche esso decrescente – degli immigrati.

Figura 9.. Evoluzione dei casi di violenza etc. a pubblico ufficiale in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 9 mostra l’evoluzione dei casi di violenza a pubblico ufficiale in Italia: una etichetta che in effetti copre più specifiche fattispecie, ossia violenza, minaccia, resistenza e oltraggio. Si può notare una forte crescita del tasso di violenze fino verso la fine degli anni 1990; successivamente, vi è stato un chiaro, anche se meno accentuato, declino. La percentuale di immigrati sul totale degli imputati per questo reato è aumentata fino alla fine degli anni 2000. Il numero degli immigrati imputati per questo reato è passato da circa 700 per anno all’inizio del periodo (un numero considerevole, considerato che a quel tempo solo furto e traffico di droga registravano un numero superiore di immigrati imputati), a un massimo di 6.000 circa alla fine degli anni 2000 ed è poi sceso a circa 4.400 negli anni più recenti. Il numero dei nativi imputati parte da circa 14.000 per anno, cresce fino alla fine degli anni 1990 ed è poi diminuito fino alla cifra, relativamente modesta, di circa 8.000 per anno. Si ha quindi l’impressione che la diminuzione del tasso di violenze a pubblico ufficiale, iniziata alla fine degli anni 1990 sia associata al parallelo declino del contributo dato a questo reato dai nativi, al quale negli anni più recenti si è aggiunto il declino anche del contributo degli immigrati.

Figura 10. Evoluzione dei casi di associazione a delinquere in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1993-2015)

La Figura 10 mostra l’andamento dei casi di associazione a delinquere in Italia. L’incidenza di questo reato è bassa: si tratta in effetti del reato con il più piccolo numero medio di casi per anno tra tutti i reati presi in considerazione in queste pagine. Il tasso dei casi di associazione a delinquere per 100.000 abitanti è infatti in Italia inferiore anche a quello dei casi di sfruttamento della prostituzione, che in assoluto non è certo alto. Il reato di associazione a delinquere è peraltro un reato di rilevante gravità, come già notato, ed è per questo che ce ne occupiamo qui. Il tasso di casi di associazione a delinquere mostra un andamento crescente fino al 2008 e poi decrescente. La percentuale di immigrati imputati è invece ancora cresciuta, pur raggiungendo valori massimi abbastanza modesti, rispetto a quelli registrati per gli altri reati qui considerati. L’associazione a delinquere è il reato per cui si registra la più bassa percentuale di immigrati imputati. Il numero assoluto di immigrati imputati per questo reato, da circa 200 nel 1993 (primo anno per cui sono disponibili dati), ha raggiunto i 550-600 immigrati imputati per anno alla fine del periodo. Il numero dei nativi imputati per associazione a delinquere, partendo invece da valori intorno a 3.000 per anno, ha raggiunto il massimo di circa 4.000 tra il 2007 e il 2009, ed è poi sceso a circa 2.000 alla fine del periodo. Considerato anche che l’associazione a delinquere è, tra i delitti qui considerati, quello con la minore percentuale di responsabili ignoti (20% circa), l’andamento discendente dei casi di associazione a delinquere negli anni più recenti sembra essere associato con l’andamento parimenti discendente del numero dei nativi che ne sono stati imputati.

Figura 11. Evoluzione del totale delitti in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 11 mostra l’andamento della somma totale di tutti i delitti registrati dalla giustizia in Italia. Dopo una lieve crescita fino alla fine degli anni 1990, il totale dei delitti presenta una costante, se pur modesta, diminuzione. La percentuale di immigrati imputati per qualsiasi tipo di delitto cresce abbastanza costantemente fino al 2008 (26% del totale imputati), poi decresce lievemente. Il numero degli immigrati imputati per qualsiasi tipo di delitto, che era di circa 20.000 per anno alla fine degli anni 1980, ha raggiunto il massimo nel 2009 (147.000) ed è sceso negli anni seguenti a circa 130.000 per anno. Il numero dei nativi imputati per qualsiasi tipo di delitto, che era di circa 450.000 per anno, è sceso a circa 420.000 all’inizio degli anni 2000 ed è ritornato intorno al numero iniziale alla fine del periodo esaminato.

4. Indice relativo di incriminazione degli immigrati in Italia

Nei grafici che precedono abbiamo potuto notare come la percentuale di immigrati imputati per i vari delitti è sempre più alta della percentuale di immigrati nella popolazione residente, ma varia a seconda dei delitti. È pertanto opportuno misurare ora con più precisione tale sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati. Un modo usuale per procedere con la misurazione di questa sovra-rappresentazione consiste nel calcolare il tasso di immigrati imputati per popolazione immigrata (ossia, numero di immigrati imputati per anno, per ogni 100.000 immigrati residenti nel Paese). Il risultato deve essere poi confrontato con un altro valore, costituito comunemente dal tasso dei nativi imputati (numero nativi imputati per anno per 100.000 nativi residenti).

Fin dagli anni 1990, tuttavia, per misurare tale sovra-rappresentazione abbiamo ideato e applicato una diversa procedura, che si presta bene a misurare l’incidenza relativa, nella popolazione immigrata, degli imputati, così come dei denunciati, dei condannati e degli entrati in carcere. La procedura di cui parliamo presenta il vantaggio di produrre un risultato il cui valore numerico è intuitivo e non ha bisogno di essere paragonato ad altro valore, ad esempio, quello riguardante la popolazione nativa, come avveniva nel caso prima descritto dei tassi di immigrati imputati. La procedura in questione consiste in un indice che misura l’incidenza relativa di un fenomeno in una sotto-popolazione, come nell’esempio seguente:

 

dove sub-popolazione immigrataimp. d t sono qui gli immigrati che sono parte della popolazione di imputati (imp.) per un certo delitto d, nell’anno o negli anni di riferimento t; sub-popolazione immigrata sono gli immigrati che sono parte della popolazione totale, ossia della popolazione residente in Italia.

