Ucraina, libere idee in libero dibattito

Su quale sia, di fronte all’invasione dell’Ucraina, la linea di condotta più adeguata, non ho convinzioni forti. E questo non solo perché sono del tutto incompetente in materia di geopolitica, ma perché constato che fra i competenti le opinioni divergono radicalmente. E le divergenze non riguardano solo la scelta dei mezzi, ma anche quella dei fini: fermare Putin o punire Putin? trovare un compromesso o umiliare l’avversario? minimizzare il numero di morti di oggi o quello di domani?

C’è chi ritiene che limitarsi agli aiuti umanitari sia la condotta più saggia, anche questo dovesse comportare la resa dell’Ucraina. C’è chi ritiene che solo continuando ad armare la resistenza ucraina sarà possibile fermare Putin. C’è chi ritiene che istituire una no fly zone sull’Ucraina ci porterebbe dritti alla terza guerra mondiale (se non all’apocalisse nucleare), e c’è chi ritiene – tutto al contrario – che ancora più imprudente sarebbe non istituirla: la rinuncia Nato alla no fly zone sarebbe un segnale di debolezza, che potrebbe convincere Putin che noi occidentali non oseremo mai entrare in guerra con lui, anche dovesse invadere un altro paese europeo.

Quello su cui ho invece un’opinione è il destino delle nostre menti in tempo di guerra. Quel che mi colpisce, come studioso di scienze sociali, è il clima di illibertà che governa i nostri scambi di idee. Un clima in cui nessuno si sente completamente libero di dire come vede le cose, perché sa che, qualsiasi cosa dica, sarà aggredito da chi vede le cose in modo opposto, o anche semplicemente diverso.

L’indizio più rivelatore di questo clima è la “premessite”: prima di dire qualcosa di sostanziale, si passa un tempo notevole a fare premesse autodifensive per tutelarsi dal rischio di essere crocefissi per quel che si sta per dire. Mi impressiona molto ascoltare in tv autorevoli giornalisti e studiosi avvilupparsi in lunghissime serie di auto-certificazioni di anti-putinismo per sentirsi in diritto di dire quel che pensano, ad esempio che li ha colpiti l’ammissione di Biden di aver passato l’ultimo anno a rifornire l’Ucraina di armamenti.

E’ un meccanismo che avevamo già sperimentato nella pandemia, quando – se si aveva da dire qualcosa di non perfettamente ortodosso sui vaccini – si esordiva dicendosi plurivaccinati, sottoposti alla terza dose, equipaggiati con green pass, eccetera.

Si potrebbe pensare che è normale che tutto ciò accada quando è in gioco una questione importante, e inoltre sussiste un’ortodossia, ossia un pensiero prevalente e ritenuto più giusto.

In realtà non è così. O meglio non è solo così. Il meccanismo che non ci lascia discutere liberamente, senza accusarci reciprocamente di stare dalla parte sbagliata, è più universale e profondo. Fu scoperto e studiato nei primi anni ’50 dallo psicologo sociale americano Leon Festinger, viene chiamato “riduzione della dissonanza cognitiva”, e costituisce probabilmente la più importante scoperta delle scienze sociali del Novecento. Quel che Festinger scoperse è che non solo la mente umana non sopporta i conflitti interni, ma il suo bisogno di coerenza interna è così forte da generare meccanismi di correzione radicali, come l’autoinganno, l’adozione di credenze irrazionali, l’incapacità di prendere atto dei dati di realtà, anche di fronte a clamorose smentite delle proprie convinzioni.

La mente umana, si potrebbe dire riprendendo una lucida considerazione di Walter Siti, funziona in modo opposto a come funziona la grande letteratura. La nostra mente ha bisogno di coerenza, la grande letteratura si nutre delle contraddizioni, dei drammi e delle ambiguità della vita reale. Soprattutto, la nostra mente è incapace di passare da un piano all’altro del discorso senza esigere che fra i vari piani vi sia coerenza. Se l’empatia ti porta da una parte, non ce la fai ad accettare che qualche notizia, o ragionamento, o fatto storico ti possa portare dall’altra. E se il ragionamento ti porta dalla parte opposta, la tua empatia ne risente, o gli altri ti percepiscono come privo di empatia.

