Quel che non funziona a sinistra

  1. Professore, la sinistra italiana si è innamorata del nuovo sindaco di New York, Mamdani. Si cercano nuovi campioni da cui « ripartire » ?

Può darsi, l’ha già fatto Prodi con Clinton (ricordate l’Ulivo mondiale?), Veltroni con Obama (“Yes, we can”), Renzi con Tony Blair e la Terza via (ispirata dal sociologo Anthony Giddens). C’è una differenza cruciale, però, fra ieri e oggi: nessuno degli aspiranti leader del campo largo ha un prestigio comparabile a quello che – ciascuno nella sua epoca – avevano Prodi-Veltroni­-Renzi.

  1. Al fondo, c’è la mancanza di una identità definita ? Il Pd sembra non aver ancora deciso che cosa diventare… Che cosa è andato storto, in quel progetto ?

 

Su questo le diagnosi si sprecano, mi sembra superfluo farne un elenco. Io però ne aggiungerei una di cui non si parla mai: il Pd è nato all’insegna dell’inclusione, ma la sua pratica politica è sempre stata altamente escludente, e quindi incapace di attirare nella propria orbita nuovi strati sociali, come sarebbe stato imprescindibile per una forza che proclama di avere una “vocazione maggioritaria”.

  1. In che senso la pratica del Pd è stata escludente?

Nonostante i buoni propositi di Veltroni, il Pd non si è mai liberato del complesso di superiorità morale che da sempre affligge la sinistra. Ma come puoi pensare che gli altri si decidano a votarti se li tratti come eticamente inferiori, rozzi, barbari, disumani?

Io denunciai questa deriva esattamente 20 anni fa nel mio libro Perché siamo antipatici? (sottotitolo: La sinistra e il complesso dei migliori), ma devo constatare che – a dispetto degli sforzi di Veltroni – le cose da allora sono ulteriormente peggiorate, specie dopo il 2019 e la crisi degli sbarchi. Da quel momento in poi, anche per responsabilità della “sinistra culturale” di Saviano-Scurati-Murgia eccetera, il conflitto politico è stato via via eticizzato – noi i buoni, loro i cattivi – con il risultato di allontanare dalla sinistra gran parte degli elettori incerti, moderati o contendibili.

  1. Romano Prodi non sa più come dirlo. Lo ha scritto due volte in dieci giorni: Schlein è inadeguata, non può sfidare Giorgia Meloni per la premiership. Ha ragione ?

Ma certo che ha ragione, anche perché l’economia esiste: l’idea che a gestirla sia una persona che mostra di non conoscerla e non capirla è terrificante.

  1. E i riformisti ? La minoranza dem avrebbe, sulla carta, praterie elettorali. Poi però non riesce ad esprimersi, non esprime leadership.

Il riformismo non è un ideale politico forte, un ideale che ti fa sognare. Per il gruppo dirigente attuale del Pd è addirittura una colpa, un marchio di infamia. E il Jobs Act è il peccato originale, la colpa da lavare nel sangue. La Schlein ha vinto le primarie presentandosi come Cristo Redentore, sceso nel Pd per purificare la sinistra dalla macchia con cui Renzi, novello Adamo (o Eva ?), ne aveva sporcato l’immacolato candore.

  1. Se si facessero le primarie per il leader della coalizione su cui puntare come premier, vincerebbe Schlein, Conte o un terzo incomodo, per esempio Landini?

Landini verrebbe immediatamente liquidato dall’establishment politico-economico-mediatico non tanto per il suo estremismo, bensì per la sua evidente impreparazione.

Fra Schlein e Conte penso vincerebbe Conte, perché ha due assi nella manica importanti.

  1. Quali?

Primo: è già stato presidente del Consiglio e ha dimostrato di saper fare quel mestiere (personalmente non ne ho apprezzato le scelte, ma riconosco il physique du rôle, che non intravedo nella movimentista Elly Schlein).

Secondo: ha capito che, se continua a ignorare i temi della sicurezza e dell’immigrazione, la sinistra non può vincere le elezioni.