La Tabella 1 mostra i risultati ottenuti applicando l’indice relativo di incriminazione degli immigrati in Italia ai dati già presentati nelle pagine precedenti. La stessa Tabella 1 mostra anche l’indice calcolato per la sola popolazione straniera, escludendo quindi gli immigrati in possesso di cittadinanza italiana: in questo caso si tratta dei dati riguardanti i denunciati da parte delle forze dell’ordine, in quanto solo queste ultime – come già detto – forniscono informazioni sulla cittadinanza degli individui denunciati. Come si è avuto modo di notare nella sezione Dati, le informazioni provenienti dalle forze dell’ordine sono disponibili solo per gli anni più recenti. La Tabella 1 presenta inoltre l’indice relativo di condanna degli immigrati in Italia. Si tratta in questo caso di immigrati dall’estero che hanno subito una condanna definitiva dalla giustizia italiana.

Calcoli come quelli della Tabella 1 presentano – è opportuno dirlo – alcune potenziali criticità. La prima deriva dal fatto che la componente maschile e quella femminile della popolazione non contribuiscono in modo uguale alla criminalità complessiva: il contributo della componente maschile è di gran lunga superiore a quello della componente femminile, che concorre a solo il 18% circa del totale degli imputati in Italia. Nella popolazione immigrata vi sono gruppi nazionali – come quelli provenienti in particolare da Paesi a prevalente religione islamica – in cui la componente maschile è largamente superiore a quella femminile. Se non si tenesse conto di questa caratteristica di genere, un’eventuale sovra-rappresentazione di questi gruppi nazionali tra gli imputati per delitti risulterebbe viziata. Si deve però tenere presente che in Italia, insieme ai gruppi nazionali con una maggiore incidenza maschile, vi sono gruppi nazionali – come quelli provenienti da diversi Paesi dell’Europa dell’Est – con una maggiore incidenza femminile. I due quadri contrapposti si bilanciano, cosicché nella popolazione immigrata totale in Italia la componente maschile e quella femminile si equivalgono sostanzialmente, così come avviene nella popolazione nativa. Il problema degli squilibri demografici di genere non sussiste se si prende in esame la popolazione immigrata nel suo insieme – come fatto in queste pagine – mentre sussiste se si prendono in esame i singoli gruppi nazionali.

Una seconda potenziale criticità deriva dal fatto che calcoli come quelli della Tabella 1 hanno difficoltà a tenere conto degli immigrati in condizione di irregolarità, cioè degli immigrati o entrati clandestinamente in Italia o restatici dopo la scadenza del permesso di soggiorno e del visto. La difficoltà a tenere conto di questa componente discende inevitabilmente dal fatto che si tratta di componente nascosta, per la quale esistono solo stime: tra il 2016 e il 2017, la componente irregolare era stimata all’8% circa della popolazione immigrata totale. Sappiamo, da indagini peraltro parziali, che la componente irregolare dell’immigrazione sembra essere decisamente sovra-rappresentata tra gli individui imputati. Il nostro indice tiene già conto al numeratore di questa componente irregolare, dal momento che il numero degli immigrati imputati registrati dal sistema giustizia italiano comprende regolari e irregolari (senza peraltro distinguerli), ma non ne tiene conto al denominatore. Se aggiungessimo la cifra stimata degli irregolari sia alla popolazione immigrata ufficiale sia alla popolazione residente in Italia, l’indice relativo di incriminazione degli immigrati dall’estero per, ad esempio, il totale dei delitti, passerebbe corrispondentemente da 2,45 a 2,28 e, nel caso dei soli stranieri, da 3,92 a 3,60: un cambiamento che non modifica sostanzialmente i risultati ottenuti sulla base dei più oggettivi dati ufficiali sulla immigrazione in Italia.

La terza criticità consiste nel fatto che la popolazione immigrata è più concentrata – rispetto a quella nativa – in particolari classi di età: quelle dei giovani adulti e degli adulti. Il problema è che proprio queste classi di età forniscono un maggiore contributo al fenomeno criminale, in Italia come negli altri Paesi. Non sorprendentemente, solo una piccola percentuale degli imputati è composta da anziani. La classe di età 18-49 anni comprende in particolare circa tre quarti di tutti gli imputati in Italia per i principali delitti qui considerati. Se non si tiene conto di questo, l’indice relativo di incriminazione rischia di fornire un’immagine non del tutto realistica della situazione. Alle cifre dell’indice relativo di incriminazione calcolato secondo la formula prima indicata, abbiamo aggiunto un nuovo calcolo in cui al numeratore vi è la percentuale di immigrati, imputati o denunciati, nella sola classe di età 18-49 anni, rispetto al totale della popolazione imputata o denunciata della stessa classe di età, e al denominatore la percentuale di immigrati nella classe di età 18-49 anni rispetto al totale della popolazione della stessa classe di età residente in Italia.

 

Tabella 1. Indice relativo di incriminazione e di condanna degli immigrati in Italia per i vari delitti: indice per gli immigrati dall’estero imputati; indice per i soli cittadini stranieri denunciati; indice per gli immigrati dall’estero condannati; indici degli immigrati per la sola classe di età 18-49 anni; anni di riferimento 2013-15 e 1988-90

Detto ciò, si possono avanzare alcune considerazioni sui valori che risultano dall’indice relativo di incriminazione. La Tabella 1 ci dice che, per quanto riguarda gli immigrati dall’estero, inclusi i cittadini italiani, l’indice per il totale delitti è pari a circa 2,5: il che significa che gli immigrati sono due volte e mezzo più numerosi tra gli imputati rispetto alla loro numerosità nella popolazione residente in Italia. Per i delitti di particolare gravità o diffusione che abbiamo selezionato, la media è superiore: 3,6. Per i tre delitti che, per la loro gravità, costituiscono la misura usuale della criminalità di una nazione, quella su cui si effettuano di regola le comparazioni internazionali, e cioè omicidio volontario, violenza sessuale e rapina, la sovra-rappresentazione media degli immigrati è 3,7 volte. I valori di sovra-rappresentazione per i singoli delitti sono peraltro decisamente dissimili. Si passa infatti dal valore più basso, quello riguardante l’associazione a delinquere, pari peraltro a 2,1 volte la numerosità degli immigrati nella popolazione residente in Italia, al valore per la rapina, 4,5 volte, fino al valore più alto, quello per lo sfruttamento della prostituzione, delitto nel quale la sovra-rappresentazione degli immigrati è di 6,5 volte.

