Il governo della continuità

Non passa giorno senza che gli esponenti dell’esecutivo gialloverde sottolineino la sua radicale discontinuità con il passato. Talora cadono nel ridicolo (“stiamo scrivendo la storia”), talora più sobriamente dichiarano che quel che fanno è completamente diverso dal passato, e che il loro è il “governo del cambiamento”. Ma è così?
Per certi versi sì, suppongo. Intanto perché in Italia il clima è cambiato. Con la consueta cecità, intellettuali, scrittori e artisti credono che il nuovo governo susciti razzismo e xenofobia, mentre quel che succede è molto più banale: la gente pensa più o meno quel pensava già prima, con la cruciale differenza che ora si sente autorizzata a dire quel che pensa. E’ esattamente quel che accadde 25 anni fa con la vittoria di Berlusconi, alle Politiche del 1994. Ricordo come fosse ieri un Consiglio di Facoltà in cui il preside, noto storico antifascista, ci gridava “in Italia sta tornando il fascismo”, mentre quel che era successo, anche allora, era ben più banale: le persone di destra, che erano sempre esistite in Italia, ora ritenevano di poterlo dichiarare, senza tema di scomuniche.
Se poi guardiamo al futuro, nessuno può escludere a priori che il governo Salvini-Di Maio venga ricordato come il governo del cambiamento, o in chiave positiva (se la flat tax dovesse far ripartire l’economia), o in chiave negativa (se il dissesto dei conti pubblici dovesse far precipitare l’Italia in una situazione greca, turca, o argentina).
Ma se restiamo all’oggi? Se ci limitiamo ai provvedimenti concreti, a ciò che il governo ha già fatto o si appresta a fare con la prossima legge di bilancio?
Beh, se stiamo alla bassa cucina della politica e dell’economia io vedo più continuità che rottura con i due ultimi governi.
Come il governo Renzi, anche il governo gialloverde ha iniziato annunciando provvedimenti simbolici contro la cosiddetta casta. Allora si vendevano come “lotta agli sprechi” misure di scarsissimo impatto macroeconomico quali la rottamazione delle auto blu e la riduzione del numero di parlamentari, ora si fa lo stesso identico gioco con il taglio dei vitalizi dei parlamentari e la smobilitazione del cosiddetto “Air Force Renzi”, l’aereo presidenziale voluto dal “ragazzo di Rignano”.
Come tutti i governi precedenti, anche questo preferisce lottizzare la Rai piuttosto che mettere sul mercato una o due reti. Per non parlare delle nomine nei posti chiave dello Stato, dove le appartenenze e le fedeltà politiche continuano a giocare un ruolo chiave.
Quanto ai migranti, la riduzione degli sbarchi è in gran parte merito (o demerito, per alcuni) del ministro Minniti e degli organismi internazionali (Unione Europea e Onu), cui si devono gli accordi con la Libia e l’apertura dei primi corridoi umanitari per entrare in Europa legalmente, senza la pericolosa traversata del Mediterraneo.
Ma è sulla politica economica che, almeno a prestar fede alle importanti dichiarazioni del ministro Tria, la continuità è quasi perfetta.
Gli 80 euro di Renzi vengono confermati. Il decreto dignità sposta pochissimo, e quel poco che sposta in parte è in contrasto con la filosofia del Jobs Act (più rigidità sui rinnovi dei contratti), in parte è in sintonia (reintroduzione dei voucher), come si capisce dalle critiche – di segno opposto – che arrivano dalla Cgil e dalla Confindustria. Del resto è stato lo stesso Tommaso Nannicini (economista Pd) a dichiarare che il decreto dignità lascia il Jobs Act “sostanzialmente intatto”. Forse è troppo ottimista (una modesta frenata occupazionale non è da escludere), ma in ogni caso non siamo di fronte a una restaurazione, a un ritorno a prima del Jobs Act.
