Verso l’obbligo, fra preoccupazione e speranza

Non mi è mai piaciuta granché l’idea di imporre un obbligo su un vaccino completamente nuovo. E penso che, con scelte di politica sanitaria più sagge, non saremmo mai arrivati a porci la domanda se rendere la vaccinazione obbligatoria per tutti.

Però quel che è stato è stato: la terza dose è partita con un ritardo di tre mesi, nulla è stato fatto su trasporti e ventilazione degli ambienti chiusi, ai vaccinati si è lasciato credere che corressero pochissimi rischi. Il risultato è che l’epidemia galoppa, il numero effettivo di soggetti positivi, o a diretto contatto con positivi, è dell’ordine di 5 o 6 milioni (1 italiano su 10), gli ospedali e le terapie intensive sono sotto pressione, i malati ordinari faticano ad essere ricoverati e curati, il numero dei morti quotidiani è il quadruplo di due mesi fa ed è in costante aumento.

In questa situazione, l’unica cosa che non possiamo permetterci è continuare a non fare nulla. E purtroppo il novero delle misure fra cui, nell’emergenza, siamo costretti a scegliere, non può che essere quello degli interventi (dolorosi) che producono effetti significativi a breve: estensione più o meno ampia dell’obbligo vaccinale, lockdown per i non vaccinati, Super Green Pass per accedere al lavoro, mascherine ffp2 sui mezzi pubblici, e così via.

Insomma: l’ampliamento dell’obbligo, più che essere “giusto” e risolutivo, è uno dei pochissimi rimedi disponibili al non fatto sin qui. E allora obbligo sia, purché però si tenga conto di tutti i dati della situazione, comprese le esperienze degli altri paesi.

Il dato più importante della situazione, a mio parere, è l’attuale inadeguatezza della macchina vaccinale in Italia: il numero di vaccinazioni giornaliere (circa 400 mila al giorno) è largamente insufficiente a fronteggiare la domanda. Molti continuano a ragionare come se il problema fosse solo l’ostinato rifiuto del vaccino da parte di 5 o 6 milioni di NoVax adulti, senza vedere l’altro enorme problema, quello degli “scaduti”: 18 milioni di persone che si sono vaccinate nei primi 8 mesi del 2021, vorrebbero fare la terza dose, ma in tanti casi devono ancora attendere a lungo, in quanto gli hub vaccinali e le farmacie sono sopraffatte dalle richieste. La politica può anche imporci l’obbligo, ma non può esortarci ossessivamente a vaccinarci tutti – NoVax, vaccinati “scaduti”, bambini – e poi non garantire un tempo di attesa ragionevole a chi intende vaccinarsi. Se obbligo sarà, che almeno la capacità di vaccinazione sia portata quanto prima a un livello accettabile.

Si potrebbe supporre che, una volta ridotto il numero di non vaccinati e completata la campagna per la terza dose, saremo sostanzialmente al sicuro. Su questo, tuttavia, l’esperienza degli altri paesi europei, e più in generale occidentali, ci fornisce sia motivi di preoccupazione, sia motivi di speranza.

Motivi di preoccupazione perché i paesi che più hanno vaccinato e/o più sono avanti con il cosiddetto booster (terza dose), ad esempio Portogallo, Spagna, Danimarca, Israele, Malta, Islanda, hanno tutti valori di Rt ampiamente superiori a 1, qualche volta prossimi a 2 (un valore catastrofico). Poiché si tratta anche dei paesi nei quali la variante omicron è più diffusa, pare doversi concludere che – a questi livelli di vaccinazione, e con questi vaccini (pensati per varianti precedenti) – la variante omicron risulta ancora vincente nel braccio di ferro con il vaccino.

Dobbiamo disperarci?

Forse no. Intanto perché nessun paese, nemmeno Israele, è finora riuscito a fare fino in fondo quel che andava fatto: vaccinare quasi tutti, e non permettere che i già vaccinati perdano la protezione a causa dei ritardi nella somministrazione della terza dose. E’ possibile che la corsa del virus, ora apparentemente inarrestabile, si fermi quando avremo portato a termine entrambe le missioni, ovvero vaccinare (possibilmente con vaccini aggiornati!) un alto numero di attuali NoVax, e fornire tempestivamente il booster agli “scaduti”.

Ma la ragione principale che può indurci a confidare nel futuro è l’analisi statistica della letalità nei paesi in cui la variante omicron è più diffusa. E’ presto per trarre conclusioni definitive, ma è interessante osservare che nelle ultime settimane, nella maggior parte dei paesi ad alta presenza di omicron, mentre il numero di casi diagnosticati esplodeva, il numero dei decessi non dava alcun segno di voler seguire il numero dei contagi. In Israele, Sud Africa, Australia, Stati Uniti, Canada, Regno Unito,  Svezia, Spagna, tutti paesi in cui a dicembre il contagio è dilagato, il numero dei decessi è rimasto sostanzialmente invariato, o è addirittura diminuito. Poiché tutto ciò è avvenuto nel breve volgere di poche settimane, sembra difficile attribuire la diminuzione tendenziale della letalità a un’improvvisa accelerazione della campagna di vaccinazione, o a un drastico mutamento dell’età media della popolazione degli infetti.

L’analisi statistica, dunque, pare dar torto agli esperti che avevano invitato a non illuderci di una minore letalità della nuova variante. Ad oggi, almeno sulla letalità della variante omicron, l’evidenza empirica disponibile dà qualche conforto agli ottimisti.




Dal Green Pass alla Green Economy, tutti i disastri del nuovo “modello Italia”

Che Disperazione (vero nome del purtroppo-ministro Speranza) continui ad elogiare il demenziale sistema del Green Pass fa arrabbiare, ma non stupisce: dopotutto, egli non solo ne è il principale artefice, ma è anche quel tale che l’anno scorso, giusto di questi tempi, stava facendo ritirare da tutte le librerie d’Italia, in tutta fretta e cercando di non dare troppo nell’occhio, il libro autocelebrativo che aveva scritto durante l’estate invece di preoccuparsi di prevenire la prevedibilissima ripresa dell’epidemia, che proprio in quegli stessi giorni aveva ripreso a diffondersi esponenzialmente.

Che però anche un ministro tedesco lo elogi, come è accaduto pochi giorni fa, dicendo testualmente che «dall’Italia abbiamo molto da imparare», non solo stupisce, ma preoccupa molto. Non c’è dubbio, infatti, che in Italia la situazione quest’anno sia nettamente migliore non solo rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, ma anche a molti altri paesi europei (benché non a tutti). Tuttavia, ciò è dovuto assai più ai demeriti altrui che ai meriti nostri, dato che molti paesi europei, soprattutto dell’Est, che avevano fatto molto meglio di noi nella fase pre-vaccinale, hanno fin qui vaccinato pochissimo, mentre altri che stavano procedendo bene negli ultimi mesi hanno enormemente (i dati seguenti sono tutti tratti da Our World in Data, https://ourworldindata.org/).

Paradigmatico è il caso di Israele e Gran Bretagna, che dopo essere stati per lungo tempo in testa alla classifica, con un netto vantaggio su di noi, hanno poi frenato così bruscamente che mentre scrivo, cioè al 6 dicembre 2021, hanno rispettivamente il 62,2% e il 68,2% di completamente vaccinati contro il nostro 73,2% (la discrepanza dal dato ufficiale dell’85% si spiega col fatto che il governo, furbescamente, per alzare la percentuale si riferisce alla sola popolazione vaccinabile, non comprendente i minori di 12 anni: peccato solo che per il virus il motivo per cui uno non è vaccinato sia irrilevante).