L’indice per i soli stranieri presenta valori sempre più alti: per il totale delitti, la loro sovra-rappresentazione è poco meno di 4 volte; per la media dei delitti selezionati, è 4,8 volte; per l’omicidio, la violenza sessuale e la rapina, la media è 4,5; per il furto, 6,1; per lo sfruttamento della prostituzione, 8,5 volte. Questa differenza di valori tra l’indice per tutti gli immigrati e quello per i soli stranieri è sostanzialmente dovuta al fatto che il numero dei cittadini stranieri residenti in Italia è più basso del numero totale degli immigrati dall’estero. Quanto detto significa che la sovra-rappresentazione degli stranieri è assai più alta di quella degli immigrati: il che equivale anche a dire che l’incidenza relativa, sul totale dei denunciati, di quella parte degli immigrati dall’estero che possiedono la cittadinanza italiana è decisamente più bassa dell’incidenza dell’altra parte costituita da coloro che non la possiedono e che sono cittadini di altri Paesi.

L’indice relativo di condanna degli immigrati dall’estero conferma sostanzialmente le cifre degli indici di incriminazione: per il totale delitti, la sovra-rappresentazione degli immigrati è pari a 3,3 volte; per la media dei delitti qui considerati, 4,2 volte; per l’omicidio volontario, la violenza sessuale e la rapina, la media è 4 volte.

L’indice relativo di incriminazione degli immigrati dall’estero e degli stranieri per la sola classe di età 18-49 anni mostra valori di sovra-rappresentazione sempre inferiori a quelli precedenti. La diminuzione dei valori di sovra-rappresentazione è peraltro contenuta: questo perché, se da una parte la popolazione immigrata, a paragone di quella nativa, è maggiormente concentrata nelle fasce di età dei giovani adulti e degli adulti e poco presente nelle fasce degli anziani, dall’altra la percentuale di immigrati tra i denunciati e gli imputati nella classe di età 18-49 anni è più alta della percentuale degli stessi immigrati sul totale dei denunciati e degli imputati. Rimangono in ogni caso le forti differenze tra l’indice per gli stranieri e quello per gli immigrati. La sovra-rappresentazione per il totale delitti è pari a 1,9 volte nel caso di tutti gli immigrati dall’estero e pari a 3,2 nel caso dei soli stranieri. Per tutti i delitti qui selezionati, la sovra-rappresentazione media è di 2,7 volte per gli immigrati e di 3,7 volte per gli stranieri. E così di seguito.

Un confronto con quanto avveniva alla fine degli anni 1980, ossia in anni che rappresentavano il periodo della prima significativa ondata di immigrazione in Italia, può offrire lo spunto per qualche ulteriore riflessione. Per mancanza di dati più dettagliati, non è stato possibile separare gli stranieri dal totale immigrati; e non è stato possibile applicare la correzione per la sola classe di età 18-49 anni. Ciò nonostante, emergono alcune differenze significative. Alla fine degli anni 1980, la sovra-rappresentazione degli immigrati era, per alcuni delitti – rapina, violenza a pubblico ufficiale – e per la media dei dieci delitti qui selezionati, sostanzialmente corrispondente alla situazione negli anni 2010. Per qualche delitto – in particolare lesioni volontarie, sfruttamento della prostituzione ed estorsione – la sovra-rappresentazione era decisamente inferiore. Per traffico di droga, superiore. Per furto, molto superiore. Anche per il totale dei delitti, la sovra-rappresentazione era superiore. Ciò si spiega con il grande impatto che le cifre riguardanti il furto – il delitto di gran lunga più diffuso – hanno sul totale delitti.

 

5. Considerazioni conclusive

Ci si deve chiedere, a questo punto, quanto le considerazioni fatte a proposito degli immigrati imputati e denunciati per i vari reati, e più in generale a proposito della criminalità, siano rappresentative della realtà. Sicuramente, i crimini conosciuti sono, numericamente, decisamente inferiori ai crimini effettivamente commessi. Comparando le cifre dei crimini registrati dalla giustizia con quelle che emergono dalle dichiarazioni spontanee delle vittime nel corso delle cosiddette crime victim survey – indagini a campione condotte nei principali Paesi occidentali in cui si rilevano i reati di cui gli intervistati sono stati vittime – si giunge alla conclusione che i crimini ufficialmente conosciuti sono meno della metà del totale dei crimini commessi.

Ciò non costituisce però una valida ragione per ritenere che la criminalità emersa, ossia quella risultante dalle cifre ufficiali registrate dalla giustizia, non sia rappresentativa di quella reale, che comprende anche la componente sommersa, la cosiddetta dark figure del crimine. Già intorno al 1830, i cosiddetti statistici morali, ossia quegli scienziati sociali che avevano per primi condotti studi sistematici sulle statistiche criminali, avevano concluso che (a) il volume complessivo della criminalità e le sue varie manifestazioni dipendevano dalle caratteristiche della società e pertanto non mutavano se non a seguito al mutamento di queste ultime; (b) il rapporto tra criminalità sommersa ed emersa si manteneva ugualmente costante, tranne che nel caso di forti perturbamenti sociali, come guerre e rivoluzioni.