Detto per inciso, a sospingere Conte e i Cinque Stelle in questa direzione sono due donne: Sahra Wagenknect, ospite d’onore “rossobruna” alla costituente Nova di un anno fa, e Chiara Appendino, che ha appena rilasciato un’intervista-bomba su “sinistra e sicurezza”.

  1. C’è chi punta, un po’ alla cieca, sulla giovane sindaca di Genova, Ilaria Salis. La sua forza sta nell’essere ancora poco conosciuta?

Sì, se sei nuova, giovane, di bell’aspetto, non zavorrata dagli (inevitabili) errori di una carriera politica precedente, hai un indubbio vantaggio. Ma il fattore fondamentale a me pare un altro: il grigiore di tutti i suoi rivali riformisti.

  1. Al centro intanto qualche novità c’è. Il movimento Più Uno di Ruffini, i Liberaldemocratici di Marattin sono velleitari o possono trovare uno spazio, nelle more delle necessarie riforme elettorali?

Sono velleitari. Se non altro perché a occupare quello spazio c’è già Azione di Carlo Calenda.

10. Su Gaza c’è stata una campagna violenta, sfociata nell’antisemitismo, che in troppi hanno cavalcato a sinistra. Sembra che la tregua sia andata di traverso a molti che scommettevano sulla guerra…

Sì, però era una scommessa utile solo agli imprenditori del rancore anti-sistema e anti-occidentale. Per la sinistra ufficiale, che aspira a tornare al governo, il perdurare di quelle manifestazioni violente e anti-semite sarebbe stato un disastro.

11. La sinistra ha bisogno di un nemico, per vincere? Non riuscendo a dare soluzioni costruttive, indica la sua posizione tramite antinomie. Prima c’era Berlusconi. Ora con Meloni si è fatta più dura. Servono nemici internazionali, icone, totem diversi?

Sì, la sinistra ha sempre bisogno di un nemico. Ma non per vincere, bensì per consolidare la propria identità. Una identità che, ormai, non si fonda su un progetto economico-sociale per l’Italia, bensì sulla proterva convinzione di rappresentare « la parte migliore del paese », quella che sta « dalla parte giusta della storia ».

12. Alle prossime elezioni secondo lei vedremo candidati a sinistra, Sigfrido Ranucci, Francesca Albanese o Maurizio Landini ? Il prerequisito delle star a sinistra sembra quello di non aver mai fatto alcuna politica nei partiti.

Certo, le star devono essere pure e immacolate, non compromesse con le brutture della politica. Solo che poi, a un certo punto vicino ai 60 anni, arriva l’età della pensione, e la politica – che regala pensioni d’oro – diventa improvvisamente e miracolosamente utile. E addio purezza.

13. Quanti anni ancora, secondo lei, governerà Giorgia Meloni in questo contesto?

Sei e mezzo (se non si stufa prima).

(Intervista rilasciata al Riformista, pubblicata il 18-11-2025)




Schlein e l’Albania

Come pensa, Elly Schlein, di presentarsi alle prossime elezioni politiche? Mi sono fatto questa domanda qualche giorno fa, quando il Parlamento Europeo ha approvato la relazione sui rapporti con l’Albania, un paese che da oltre un decennio dialoga con l’Europa in vista di un futuro ingresso nella UE. In quella relazione c’era un passaggio delicato, nel quale il Paramento Europeo “riconosce la più stretta cooperazione tra l’Albania e l’Ue nella gestione dei flussi migratori e nei processi di controllo delle frontiere: in particolare attraverso la nuova strategia nazionale sulla migrazione per il 2024-2026 e la cooperazione con Frontex. E prende atto del memorandum d’intesa Italia-Albania”.

Ebbene, è bastato l’accenno al controllo delle frontiere, ma soprattutto al memorandum Italia-Albania, per far scattare il voto contrario dei parlamentari del Pd, che come si sa afferiscono al gruppo dei Socialisti e Democratici.