E ancor peggio stanno facendo gli Stati Uniti, che sono attualmente appena al 59,5% nonostante fossero al 50,2% già a inizio agosto, il che significa che in oltre 4 mesi sono avanzati appena di un misero 9,3%. L’avesse fatto il “cattivone” Trump, ce lo ritroveremmo nei titoli di tutti i giornali e le televisioni un giorno sì e l’altro pure. Siccome invece l’ha fatto Biden, che è “buono” per definizione, nessuno dice nulla. Così funziona il nostro mondo…

Eppure, anche così non siamo affatto i migliori dell’Occidente, dove ben 7 paesi ci precedono: Portogallo (87,8%), Malta (83,9%), Islanda (81,9%), Spagna (80,5%), Danimarca (76,9%), Canada (76,5%) e Irlanda (73,3%). E ancor meno confortante ci apparirebbe poi la situazione se guardassimo anche al di fuori dei rassicuranti confini euro-atlantici in cui in genere ci piace rinchiuderci, supponendo, tanto spocchiosamente quanto infondatamente, che questo sia l’unico termine di paragone degno di noi.

Scopriremmo allora, con sorpresa mista a vergogna e (si spera) a qualche domanda, che al 6 dicembre 2021 l’Europa (58,7%) ha vaccinato addirittura meno del Sudamerica (59,7%) e che l’Italia, in particolare, ha meno vaccinati di Cile (84,4%), Cuba (82%) e Uruguay (76,3%) pur avendo un sistema sanitario di gran lunga migliore e, più in generale, essendo un paese molto più avanzato praticamente sotto ogni aspetto. E nel resto del mondo ci stanno davanti anche gli Emirati Arabi (88,4%), la Cina (74,5%) e perfino la Cambogia (79,1%), anche se il suo dato non è troppo affidabile, ma resta comunque piuttosto imbarazzante.

E ancor più imbarazzante è il paragone con i paesi virtuosi del Pacifico, che all’inizio, data la loro invidiabile situazione, se l’erano presa un po’ troppo comoda e per mesi erano rimasti nettamente alle nostre spalle. Ciononostante, a parte Taiwan, che è ancora un po’ indietro (59,4%), ma sta rimontando a ritmo vertiginoso (+22,5% nell’ultimo mese), gli altri sono ormai tutti giunti più o meno ai nostri stessi livelli di immunizzazione o perfino oltre (Singapore 91,9%, Corea del Sud 80,7%, Giappone 77,5%, Australia 73,9%, Nuova Zelanda 72,2%) pur avendo cominciato a fare sul serio solo da inizio giugno. In altre parole, hanno fatto in 6 mesi quello che noi abbiamo fatto in 11.

Insomma, c’è davvero poco di cui menar vanto e, men che meno, dar lezioni agli altri. E ancor peggio vanno le cose se consideriamo l’andamento globale dell’epidemia (che poi, alla fine, è l’unica cosa che conta).

Per il confronto con gli altri paesi avanzati dell’emisfero nord rimando all’analisi pubblicata da Luca Ricolfi su La Repubblica del 6 dicembre e disponibile anche su questo sito (Luca Ricolfi, Vaccinare non basta), che mostra come su 26 paesi considerati attualmente ci posizioniamo esattamente a metà classifica.

Qui invece voglio sottolineare il confronto con i paesi del Pacifico, che continua ad essere devastante, nonostante essi abbiano tutti pagato (ma la Nuova Zelanda, ancora una volta, meno di tutti) il ritardato inizio della campagna vaccinale con un numero di morti per loro inconsuetamente alto (benché sempre enormemente inferiore al nostro). Al 6 dicembre 2021, infatti, l’Italia aveva 2.227 morti per milione di abitanti (mpm), ovvero 253 volte più della Nuova Zelanda (8,8) e da 61 a 15 volte più di Taiwan (36), Corea del Sud (77), Australia (80), Singapore (130) e Giappone (146).

E si noti che il Giappone, che ha il risultato peggiore, avendo pasticciato più di tutti nella prima fase della campagna vaccinale (cfr. Silvia Milone, Il Giappone dal successo dei “cluster” al caos olimpico), attualmente ha quasi azzerato l’epidemia, con appena 5.332 contagi e 103 morti (cioè 42 contagi e 0,8 morti per milione di abitanti) dall’inizio di novembre a oggi, 6 dicembre 2021.

Questo certamente dipende dal fatto che, data la rapidità della somministrazione, lì i vaccini non hanno ancora iniziato a perdere di efficacia, ma smentisce anche la tesi che l’immunità di gregge sia irraggiungibile in senso assoluto: alla velocità a cui siamo andati noi certamente non lo è, ma andando appena un po’ più veloci del Giappone ci si potrebbe riuscire. Il problema è che le terze dosi finora sono finora andate non più velocemente, bensì più lentamente, principalmente perché il governo ancora una volta ha cantato vittoria troppo presto, smantellando prematuramente molte delle strutture con tanta fatica allestite per la campagna vaccinale, considerandola evidentemente già in fase terminale.

Se poi guardiamo al Sudamerica, dove la maggior parte dei paesi continua ad avere un numero globale di mpm pari o addirittura inferiore al nostro, c’è davvero da preoccuparsi, tanto più che le cose non migliorano neppure se ci limitiamo alla situazione più recente. Per esempio, per restare ai paesi sopra menzionati, dal 1° novembre ad oggi, a fronte dei nostri 35,3 mpm, Cuba ne ha avuti appena 7 e l’Uruguay 15,7, mentre solo il Cile sta leggermente peggio con 39,1 (e ricordiamoci che il Cile paga il fatto di aver usato molto il pessimo vaccino cinese, soprattutto all’inizio, quindi proprio per la fascia di popolazione più a rischio). Perfino il Perù (che uso sempre come termine di paragone privilegiato, dato che lo conosco benissimo e posso avere notizie di prima mano) ha avuto nell’ultimo mese 34,6 mpm, cioè un pelo meno di noi, nonostante la cronica inefficienza del sistema sanitario, lo stato di paralisi totale in cui versa da tempo il governo e il fatto che i vaccinati siano solo il 56,6%.

È vero che lì stanno andando verso l’estate mentre noi verso l’inverno, il che, come ormai sappiamo, fa una notevole differenza, ma in ogni caso il paragone resta imbarazzante. D’altronde, perfino la OMS ha finalmente ammesso che oggi l’epicentro della pandemia è l’Europa (come in realtà è sempre stata): il problema è perché, visto che in teoria siamo quelli meglio attrezzati di tutti per fronteggiarla.

Una prima risposta è che purtroppo i paesi europei, con l’Italia in testa, tanto per (non) cambiare, hanno puntato esclusivamente sui vaccini, mantenendo per il resto le solite misure preventive che fin qui hanno miseramente fallito, comprese quelle che la scienza (su cui i nostri governi dicono sempre di basarsi, ma che in realtà hanno sempre ignorato) ha da tempo dimostrato essere sostanzialmente inutili e che rappresentano quindi dei veri e propri casi di pseudoscienza istituzionale. Anzitutto, la disinfezione di mani e superfici, con addirittura, in qualche caso, un ritorno all’uso dei guanti, benché sia ormai accertato che i contagi per contatto sono estremamente rari. Poi l’obbligo di mascherina all’aperto, che è sempre la prima cosa che si fa appena i contagi risalgono (come anche ora), benché sia ormai accertato che i contagi avvengono quasi tutti al chiuso (e proprio per questo aumentano in inverno). Infine, gli pseudo-lockdown con chiusure selettive, che colpiscono sempre le attività a minore rischio di contagio e, di conseguenza, causano regolarmente più danni che benefici.