Negli ultimi decenni, in ogni caso, sono disponibili nuove informazioni sul rapporto tra criminalità emersa e sommersa. Si tratta dei dati che provengono dalle crime victim surveys: da queste indagini si ricava che il numero dei delitti registrati ufficialmente tende nel tempo a rimanere proporzionale al numero dei delitti dichiarati dalle vittime, il che equivale a dire che il crimine emerso – come sostenevano gli statistici morali dell’800 – non è una variabile indipendente rispetto al sommerso. Per i delitti di maggiore gravità o maggiore danno economico, la proporzione tra parte emersa e sommersa è simile nei vari Paesi occidentali.

Da tutto questo si può dedurre che non vi siano motivi sufficienti per negare l’affidabilità dei dati ufficiali sulla criminalità. Tuttavia quanto precede non risponde esaurientemente a un secondo punto specifico sottolineato dai fautori della costruzione sociale del crimine: ossia che nel passaggio dal sommerso all’emerso le agenzie del controllo sociale – in primo luogo le forze dell’ordine – operino un’arbitraria selezione, che porta a denunciare soprattutto gli autori di delitti appartenenti alle categorie socio-economiche ed etniche più deboli. Tra gli appartenenti a queste categorie sottoprivilegiate ci sono sicuramente una grande parte degli immigrati stranieri.

A queste critiche all’affidabilità dei dati ufficiali sulla criminalità si possono contrapporre diverse considerazioni. La prima considerazione riguarda la stessa provenienza delle denunce. La grande maggioranza dei delitti sono denunciati dalle stesse vittime e non dalle forze dell’ordine o dall’autorità giudiziaria, e la grande maggioranza degli imputati sono individuati direttamente sulla base delle indicazioni delle vittime. Pertanto l’eventuale contributo da parte delle cosiddette agenzie del controllo sociale a una discriminazione delle categorie socio-economiche ed etniche più deboli, e in particolare degli immigrati stranieri, è già in partenza limitato. D’altra parte non vi è motivo per ritenere che le vittime preferiscano denunciare gli autori di delitti quando questi siano immigrati stranieri. Non è infatti verosimile che un nativo, vittima ad esempio di lesioni volontarie, denunci il fatto e il suo autore, quando questi sia un immigrato e non lo faccia negli altri casi. Vi è anzi motivo di ritenere che avvenga spesso il contrario. Ad esempio, i furti sono un delitto che spesso non è denunciato, specialmente quando il danno è di modesto ammontare. Al tempo stesso, gli immigrati stranieri tendono a commettere furti (e altri reati economici) anche di modesto valore monetario, che sono denunciati dalle vittime con minore frequenza, riducendo quindi la dimensione della criminalità emersa nel caso degli immigrati. Si deve notare che gli imputati per furto costituiscono il gruppo più numeroso tra tutti gli imputati e incidono pertanto pesantemente sul totale degli imputati. Vi è quindi motivo di ritenere che il relativamente basso valore dell’indice relativo di incriminazione degli immigrati per il totale delitti (Tabella 1) sia sottostimato. Si deve inoltre notare che molti delitti commessi dagli immigrati sono delitti intra-immigrazione e soprattutto intra-etnici: ossia commessi a danno di altri immigrati appartenenti allo stesso gruppo etnico dell’autore del delitto. Ciò avviene comunemente nel caso di lesioni volontarie, furti, estorsioni, violenza sessuale e, ancora più frequentemente, di sfruttamento della prostituzione. Ora, è cosa nota che gli immigrati stranieri vittime di crimini tendono a denunciare questi ultimi in misura inferiore ai nativi, per via della loro estraneità rispetto alla società ospitante e non raramente per timore di complicazioni, ad esempio, a causa di una loro condizione di irregolarità. Gli immigrati vittime di crimini, inoltre, sono particolarmente restii a denunciare gli autori dei crimini quando si tratti di connazionali. Vi è quindi motivo per ritenere che il contributo degli immigrati alla criminalità sia significativamente sottostimato – piuttosto che sovrastimato – dalle cifre ufficiali del crimine.

Una seconda considerazione contro l’ipotesi che i dati sulla criminalità degli immigrati siano inficiati da un atteggiamento discriminatorio da parte delle agenzie del controllo sociale riguarda il confronto tra le diverse tipologie di delitti. In effetti, per alcuni delitti la denuncia proviene non dai comuni cittadini, come nella grande parte dei casi, ma direttamente dalle forze dell’ordine e dall’autorità giudiziaria. Tra questi delitti, ve ne sono tre di rilevante importanza: a) l’associazione a delinquere, delitto in sé, come già detto, indipendente dalla commissione dei delitti contemplati dal programma di delinquenza, e quindi in effetti delitto individuato dalle forze dell’ordine e dall’autorità giudiziaria, piuttosto che dai comuni cittadini; b) la violenza a pubblico ufficiale, in cui la vittima appartiene di regola proprio alle forze dell’ordine; c) il traffico di droga, che rientra tra i cosiddetti crimini senza vittima, ossia quei fatti criminosi in cui non vi è di regola vittima specifica, e il danno si ritiene sia arrecato all’intera società piuttosto che a qualcuno in particolare. Ora, se la criminalità degli immigrati fosse una costruzione basata su un atteggiamento discriminatorio anti-immigrati da parte delle agenzie del controllo sociale, la percentuale di immigrati stranieri imputati per i tre delitti appena descritti dovrebbe essere significativamente superiore alla percentuale di immigrati tra gli imputati per altri delitti. Così invece non è. La sovra-rappresentazione degli immigrati stranieri tra gli imputati per traffico di droga e violenza a pubblico ufficiale è sostanzialmente equivalente alla loro sovra-rappresentazione tra gli imputati per violenza sessuale: un crimine che, salvo rare eccezioni, emerge solo in seguito alla denuncia della vittima e in cui non si giunge all’imputazione dell’autore se non attraverso la sua identificazione da parte della vittima. Per quanto riguarda poi l’associazione a delinquere, la sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati è la più bassa tra quelle di tutti i crimini qui specificamente esaminati e inferiore alla sovra-rappresentazione degli immigrati per il totale dei delitti.

