Che cosa ci sarà dentro il “contratto”?

C’è voluta la minaccia dell’ennesimo governo tecnico, avulso dal voto popolare, prevedibilmente bocciato in Parlamento, e dunque foriero di nuove elezioni, per stanare Salvini e Di Maio, e convincerli a tornare al dialogo per stringere un patto di governo. Salvo imprevisti, domani sera ci diranno che l’accordo c’è, che si sta discutendo dei nomi dei ministri (una volta si parlava di “poltrone”), e che, finalmente, la Terza Repubblica, espressione della volontà popolare, può cominciare.

Vi è anche del vero, in fondo, in questa rappresentazione della realtà politica: effettivamente l’alleanza Lega-Cinque Stelle è l’unica formula (a parte ovviamente quella del “governo di tutti”) che ha qualche possibilità di non spaccare il Paese in due. Se fosse nato un governo Pd-Cinque Stelle, sarebbe stato percepito come un governo contro il Nord; se, viceversa, fosse nato un governo di centro-destra, magari con l’appoggio esterno di una parte del Pd, sarebbe stato percepito come un governo contro il Sud. Quel che avremo sarà, invece, un governo che cerca di rappresentare le componenti più arrabbiate del Nord e del Sud e, semmai, rischia di trascurare gli interessi e i valori del Centro, o meglio di quelle che un tempo venivano denominate “regioni rosse”, da sempre (e tuttora) inclini a dare il loro consenso al maggior partito della sinistra, ora all’opposizione senza se senza ma.

Ma che cosa ci si può aspettare, concretamente, da un simile, inedito governo giallo-verde?

In parte lo ha già confessato uno dei suoi esponenti, che un paio di giorni fa a “Porta a Porta” è riuscito nell’impresa di eludere quasi tutte le numerosissime domande che gli sono state rivolte sul futuro governo e sui suoi programmi. Le uniche vere risposte che ho ascoltato sono due. La prima è che nel contratto di governo sarà inclusa una nuova legge sul conflitto di interessi. La seconda è che le promesse saranno diluite nel tempo: nessuno si illuda di poter accedere al reddito di cittadinanza, o beneficiare della flat tax, fin da subito; per attuare i punti del contratto sarà necessaria un’intera legislatura.

Il primo punto, dunque, pare essere questo: il nuovo governo si muoverà con i piedi di piombo, cercando di somministrare dosi omeopatiche di quanto promesso. I punti centrali individuati nei giorni scorsi sono quattro: reddito di cittadinanza, flat tax, legge Fornero, criminalità & immigrazione (viste come un binomio inscindibile). Difficile prevedere in che cosa, nei prossimi mesi, questi titoli verranno tradotti. Personalmente tendo a pensare che vedremo un certo numero di “assaggini”: un piccolo aumento dei fondi per il reddito minimo, ora chiaramente insufficienti; un po’ di nuove assunzioni nei centri per l’impiego, oggi disorganizzati e inefficaci; un ritocco a qualche tassa, ad esempio Irap o Ires; un piccolo restyling della legge Fornero, magari condito con un accenno di faccia feroce sulle cosiddette pensioni d’oro.

Ma i nodi veri, quelli che daranno del filo da torcere al nuovo esecutivo, mi pare che saranno essenzialmente due: immigrazione irregolare e aumento dell’Iva.

L’immigrazione costituirà un problema innanzitutto per una ragione banale: il nuovo governo si insedierà, e muoverà i primi passi, nel pieno della stagione degli sbarchi. Naturalmente nessuno crede sul serio che Salvini manterrà la promessa di rispedire in Africa e in Medio Oriente qualche centinaio di migliaia di irregolari già presenti sul suolo italiano. Ma di questo nessuno si stupirà più di tanto. Quello che invece molti elettori si aspettano è che cessino, o si riducano drasticamente, gli sbarchi più o meno pilotati dalle Ong (organizzazioni non governative). Su questo il nuovo governo non può permettersi di fallire, se non altro perché la stampa di destra, con Forza Italia relegata all’opposizione, non farà sconti.