In compenso, nessuno si è ancora degnato di considerare misure alternative più efficaci, a cominciare dalle due citate da Ricolfi nel già menzionato su Repubblica: gli impianti di filtraggio dell’aria e il tracciamento elettronico dei contagi. Il risultato è che l’unico modo di depurare l’aria nei luoghi chiusi continua ad essere quello di aprire le finestre, come se fossimo un paese del Terzo Mondo e non uno dei più ricchi e progrediti del pianeta. Quanto al tracciamento dei contagi, la cosa più incredibile non è neanche che nessuno in Europa lo stia facendo seriamente (a cominciare dall’Italia, dove la mitica App Immuni è svanita nel nulla dopo aver prodotto il nulla), ma che i nostri governanti abbiano l’impudenza di ripeterci che bisogna continuare a farlo, quando non si è mai neanche cominciato.

Venendo ai vaccini, sicuramente pesa la loro perdita di efficacia nel tempo, che penalizza di più chi ha incominciato più presto, cioè proprio l’Europa e gli Stati Uniti, tuttavia questa spiegazione non basta. In primo luogo, infatti, i vaccini continuano fortunatamente a proteggerci con buona efficacia dalle conseguenze gravi, per cui il loro indebolimento influisce poco sul numero dei morti. In secondo luogo, bisogna considerare (cosa che invece non si fa quasi mai) che il rischio di contagiarsi per chi è vaccinato non dipende solo dall’efficacia intrinseca del vaccino, ma anche dal numero di persone infette con cui ciascuno entra in contatto.

È chiaro, perciò, che, oltre all’arrivo dell’inverno e al grave ritardo nella somministrazione della terza dose (a oggi siamo appena al 15,8%), l’altra causa determinante della risalita dei contagi e dei morti è la presenza di un numero ancora molto grande di persone non vaccinate (che almeno per i morti è anche la causa principale). Su questo punto cruciale il governo continua a gettare fumo negli occhi, vantando l’elevata percentuale di vaccinati e cercando di farci dimenticare che, per quanto quella dei non vaccinati sia assai più bassa, corrisponde a un valore assoluto ancora elevatissimo: al 6 dicembre erano circa 14 milioni, cioè quasi un quarto della popolazione italiana. Quindi, non solo non siamo stati così bravi come ci dicono, ma neanche il risultato fin qui ottenuto è così buono come ci dicono.

E purtroppo non si tratta solo di un problema di efficienza, perché i nostri governi continuano a commettere gravissimi errori concettuali, come già avevano fatto nella prima fase dell’epidemia (cfr. Paolo Musso, Il lockdown che non c’è mai stato e quello che ci vorrebbe). Prima, infatti, hanno puntato tutto sui vaccini (cosa già sbagliata di per sé), poi hanno involontariamente sabotato la propria stessa scelta con decisioni confuse e pasticciate.

Io ho almeno una decina di amici che non intendono vaccinarsi, ma solo due o tre di loro sono contrari ai vaccini in generale, mentre gli altri sono contrari soltanto a “questi” vaccini, in gran parte proprio a causa del comportamento dei governi, che nell’alimentare tale diffidenza ha pesato molto più delle tesi dei No-Vax (cfr. Paolo Musso, Se i Pro-Vax fanno più danni dei No-Vax).

Prima, infatti, è arrivata l’immotivata sospensione di AstraZeneca, voluta dalla Merkel e accettata supinamente da tutti gli altri governi europei contro il parere dell’EMA (la European Medicines Agency che sovrintende alle sperimentazioni dei farmaci). Poi c’è stata l’assurda decisione di proteggere per legge dalle cause per i possibili danni provocati dai vaccini non solo i medici (come era giusto), ma anche gli Stati, il che invece non ha alcun senso. Infine, è venuto lo scellerato regime del Green Pass, che sta causando un’enorme quantità di disagi a tutti, vaccinati e no, senza apportare benefici significativi, come peraltro era facilmente prevedibile (e infatti io l’avevo previsto, per filo e per segno, in un articolo pubblicato il 6 settembre, ma scritto addirittura a metà agosto: cfr. Paolo Musso).

Queste decisioni, benché ciascuna di esse sia stata presentata dai governi come un segno della loro scrupolosità e del loro rispetto per la libertà dei cittadini, sono state invece interpretate da gran parte di questi ultimi come un segno di sfiducia da parte dei governi nei confronti dei vaccini da loro stessi promossi. E siccome anche questo era facilmente prevedibile, viene da chiedersi com’è possibile che neanche uno dei nostri leader politici se ne sia reso conto, con tutti i fior di esperti di comunicazione che pagano profumatamente per gestire la loro immagine.

È perciò lecito il sospetto che, come già per gli errori precedenti, la vera motivazione sia stata la volontà di evitare di prendersi le responsabilità più scomode, scaricandole ancora una volta sui cittadini. E il sospetto si tramuta in certezza nel caso del Green Pass, che, contrariamente a ciò che, con sovrano sprezzo del ridicolo, continua a ripetere il nostro governo, non è affatto “una misura di prevenzione” e men che meno “uno strumento di libertà”, bensì, con ogni evidenza, un tentativo di introdurre surrettiziamente un obbligo vaccinale di fatto senza prendersi, appunto, la responsabilità di imporlo per legge.

La prova più evidente di ciò è che i luoghi in cui lo si è imposto per primo sono stati quelli a minore rischio di contagio, mentre quelli a rischio maggiore sono arrivati per ultimi e alcuni addirittura ne sono tuttora esenti. Avevo già detto che sarebbe andata a finire così nell’articolo sopra citato, ma se per caso aveste ancora dei dubbi date un’occhiata a queste due foto che ho scattato personalmente a fine ottobre, a soli due giorni di distanza, su due treni della linea Milano-Bologna, uno con obbligo di Green pass e uno no, e poi ditemi per favore come si può avere l’impudenza di sostenere che queste regole servono a prevenire i contagi. Eppure, questa impudenza il nostro governo ce l’ha.

La controprova viene dal confronto con la Spagna, che da subito ha detto ufficialmente che di Green Pass non ne vuol sapere, eppure dal 1° novembre a oggi ha avuto una media di soli 11,7 mpm contro i 35,3 dell’Italia (cioè appena un terzo), nonché i 27,7 della Francia, i 92,5 della Germania e i 154 dell’Austria, giusto per citare alcuni dei paesi che stanno facendo più ampio uso del Green Pass. Poi uno guarda le percentuali delle vaccinazioni e scopre che la Spagna è arrivata all’80,5%, mentre noi, come detto, siamo al 73,2%, la Francia al 70,2%, la Germania al 68,4% e l’Austria appena al 65,1%. La conclusione appare quindi inequivocabile: a proteggere è il vaccino e non il Green Pass.

Certo, se consideriamo solo i luoghi in cui si può entrare unicamente con esso e in cui per giunta vengono mantenute tutte le misure di sicurezza (che all’inizio il governo, mentendo per farci digerire meglio la misura, aveva promesso di togliere), è ben difficile che lì qualcuno si contagi. Tuttavia, considerando le cose globalmente, alla scala dell’intero paese e non solo di alcune specifiche situazioni, i suoi benefici sono molto limitati, mentre i danni sono enormi, soprattutto per il progressivo inasprimento dello scontro sociale che sta provocando, con i non vaccinati che si sentono perseguitati ingiustamente e i vaccinati che li accusano di essere il principale ostacolo al ritorno alla normalità.