Vale oggi per la guerra in Ucraina, ma valeva anche ieri per le “guerre umanitarie”, o per quelle contro il terrorismo. Noi, per come funziona la nostra mente, non siamo capaci di sopportare quel che invece nutre la grande letteratura, ossia l’imperfezione del bene e la complessità del male. Abbiamo bisogno di pensare che il mondo delle vittime sia senza ombre, e quello dei carnefici sia del tutto privo di umanità. Ogni spiegazione del male ci appare un’offesa al bene, e il bisogno di sentirci dalla parte del bene ci impedisce di vedere i nostri limiti.

E’ un vero peccato, anche se – dopo Festinger – sappiamo che è connaturato al modo di funzionare del nostro cervello.  E’ un peccato perché, se può essere vero, come scrisse Primo Levi, che “comprendere è quasi giustificare”, è altrettanto vero che spiegare il male (che è cosa ben diversa dal comprenderlo) è essenziale per evitare il suo ripetersi, ed è ancora più essenziale adesso, quando una maggiore lucidità potrebbe guidarci a prendere le decisioni giuste.

La pietà e la solidarietà per le vittime non dovrebbero mai essere scalfite dalla ricostruzione dei torti e delle ragioni delle parti in gioco, che – nella storia – sono sempre entità collettive, ovvero partiti, nazioni, imperi, potenze che agiscono sopra le teste della gente comune.

 




Cimiteri di guerra e di retoriche

Nei cimiteri di guerra non ci sono soltanto le tombe dei caduti: accanto ad esse troviamo cippi senza croci in cui giacciono le retoriche dei tempi di pace. Quello più monumentale è dedicato all’idea che la convivenza pacifica dei popoli e delle etnie culturali troverebbe un ostacolo insormontabile negli stati nazionali. In realtà, come dimostra la storia contemporanea, sono gli imperi —da distinguere dalle libere federazioni— che, con le loro rovinose cadute, provocano stragi di uomini e distruzioni di beni. Scrivendo a Mauro Macchi nel 1856, Carlo Cattaneo così motivava il progetto di unione europea:” Congresso comune per le cose comuni; e ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha casa, le cognate non fanno liti”. Già ognuno ‘padrone a casa sua’, ovvero ciascuno impegnato a preservare la propria identità, nella consapevolezza che non può esserci democrazia senza un comune linguaggio, senza un comune retaggio culturale, senza la valorizzazione e la tutela della propria diversità. Gli imperi fanno convivere popoli diversi giacché è nella loro essenza la rimozione della politica e l’imposizione di un ordine esterno, che nel caso dell’Austria-Ungheria non esclude la buona amministrazione. Quando però si rompono le file e riemerge la dimensione politica –il ‘noi’ e il ‘loro’– è la democrazia non la barbarie (che certo non manca mai) a richiedere un’arena istituzionale in cui i conflitti vengano regolati e contenuti dal sentirsi membri di una stessa famiglia. Le tragedie europee sono dovute ai lasciti degli imperi, al fatto che negli stati sorti sulle loro rovine si ritrovano cittadini appartenenti a minoranze etniche che ora ‘non si sentono più a casa’: v. i Sudeti in Cecoslovacchia, gli Armeni in Turchia, i Russi in Ucraina, gli Altoatesini in Italia etc.. Forse lo stato nazionale non ha tutte le colpe che gli vengono attribuite. Lo si comincia a sospettare negli Stati Uniti in cui la fine della nation ovvero del credo americano iscritto nel melting pot , non promuove la   pacifica convivenza razziale ma scatena una guerra permanente, che trova nella cancel culture la sua espressione più coerente.

Dino Cofrancesco

Il Giornale del Piemonte e della Liguria

Vistodagenova

Martedì 8 marzo 2022




L’Ucraina e le tre destre

Di effetti sul nostro paese, la guerra in Ucraina ne sta producendo parecchi, e molti altri e più grandi ne produrrà in futuro. C’è un effetto minore, però, cui non mi pare sia stato ancora assegnato il giusto rilievo: la ristrutturazione dell’immagine della destra.

Fino a ieri la percezione dei tre partiti di destra obbediva a due canovacci elementari. Il primo, congeniale agli osservatori più schierati: Berlusconi buono (perché moderato ed europeista), Salvini & Meloni cattivi (perché sovranisti e anti-immigrati). Il secondo, congeniale ai più convinti sostenitori del governo Draghi: Berlusconi & Salvini buoni (perché al governo), Meloni cattiva (perché all’opposizione).