Alla luce di quanto precede, si può concludere che la sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati per fatti criminosi non sembra potere essere riportata a un asserito atteggiamento discriminatorio anti-immigrati dei membri delle agenzie del controllo sociale. L’affidabilità delle statistiche ufficiali della criminalità, anche per quanto riguarda il contributo degli immigrati, non sembra potere essere messa in discussione, almeno in termini generali.

Tale contributo, peraltro, presenta contorni più articolati di quanto si poteva forse immaginare. Un primo punto che emerge dalle pagine che precedono è costituito dal fatto che l’evoluzione della criminalità registrata in Italia negli ultimi decenni non può essere semplicemente riportata alla nuova immigrazione straniera, diversa, per la sua ampiezza e per la sua origine, da quella precedente e tradizionale. L’imponente crescita della presenza di immigrati stranieri in Italia non si è tradotta in un proporzionale e indistinto incremento della criminalità. Il tasso per popolazione degli omicidi volontari e dei furti è diminuito. Il tasso delle rapine e il tasso totale dei delitti sono rimasti sostanzialmente invariati. Quello di altri delitti, fra cui le lesioni volontarie, è aumentato anche per l’accresciuto contributo dato a questi delitti dai nativi. Inoltre il contributo degli immigrati non è uguale per i vari delitti: si passa da delitti come l’estorsione e l’associazione a delinquere, in cui gli imputati immigrati sono circa il 20% del totale, a delitti come l’omicidio volontario, in cui sono poco meno del 30%, alla violenza sessuale, in cui sono oltre il 35%, fino alla rapina e lo sfruttamento della prostituzione, in cui sono rispettivamente oltre il 40 e il 60%. Al tempo stesso, risulta evidente che la nuova popolazione immigrata rappresenta una componente primaria dell’evoluzione della criminalità in Italia nel corso degli ultimi decenni. Gli immigrati sono incontrovertibilmente sovra-rappresentati tra gli imputati e i denunciati per sostanzialmente tutti i delitti più rilevanti per gravità e diffusione. Anche nel caso di delitti, come l’omicidio volontario e il furto, per cui vi è stato negli ultimi anni un decremento dei tassi, questo decremento è da attribuire non a un limitato contributo da parte degli immigrati, ma a una riduzione del contributo dei nativi. Mentre in altri casi in cui si è avuto un forte incremento dei tassi – come è avvenuto per la violenza sessuale – tale incremento è stato associato a un altrettanto forte incremento del contributo degli immigrati.

Le indicazioni provenienti dagli indici di incriminazione degli immigrati dall’estero e degli stranieri sono sostanzialmente confermate dai risultati che emergono dall’indice di condanna degli immigrati. In effetti, tutti gli indici concordano. Le condanne in via definitiva costituiscono il risultato del lungo e articolato procedimento di giudizio caratteristico del sistema giustizia italiano. Il fatto che, al termine di tale procedimento per l’accertamento della colpevolezza, la sovra-rappresentazione degli immigrati tra i condannati sia anche superiore a quella degli stessi immigrati tra gli imputati sembra costituire una indicazione rilevante nel quadro di queste analisi.

Ulteriori importanti considerazioni possono essere avanzate sulla base di un raffronto tra l’indice relativo di incriminazione per il totale degli immigrati e l’indice per i soli stranieri. La decisamente più alta sovra-rappresentazione degli immigrati stranieri suggerisce che la probabilità di essere denunciati per avere commesso un delitto è nettamente minore per gli immigrati dall’estero che possedevano o hanno successivamente ottenuto la cittadinanza del Paese ospitante.

Altre considerazioni ci vengono dal confronto tra la situazione alla fine degli anni 1980, quando l’Italia si era trovata ad avere a che fare, per la prima volta, con una consistente e tumultuosa ondata di immigrati stranieri, e la situazione a metà circa degli anni 2010, caratterizzata da un’immigrazione in parte consolidata. I due periodi appaiono del resto differenziati anche alla luce dei dati riportati dalla Tabella 1. La Tabella in questione mostra come, alla fine degli anni 1980, la sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati fosse decisamente più alta di quella registrata ultimamente per i delitti di furto e traffico di droga. Si tratta di delitti orientati all’acquisizione di denaro facile, tipici di un’immigrazione recente, composta prevalentemente da soggetti in precarie condizioni economiche e privi di più articolate opportunità di acquisizione di benessere, che richiederebbero migliore integrazione e migliori relazioni sociali. Al tempo stesso, la Tabella 1 mostra come, alla fine degli anni 1980, la sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati fosse decisamente più bassa per delitti come l’estorsione e lo sfruttamento della prostituzione: delitti che presuppongono un certo grado di controllo del territorio.

In conclusione, vi è motivo per ritenere che la forte sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati, i denunciati e i condannati registrata in Italia negli ultimi decenni sia associata a flussi immigratori tumultuosi e sostanzialmente incontrollati, come quelli che hanno particolarmente caratterizzato l’Italia nella sua fase immigratoria iniziale, ma che ancora in parte sussistono. Il fatto che la popolazione immigrata in Italia sia caratterizzata da una alta presenza di stranieri, ossia di quella componente mediamente meno radicata nella società ospitante, costituisce un elemento significativo di questo scenario. Da una situazione immigratoria con queste caratteristiche ci si aspetta maggiori problemi di assimilazione e integrazione. Del resto, si deve notare come questi flussi tumultuosi e incontrollati sono avvenuti in un Paese con alcune caratteristiche – cui si è già accennato – come la forte disuguaglianza economica, l’alto tasso di disoccupazione, la rigidità del mercato del lavoro e la limitata libertà economica. Tutte caratteristiche che si ritiene non favoriscano l’integrazione degli immigrati e anzi contribuiscano a determinare anche per loro un quadro di negative condizioni socio-economiche. I risultati presentati nelle pagine precedenti suggeriscono – a conferma di quanto appena detto – che coloro che sono mediamente meno assimilati e meno integrati socialmente ed economicamente – tipicamente, gli immigrati stranieri rispetto agli immigrati in genere – abbiano maggiori probabilità di ricorrere al crimine.