La relazione è stata approvata da tutti i gruppi politici europei, compresi i Socialisti e Democratici, con le sole eccezione della Sinistra, dei Verdi e, appunto, dei deputati italiani del gruppo dei Socialisti e Democratici. Un esito paradossale: la linea del governo italiano piace persino ai socialisti degli altri paesi, ma incontra la dura opposizione dei socialisti interni, i deputati del partito di Elly Schlein.

Questo episodio, in realtà, contiene due notizie distinte. La prima è che in Europa, sul fronte dell’immigrazione, qualcosa si sta muovendo. Già più di un anno fa, ben 15 paesi (più della metà dei pasi UE) avevano inviato alle autorità europee una lettera congiunta in cui si invocavano nuove soluzioni per la gestione dell’immigrazione irregolare in Europa. Fra loro anche paesi con premier progressista, come la Danimarca e la Polonia. E tutto fa pensare che, dopo le recenti elezioni tedesche, del gruppo possa far parte anche la Germania del cancelliere Merz. Ora il voto del Parlamento europeo sulla “relazione Albania” non fa che mostrare che il fronte rigorista non solo si sta ampliando, ma è già maggioranza nel Parlamento Europeo. Il nuovo “Patto di migrazione e asilo”, che dovrebbe entrare in vigore l’estate prossima, non potrà che riflettere il nuovo clima politico, sempre più sensibile alle istanze italiane.

La seconda notizia è che il partito che Elly Schlein sta costruendo in Italia è qualcosa di completamente anomalo, che ha sempre meno a che fare con i partiti cugini del gruppo dei Socialisti e Democratici. Per la verità ce ne eravamo già accorti in passato, quando una parte dei deputati europei del Pd si era trovato a votare come la sinistra estrema, in dissenso con il proprio gruppo europeo. Ma allora ci era risultato più facile intenderne le ragioni: guerra e riarmo sono temi delicati e divisivi, un po’ come l’aborto e l’eutanasia. Si capisce perfettamente che un partito progressista e pacifista abbia le proprie esitazioni.

Qui invece no. Votare con la sinistra estrema sulle migrazioni significa fare una ben precisa scelta politica, che amplia enormemente il solco con la sinistra riformista. Significa dire: noi non solo siamo contro Renzi e il Jobs Act, come si è visto con i referendum della CGIL, ma siamo contro Minniti e il contrasto alle migrazioni irregolari, come si è visto con il voto europeo di qualche giorno fa.

Naturalmente si può obiettare che questa, per l’appunto, era la missione che Elly Schlein si era prefissa: rinnegare i governi riformisti Renzi e Gentiloni, e far capire all’elettorato che il Pd è cambiato davvero.

Se è così, e temo che sia proprio così, viene da chiedersi perché il Pd non cambi gruppo in Europa, ed entri in quello della sinistra, dove già lo aspettano i Cinque Stelle. Ma soprattutto sorge la domanda da cui siamo partiti: come pensa Elly Schlein di vincere le prossime elezioni politiche?

Mettersi di traverso a qualsiasi tentativo concreto di affrontare il problema dell’immigrazione irregolare, come l’accordo con l’Albania o il nuovo patto di migrazione e asilo, non può che portare nuovi consensi alla coalizione di centro-destra. Se vuole avere qualche chance di successo, il centro-sinistra ha un’unica strada: togliere il tema migratorio dal centro dello scontro politico accettando le buone ragioni dei conservatori, ormai comprese e in parte condivise dalla maggior parte dei partiti socialisti democratici. Come il voto del Parlamento Europeo sulla relazione Albania ha appena certificato.

[articolo uscito sul Messaggero il 13 luglio 2025]




A proposito dell’estrema destra in Europa – Fascismo o indietrismo?

Secondo la maggior parte degli osservatori e degli studiosi di politica quello cui stiamo assistendo in Europa è una (ulteriore) avanzata elettorale dell’estrema destra. Qualcuno, pensando agli ultimi sondaggi che indicano l’AfD (Alternative für Deutschland) come primo partito della Germania, arriva a parlare di un pericolo neo-nazista incombente. Né molto più rassicuranti appaiono le notizie che arrivano dalla Francia (successi di Marine Le Pen), dal Regno Unito (successi del trumpiano Nigel Farage), dalla Romania (successo dell’euroscettico George Simion, bollato come “di estrema destra”).