Nel breve volgere di pochi giorni tutto questo è saltato. Giorgia Meloni ha preso risolutamente una posizione atlantista e pro-Ucraina, Salvini e Berlusconi lo hanno fatto obtorto collo, con l’imbarazzo di chi in passato si è sbilanciato innumerevoli volte a favore di Putin, lodandolo come politico, e sostenendone le scelte strategico-militari più discutibili, come l’annessione della Crimea nel 2014.

Così molti schemi traballano, e il tentativo di riproporre quelli vecchi si infrange contro la nuova realtà. Nel nuovo clima anti-russo, suona strano pensare Berlusconi e Salvini, fino a ieri i migliori alleati di Putin, come moderati e ragionevoli. Così come stona, nel momento in cui parliamo con ammirazione degli ucraini che corrono in patria a sostenere la resistenza, dileggiare Giorgia Meloni per il suo definisti una “patriota”.

Si potrebbe commentare tutto questo dicendo che la politica internazionale costringe a riconoscere che ci sono in Italia tre destre molto diverse fra loro, e che non è detto che la destra più accettabile sia quella che ci piace definire moderata, o di governo. Ma ci si potrebbe anche spingere più in là. Forse è venuto il tempo di guardare in modo più concreto al mondo della destra, deponendo lo schema estremisti/moderati non solo quando si ragiona di politica internazionale, ma anche quando si ragiona di politica interna. Perché, anche quando si parla di tasse, di politiche sociali, di sanità, le destre sono almeno tre, e non è affatto chiaro chi sono i moderati e chi sono gli estremisti. Prendiamo la politica fiscale, ad esempio. Forza Italia e la Lega sono per la flat tax, ma Berlusconi guarda soprattutto alle famiglie, Salvini alle partite Iva. Quanto a Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni è sostanzialmente contraria alla flat tax, e fin dal 2015 difende politiche che si potrebbero definire pseudo-keynesiane: premiare con meno tasse le imprese che creano nuovi posti di lavoro. Ha senso chiedersi chi è il moderato e chi è l’estremista? Se metti la flat tax sei moderato, ma se le tasse le abbassi solo a chi crea posti di lavoro sei estremista?

Fatico a seguire il ragionamento. A me sembrano solo tre modi, profondamente diversi, di ridurre la pressione fiscale.

Lo stesso discorso si può fare per la politica sanitaria. Anche qui la destra è stata, e resta, profondamente divisa. Forza Italia ha aderito senza riserve all’ortodossia vaccinale. La Lega e Fratelli d’Italia, sia pure con tempi e accenti diversi, hanno sempre sollevato riserve su vaccinazione di massa, green pass, chiusure.  Con una differenza, però: Fratelli d’Italia si è battuta (invano) per introdurre la ventilazione meccanica controllata (Vmc) nelle scuole, e lo ha fatto fin da un anno fa, ben prima che l’Oms riconoscesse la sua cruciale importanza per il contrasto del virus, specie nella stagione fredda.

Di nuovo, mi pare che distinguere fra una destra moderata e una destra estrema sia poco utile, se non fuorviante. La realtà è che né sulla politica internazionale, né sulla politica economica, né sulla gestione dell’epidemia i modi di vedere di Berlusconi, Salvini e Meloni collimano. Classificare tali modi di vedere come più o meno estremisti, più o meno moderati, più o meno europeisti può essere comodo per i conduttori di talk show (e per gli osservatori più ideologizzati), ma non è utile agli elettori. I quali avrebbero diritto, semmai, di capire le differenze che, quasi in ogni ambito, ormai intercorrono fra i tre principali partiti di destra.

Le elezioni politiche si terranno fra un anno, se non prima. La destra ha il dovere di non nascondere le sue divisioni e, se ne è capace, di ricomporle prima del voto. Possibilmente senza indulgere in vecchie e astratte contrapposizioni, figlie di un’epoca che sta tramontando.

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)




L’Ucraina e noi – Il sentimento della vergogna

La politica internazionale ha le sue regole, una sua logica, il suo pacchetto di criteri di valutazione. Ne so poco, anzi quasi niente. Mi sono sempre occupato di altri temi, forse meno importanti, sicuramente più nazionali che internazionali. Perciò su questa guerra scoppiata in Europa non sono titolato a parlare, e infatti non lo farò.

Quello di cui vorrei parlare è qualcosa di più intimo, è qualcosa che succede dentro di me e, suppongo, possa succedere anche ad altri. Vorrei parlare di un sentimento, che probabilmente nasce proprio dall’ignoranza, dal non essere esperti di geopolitica e di strategie militari, dal fatto di vedere le cose con l’occhio ingenuo della persona comune. Un sentimento che, non mi è bene chiaro perché, è bandito dal discorso pubblico. Non emerge mai esplicitamente. Non se ne discute, o forse non se ne deve discutere.