Questo quadro ricorda quello delineato dalle maggiori teorie criminologiche, di cui si è detto all’inizio di queste pagine: teorie che individuano nella scarsità di opportunità lecite e nella mancanza di controllo sociale sull’individuo da parte della comunità locale dei fattori che favoriscono considerevolmente la propensione alla devianza e alla criminalità.

 

[1]  Cogliamo qui l’occasione per ringraziare vivamente l’Istituto Nazionale di Statistica per la sua preziosa collaborazione, che ci ha permesso di ottenere dati e informazioni senza le quali questa ricerca non avrebbe mai potuto essere realizzata.

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Fine del sogno europeo?

I rappresentanti di una decina di paesi, fra cui (forse) anche l’Italia, si incontreranno a Bruxelles per preparare il Consiglio europeo del 28 giugno. Immersi fino al collo nelle miserie della politica nostrana, rischiamo di non renderci conto che, da come andranno questi due incontri, dipenderà il futuro dei cittadini europei, e non solo di essi. Quanto disperata sia la situazione europea lo ha invece visto lucidamente Niall Ferguson, editorialista e professore di storia, in un articolo pubblicato pochi giorni fa su “The Sunday Times”. Scettico fino a qualche tempo fa sulle ragioni della Brexit, ora si sta convincendo che non avevano tutti i torti i fautori dell’uscita dall’Unione Europea quando osservavano che uscire altro non era che scendere da una barca che affonda.

Ora quella barca potrebbe cominciare ad affondare davvero, non per l’austerità, non per le regole sul deficit e sul debito, non per i problemi della povertà e della diseguaglianza, non per disaccordi sull’unione bancaria, o sul bilancio comune, o sul costituendo Fondo Monetario Europeo. No, l’Europa rischia di affondare, più o meno lentamente, su un unico problema: la gestione dei migranti. Un problema che Ferguson descrive con un aggettivo, “intrattabile” (intractable), che i matematici riservano ai problemi per i quali non esistono strumenti, non dico per risolverli, ma nemmeno per provare ad attaccarli.

Da dove viene tanto pessimismo?

Per Ferguson l’intrattabilità del problema migratorio ha due radici. La prima è la difficoltà di far coesistere i valori culturali dell’Occidente con quelli dell’Islam. La seconda è che milioni di africani intendono raggiungere l’Europa, ma “la frontiera meridionale dell’Europa è quasi impossibile da difendere da flottiglie di migranti, a meno che i leader europei siano preparati a lasciarli annegare”. La differenza fra Europa e Stati Uniti sarebbe che all’America per evitare la guerra civile basta chiudere la frontiera con il Messico (è impensabile un’invasione dal mare), mentre questa strada è quasi impossibile da percorrere in Europa, perché il Mediterraneo è una frontiera indifendibile: uno dei tanti casi in cui è la geografia che fa la storia.

È convincente una simile diagnosi?

Per certi versi no. Se il problema è evitare la guerra civile, si potrebbe osservare che forme di guerra civile possono prender piede non solo perché si lasciano aperte le frontiere, ma anche perché le si chiude. Non so se, dopo la guerra civile per l’abolizione della schiavitù (1861-1865), vi sia mai stato nella storia americana un periodo in cui i cittadini statunitensi siano stati divisi come lo sono oggi, grazie a un presidente divisivo come Trump.

Per l’Europa, però, forse la diagnosi di Ferguson è solo incompleta, più che sbagliata. Quel che manca, a mio parere, è la risposta alla domanda: perché la classe dirigente europea è arrivata a questo punto? Perché ha dovuto attendere che in Italia andassero al potere i cosiddetti populisti per scoprire il problema migratorio? Che cosa ha fatto sì che quasi tutti i governi occidentali più illuminati (o presunti tali) abbiano sonnecchiato in questi anni?

Temo che, in ultima analisi, la risposta sia quella che, se fosse vivo, oggi darebbe Max Weber: hanno sostituito l’etica della responsabilità con l’etica dei principi (o etica della convinzione).

La classe dirigente europea si è mossa come se i valori della cultura occidentale, a partire dalla filosofia dei diritti umani, avessero validità universale, e come se il sogno cosmopolita di un’unica comunità mondiale, con le relative istituzioni e la relativa polizia internazionale, fosse già realizzato. I politici che ora faticosamente cercano di non far deflagrare l’Europa, per decenni si sono dimenticati che gli Stati esistono ancora, e che è ai cittadini degli Stati che devono rispondere, se non altro perché è dagli elettori che dipende la loro permanenza al potere. Da questa dimenticanza è scaturita la retorica con cui, in tutti questi anni, si è parlato dei migranti, trattando l’accoglienza come un dovere inderogabile, e assimilando di fatto ogni legittima aspirazione a cambiare paese come un diritto inalienabile della persona umana, valido verso qualsiasi paese e in qualsiasi circostanza.

La cosa ha funzionato finché i migranti erano veri rifugiati (come nei primi decenni del dopoguerra), o erano poco numerosi, o erano tanti ma utili alle nostre imprese e alle nostre famiglie. Ma non ha funzionato più quando l’imperativo di salvare i naufraghi si è scontrato con l’indisponibilità di vasti settori dell’opinione pubblica europea ad accogliere i migranti nel modo massiccio, disordinato e irregolare degli ultimi anni. Quel che gli elettori europei hanno cominciato a fare, in altre parole, è di richiamare i propri governanti all’etica della responsabilità: che non significa semplicemente valutare le conseguenze delle proprie azioni (in questo caso le conseguenze dell’accoglienza “senza se e senza ma”), ma valutarle innanzitutto in relazione ai cittadini da cui traggono la loro legittimazione, che non sono i cittadini del mondo ma i cittadini di uno specifico territorio, con le sue tradizioni, i suoi valori, i suoi bisogni e interessi.