Anche l’affermazione, ripetuta con ossessiva insistenza dal governo, che senza il Green Pass si tornerebbe alla chiusura delle attività commerciali e sociali è del tutto falsa. O meglio, è vera, ma solo perché il governo ha deciso così, ancora una volta arbitrariamente e senza seguire alcuna logica di prevenzione, dato che si tratta di attività molto meno rischiose di altre, come fabbriche, uffici, autobus, metropolitane e, appunto, treni regionali, che però non sono mai state realmente sospese, neanche durante lo pseudo-lockdown della prima fase (e infatti si è visto come è andata a finire).

Ma la cosa più grave è che, nonostante tutti i disagi che ha creato, il Green Pass non ha ancora raggiunto il suo vero obiettivo: quello di indurre tutti a vaccinarsi. E, continuando così, non lo raggiungerà mai. Certo, molti hanno ceduto alla pressione e si sono vaccinati, ma, come detto, mancano ancora all’appello 14 milioni di italiani, dei quali solo una minoranza sono bambini sotto i 12 anni e perciò (finora) non vaccinabili. La maggior parte sono invece adulti, che hanno deciso di non vaccinarsi e ben difficilmente lo faranno in futuro, perché appartengono a categorie (come pensionati, casalinghe, colf, badanti, lavoratori autonomi e altri ancora) che non possono essere controllate, a meno di trasformare davvero l’Italia in uno Stato di polizia, autorizzando quest’ultima ad entrare nelle case e negli studi privati anche senza un mandato.

La verità, evidente a chiunque tranne che, a quanto pare, ai nostri governanti, è che se si ritiene, a torto o a ragione, che tutti debbano vaccinarsi esiste una sola strada, limpida e chiara, per raggiungere l’obiettivo: imporre per legge l’obbligo vaccinale, come previsto dalla Costituzione, dopo un dibattito parlamentare altrettanto limpido e chiaro, dal quale risulti chiaro pure di chi sarà il merito se le cose andranno bene e di chi sarà la colpa se invece andranno male. Ma questo è esattamente ciò che non si vuole che accada e quindi si preferiscono le soluzioni pasticciate.

La cosa più paradossale è che la maggior parte delle persone ostili ai vaccini anti-Covid, compresi i miei amici di cui sopra, pur essendo (ovviamente) contrarie all’obbligo, lo ritengono in genere più accettabile del Green Pass, non solo perché sarebbe meno ipocrita, ma anche perché presenterebbe dei vantaggi anche per loro. Oggi, infatti, con la scusa che la vaccinazione è volontaria e che quindi chi ha paura può sempre non farla, non è previsto nessun motivo di esenzione, neppure per comprovate gravi allergie o perché, essendo guariti dal Covid, si ha già un numero molto elevato di anticorpi, il che è gravissimo (e inoltre fornisce ulteriori motivi di diffidenza agli scettici). L’instaurazione dell’obbligo vaccinale, invece, facendo cadere questa giustificazione, comporterebbe necessariamente la definizione delle situazioni in cui si può chiedere di essere esentati.

Come si vede, dunque, gli altri non hanno affatto “molto da imparare” da noi. Eppure, a causa dell’imperante pandemically correct, a cui non importa che le regole siano efficaci nella realtà, ma solo che siano ritenute tali da “color che sanno” (o presumono di sapere), stiamo ugualmente rischiando che si imponga di nuovo una sorta di “modello Italia”, altrettanto privo di fondamento del primo e altrettanto pericoloso. E ciò perfino se alla fine passasse l’obbligo vaccinale, cosa che da qualche giorno non è più fantascienza, non tanto perché la realtà stia finalmente imponendosi (come ho appena detto, oggi come oggi in Europa della realtà non frega niente a nessuno), ma perché è stato violato il tabù, dato che il 19 novembre l’Austria ha annunciato l’adozione dell’obbligo vaccinale a partire dal 1° febbraio 2022. E questo, invece, conta eccome.

Il pandemically correct, infatti, così come, più in generale, il politically correct, di cui rappresenta un sottogenere (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo), non si forma attraverso un dibattito razionale, bensì seguendo un processo molto simile a quello che porta alla nascita degli “influencers”. Ciò non è casuale, perché tale processo in gran parte si svolge proprio attraverso Internet, ma anche la parte che passa per altri canali segue dinamiche analoghe: infatti, tra le varie proposte, ridotte rapidamente alla forma iper-semplificata di slogan, ad affermarsi sono quelle che hanno una maggiore capacità di attirare “followers”, non importa per quale motivo, purché siano tanti e in fretta.

Nonostante la sua rapidità, però, tale processo produce risultati estremamente difficili da cambiare, perché ben presto il sistema mediatico comincia a ripetere ossessivamente le idee più gettonate, che diventano così “regole” vincolanti, indipendentemente dal loro effettivo valore e perfino dal fatto che vengano esplicitamente proclamate tali a livello legislativo, perché chi prova a metterle in discussione viene immediatamente censurato e demonizzato dal sistema stesso. Si pensi che i “dogmi” del pandemically correct sono stati creati nel giro di non più di due settimane, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2020, e ci governano ancora adesso, sostanzialmente immutati, dopo quasi due anni e nonostante l’evidenza del loro fallimento.

Tuttavia, benché sia difficile, attraverso gli stessi meccanismi e con la stessa rapidità (e, purtroppo, anche con la stessa irrazionalità) tali regole possono anche essere sovvertite, se qualcuno riesce a lanciare una nuova “parola d’ordine” capace di attirare molti consensi con grande rapidità, prima che il linciaggio mediatico abbia il tempo di zittirlo. L’impressione è che l’Austria ce la stia facendo.

Al proposito è molto significativo che solo due giorni dopo, il 21 novembre, su La Stampa sia apparso un editoriale del direttore Massimo Giannini intitolato Fate presto sull’obbligo vaccinale in cui, con un ribaltone totale (ovviamente non riconosciuto come tale) della linea fin lì tenuta, si affermava che «il governo ha oggi un solo dovere, etico e politico: introdurre l’obbligo vaccinale. Subito. […] Lo dicono i numeri» (e, ça va sans dire, anche «la OMS» per bocca del suo direttore per l’Europa Hans Kluge).

Per la verità, i numeri lo dicevano anche il giorno prima, e quello prima ancora, e anche il mese prima, e anche l’anno prima: lo dicevano perfino prima che arrivassero i vaccini e, per vero, perfino prima ancora che esistessero (la OMS invece non lo diceva, ma tanto quel che dice la OMS vale meno di zero: e anche questo lo dicono i numeri, visto che fin qui non ne ha mai azzeccata una). Giannini sostiene di averlo detto anche lui fin dall’inizio «in diretta tv all’allora premier Conte» e poi «ribadito più volte al Ministro della Salute Speranza». Sarà (non guardo molto le trasmissioni sul virus perché servono solo ad alimentare la confusione), ma quel che è certo è che finora non l’aveva mai scritto sul quotidiano da lui diretto, né l’aveva mai fatto nessuno dei suoi collaboratori, tranne Sorgi in un breve articolo del 31 agosto.