Il secondo nodo è l’aumento automatico dell’Iva nel 2019, attualmente previsto dalle clausole di salvaguardia. Questo punto è cruciale perché, da solo, l’obiettivo di impedire l’aumento dell’Iva costa più di 12 miliardi nel 2019 e quasi 20 l’anno successivo: in media un punto di Pil all’anno. Tenuto conto che altre nuove spese incombono, e un po’ di regalie post-elettorali saranno inevitabili, questo significa che, anche rinunciando a mantenere subito la maggior parte delle roboanti promesse della campagna elettorale, il nuovo esecutivo dovrà trovare piuttosto alla svelta almeno una ventina di miliardi.

Dove li troverà?

Difficilmente, temo, sarà capace di trovarli nell’unica direzione sensata, ovvero in una spending review, per la quale occorrono tempo e coraggio, due risorse notoriamente scarse. Più verosimile è che le risorse che mancano vengano trovate soprattutto grazie a due mosse audaci, per la verità anch’esse annunciate in campagna elettorale. La prima è la cosiddetta “pace fiscale” di Salvini, una sanatoria che consenta a milioni di contribuenti di chiudere i loro contenziosi con il fisco pagando una frazione molto bassa degli importi dovuti. Un provvedimento che, anche trascurando ogni considerazione etica sull’ennesimo condono, avrebbe il grave limite di essere una tantum, ovvero capace di tappare una falla oggi, ma non di assicurare una fonte di entrate permanente.

La seconda mossa è il ripudio di fatto degli obiettivi di bilancio concordati con l’Europa (ulteriore riduzione del deficit pubblico), e il ricorso a nuovo deficit fino alla soglia massima del 3%. Questa mossa, che in queste ore viene mitigata con un fiume di parole di rassicurazione verso l’Europa, potrebbe dispiegarsi pienamente soprattutto nella primavera prossima, in piena campagna per le elezioni europee, allorché – accanto alla necessità di evitare l’aumento automatico dell’Iva nel biennio 2019-2020 – per il nuovo governo si porrà il problema di inserire nel Def le due promesse-chiave, reddito di cittadinanza e flat tax. Con quali conseguenze?

Nella migliore delle ipotesi, la rinuncia al rispetto del percorso di risanamento dei conti pubblici finirà per aggravare il fardello che già pesa sulle generazioni future. Nella peggiore, invece, più che produrre sanzioni temibili, che ormai l’Europa ha mostrato di non essere in grado di comminare, provocherà un risveglio dei mercati finanziari, sotto forma di un aumento dei tassi di interesse dei titoli di Stato decennali, ovvero un allargamento del famigerato spread con i titoli tedeschi. Un’eventualità che nessuno si augura, ma che nessuno può escludere.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 12 maggio 2018



Le priorità per il Paese: intervista a Luca Ricolfi

Lega e M5S parlano entrambi nei loro programmi di Salario minimo garantito come primo punto della parte dedicata al lavoro. Lega aggiunge la proposta di una standardizzazione alla media europea (flat rate). Una priorità per il Paese, quella del salario, a suo parere?

No, la priorità è creare posti di lavoro aggiuntivi e, in attesa che i posti si formino in misura sufficiente, dare un reddito minimo alle famiglie in povertà assoluta, che sono circa 1 milione e mezzo (di cui quasi il 40% immigrati). Il problema è che, per essere equa, una misura del genere dovrebbe tenere conto del livello di prezzi, molto più bassi al Sud e nei piccoli centri: in caso contrario avremo due soli veri beneficiari: i cittadini del Sud e gli immigrati (questi ultimi prevalentemente residenti nel Centro-Nord). Pochissimo resterà per i cittadini italiani poveri residenti nelle regioni del Centro-Nord.

M5S si riferisce sia a un investimento (due miliardi di euro per il rafforzamento e potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego) in politiche attive che al reddito di cittadinanza. Di fatto è anch’essa una misura di politica attiva? Quale criticità intravede? È solo questione di sostenibilità per i conti? I servizi pubblici per il lavoro (centri per l’impiego) potranno supportare questo tipo di intervento? L’aspetto della condizionalità per come è stato esposto il progetto di reddito di cittadinanza è molto forte…