Quel sentimento è la vergogna. Ma forse sarebbe più esatto dire: doppia vergogna. Vergogna perché, nonostante i disperati appelli del presidente Zelensky, l’Occidente, l’Europa (e ovviamente anche l’Italia) non sono disposte a fornire alcun aiuto concreto al popolo ucraino, al di là delle fantomatiche e inefficaci “sanzioni durissime”. Ma vergogna, anche, perché non solo non siamo disposti a correre alcun rischio per aiutare gli ucraini, ma stiamo trasformando in spettacolo la tragedia altrui. Comodamente seduti davanti ai teleschermi, veniamo inondati da maratone televisive come quelle del Quirinale o, in passato, quelle delle guerre del Golfo.

E’ come se, vedendo una banda di bulli che picchia a sangue un bambino, noi ci limitassimo a minacciarli di non invitarli più alle nostre feste, e in compenso non ci facessimo scappare l’occasione di filmare tutto. Eppure ci hanno insegnato che è vile voltarsi dall’altra e far fina di niente davanti a uno stupro. E che non è bello, quando c’è un incidente per strada, fare ressa intorno ai feriti non per soccorrere ma per vedere lo spettacolo.

Sono paragoni sbagliati?

Forse sì, se la domanda è soltanto: cos’altro potremmo fare?

Ma forse no, se la domanda è: che cosa siamo diventati, come cittadini e come operatori dell’informazione?

Già, che cosa siamo diventati?

A me sembra che una parola condensi tutto: siamo diventati spettatori, e come tali veniamo trattati. L’informazione, specie in tv e su internet, si preoccupa poco di farci capire e molto di assicurarci un intrattenimento permanente, h24. Quanto a noi, cittadini del ricco ed evoluto occidente, quel che ci è chiarissimo almeno da mezzo secolo (da quando i giovani americani ripudiarono la guerra del Vietnam) è che la guerra non fa per noi. Possiamo condannare, esprimere solidarietà, indignarci, accogliere profughi, imporre sanzioni economiche, ma aiutare un popolo aggredito no. Quello resta fuori del nostro orizzonte morale. Le uniche guerre che siamo disposti a fare sono quelle per i nostri stretti interessi, possibilmente solo dal cielo, meglio se affidate agli anglo-americani.

E’ un bene? E’ una conquista di civiltà? Potremmo fare diversamente?

Non ho le risposte. Ma mi accontenterei che provassimo a riflettere. E a non rimuovere. Il sentimento della vergogna è del tutto bandito dalla retorica del discorso pubblico, ma a me pare, in questo momento, il più appropriato, per non dire il più onesto. Quanto alla fuoruscita della guerra dal novero delle cose concepibili è sicuramente una conquista di civiltà. Ma non è solo questo: è anche il segno che tutto ciò che costa fatica, comporta rischi, richiede impegno e spirito di sacrificio è a sua volta uscito dal radar delle nostre vite. E non da ieri, né solo in Europa: la psicologa israeliana Hara Estroff Marano aveva descritto la mutazione nei giovani americani già due decenni fa in un libro significativamente intitolato A Nation of Whimps (una nazione di schiappe).

Forse la domanda che dovremmo farci è se, in un mondo che non è ancora tutto sulla nostra lunghezza d’onda, possiamo permetterci di essere quello che siamo. Il grado di civiltà di un paese, o di un continente, può anche essere eccessivo, non solo insufficiente. Si racconta che, a Yalta, a chi gli faceva presente che il Papa avrebbe preferito un altro assetto del mondo, Stalin avesse chiesto: quanto divisioni ha il Papa? Dev’essere la stessa domanda che si è fatto Putin: quante divisioni ha Ursula von der Leyen?