Siccome è chiaro ormai da tempo che sul Covid i grandi giornali e le grandi televisioni spalleggiano sempre i governi e si muovono all’unisono con essi, una simile inversione di rotta da parte del quotidiano che più spazio ha dedicato al dibattito sul Green Pass, ma sempre ribadendo che la linea ufficiale del giornale era di totale sostegno, rappresenta un chiaro segnale che qualcosa è cambiato. E infatti solo tre giorni dopo Draghi, dopo avere anche lui elogiato gli italiani per i (presunti) straordinari risultati ottenuti, ha annunciato il Super Green Pass, accompagnato dall’introduzione dell’obbligo vaccinale per diverse categorie professionali, per alcune delle quali, come i dipendenti pubblici, non si vede la ragione di tale regime differenziato. Solo un’altra settimana e ha cominciato a parlarne pure la Von Der Layen. La strada sembra dunque segnata.

L’impressione è però che ci si voglia avvicinare gradualmente all’obbligo generalizzato, da una parte rendendo obbligatorio il Green Pass (e quindi, di fatto, il vaccino) per fare qualsiasi cosa e dall’altra ampliando progressivamente le categorie sottoposte anche all’obbligo formale, in modo che alla fine quest’ultimo tocchi il minor numero possibile di persone non vaccinate. E pazienza se, così facendo, si dimentica ancora una volta che «la legge fondamentale dell’epidemia è una sola: se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai più costerà caro a tutti» (Luca Ricolfi, La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021, p. 21).

Il rischio più grave (che a questo punto è quasi una certezza) è però che il Green Pass diventi lo strumento per gestire anche la vaccinazione obbligatoria, benché ciò non abbia alcun senso, dato che, come già detto, la sua vera funzione è quella di essere un obbligo vaccinale camuffato, mentre la sua efficacia come strumento di prevenzione è pressoché nulla. Il problema è che in questo modo si rischia di renderlo permanente, soprattutto se l’evoluzione del virus rendesse necessari periodici richiami o aggiornamenti del vaccino, come succede con l’influenza. E una volta che la gente si sia abituata, inevitabilmente a qualcuno verrà in mente di usare il Green Pass anche per monitorare qualcos’altro e poi qualcos’altro ancora, aumentando sempre più l’invadenza, già ora intollerabile, dello Stato nella vita delle persone.

Sia chiaro che non penso che tutto ciò sia frutto di un piano elaborato a tavolino, anche perché se c’è una cosa che le nostre classi dirigenti hanno dimostrato in tutta questa vicenda è la loro totale incapacità di gestire un problema che tutto sommato all’inizio non era troppo complicato ed è stato reso tale soprattutto dai loro errori: figuriamoci quindi se sarebbero capaci di far funzionare cospirazioni tipo “il Grande Reset” o roba simile.

Tuttavia, è innegabile che nel nostro mondo esista una vera ossessione per la sicurezza, che ormai da tempo è arrivata a livelli di vera e propria psicosi, come si vede dal fatto che di fronte ad ogni problema si pretende sempre il “rischio zero”, benché sia una richiesta chiaramente impossibile e quindi chiaramente insensata. E la vicenda del Covid ha dimostrato che, pur mugugnando, mediamente la gente è disposta a rinunciare a parti sempre più ampie della propria libertà non solo in cambio della sicurezza, ma anche solo dell’illusione della sicurezza. Quindi il rischio vero non è che a un certo punto arrivi il Grande Fratello a imporci la sua tirannia, ma piuttosto che finiamo per autoimporcela da soli, per la convergenza tra diversi gruppi sociali (governi, burocrati, scienziati, giornalisti, cittadini, ecc.) che, pur diffidando gli uni degli altri, di fatto si muovono spontaneamente nella stessa direzione.

La cosa più inquietante, infatti, è che questo non è un fenomeno isolato. Per quanto mal gestita, prima o poi anche l’emergenza Covid finirà, come tutte le cose di questo mondo. Ma non resteremo “orfani”, perché c’è già pronta per noi un’altra emergenza: quella ecologica. Ancora una volta, non sto dicendo che tale emergenza non sia reale: lo è, ed è anche molto più seria di quella del Covid. Il problema è come verrà gestita: e ancora una volta i segnali che stanno arrivando non sono incoraggianti e ancora una volta vengono dall’Italia.

Solo qualche settimana fa, infatti, precisamente il 7 novembre, durante gli inconcludenti lavori della COP26, di fronte al «bla bla, bla» di Greta Thunberg e alle sue accuse ai politici ivi presenti di «non rappresentare nessuno», il nostro Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, ha replicato che il suo atteggiamento era «ipocrita» ed «eversivo» (o, secondo altre versioni, «quasi eversivo», ma la sostanza non cambia).

Ora, io non ho mai avuto nessuna particolare simpatia per Greta e meno ancora per il “gretinismo”, cioè la grottesca sceneggiata (questa sì veramente ipocrita) che ha visto per oltre due anni molti dei principali leader della Terra sottoporre le loro proposte ambientaliste al vaglio della ragazzina svedese, felici e contenti di essere da lei giudicati, benché ovviamente non avesse alcuna competenza per valutarle, salvo poi scaricarla (com’era ampiamente prevedibile) quando la sceneggiata suddetta non faceva più comodo. Ma molto, molto più grave è affermare che criticare i governi è “eversivo”, tanto più se tale sconcertante affermazione, degna in tutto e per tutto di uno Stato totalitario, viene rivolta dal ministro di uno dei paesi più potenti del mondo (ché tale è ancora, nonostante tutto, l’Italia) a una ragazzina di appena 18 anni.

E ancor più grave è che questa intollerabile intimidazione sia passata praticamente sotto silenzio, soprattutto se la confrontiamo con le interminabili risse scatenate da frasi infinitamente più innocue pronunciate da persone infinitamente meno autorevoli. Provate a pensare cosa sarebbe successo se Cingolani avesse risposto: «Ma cosa volete che ne capisca una donna di questi problemi?». Essendo state violate le regole del politically correct, avremmo assistito per almeno una settimana a infuocati dibattitti sui social e a indignati editoriali sui giornali di tutto il mondo. Invece, essendo state violate “soltanto” le regole della democrazia, nessuno ha detto una parola.

È facile vedere che l’atteggiamento di Cingolani nasce dalla stessa tendenza autoritaria “emergenziale”, già emersa prima del Covid e poi consolidatasi con esso, che si giustifica sempre con la scusa che i governi non possono essere criticati perché “siamo in guerra” (prima contro la crisi economica, ora contro il virus, fra poco contro i disastri ambientali). Di conseguenza, chi critica non è uno che sta esercitando (bene o male, non è questo il punto) il suo diritto di cittadino e, prima ancora, di essere umano pensante, ma un disertore o addirittura un sabotatore, quindi, in ultima analisi, un nemico dell’umanità, dato che i governi si pongono per definizione come i difensori dell’umanità stessa.

E infatti Cingolani ha giustificato la sua incredibile sparata esattamente così: affermando che i governi «stanno lavorando» e che «ci sono delle regole, c’è la democrazia che stabilisce chi sono i rappresentanti», cioè con considerazioni che eludono (o per inconsapevolezza o intenzionalmente: e non so quale delle due sia peggio) la sostanza dei problemi. È evidente, infatti, che Greta non intendeva certo mettere in discussione la legittimità formale delle loro cariche, ma il fatto che ciò che stanno facendo corrisponda a ciò per cui i cittadini hanno conferito loro tale legittimità. Ed è altrettanto evidente che, sia vero o no, aveva tutto il diritto di dirlo.