Non è solo questione di sostenibilità per i conti pubblici. Le criticità sono due. Se le politiche attive si fanno all’italiana, ossia senza veri controlli e senza veri posti di lavoro da allocare, si generalizza la situazione attuale, in cui i sussidi sono spesso erogati a persone che li usano per non lavorare o per lavorare in nero. Se le politiche attive si fanno alla tedesca o all’inglese, è probabile che si formi anche in Italia una mostruosa burocrazia che umilia i disoccupati (chi non avesse idea di cosa questo significhi può vedere il bellissimo, drammatico film di Ken Loach, Io, Daniel Blake). Purtroppo soluzioni perfette non esistono. La meno imperfetta, a mio parere, sarebbe quella di dare dei voucher per la formazione, lasciando i lavoratori completamente liberi di spenderli con i corsi che preferiscono, e garantendo un premio in denaro per i casi di successo, in cui il corso di formazione ha permesso di trovare un lavoro.

La Lega, per bocca di Siri, sembra aver rilanciato rispetto al reddito di cittadinanza il prestito al lavoro. Di fatto si tratta dell’assegno di ricollocazione, ma con la clausola della restituzione? Si tratta di un costo di due miliardi all’anno, pari all’investimento previsto dai Cinque Stelle per rafforzare i cpi. I lavoratori italiani sembrano non aver accolto favorevolmente l’assegno di ricollocazione nella sua sperimentazione: aderirebbero a una forma di prestito così congegnata?

No, pochissimi accetterebbero. In Italia l’idea di restituire i soldi non funziona, né all’Università né sul mercato del lavoro. Possiamo deplorare il fatto, ma la realtà è quella.

Pensa che i due programmi possano avere importanti punti di convergenza? Quale potrebbe essere la base comune?

Se c’è la volontà politica, i punti di convergenza si trovano. E comunque su molte cose la convergenza già c’è: abolizione della legge Fornero, riduzione delle tasse alle piccole imprese, ulteriore aumento del debito pubblico.

Quali sono invece i punti di divergenza più critici a suo parere? (Io noto la sostanziale assenza di un riferimento al fisco nel programma a Cinque Stelle, ad esempio…)

Mi sembrano solo due. La Lega non è disposta a varare il reddito di cittadinanza nella forma estrema proposta dai Cinque Stelle. Il Movimento Cinque Stelle non sembra pronto a una politica veramente severa su sbarchi e immigrazione irregolare. E il fatto che arrivi la primavera, con il mare calmo e il sole, non può che complicare le cose: gli sbarchi ricominceranno proprio al momento di varare il nuovo governo.

Lei ha scritto su Panorama che il voto ha riproposto una frattura del Paese e che occorrerebbe pensare a misure differenti: quali, per il lavoro? Il reddito di cittadinanza quanto ha influito sul risultato elettorale?

Sì, ha portato voti al partito di Grillo. Quanto alle misure per il lavoro ne vedo soprattutto due: sopprimere l’Irap e azzerare i contributi, ma solo alle imprese che aumentano l’occupazione.

Intervista a cura di Giulia Cazzaniga per Libero del 6 aprile 2018



L’Italia termidoriana

Si è tentati di parafrasare una frase caustica di Winston Churchill: «Processi politici e sistemi elettorali lasciateli agli esperti che non ne azzeccano una», leggendo in questi giorni gli articoli dei ‘competenti’ che invitano il PD a non lasciare il tavolo di gioco, rinchiudendosi in una sterile opposizione. In realtà, l’opposizione ha una funzione cruciale nella democrazia rappresentativa—in Inghilterra, non a caso, si parla di “Opposizione di Sua Maestà”! —ed ivi è sempre, e per definizione, responsabile—ovvero non fa mai mancare il suo voto quando si tratta di misure e di leggi in cui ne va di mezzo l’interesse nazionale. Ma non è su questo che voglio richiamare l’attenzione bensì su un malcostume che potrebbe definirsi ‘termidoriano’ e che, in Italia, è stato profondamente interiorizzato. Esso consiste nell’elaborare strategie di controllo della volontà del popolo sovrano attraverso norme costituzionali e leggi elettorali che non gli consentano di mandare al governo formazioni politiche che potrebbero minacciare i valori e gli interessi supremi della Repubblica. I termidoriani facevano colpi di Stato e cambiavano le regole del gioco per neutralizzare ora maggioranze monarchiche (fruttidoro) ora maggioranze democratico-giacobine (pratile). Tutto questo poteva essere giustificato in anni in cui non si era ancora riusciti a terminer la Révolution ma in periodi normali costituisce un grave vulnus per la democrazia, che non ha bisogno di guide responsabili ma di uno Stato che, col suo pluralismo istituzionale (divisione dei poteri, indipendenza della Pubblica Amministrazione, libertà della stampa, magistratura etc.) impedisca a quanti ricoprono cariche di governo, in virtù dell’investitura popolare, di attentare ai diritti dei cittadini. Non sono gli avversari politici dei ‘partiti inaffidabili’ a dover stabilire chi e come deve andare a Palazzo Chigi ma unicamente gli elettori.