È questo che, a mio parere, ha spiazzato molti governanti europei. È come se, a un certo punto, l’opinione pubblica europea avesse voluto ricordare ad ogni Capo di Stato di essere, per l’appunto, “solo” un capo di stato, non il Papa di Roma. Il quale Papa può permettersi di invitare all’accoglienza universale, ignorando le conseguenze delle sue parole sui cittadini europei, per un ottimo motivo: come ogni autorità spirituale, ogni predicatore, ogni rivoluzionario, ogni convinto sostenitore di una causa, il Papa agisce secondo l’etica dei principi, non secondo l’etica della responsabilità. La sua constituency, il suo “bacino elettorale”, è l’umanità intera, non certo quella minuscola porzione che è l’Italia o l’Europa.

La paralisi dell’Europa è anche la conseguenza di questo lungo sonno della rappresentanza. Orgogliosa di indicare la via al mondo intero, la classe dirigente occidentale (non solo europea) si è mossa come se essa fosse la guida morale del mondo, e al tempo stesso la paladina dei diritti di tutti. Ma era un film, un film girato essenzialmente per sé medesima. Gli stessi che si autoproclamavano paladini dei diritti di tutti, non esitavano a calpestare quei medesimi diritti quando interessi economici, strategici, geopolitici suggerivano l’intervento (a quante guerre umanitarie o di liberazione abbiamo dovuto assistere?) o, ancora più tragicamente, consigliavano l’astensione (ricordate i massacri del Ruanda?).

L’origine dell’ondata populista forse è anche qui. Di fronte a una classe dirigente che si autopercepisce come un’autorità spirituale, ma agisce come il più temporale dei poteri, i cittadini europei hanno cominciato a presentare il conto. La “lebbra” populista che sale in Europa, contrariamente a quanto pensa Macron, non è un morbo di origini misteriose. Quel morbo (ammesso che sia tale) è stato accuratamente coltivato nelle cancellerie europee, là dove, lentamente e quasi inavvertitamente, l’etica della responsabilità, che dovrebbe essere il faro di una vera classe dirigente, ha ceduto il passo all’etica della convinzione, che si addice ai profeti, non a chi vuole governare un continente.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 giugno 2018



Gli italiani non sono razzisti. Intervista a Luca Ricolfi

Vorrebbero buonsenso nella gestione dell’immigrazione

Gli italiani non sono diventati razzisti. Semplicemente vorrebbero più buonsenso nella gestione dell’immigrazione. Ecco perché «la linea di Salvini è vincente nei consensi». L’analisi è di Luca Ricolfi, sociologo, docente di Analisi dei dati all’Università di Torino e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. Che spiega: «Oggi sinistra e popolo sono due opposti: il popolo vota Salvini e Di Maio, i benpensanti preferiscono rifugiarsi nella nicchia identitaria offerta dal Pd».Domanda. Secondo un recente sondaggio sette elettori su dieci sono a favore della linea dura del ministro dell’interno e leader leghista, Matteo Salvini, sull’immigrazione e sugli sbarchi. Gli italiani si sono scoperti razzisti e di destra?

“No, gli italiani pensano che non si può continuare a non fare nulla sul problema dell’immigrazione. L’aumento della povertà in Italia è anche dovuto al fatto che non riusciamo a dare un lavoro a tutti quelli che entrano. Di fronte alle continue operazioni di salvataggio, gli italiani hanno la sensazione che i naufraghi ce li andiamo a prendere, per mettere delle stellette sul petto dei salvatori, ma poi non siamo capaci di gestirli. Chi dice che gli italiani sono diventati razzisti non capisce la differenza fra razzismo e buon senso.”

Lei teorizza uno scontro in atto tra utopie, quella cosmopolita e quella comunitaria. Può spiegarsi meglio?

“Credo che solo la sinistra radicale (non parlo di LeU, ovviamente, ma di pensatori come Jean Claude Michéa o Slavoj iek, ad esempio) abbia capito quali sono le vere forze in campo, al di là dei vecchi steccati idelogici. Da una parte ci sono le forze dell’apertura, che vogliono più circolazione di tutto (merci, capitali, informazioni, persone), e sognano un mondo unificato, in cui tutti hanno i medesimi diritti e sono sottoposti a un unico ordine mondiale. Questa è l’utopia cosmopolita, che piace ai capitalisti ma anche al pensiero liberal. Dall’altra ci sono le forze della chiusura, anti-sistema e anti-Europa, che si oppongono alla globalizzazione, e sperano di risuscitare gli stati nazionali, contro le minacce del mondo globalizzato.”

Forze che hanno lo stesso obiettivo, ma sono collocate a due estremi, destra e sinistra.

“Vero, e la cosa interessante è che, in questo momento, in alcuni paesi europei le forze della chiusura, che altrove sono non alleabili, proprio perché vengono percepite come estrema destra ed estrema sinistra, sono riuscite a coagularsi e andare al governo. È successo qualche anno fa con il governo rosso-nero in Grecia, risuccede oggi con il governo giallo-verde in Italia.”

Un terzo di quanti si dicono favorevoli alla linea di Salvini ha votato per il Pd. Come se lo spiega? Siamo davanti a un cambio culturale, sociale della sinistra?

“Sì, ma è un cambio che è iniziato almeno 40 anni fa, come ho cercato di raccontare in Sinistra e popolo, uscito per Longanesi nel 2017. Negli ultimi decenni la sinistra è diventata sempre più l’espressione dei ceti medi istruiti e delle élites che si vergognano della loro condizione, anche quando essa non è il risultato di privilegi ma semplicemente del talento o della buona sorte. L’innamoramento per le virtù del mercato e l’incapacità di capire i rischi della globalizzazione hanno fatto il resto. Oggi sinistra e popolo sono due opposti: il popolo vota Salvini e Di Maio, i benpensanti preferiscono rifugiarsi nella nicchia identitaria offerta dal Pd.”