Perché la ‘filosofia della guerra’ è più umana della ‘filosofia della rivoluzione’

Il ricordo—non le celebrazioni che non ci sono state—della vittoria italiana nella Grande Guerra è stato l’occasione per riaprire le cataratte della retorica buonista nazionale. «Mai più inutili stragi!», «Mai più guerre!». «La guerra è sempre la soluzione peggiore!». Se si pensa a un conflitto armato tra superpotenze dotate di terribili arsenali atomici, non si può che essere d’accordo. Oggi la guerra può rappresentare la fine della vita sulla terra o, comunque, ridurre il pianeta in uno stato simile a quello descritto da Robert Altman nel film ‘Quintet’ del 1979. Tale evidenza, tuttavia, è tale per il presente ma si capisce assai meno per il passato. Qual’ è la ragione reale che induce i pacifisti in servizio permanente effettivo a ritenere che la guerra sia sempre stata il peggiore dei mali? Non vedo, all’interno di un’etica cristiano-illuministica, che una ragione sola: l’erogazione di violenza, accompagnata dalla distruzione di vite umane, di paesaggi naturali e artificiali prodotti nei secoli con enorme dispendio di risorse economiche e intellettuali, di opere architettoniche che, senza la guerra, avrebbero sfidato i secoli, di edifici civili, di chiese, di biblioteche, di monumenti dell’arte, di laboratori della scienza. Sennonché se si tratta di questo, non c’è qualcosa di ancora più terribile della guerra nella rivoluzione? Se parliamo del conteggio dei morti, della fame, della carestia, del saccheggio, dell’abbattimento delle case e dei luoghi di culto, della demolizione dei simboli del regime politico abbattuto, la rivoluzione appare oggettivamente ancora più esecrabile della guerra. Nella sola Russia sovietica sono perite, in pochi decenni, più del doppio delle persone cadute nella Grande Guerra o nell’insensata guerra dell’Asse. La Rivoluzione cinese sembra sia costata alla popolazione civile più di trenta milioni di ‘nemici del popolo. La stessa ‘Grande Rivoluzione’ ha causato in Francia (e in Europa) un numero di morti maggiore di quello che si era avuto nelle guerre dinastiche per l’egemonia da Richelieu a Luigi XVI.

Quel che è peggio, però, non è la quantità dei trapassati a miglior vita bensì il carattere ideologico, religioso, spietato, fondamentalista, della rivoluzione. Le guerre d’ancien régime—che non s’intende certo idealizzare—scaturivano da un mero conflitto di interessi: ciascun esercito combatteva per the King and the Country e i nemici—specie se ufficiali superiori—si sentivano parte di uno stesso corpo professionale, caratterizzato da uno specifico senso dell’onore, che imponeva il rispetto del ‘collega’.«Messieurs les Anglais, tirez les premiers !», sono rimaste celebri le parole pronunciate nella battaglia di Fontenoy (1745).’La Grande illusione’ di Jean Renoir (1937) resta ,forse, l’espressione più toccante di quel ‘mondo di ieri’ in cui erano ancora immersi i due aristocratici protagonisti del film– il comandante della prigione tedesca, il capitano von Rauffestein (Erich von Stroheim) e il suo prigioniero francese, il capitano Boeldieu (Pierre Fresnay)–ma che non riusciva a comprendere, per le sue origini borghesi, l’altro prigioniero francese, il tenente Marèchal (Iean Gabin).

E’ con la Rivoluzione francese, in effetti, che inizia the Great Transformation. Gli eserciti che si battono contro la reazione esterna e interna non inalberano la bandiera della ‘Ragion di Stato’—che, in quanto ragione con la erre minuscola, conosce l’arte della prudenza e la capacità dell’autolimitazione non in nome della morale ma dell’«interesse bene inteso»—bensì il vessillo dei «diritti dell’uomo e del cittadino» che porta a riguardare i nemici come agenti della Reazione, espressioni del Male assoluto, della negazione radicale dell’eguaglianza, della libertà e della dignità di tutti i Figli della Terra. La violenza non viene ora avvertita come una ineliminabile necessità ma come la giusta punizione dei corrotti e dei depravati che vogliono fermare il corso della storia. Non ci sono più ragioni al plurale ma c’è solo la Raison al singolare–e con la lettera maiuscola–che impone di bonificare il terreno della conquistata libertà dai parassiti e dalle cattive erbacce che, nel corso dei millenni, hanno impedito di trasformare il pianeta nel giardino sognato dagli utopisti. E’ l’eticizzazione (e, in seguito, la giuridicizzazione) del conflitto che rende, de facto, la rivoluzione, nel suo corso, più disumana della guerra, giacché nessuna Convenzione di Ginevra ne limita e contiene la violenza. Quando il nemico è un criminale nessuna pietà può muovere chi lo cattura e se, nondimeno, riesce a salvarsi (per essere portato dinanzi a un tribunale) ciò avviene per la sopravvivenza di antichi codici d’onore nel vincitore. Non è causale che durante la nostra guerra civile—la Resistenza—i partigiani provenienti dall’esercito siano stati meno spietati di quelli provenienti dai partiti (v. le memorie di Edgardo Sogno e di Alfredo Pizzoni); e che un fenomeno analogo si sia registrato nella ‘Guardia Repubblicana’ di Salò in cui i membri della Milizia o del disciolto PNF andavano meno per  le spicce rispetto ai soldati dell’ex esercito regio.( E’ la testimonianza–da me raccolta–di ufficiali che, vivendo al nord, si erano ritrovati nel territorio della Repubblica Sociale e che ad essa avevano dovuto aderire)