Maggioranze molto orientate a sinistra o a destra non possono essere stoppate da bizantini meccanismi elettorali—suggeriti dai mass media, dagli opinion makers, da figure politiche considerate, non si sa bene perché, ‘risorse della Repubblica’—ma da regole semplici e trasparenti, di sicura efficacia anche se non prive di inconvenienti–come tutte le cose umane, ahimé. Non essendo un political scientist, ne conosco solo due: il proporzionale con elevato sbarramento (al 5%) e il maggioritario puro senza doppio turno. Il primo avrebbe sconsigliato ieri l’innaturale connubio della Margherita con il partito post-comunista–dei nipotini di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi con quelli di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti–e oggi l’abbraccio (forse mortale) di Forza Italia con la Lega di Salvini. Il secondo avrebbe riportato al centro l’asse della vita politica italiana senza violare l’ethos della democrazia e il principio di maggioranza che ne è alla base.

Tra i due mi pare preferibile il maggioritario. Certo può parere ingiusto che su dieci partiti in competizione, vinca quello che ha ottenuto il 20% dei suffragi mentre gli altri nove che rappresentano l’80% dell’elettorato rimangano esclusi dalla stanza dei bottoni, avendo ciascuno raccolto in media l’8,8% del consenso popolare. Il rimedio a questo inconveniente, però, non consiste in quel doppio turno che nasce appunto dalla doppiezza e non dall’onestà politica. Vediamo perché. Se vigente il maggioritario a doppio turno, si temesse che un partito della destra radicale—ma democratico se nessun tribunale lo ha sciolto—potrebbe ottenere il 45% dei suffragi, i suoi antagonisti, lo metterebbero fuori gioco inducendo estremisti e moderati, mangiapreti e ammazzaborghesi, classi alte e uomini dell’establishment a votare per lo stesso candidato. Se tutto questo sembra naturale, segno è di un ottundimento irrimediabile del senso morale.
Diverso sarebbe il caso del maggioritario puro. Qui gli opposti non sarebbero più costretti a matrimoni di convenienza ma, al contrario, sarebbero gli affini interessati a unirsi, superando quei fattori di divisione, che, in un sistema proporzionale, li porterebbero ad appoggiare partiti diversi ma contigui. A un forte candidato radicale, infatti, dovrebbero contrapporre candidature credibili in grado di essere bene accette al maggior numero di elettori e la cui forza non sia dovuta al controllo delle tessere e all’appoggio degli apparati ma a una riconosciuta competenza politica e amministrativa nonché al ruolo svolto nella vita civile. In tal modo, oltretutto, si avrebbe l’effetto collaterale di ridimensionare il potere dei partiti senza annullarne la funzione mediatrice, anch’essa importante in una democrazia a norma— Raymond Aron docet.

Come accade spesso nel nostro paese, invece, le riforme riescono a mettere insieme il peggio del vecchio e del nuovo e quella elettorale non fa eccezione. Ci ritroviamo, così, gli apparentamenti favoriti dal maggioritario, le divisioni del proporzionale e un alto indice di litigiosità tra i componenti della stessa coalizione. E i risultati sono l’ingovernabilità, l’incertezza, l’impossibilità stessa di attenersi al principio aureo della democrazia, quello della maggioranza. È più democratico dare l’incarico di governo a Matteo Salvini, capo della coalizione che ha avuto il più alto numero di voti ma è segretario della Lega votata da un numero di elettori che è la metà di quelli del M5S o è più democratico che a Palazzo Chigi vada Luigi Di Maio, leader di un partito che non è maggioritario? È un maremagno tutto pien d’imbrogli, per dirla con l’immortale Giuseppe G. Belli.