Questo spiega perché per esempio lavoro e pensioni risuonano più forti nel programma di M5s che non in quello del Pd?

“In termini concreti alla sinistra i diritti civili, compresi quelli dei migranti, interessano molto di più dei diritti sociali. Come aveva previsto Augusto del Noce molti decenni fa (parlando del Partito Comunista), il destino della sinistra italiana è diventare un partito radicale di massa, ovvero pannellizarsi/boninizzarsi sempre più, fino a deporre del tutto quelle che un tempo erano le sue ragioni.”

La linea del governo, ribadita anche dal premier Conte con la Merkel, è che in tema di accoglienza l’Italia vuole la modifica del trattato di Dublino per la quale hanno lavorato anche i governi Renzi e Gentiloni. I modi rudi del nuovo governo serviranno a portare a casa il risultato?

“Non lo so ma non posso che augurarmelo. L’unica cosa certa è che i modi educati dei predecessori di Salvini non hanno portato a nulla, nemmeno alla più volte sventolata redistribuzione dei rifugiati.”

Il leader della Lega ha anche annunciato un censimento dei rom in Italia, salvo poi rettificare dopo il coro di proteste, anche dei pentastellati. L’uscita di Salvini è un errore di percorso o risponde invece a una precisa strategia?

“Non lo so, ma secondo me Salvini fa malissimo a canalizzare l’esasperazione della gente su un’etnia particolare. Questo davvero rischia di alimentare, se non il razzismo, l’ennesima caccia alle streghe. Se fossi al posto di Salvini, prima di prendermela con i rom, farei una bella visita, con i carabinieri e gli ispettori del lavoro, nei campi della raccolta del pomodoro, in cui i migranti sono trattati come schiavi.”

Il problema è la legalità?

“Il vero problema sono i territori, non le etnie. Ci sono interi quartieri, per non dire intere zone del Paese, in cui la legge non esiste, al Nord come al Sud. È a partire da lì che si dovrebbe agire. Il male di questi anni è stato di pensare che, se l’illegalità è mescolata alla povertà, al degrado, all’emarginazione sociale, allora è buona e va tollerata: nelle campagne, negli alloggi popolari, nell’occupazione degli spazi pubblici.”

Il ministero dell’interno potrebbe essere per Salvini il trampolino di lancio per diventare primo partito del centrodestra?

“Se Salvini si impegnerà per ristabilire la legge ovunque sia calpestata, senza guardare in faccia alcuna etnia o alcun clan, avrà il consenso degli italiani. Se invece si accanirà contro specifici gruppi sociali, allora, prima o poi, vedrà evaporare i consensi che ha acquistato in questi mesi. Non capire questo significa credere che gli italiani siano razzisti e xenofobi, mentre sono semplicemente stufi.”

Secondo un sondaggio Swg, la Lega è già il primo partito nazionale, ha superato, seppure di poco, il Movimento5stelle, 29,2 contro il 29%. Come si spiega questo trend a poche settimane dall’insediamento del governo?

“Non credo che il sorpasso della Lega su M5s sia già avvenuto, ma non mi stupirei che avvenisse più avanti. La spiegazione che più mi convince è assai semplice: Salvini è l’unico politico italiano che, insieme a non pochi difetti, tra cui semplicismo e volgarità di linguaggio, possiede due virtù cruciali: la chiarezza e la concretezza.”

Quanto contano nel calo dei consensi del Movimento e nella crescita della Lega le rispettive leadership?

“Molto nel caso di Salvini. Poco nel caso di Luigi Di Maio, che sconta semplicemente il risveglio dell’elettorato di sinistra: votando Cinque Stelle credevano di scegliere una sinistra più idealista e più pura, si stanno accorgendo di aver votato Lega. Come stupirsi se qualcuno si rifugia nell’astensione o medita di tornare alla casa madre?”

M5s e Lega sono forze destinate ad oggi a essere coalizione o a rappresentare il nuovo bipolarismo?

“Bella domanda… Non lo so. E tendo a pensare che non lo sappia nemmeno Salvini: se il governo dovesse andare bene, potrebbe nascere un’alleanza stabile, contro le forze dell’apertura, e dunque Pd e Forza Italia. Se invece andasse male, Salvini potrebbe tornare a guidare il centro-destra e sfidare i Cinque Stelle, accusandoli di aver sabotato il «contratto di governo». In quel caso sarei curioso di sapere che cosa farebbe il Pd, ammesso che non fosse nel frattempo scomparso.”

Già, il Pd. Secondo il sondaggio Swg, il Pd resiste al 18,8, mentre Forza Italia è sotto al 10% . Vede segnali di ricostruzioni per le due opposizioni?

“Per ora vedo solo segnali di suicidio. Forza Italia, o meglio Silvio Berlusconi, pare non aver capito che senza un cambiamento spettacolare, parlo di nuovo nome, nuovo leader, nuovo programma, nuove regole di democrazia interna, non tonerà mai ai fasti del passato. Il Pd, che pure sta recuperando voti grazie ai grillini pentiti, sta facendo di tutto per mettersi fuori gioco. Nessuna analisi coraggiosa degli errori del passato. Nessuna diagnosi seria sui mali del Paese. Nessuna comprensione dei sentimenti e dei pensieri degli italiani.”

Non pensa che l’attuale dirigenza democratica stia ferma in attesa degli errori del governo giallo-verde?

“Basare la propria strategia sulla speranza, o la scommessa, che prima o poi il governo Conte vada a sbattere è una vera sciocchezza. Non perché il governo Conte non possa benissimo andare a sbattere. Ma perché, se ciò dovesse accadere, non saranno certo Matteo Renzi e i suoi a raccoglierne i cocci.”

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi per Italia Oggi