Da questa diagnosi derivano, tipicamente, due contromosse politiche: primo, l’invito all’opinione pubblica a mobilitarsi contro l’onda nera neo-fascista o neo-nazista montante; secondo, il tentativo di usare la legge per impedire a determinati leader e/o a determinate forze politiche di partecipare alla competizione elettorale. Il risultato, tuttavia, per ora è soltanto l’ulteriore crescita di consensi verso i partiti bollati come di estrema destra.

Qui vorrei proporre un’ipotesi: e se l’avanzata di queste forze dipendesse anche dalla nostra pigrizia di analisti? Detto in altre parole, siamo davvero sicuri che l’etichetta di partiti di “di estrema destra”, o peggio ancora di movimenti “neo-nazisti”, colga l’essenza della protesta che avanza in Europa? Siamo sicuri che non esista una definizione più aderente alla realtà? E se, alla base del successo di certe forze politiche, vi fosse anche la nostra incapacità di comprenderne la natura?

Se proviamo a dare una rapida occhiata ai programmi, agli slogan, alle dichiarazioni dei leader, troviamo fondamentalmente quattro idee-forza. Primo, l’immigrazione irregolare è un male che va combattuto, anche con le espulsioni e i rimpatri. Secondo, la cultura woke e il politicamente corretto sono imposizioni arbitrarie e inaccettabili. Terzo, il green deal voluto dalle autorità europee danneggia i ceti popolari. Quarto, il sostegno militare all’Ucraina e il riarmo europeo sono scelte sbagliate e pericolose.

Difficile dire che cosa tenga insieme questi quattro punti, ma mi pare evidente che la connessione con fascismo e nazismo è alquanto debole. Certo, si può arditamente sostenere che chi è contro l’immigrazione irregolare crede – come molti fascisti e nazisti hanno creduto – nel primato della propria etnia, ma altrettanto bene (anzi molto più plausibilmente) si può pensare che chi invoca remigration e rimpatri abbia in mente problemi di sicurezza, o patisca la concorrenza degli stranieri sul mercato del lavoro e nell’accesso ai servizi sociali. Quanto all’ostilità verso le politiche green o ai timori per la deindustrializzazione, problemi tipici del nostro tempo, è evidente che nulla hanno a che fare con il fascismo e il nazismo. Infine, il tema del riarmo europeo: come non vedere che l’estrema destra in Europa, con il suo anti-interventismo bellico, è semmai l’esatto contrario dell’espansionismo e del militarismo nazi-fascista?

Se ne potrebbe concludere che, in realtà, non vi è nulla che plausibilmente colleghi fra loro le quattro idee-forza delle formazioni che i politologi classificano come di estrema destra. E che il loro essere “di destra” poggia sul fatto che tutte e quattro sono contrarie a idee sposate dalla sinistra, che di norma difende l’immigrazione, il green deal, il politicamente corretto, il riarmo dell’Europa. Ma sarebbe una conclusione affrettata, molto affrettata. Intanto, perché ci sono formazioni politiche di sinistra (ad esempio la BSW di Sahra Wagenknecht, o i Cinque Stelle), e intellettuali di sicura fede progressista (ad esempio filosofi marxisti come Michéa e Žižek) che, in parte o in toto, sottoscrivono quelle quattro idee affrettatamente squalificate come di estrema destra, o fasciste, o naziste. E poi perché, a pensarci bene, qualcosa che tiene incollate fra loro quelle quattro idee c’è. Ma che cosa?