Il fatto è che, con buona pace di certi political scientist, poco interessati alla storia reale e intenti solo ad arabesche ingegnerie costituzionali–che, nel migliore dei casi, lasciano un segno ‘qual fummo in aere e in acqua la schiuma’—si ha paura degli estremisti (populisti di destra, di centro di sinistra) perché non c’è fiducia nelle istituzioni. È la mancanza dello Stato o, meglio, di un autentico Stato di diritto a far temere per il futuro. Se ci fosse lo Stato, l’irrompere del nuovo, per quanto indigesto, non susciterebbe alcuna apprensione, giacché in regime liberaldemocratico, lo spazio delle decisioni politiche è limitato: dalle leggi costituzionali, dai diritti civili, dalle garanzie di libertà. È l’invasione dell’amministrazione pubblica e della società civile da parte della politica—che i decreti Bassanini non hanno certo ridimensionato—a non farci dormire sonni tranquilli. E per ‘politica’ non intendo solo quella dei partiti: è politica anche quella di una parte della magistratura, che si assume un ruolo di supplenza di autorità assenti e corrotte e che, volendo bonificare moralmente il paese, non si limita al compito istituzionale di accertare un reato ma pretende anche di ‘snidarlo’ o di far valere, con le sue sentenze, diritti che i legislatori indugiano a riconoscere.

C’è Stato quando ogni organo opera in base ai ruoli che gli sono stati assegnati e ogni settore dell’edificio sociale si attiene ai suoi codici, «sotto la protezione delle leggi». Non c’è Stato quando un vigile urbano — Alberto Sordi nel vecchio film di Luigi Zampa del 1960– multando il sindaco (Vittorio De Sica), sente il fatidico «Lei non sa chi sono io!». Nel Rechtsstaat, il figlio di Metternich può essere bocciato e il figlio del macellaio di Metternich promosso, giacché, a scuola, Metternich è il professore. Se penso al giustizialismo ovvero al feeling del M5S con certe correnti della magistratura, c’è poco da stare allegri ma una democrazia sotto tutela, con il sigillo dell’establishment, non mi preoccupa meno.




L’insondabile opinione degli elettori Pd

Ero stato facile profeta, qualche giorno prima delle elezioni, nel preconizzare l’inadeguatezza dei sondaggi pre-elettorali che uscivano in quel periodo, in un sistema di voto in cui la base di collegio non permetteva stime attendibili. E così è stato. Le soprese non sono dunque mancate, ma è rimasta un’unica certezza: l’impossibilità di formare un governo, non certo a causa della legge elettorale, quanto per la tripolarizzazione (un po’ zoppa a sinistra) delle scelte degli italiani. In una situazione come quella attualmente presente nel nostro paese, l’unica possibile maggioranza si potrebbe ottenere soltanto o con un premio di maggioranza molto ampio (ma a rischio del parere della Consulta) oppure con una sorta di secondo turno di ballottaggio, magari di collegio, e senza quota proporzionale.

Ci sarà tempo per verificare quanto le forze politiche appena entrate in Parlamento siano disponibili a rimettersi in gioco in nuove elezioni, con una nuova legge elettorale di stampo maggioritario, o se al contrario i neo-eletti non vogliano perdere la propria posizione appena raggiunta alla Camera o al Senato. Ora il dibattito, è noto, verte sulle inedite alleanze che, uniche, possano permettere la formazione di un governo abbastanza stabile per durare nel tempo.

Ed è proprio su queste alleanze che le nuove indagini demoscopiche si concentrano in questi giorni, cercando di capire quanto i diversi elettorati siano più o meno favorevoli ad appoggiare le forze politiche avversarie. In particolare, sono gli elettori del Partito Democratico a venir quotidianamente interrogati in merito ad un eventuale accordo di governo tra M5s e Pd. E i sondaggi, come a volte accade, forniscono responsi decisamente antitetici.