O meglio: dovrebbe essere evidente. Ma a quanto pare non lo è più. E quando i fondamenti stessi della democrazia cessano di essere evidenti, c’è davvero da preoccuparsi.




Chi sono i No Green Pass? Molte conferme e qualche sorpresa

È ovvio che le manifestazioni dei No Green Pass, presenti in molte città italiane da diverse settimane, non vedano coinvolto che qualche migliaio di persone. Non tutti hanno voglia di scendere in piazza, sfidando magari le intemperie meteorologiche o delle forze dell’ordine, senza altro obiettivo concreto se non quello di cercare di sensibilizzare il governo a ritirare quelle misure da loro giudicate illiberali.

Ma se non sono molti coloro che si mobilitano “fisicamente”, dietro quei pochi ci sono milioni di italiani che, in qualche modo, la pensano più o meno come loro, ritengono cioè che il green pass sia “una misura esagerata che viola la libertà di chi non vuole farsi vaccinare”. Piuttosto interessante quindi cercare di capire chi sono, quali sono le loro caratteristiche in termini demografici e politici.

Utilizzando un campione sufficientemente numeroso di elettori (circa 4mila individui interrogati negli ultimi due mesi da Ipsos) è possibile tracciare un quadro significativo del loro profilo, confrontandolo poi con chi non si dichiara contrario al greenpass. La tipologia costruita ad hoc tiene conto di una ulteriore specificità, differenziando i “no green pass” non vaccinati da quelli invece vaccinati.

Avremo quindi tre tipi: il primo, che chiameremo “SI vax SI gp”, è composto da chi si è vaccinato ed è d’accordo con l’adozione del green pass (il gruppo più numeroso, pari al 70% circa degli intervistati); il secondo (“SI vax NO gp”) dai contrari al green pass ma vaccinati (18%); il terzo (“NO vax NO gp”) dai contrari sia al vaccino che al green pass (12%). Esiste per la verità anche uno gruppo molto ridotto (meno del 2%) di non vaccinati ma favorevoli al green pass, che ho tralasciato nell’analisi.

Occorre innanzitutto sottolineare come al trascorrere del tempo sia la seconda categoria, i vaccinati contrari al greenpass, quella a crescere in maniera significativa: se in ottobre erano soltanto il 10-12%, nelle ultime settimane arrivano infatti a superare il 20% della popolazione elettorale, mentre cala contestualmente il gruppo dei “non vaccinati”. E già questo pare un primo dato estremamente interessante: vanno cioè aumentando poco alla volta coloro che, pur vaccinati, reputano di fatto una sorta di attentato alla libertà (anche lavorativa) l’obbligo del passaporto verde. Potremmo identificarli con l’etichetta di “rivoltosi”, e mi sembra questa la categoria più interessante da analizzare, laddove il terzo gruppo (quello dei non-vaccinati), in tendenziale calo, è composto da individui le cui caratteristiche li fanno assomigliare maggiormente all’area più nota degli emarginati dalla politica (non-votanti, livelli di informazione e di scolarizzazione poco elevati, poco inseriti nel mondo del lavoro, casalinghe e disoccupati, convinti anti-europeisti, favorevoli al ritorno della lira).

Cosa contraddistingue dunque questi “rivoltosi”, rispetto alla fetta più rilevante della popolazione, quel 70% di “mainstream” che concorda con l’utilizzo del greenpass? Dal punto di vista del loro orientamento politico, sono tendenzialmente poco presenti gli elettori dei partiti di sinistra, di centro-sinistra e di Forza Italia, mentre le scelte più significative vanno in direzione del Movimento 5 stelle e, soprattutto, verso la Lega e Fratelli d’Italia, che sfiorano in questo gruppo il 30% nelle intenzioni di voto, oltre il doppio dei “mainstream”.

Sono anch’essi, in sintonia con i non vaccinati e con le parole d’ordine dei partiti di loro maggior riferimento, in prevalenza anti-Euro e anti-Europeisti e per il 70% pensano che le cose nel nostro Paese stiano andando in generale nella direzione sbagliata. Il loro livello di scolarizzazione non è molto dissimile dalla media italiana, con la presenza quindi di quote significative di laureati e diplomati, benché siano più numerosi coloro che si fermano alla scuola dell’obbligo. Sono ben inseriti nel mondo del lavoro, in particolare tra gli operai e gli autonomi con reddito relativamente più basso. Dal punto di vista generazionale, spicca la presenza tra i “rivoltosi” delle classi d’età relativamente più giovani, mentre tra le loro fonti d’informazione appare sovra-rappresentata la presenza dei social e del passaparola, dell’interazione tra amici e parenti per formarsi un’opinione, mentre meno presenti sono le fonti d’informazione più “ufficiali”, come i giornali cartacei e i telegiornali.

L’atteggiamento di decisa sfiducia nei confronti dell’attuale governo e delle principali istituzioni, italiane ed europee, è il tratto marcato che contraddistingue questo gruppo di elettori, certo meno agguerrito dei variegati manifestanti che quotidianamente (in forme quasi pre-politiche) scendono in piazza, al grido di “libertà”, ma che in qualche modo rappresenterebbero soltanto la punta di un iceberg di sentimenti diffusi nella popolazione. Sentimenti che paiono in costante crescita anche tra coloro che, forse di malavoglia, sono arrivati alla vaccinazione sospinti più dall’opinione pubblica dominante che da una reale convinzione dell’efficacia dei vaccini. Tanto che quasi il 70% tra loro si trova tuttora in disaccordo con la simbolica affermazione: “Oggi, il vaccino è la libertà”.

I milioni di italiani “rivoltosi” sembrano dunque rappresentare un’ondata di crescente profondo dissenso con la quale confrontarsi seriamente, nelle settimane a venire, per evitare che quell’iceberg emerga ancora più evidente nel mare della nostra società.




Quant’è difficile parlare di vaccini con libertà. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, perché stampa e talk show sul Covid sembrano prigionieri di una logica da «curva»? Inscenando lo scontro tra opposti estremismi – vaccino «sola salus» contro no vax per principio – non ci si preclude la possibilità di una discussione seria e informata?
La possibilità di una “discussione seria” non interessa granché neppure i cosiddetti scienziati, troppo spesso prede di faziosità (e di conflitti di interesse), figuriamoci la grande stampa e i talk show. La realtà è che tutta la comunicazione pubblica risente del clima di guerra che si è instaurato dopo l’arrivo del vaccino. E in guerra chi solleva dubbi è trattato come un disertore.

Lo scontro, comunque, non è simmetrico: c’è una posizione, quella di totale adesione alle scelte del governo, che ha dalla sua una sorta di «bollinatura». È per questo che, dall’altro lato, si sovrarappresentano le voci più grottesche, dai negazionisti ai complottisti del vaccino? Insomma, si dà l’impressione che l’unica alternativa all’agenda governativa sia un coacervo di tesi deliranti…
E’ una precisa strategia, specie nei talk show. I paladini della campagna vaccinale vengono selezionati fra gli studiosi autorevoli, o comunque insediati in posizioni apicale del sistema sanitario, e per ciò stesso guardati con rispetto. Per quanto riguarda gli “infedeli” si alternano tre tecniche principali: non dar loro la parola; invitare solo i personaggi da operetta; farli parlare, ma affiancati da personaggi che li interrompono continuamente, insultando e screditando.