Fondamentalmente, la nostalgia. La credenza che il progresso non sia tale, e l’idea che il mondo di ieri fosse migliore, o perlomeno più abitabile, di quello di oggi. Molti di coloro che votano per i partiti maledetti, squalificati dall’establishment europeo, semplicemente pensano che ci stiamo allegramente incamminando verso il baratro, e che sarebbe bello tornare a un mondo più semplice; un mondo in cui regna ancora la pace, ci sono pochi immigrati, le fabbriche di automobili non chiudono, la gente può parlare come vuole, il progresso tecnologico non ci costringe a una continua rincorsa. Il potente motore che scalda gli animi della presunta “onda nera” che avanza in Europa è prima di tutto il rimpianto, che conduce a idealizzare il mondo di ieri e a temere quello di oggi.

Possiamo continuare a chiamarli fascisti, o nazisti, o estremisti di destra, o reazionari. Ma è una scorciatoia che ci fa perdere l’essenziale, ossia il tratto che accomuna le loro  manifestazioni di destra e di sinistra: la profonda sfiducia nell’idea di progresso dell’establishment europeo, unita alla mesta consapevolezza che indietro non si torna. Se dovessi proporre un termine, suggerirei di chiamarli regressisti. O, ancora meglio, indietristi. Come, sia pure in un modo tutto suo, lo era l’inclassificabile Pier Paolo Pasolini, convinto che lo sviluppo non fosse progresso e il mondo di ieri fosse migliore di quello oggi.

[Articolo uscito sul Messaggero l’11 maggio 2025]




Sulla degenerazione del discorso pubblico – Il linciaggio di Valditara

La vicenda del ministro Valditara, contestato per alcune affermazioni fatte alla inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin, è a suo modo meravigliosa, preziosa, insostituibile. Raramente, infatti, è dato trovare concentrati in così poco tempo e spazio i peggiori difetti del nostro discorso pubblico, per non dire della nostra democrazia.

Nel suo messaggio videotrasmesso Valditara aveva osato – nel quadro di un ragionamento molto ampio – fare due affermazioni, che gli hanno scatenato addosso un mare di critiche, contestazioni, insulti, nonché la piacevole esperienza di vedere la propria immagine bruciata in piazza.

La prima affermazione è che in Italia il patriarcato non c’è più da tempo, anche se forse non da così tanto tempo come ritiene Cacciari (ossia da due secoli), e che dal punto di vista giuridico è finito nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia. Le
reazioni a questa affermazione sono state di scandalo, rabbia, indignazione, come se il ministro avesse detto una bestialità, e tale bestialità fosse oggettivamente offensiva per le donne (un po’ come lo è, per gli ebrei, sentirsi dire che la Shoah non c’è mai
stata). In questo esercizio di demonizzazione (del ministro) e di virtue signalling (degli indignati) si sono cimentati un po’ tutti, comprese legioni di giornalisti, editorialisti, conduttori televisivi. Peccato che la tesi di Valditara sia assolutamente pacifica fra gli scienziati sociali (oltreché fra le persone di buon senso), se non altro perché uno dei tratti distintivi delle società occidentali è precisamente la scomparsa dell’autorità paterna, per non dire la scomparsa di ogni autorità: e un patriarcato senza autorità paterna è una contraddizione in termini. Qui osserviamo una prima malattia del discorso pubblico: anziché ascoltare le ragioni di chi parla, se ne manipolano i contenuti (è la tecnica dello straw man) si reagisce in modo pavloviano, caricando a testa bassa il reprobo di turno.

La seconda affermazione è meglio riportarla per esteso: “occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Ho messo in evidenza gli avverbi ‘anche’, e ‘in qualche modo’ perché sono queste due cruciali specificazioni che sono saltate nella stragrande maggioranza dei resoconti del discorso di Valditara, resoconti il cui prototipo è stato: “i femminicidi sono colpa dell’immigrazione”. Ma Valditara non aveva parlato dei femminicidi, ma più in generale dei reati di violenza sessuale. E i dati del ministero dell’Interno gli danno pienamente ragione: da anni la percentuale di stranieri accusati o incarcerati per tali reati è sensibilmente maggiore della quota di stranieri, ed è enormemente superiore se consideriamo il segmento degli stranieri irregolari.