Secondo alcuni di questi, la maggioranza di chi ha appena votato Pd sarebbe favorevole all’alleanza con i 5 stelle, secondo altri soltanto una minoranza è convinta di questa alleanza. E i titoli dei giornali enfatizzano ora uno ora l’altro risultato. Si legge dunque: “Da elettori Pd e M5S spinta per l’alleanza”, oppure alternativamente: “Nuovo governo: Movimento 5 Stelle – PD? Sondaggi dicono di no”. Come è possibile che sondaggi diffusi più o meno contemporaneamente diano risultati così antitetici? Le inchieste demoscopiche sono al solito inaffidabili? O sono i diversi istituti che indirizzano le risposte, a volte favorevoli e a volte contrarie?

Mi torna alla mente un classico esempio della possibile ambiguità nel registrare le opinioni della popolazione, quello cioè che avveniva negli USA durante la guerra del Vietnam: i quotidiani pro-intervento pubblicavano sondaggi in cui emergeva come la maggioranza degli americani fosse favorevole a “proteggere il popolo vietnamita dall’influenza sovietica”; i quotidiani anti-interventisti pubblicavano viceversa sondaggi dove la maggioranza si dichiarava contraria a “mandare i propri figli a combattere e a morire in Vietnam”. Ma tutti i giornali titolavano semplicemente: “Gli americani sono a favore (oppure contro) il ritiro delle truppe”.

Ambiguità di questo genere possono avere conseguenze negative per un altro degli scopi principali per cui si effettua un sondaggio, quello cioè di rilevare la diffusione di uno specifico atteggiamento, non altrimenti quantificabile: il tipo di domanda che viene rivolta agli intervistati, al fine di “misurare” questo atteggiamento, può infatti dar luogo a risultati a volte speculari.

È quello che accade appunto anche nei confronti dell’opinione degli elettori Pd. Se chiedo loro se, per il bene del paese, il loro partito dovrebbe fare uno sforzo per garantire all’Italia un governo stabile, sebbene contingente, le risposte favorevoli ad un’alleanza con i 5 stelle cresceranno; se chiedo semplicemente se trovano giusto governare con un avversario politico, che oltretutto li ha dileggiati per mesi, è molto probabile che aumenteranno gli intervistati contrari.

Ma sui giornali, si evita accuratamente di riportare il tipo di domanda che è stata rivolta per ottenere quel risultato. Dunque, qual è la domanda giusta? E cosa pensano effettivamente gli elettori del Pd?

Molto probabilmente, entrambi i risultati sono corretti. Mettono solamente in evidenza due aspetti che ogni elettore del Pd ha già nella sua testa, senza che si arrivi ad una soluzione definitiva. Gli elettori del Pd pensano che sia giusto dare al paese un governo, magari per evitare un’alleanza M5s-Lega e, contemporaneamente, che non sia giusto allearsi con i 5 stelle, che sono a loro giudizio parecchio inaffidabili. Tutto qui, semplicemente: come è ovvio, gli elettori del Pd sono incerti. Basterebbe esplicitarlo e tutto si risolverebbe. Ma non ci sarebbe più la notizia che attira l’attenzione dei lettori…




Tre impegni per il governo che verrà

Chi ci governerà, dopo il 4 marzo?

Nessuno lo sa, ma tutti sappiamo che lo decideranno loro. E’ infatti piuttosto difficile che dalle urne esca una maggioranza ampia, e che un governo si possa formare senza accordi fra forze eterogenee o cambi di casacca.

I governi possibili sono almeno quattro. Tralasciando le forze minori, possiamo immaginarli così: Forza Italia + Lega; Cinque Stelle + Lega, Cinque Stelle + Pd, Forza Italia + Pd. Se vogliamo, possiamo anche provare a dar loro un nome: centro-destra, populisti, governissimo di sinistra, governo renzusconi (copyright: Andrea Scanzi).

A questi quattro governi possibili, si deve naturalmente aggiungere un quinto governo, ovvero un governo “di scopo”, varato con il solo obiettivo di riportarci alle urne prima possibile, magari con una nuova legge elettorale.

Ma torniamo al 5 marzo, o meglio al momento in cui un governo di qualche tipo si sarà insediato, presumibilmente intorno a Pasqua, che quest’anno cade piuttosto alta (il 1° di aprile). Che cosa è lecito attendersi da un tale governo?

O meglio, ci sono cose che qualsiasi governo, una volta insediato, dovrebbe fare?

Sì, almeno due, e ovviamente non coincidono con nessuna delle promesse con cui ci hanno inondato.