Al contrario, gli elementi che potrebbero incrinare la narrativa dominante e che provengono da fonti qualificate sono prontamente minimizzati. Il caso più recente mi sembra il tentativo di liquidare l’inchiesta del British medical journal sulle gravi lacune in uno dei trial di Pfizer. Questo atteggiamento non rischia di privarci di elementi di riflessione importanti?
Certo, questo atteggiamento priva il pubblico di informazioni cui avrebbe diritto ad accedere. Con la complicazione che il pubblico rischia di trovarle lo stesso (su internet), senza però essere in grado di soppesarle. Però…
Forse la deluderò, ma voglio provare a fare l’avvocato del diavolo dei grandi media, giusto per mettere a fuoco un meccanismo (e un problema). Supponiamo che la stampa e le tv non stendessero il velo pietoso che sono solite stendere sulle numerose controindicazioni della campagna vaccinale, a partire da quelle sulla vaccinazione di massa dei bambini: lei pensa che avremmo la medesima copertura? Crede davvero che il generale Figliuolo sarebbe riuscito a superare l’80% di vaccinati?
Se lei fosse convinto (come molti) che senza un’altissima copertura vaccinale avremmo decine di migliaia di morti in più, non sentirebbe la pressione a censurare le informazioni che disincentivano la vaccinazione? Forse è anche questa convinzione che induce una parte dei media a rinunciare alla completezza e imparzialità dell’informazione, che pure dovrebbero essere imperativi categorici della professione di giornalista.

In suo articolo sul sito della Fondazione Hume, lei ha deplorato il modo in cui è stata frettolosamente accantonata un’ipotesi, discussa in seno alla comunità scientifica, sulla possibilità che la vaccinazione di massa favorisca la selezione di varianti più resistenti del virus. Un altro tabù pericoloso?
Più che deplorarlo, ho messo in evidenza questa ed altre omissioni, alcune innocue (frutto di pura sciatteria), altre influenti e presumibilmente intenzionali. Quello che mi dà fastidio è il paternalismo di questo modo di fare informazione: si assume che noi popolo-bue non capiremmo, ci spaventeremmo, e agiremmo in modo sconsiderato. A me invece piace credere che le persone vadano aiutate a vagliare le informazioni, e a prendere decisioni difficili. Qualche volta tragiche.

Tragiche?
La decisione di una madre che vaccina un bambino di 6 anni è tragica, come quella di Antigone: proteggere il figlio, o proteggere la città?

È apparentemente impossibile, a livello mediatico, separare il giudizio sul vaccino e quello sul green pass. Indipendentemente da come la si pensi sulla tessera verde, perché non si possono avanzare obiezioni al passaporto Covid senza essere accusati, se non di essere dei no vax, di servire assist alle tesi di questi ultimi?
Per il solito motivo: si ritiene che se si critica il green pass si finisce per indebolire la campagna vaccinale. Ma potrebbe esserci anche un altro motivo…

Quale?
Che il governo abbia il problema di trovare un capro espiatorio in caso di fallimento della campagna vaccinale: e i critici del green pass sono “un colpevole quasi perfetto”, come l’uomo bianco nel bel libro di Pascal Bruckner.

Lei non crede che i no-pass siano la causa dell’attuale esplosione dei contagi?
Sono una concausa. E forse nemmeno la più importante. Lei lo sa che l’epidemia galoppa, con un Rt preoccupante, anche nei paesi che hanno vaccinato quasi tutti, come ad esempio il Portogallo, che ha una copertura del 98%?

E allora qual è la causa principale?
Il “generale inverno”, e la scelta del governo di non contrastarlo con la messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire da aule scolastiche e metropolitane. Avessero dato retta ai sostenitori della ventilazione meccanica controllata nelle scuole (studiosi, medici, ingegneri e, fra i partiti, ahimè solo Fratelli d’Italia) forse non saremmo a questo punto. Dico “forse” perché l’impatto protettivo dei filtri Hepa e della Vmc (ventilazione meccanica controllata) nessuno lo conosce ancora con esattezza.

Anche sulla vaccinazione dei bambini si è determinata una curiosa coincidenza: ora che si vuole spingere su questo fronte, dei piccoli, finora descritti come sostanzialmente al riparo dalla malattia grave, si è iniziato a dire che finiscono in terapia intensiva, che sviluppano il long Covid e che sono «untori» per i nonni, peraltro già vaccinati. È ancora legittimo esprimere dubbi sul programma di iniezioni sui bambini?
Lo sarà ancora per qualche giorno, approfittando del fatto che gli esperti sono divisi, poi non più. La libertà di parola finisce quando, nel mondo della cosiddetta scienza, la politica riesce a far emergere una posizione nettamente dominante, che mette fuori gioco tutte le altre.

La comunicazione scientifica è stata caratterizzata da una quantità spropositata di giravolte. Più si va indietro, più si trovano casi clamorosi: ad esempio, gli esperti che snobbavano la mascherina sono gli stessi che dopo l’hanno santificata. Cambiare idea può essere il risultato di un avanzamento nelle conoscenze, ma allora perché ogni affermazione dei tecnici ci viene presentata in modo apodittico? Con questo metodo, alla fine, i progressi appaiono, invece, come delle contraddizioni.
E’ esattamente così. La scienza dice di coltivare il dubbio e la discussione critica, ma questo avviene solo finché il dubbio e la discussione critica non urtano contro interessi economici o politici soverchianti. Quando questo accade, il dubbio si può esprimere solo a condizione che gli utenti che possono accedervi siano pochi, come nei giornali a bassa tiratura e nelle riviste. E’ una delle cose che mi ha insegnato Piero Ostellino, il padre spirituale della Fondazione Hume.

E poi ci sono i toni trionfalistici, seguiti da altrettante inversioni a U nella narrativa. Gli stessi vaccini, fino a pochi mesi fa, ci venivano presentati come l’unica via d’uscita dalla pandemia (con un’aperta sottovalutazione del ruolo delle terapie), come la sola salvezza che ci avrebbe riconsegnato la libertà. Adesso, il vento è cambiato: la protezione cala, serve un’altra dose, ma poi vi promettiamo che basterà così, tornerà veramente la libertà. Ecco, questo approccio alla comunicazione non è controproducente? È proprio questo il modo di fornire un assist ai no vax – e poi ci si ritrova a dover «convincere» gli indecisi con un obbligo vaccinale surrettizio…
E’ la conseguenza della sfiducia nella gente. Pensano che noi non capiremmo, se ci dicessero tutto.

Franco Locatelli, alcuni giorni fa, in conferenza stampa ha affermato che non ci sono under 59 vaccinati in terapia intensiva. Sono gli stessi dati Iss a smentirlo. È lecito, o almeno utile, rimaneggiare un po’ i numeri a scopi persuasivi? Non è sempre meglio essere precisi e dire la verità? Anche perché bastano i numeri reali a dimostrare l’efficacia dei vaccini…
Sì, ma è anche colpa della stampa e dei media, che sulle bugie dei potenti raramente hanno il coraggio di chiedere dimissioni che in altri paesi sarebbero scontate.