Ci si pone, allora, la domanda: se la quantità della violenza erogata e la sua stessa modalità avrebbero dovuto indurre a temere più la rivoluzione che la guerra, perché i costi della prima sono stati rimossi al punto da farne un evento da santificare (anche quand’è finita male, come nel caso del 1917) mentre la seconda è rimasta sempre la cloaca massima in cui si riversano tutte le fogne infernali della terra? Il motivo sta nel fatto che in una società caratterizzata da una political culture lontana dal realismo, e sommamente indulgente per tutto ciò che sa di—o si richiama al– ‘progresso’, contano soprattutto le intenzioni. Le rivoluzioni si fanno (o almeno così si pensa) per ragioni ideali, per liberare gli uomini dall’oppressione aristocratica o dalla tirannide borghese, mentre le guerre traggono origine dagli interessi e gli interessi non sono valori ma appetiti egoistici. Incendiare le case degli sfruttatori del popolo può essere riprovevole ma è, nondimeno, manifestazione di altruismo: difendersi (con le armi) da quanti vogliono toglierci il posto al sole o prevenirli nell’occuparlo non ha alcuna giustificazione, è manifestazione di nazionalismo e di sopraffazione, anche in presenza di un’oggettiva volontà di sopraffazione da parte degli Stati vicini e concorrenti—gli stati, diceva Benedetto Croce, sono leviatani dalle viscere di bronzo.

«La guerra non ha mai risolto nulla?». In un certo senso è vero, se i due conflitti mondiali hanno ridisegnato la cartina dell’Europa e del mondo, non sono riusciti poi a ridisegnarla in meglio, almeno in ogni loro parte :il vecchio continente nel 1918 assistette, in molte aree, all’affermazione del ‘principio di nazionalità’, al crollo degli Imperi centrali e dell’autocrazia zarista ma, nella voragine di potere aperta dalla Grande Guerra, si sarebbero ben presto installati regimi totalitari così disumani da far impallidire il ‘dispotismo asiatico’ di Montesquieu.

Sennonché «che cosa ha risolto poi la rivoluzione?» Il bilancio della rivoluzione sovietica è stato—anche per storici decisamente schierati a sinistra come Eric J. Hobsbawm—del tutto fallimentare e sulle sue macerie, quarant’anni fa, è nato un regime politico democratico-autoritario che solo vendendo all’estero le sue materie prime riesce a evitare la bancarotta. E quanto alla Francia, madre di tutte le rivoluzioni moderne si sarebbe, forse, trovata peggio senza il Terrore giacobino, la dittatura napoleonica, e il vorticoso avvicendarsi di repubbliche e monarchie? Sono domande che in nessuna scuola della Repubblica possono venir poste senza prestarsi all’accusa di disfattismo democratico se non di reazione. Eppure i fatti sono quelli e stanno lì più duri dell’acciaio.

A mio modesto avviso, per dirla brutalmente e senza nessuna preoccupazione per il politically correct, non saremo mai una democrazia  liberale a norma se non sostituiamo la “filosofia della guerra” alla “filosofia della rivoluzione”, se non ci rassegniamo a vedere nell’avversario uno come noi, che ha interessi diversi dai nostri–e talora componibili solo con le armi (le armi della scheda elettorale, non quelle militari)–ovvero se non rinunciamo a considerarlo un essere moralmente inferiore, da schiacciare senza pietà. Nella ‘filosofia della rivoluzione’ c’è l’idea della mela marcia, del virus letale che infetta una società (naturaliter) sana, nella ‘filosofia della guerra’, c’è, sostanzialmente–venata di scetticismo humiano–l’idea dell’eguaglianza per cui sui due lati della barricata ci si aspetta di trovare lo stesso materiale umano.