La prima, spiace dirlo, è cosa un po’ prosaica, forse persino un po’ deprimente, ma non per questo trascurabile. Al nuovo governo, poco prima o poco dopo il giuramento, arriverà sicuramente una lettera della Commissione europea (finora rimasta nel cassetto solo per non interferire con le elezioni), in cui ci verrà fatto notare che, come sempre in questi anni, non abbiamo mantenuto né i nostri impegni sul debito né i nostri impegni sul deficit. Alla lettera sarà collegata la richiesta di varare una manovra correttiva, dell’ordine di qualche miliardo di euro (3 o 4, si presume) per raddrizzare i nostri conti pubblici. Ebbene, un governo con la testa sul collo, desideroso di rassicurare i mercati e le autorità europee sulla tenuta dei nostri conti e sulla nostra affidabilità di creditori, farebbe bene a non inscenare la solita manfrina sulla flessibilità, i parametri cervellotici, le regole stupide, l’austerità “da superare”. E a farla, questa benedetta manovrina, che cadrà fra capo e collo del nuovo esecutivo solo perché quello uscente era troppo impegnato a distribuire favori pre-elettorali. Ma soprattutto: a farla tagliando un po’ di spesa pubblica, non con l’ennesimo aumento delle tasse che soffoca l’economia.

Ma ad aprile, a impegnare il nuovo governo, non ci sarà solo la lettera della Commissione europea, ci sarà anche il “mare piatto” di primavera. Belle giornate di sole, settimane di mare calmo, ripresa degli sbarchi. Quel che l’inverno ci ha risparmiato durante la campagna elettorale, riprenderà vigore con la bella stagione. E allora non sarebbe male che, il nuovo governo, una parola chiara la dicesse, su quel che intende fare con le traversate del Mediterraneo. Perché il male di questi anni non è stata né la troppa né la troppo poca accoglienza (quella è una questione di punti di vista), ma la mancanza di regole chiare e della volonta di farle ripsettare. E’ questo, innanzitutto, che ha creato inquietudine in una buona metà degli italiani: il caos, la disorganizzazione, il prevalere della logica del fatto compiuto su quella dei diritti delle persone. Quanti richiedenti asilo che avevano il sacrosanto diritto di ottenerlo, si sono visti scavalcati e sopraffatti dalla massa dei non aventi diritto, solo perché gli uni e gli altri (rifugiati e migranti economici) erano approdati sul suolo italiano?

Questo, dire una parola non fumosa e non ambigua sulle politiche migratorie, è la seconda cosa che un governo serio dovrebbe trovare il coraggio di fare. Ce ne sarebbe poi una terza, forse. Fra le infinite misure di aiuto alle famiglie e alle imprese che un governo potrebbe mettere in cantiere, a me sembra che ve ne sia una che ha di gran lunga il rapporto costi/benefici più favorevole. Ed è strano che nessun governo del passato, a dispetto di tanti discorsi sulla scuola e sull’educazione, sulle donne e il lavoro domestico, abbia mai investito su di essa. Mi riferisco alla drammatica carenza, specie al Sud, di asili nido pubblici, che mettano le madri che desiderano lavorare nelle condizioni di farlo.

Quanto costerebbe raddoppiare i posti? Pochissimo, se pensiamo alle promesse elettorali più folli dei partiti (reddito di cittadinanza, soppressione della legge Fornero, pensioni minime a 1000 euro al mese, solo per citarne alcune). Basti pensare che ciascuna di queste misure costa fra i 10 e i 20 miliardi all’anno, mentre un raddoppio degli asili nido costerebbe appena 1.5 miliardi. Ma c’è di più: un governo che, non riuscendo a garantire la piena occupazione degli adulti, volesse almeno garantire un asilo nido per tutti i bambini sotto i 3 anni (con relativo aumento dell’occupazione per le maestre), non solo darebbe uno straordinario sollievo a milioni di genitori, ma costerebbe alle casse dello Stato meno di ciascuna delle mirabolanti misure assistenziali prospettate da quasi tutti i partiti.

Con un grosso vantaggio: che i benefici sarebbero tangibili, immediati, e sotto gli occhi di tutti.

Articolo pubblicato su Panorama il 1 marzo 2018