È indubbio che le vaccinazioni – e, auspicabilmente, questo effetto sarà consolidato dai richiami sulle fasce di popolazione più a rischio – abbiano mitigato enormemente l’impatto del Covid su ricoveri e decessi. Ma in questo contesto, ha senso tenere in piedi lo stato d’emergenza? Se i vaccini funzionano, perché ogni «ondata» viene accompagnata da una massiccia offensiva «terroristica» sui canali d’informazione, e si tiene in piedi anche sul piano giuridico una sorta di regime speciale? Non sarebbero opportuni un approccio più sobrio e un’uscita anche de iure dalla logica emergenziale?
Su questo sono completamente d’accordo con lei (e con Cacciari!). Non possono continuare a dirci che dovremo convivere con il virus, che i vaccini ci consentiranno di farlo, e poi mantenere ad oltranza lo stato di emergenza. O meglio: possono anche farlo, ma allora ci dicano quali sono le soglie di morti-ricoverati-infetti-Rt al di sotto delle quali “lorsignori” si degneranno di rinunciare ai poteri speciali.

Intervista rilasciata a La Verità, del 14 novembre 2021




Epidemia, il paradosso novax

La sensazione che, sul fronte dell’epidemia, le cose stiano andando piuttosto bene si sta facendo sempre più strada un po’ a tutti i livelli: i media rassicurano, il Comitato tecnico-scientifico autorizza un allentamento delle restrizioni, i politici fanno a gara per intestarsi il merito del ritorno alla normalità, la gente spera.

È fondato questo clima di cauto ottimismo?

Per molti versi sì. A certificarlo nel modo più chiaro sono i dati della mortalità per abitante, che in Italia è minore che in Spagna, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Israele. In Europa, fra i grandi paesi, solo la Germania è riuscita ad abbattere la mortalità quanto l’Italia, e solo la Polonia ha fatto meglio di noi. E fra i paesi europei di medie dimensioni, colpiscono i drammi della Bulgaria e della Romania, in cui la mortalità per abitante è quasi 20 volte quella dell’Italia (è come se noi, oggi, avessimo 1000 morti al giorno, anziché 50).

Perché in Italia, questa volta, le cose vanno meglio che nella maggior parte degli altri paesi?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente due.

La prima – la chiamerò “effetto Figliuolo” – è che l’Italia, anche grazie allo scarso peso della popolazione under 12, è riuscita a vaccinare una quota molto elevata della popolazione. Come sarebbero andate le cose senza la vaccinazione di massa, lo rivelano indirettamente i due paesi più disastrati d’Europa, ossia Bulgaria e Romania, che hanno vaccinato pochissimo (20-30%) e sono alle prese con una mortalità spaventosa.

La seconda ragione – la chiamerò sarcasticamente “effetto Arcuri” – è che l’Italia ha vaccinato tardi, e quindi non fa ancora i conti con il problema che affligge i paesi virtuosi come Israele, Stati Uniti, Regno Unito, che proprio per aver vaccinato massicciamente fin da dicembre sono ora alle prese con la riduzione dell’efficacia dei vaccini, e sono costretti a ricorrere affannosamente alla terza dose.

Fin qui tutto bene. Purtroppo non è tutto, però. Ci sono anche ombre, che sarebbe rischioso nascondere o ignorare.

Molti credono che, grazie al vaccino, ora non abbiamo più 800 morti al giorno, ma ne abbiamo poche decine; oggi non abbiamo 4000 persone in terapia intensiva ma “solo” 400. Questo ragionamento, però, è farlocco. Il fatto che sia ripetuto centinaia di volte al giorno in quasi tutti i giornali e in quasi tutte le tv non cambia la sua erroneità. I confronti nel tempo si devono fare a parità di stagione, perché le condizioni climatiche e le connesse abitudini di vita (al chiuso o all’aperto) hanno un enorme impatto sull’epidemia. Per dire se oggi stiamo meglio o peggio di ieri dobbiamo confrontare gli stessi periodi dell’anno.

Ebbene, facciamolo. Come stanno andando le cose, in questo scorcio di inizio d’autunno, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso? La risposta è, purtroppo, che le cose vanno un pochino peggio, perché – rispetto a 12 mesi fa – abbiamo circa il doppio dei morti e dei contagiati. E questo nonostante il vaccino, nonostante il Green Pass.

Come è possibile?

Semplice: la variante delta, che ha un tasso di riproduzione (R0) molto più alto di quello della variante prevalente all’esordio dell’epidemia, ha un impatto sulla diffusione del virus che controbilancia l’impatto del vaccino sulla letalità. Un anno fa non avevamo il vaccino, ma avevamo una variante relativamente mite (simile a quella di Wuhan), oggi abbiamo il vaccino ma abbiamo la variante delta. Queste due forze tendono ad elidersi, facendo sì che la situazione attuale non sia radicalmente migliore di quella di un anno fa. E l’approssimarsi della stagione fredda, con temperature più basse e ritorno alla vita al chiuso, annuncia un ulteriore aumento dei rischi di contagio.

Siamo nei guai, dunque?

Non è detto, perché rispetto a un anno fa c’è una differenza importante: per ora il valore di Rt resta al di sotto di 1 (il valore critico, al di sopra del quale l’epidemia riparte), mentre 12 mesi fa era circa 1.5, un valore catastrofico che per circa 4 mesi (da metà luglio a metà novembre 2020) non è mai rientrato al di sotto del livello di guardia. E’ verosimile che questa differenza abbia a che fare con il Green Pass, che costringe milioni di non vaccinati a un continuo, asfissiante (ma utile) automonitoraggio mediante i tamponi.

Da questo punto di vista, è preoccupante la tempistica della rivolta contro il Green Pass in atto in questi giorni, in particolare a Roma e Milano. Quella rivolta è certamente stata aizzata e strumentalizzata da forze eversive, ma trova alimento in una preoccupazione molto concreta dei lavoratori che non intendono vaccinarsi: dal 15 ottobre, se non mi vaccino perdo lo stipendio, o sono costretto a tamponarmi (a spese mie) per 2-3 volte la settimana. Il problema è che non stiamo parlando di una piccola minoranza di irriducibili ma di qualche milione di persone, la cui assenza dal lavoro può avere effetti economici devastanti, specie nelle piccole imprese. E questo proprio nel momento in cui, per evitare che l’autunno riaccenda l’epidemia, avremmo bisogno di un rigoroso rispetto delle misure di contenimento del contagio.

Che farà il governo?

Non avendo fatto quel che, da mesi, avrebbe dovuto fare, ossia (almeno) mettere in sicurezza gli ambienti chiusi mediante dispositivi di ricambio dell’aria, temo che finirà per navigare a vista. La prima mossa è stata disattendere le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico sulle capienze massime di stadi, cinema, teatri, discoteche eccetera, con l’obiettivo di fornire un ulteriore stimolo all’economia. La seconda potrebbe essere il varo di qualche concessione a chi non vuole vaccinarsi, tipo allungare da 48 a 72 ore la validità dei tamponi, o renderli gratuiti, o introdurre deroghe ai protocolli aziendali, che già ora stanno creando seri inconvenienti burocratici alle imprese, con tanti saluti alle promesse di semplificazione e di alleggerimento del carico degli adempimenti.

E la terza mossa?

Dipenderà dall’andamento dell’epidemia. Se l’epidemia non dovesse rialzare la testa, o lo facesse senza intasare gli ospedali, lo scenario più probabile è quello di una conferma della linea aperturista attuale. Se invece il numero di morti dovesse tornare a livelli preoccupanti, dovrà affrontare il dilemma: chiudere di nuovo, o usare l’emergenza sanitaria per imporre l’obbligo vaccinale.

E’ il paradosso delle manifestazioni di questi giorni: più, in nome della libertà, si rafforza l’opposizione ai vaccini e al Green Pass, più è probabile che, con il varo dell’obbligo, la nostra libertà si restringa ancora di più.

 Pubblicato su Il Messaggero dell’11 ottobre 2021