Le cifre, le fonti, le statistiche si possono discutere, naturalmente, ma il punto è che il ministro non aveva detto quel che gli è stato messo in bocca, e quel che ha effettivamente detto è supportato dai dati, e appare più che plausibile. Di nuovo, non solo il mondo politico, ma anche il mondo dell’informazione e della cultura hanno dato prova di scarsa professionalità e nessuna imparzialità. Le affermazioni di Valditara sono state deformate, le cifre da lui evocate sono state ignorate, o contrastate con cifre mal comprese, o lette faziosamente.

Si parla tanto di fake news e della necessità di contrastarle, ma che cosa è stata – se non una gigantesca fake news – la campagna contro il discorso del ministro dell’istruzione?

Sì, a ben pensarci è stata anche qualcos’altro: è stata una sconfitta della democrazia.

Perché il linciaggio che un ministro della Repubblica ha subito sui media e nelle piazze, con slogan truculenti, minacce di morte e gesti simbolici terribili – prima l’incendio di un fantoccio del ministro, qualche giorno dopo di una sua fotografia – è qualcosa che, come molte altre manifestazioni di violenza degli ultimi mesi, avrebbe meritato una presa di posizione ferma, solenne e unanime dei media, del mondo della cultura, della politica, delle organizzazioni sindacali, delle maggiori istituzioni della Repubblica. Una presa di posizione che, ad oggi, non ci è stato dato ancora di ascoltare.

[articolo uscito sulla Ragione il 26 novembre 2024]




Perché agli italiani non è piaciuto l’esperimento Albania?

Nei giorni infuocati dei trasferimenti di migranti in Albania mi domandavo: ma come la pensano gli italiani? la maggioranza degli elettori sta con Giorgia Meloni, o condivide invece le severe critiche dell’opposizione? l’operazione Albania sta spostando consensi elettorali verso destra o verso sinistra?

Ora, grazie a un buon numero di sondaggi usciti negli ultimi giorni, possiamo azzardare qualche risposta. A prima vista, si direbbe proprio che gli italiani non abbiano gradito. Se, usando le domande dei vari questionari, dividiamo grossolanamente le risposte fra favorevoli e contrarie alla politica migratoria del governo, invariabilmente dobbiamo constatare che le critiche sono maggiori dei consensi. Secondo un sondaggio di Euromedia Research, le proporzioni fra sfavorevoli e favorevoli sono, a seconda del quesito, 54 a 37, oppure 53 a 28, oppure 49 a 34 (trascuro sempre gli indecisi). Secondo un sondaggio di YouTrend la proporzione è 55 a 45. Secondo un recentissimo sondaggio Swg la proporzione è 48 a 39. Insomma: secondo tutti i sondaggi, gli italiani bocciano l’operazione Albania.

Potremmo fermarci qui, se non fosse per due complicazioni. La prima è che, nello stesso momento in cui i sondaggi sull’opinione pubblica certificano che la gente non apprezza il modello Albania, i sondaggi elettorali non confermano il trend: il consenso ai partiti di centro-destra non cala, anzi ci sono segnali di un ulteriore rafforzamento, con Fratelli d’Italia ormai stabilmente prossimo al 30% dei consensi. Ma c’è anche una seconda complicazione: i sondaggi di questi giorni, a esaminarli attentamente, forniscono una serie di indizi che attenuano l’immagine di un’opinione pubblica risolutamente ostile all’esperimento albanese. Per leggerli, dobbiamo cambiare la domanda: anziché chiederci se gli italiani sono pro o contro quell’esperimento, dobbiamo chiederci quali sono le ragioni per cui sono contro. Ebbene, se spostiamo l’attenzione sulle ragioni, scopriamo diverse cose interessanti. Ad esempio, che sono relativamente pochi i cittadini che osteggiano l’esperimento albanese per ragioni di principio, umanitarie, o di diritto: nel sondaggio YouTrend, sono solo il 23% coloro che si dicono contrari perché l’accordo “viola i diritti umani”; nel sondaggio Swg i contrari in quanto l’accordo “viola il diritto internazionale” scendono addirittura al 15%, appena 1 italiano su 7.

E allora da dove viene la contrarietà?

Leggendo le risposte ai sondaggi, non è difficile capirlo. Una parte dei rispondenti si dice contrario non perché il modello sia iniquo, sbagliato, o disumano, ma semplicemente perché pensa che non funzionerà: questa quota, che potremmo definire di scettici, è pari al 30% nel campione di Euromedia, e al 33% nel campione Swg.

Ma il segmento più interessante è quello di coloro che giudicano negativamente l’esperimento albanese per i suoi costi. Nel campione YouTrend gli spaventati dai costi sono il 32%, nel campione Euromedia sono il 34%. In breve 1 cittadino su 3 disapprova l’accordo perché costerebbe troppo. Combinando le varie risposte, si può concludere che la maggior parte dei contrari lo sono non per ragioni di principio, ma per scetticismo sulla riuscita, o per via dei costi troppo elevati.

La sensazione che si buttassero via i soldi è stata sicuramente aiutata da due cifre ampiamente circolate sui media: l’operazione Albania sarebbe costata 1 miliardo di euro, che sarebbe potuto essere meglio impiegato rafforzando il disastrato comparto
sanitario; le trasferte dei 16 migranti sarebbero costate, da sole, 250 mila euro (15 mila euro a migrante), insomma una vera follia. Di qui la perplessità dei cittadini, l’indignazione delle opposizioni, le denunce per danno erariale, eccetera.

Molto si potrebbe controbattere ad entrambe le cifre e le argomentazioni, in primis la totale assenza di qualsiasi tentativo di condurre una seria analisi costi-benefici del progetto Albania. Qui mi accontento di osservare che la stragrande maggioranza dei
cittadini (compresi alcuni giornalisti e commentatori) non ha la minima percezione degli ordini di grandezza in gioco, al punto che non è raro sentire anche illustri opinionisti confondere i milioni con i miliardi. A molti sembra sfuggire, ad esempio,
che una cifra che può apparire enorme in un contesto familiare (1 milione di euro), ha un peso completamente diverso in contabilità nazionale.

Nel nostro caso è spesso successo che i 650 milioni di euro in 5 anni (costo ufficiale dell’esperimento) venissero presentati come se l’ammontare fosse di 1 miliardo e in 1 solo anno, e come se quella cifra, percepita come enorme, potesse alterare significativamente il bilancio annuale della sanità (in realtà lo altererebbe dello 0.09%). Per capire quanto possa essere distorsivo e forviante ragionare sulle cifre dimenticando che stiamo parlando di voci di contabilità nazionale, vorrei fornire qualche termine di paragone fra voci di spesa riportando tutto a una dimensione familiare, ossia traducendo tutto in spesa per abitante.

Ebbene, negli ultimi anni le cifre medie sono approssimativamente queste. Il valore annuo della spesa sanitaria è di circa 2300 euro per abitante (compresi bambini e i neonati). Il costo annuo del superbonus è stato di circa 500 euro per abitante. La spesa totale per l’accoglienza è dell’ordine di 50 euro all’anno per ogni abitante.

E il costo – ingente, mostruoso, vergognoso – dell’esperimento Albania?

Tenetevi forte: 2.2 euro per abitante all’anno (il costo d 2 caffè). E il costo dell’intera operazione Albania, spalmato su 5 anni? ben 11 euro per abitante.

Di qui un dubbio: siamo sicuri che gli intervistati che si sono dichiarati contrari all’operazione Albania perché troppo dispendiosa avessero idea che il costo per abitante era di 2 euro l’anno? O sapessero di averne sborsati 500 (ossia 250 volte tanti) per permettere a 1 famiglia su 20 di ristrutturare case e ville?

Se la risposta fosse che non ne erano consapevoli (perché per tutti è molto difficile ragionare sulle grandezze di contabilità nazionale), ne scaturirebbe un’altra domanda: come ha potuto, l’esecutivo, non rendersi conto che – in casi come questo – le
intuizioni della gente sono fallaci, e quindi le istituzioni hanno il compito di informare correttamente sulle vere cifre in gioco?

[articolo uscito sul Messaggero il 24 ottobre 2024]