Come negli anni passati, il cardine della manovra è il disinnesco di qualche clausola di salvaguardia ereditata da governi precedenti (in questo caso l’aumento dell’Iva). E poi ci sono tante piccole cose, più o meno le solite. Un po’ di alleggerimento delle tasse sulle imprese (ieri l’Irap, oggi il regime fiscale delle partite Iva); un rafforzamento del reddito di inclusione (misura caldeggiata dal Pd), prontamente ridenominato “reddito di cittadinanza”; qualche limatura delle spese, sotto al pomposa etichetta della lotta agli sprechi.
Persino sulle grandi opere, Tav e Tap, e sulle grandi crisi aziendali, Ilva e Alitalia, potrebbe esserci continuità più che rottura. E’ possibile che, alla fine, per la maggior parte di esse si assista solo a un ennesimo rallentamento dei processi decisionali, più che a uno stop definitivo, di nuovo in sostanziale continuità con la lentezza dei governi precedenti.
E infine il debito. I governi di Renzi e Gentiloni, nonostante la ripresa, si sono ben guardati dal ridurre il rapporto debito-pil o l’indebitamento netto strutturale, preferendo chiedere ogni anno nuovi margini di flessibilità per poter continuare a spendere in deficit. Esattamente quel che intendono continuare a fare i nuovi governanti, decisi ad andare in Europa a negoziare qualche concessione in materia di spesa pubblica e di investimenti.
Se il ministro Tria dice il vero, alla fine ci troveremo con il solito aumento del debito pubblico, un rapporto debito-pil sostanzialmente invariato, un deficit ampiamente al di sotto del 3%, ma altrettanto ampiamente al di sopra degli obiettivi fissati dall’Europa, che come si sa non pretende solo il rispetto del 3%, ma la progressiva discesa verso il pareggio di bilancio. Insomma la solita manovra da 25-30 miliardi, con spostamenti di pochi decimali nell’allocazione delle risorse e dei costi.
Tutto bene, dunque?
Niente affatto. Se il fatto che il governo, grazie al ruolo assunto da Tria, si muova con prudenza e gradualismo non può che rassicurarci, non possiamo d’altra parte ignorare i segnali che arrivano dai mercati finanziari. Che sono tutti negativi: capitali in fuga dall’Italia, borsa fragile, spread dei titoli di Stato in aumento. E si noti che l’aumento dei rendimenti non è solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Spagna, al Portogallo, e persino alla Grecia. Non era mai successo, nemmeno nel 2011, che i titoli di Stato italiani fossero i più cari dell’Eurozona dopo quelli della Grecia. Oggi il rendimento dei titoli italiani sfiora il 3%, quello dei titoli greci oscilla intorno al 4%, mentre Portogallo e Spagna (gli altri due Pigs mediterranei) sono entrambi nettamente sotto il 2%.
Ecco perché la prudenza del ministro Tria potrebbe non bastare. L’esperienza del passato dovrebbe aver insegnato che il destino di un paese dipende molto di più dalla sua capacità di rassicurare i mercati che dalla sua capacità di ingraziarsi le autorità europee. E’ già successo nel 2011, quando la manovra Tremonti ricevette le lodi dell’Europa e due settimane dopo venne fatta a pezzi dai mercati. Potrebbe risuccedere nei prossimi mesi, se agli investitori l’Italia cominciasse a sembrare un mercato ancora meno appetibile di quanto appare oggi.
Oggi questo è il vero pericolo, per il nostro paese. Un pericolo rispetto al quale le forze politiche avrebbero il dovere di vigilare, senza guardare al proprio piccolo tornaconto elettorale. Vale per chi ci governa, ma vale anche per l’opposizione. Perché anche su questo, sul rischio di un’impennata dello spread, la continuità è impressionante. Contrariamente a quel che molti credono, il deterioramento dei differenziali fra l’Italia e gli altri paesi dell’euro, in particolare Spagna, Portogallo e Grecia, non è iniziato il 4 marzo, ma oltre un anno prima, più o meno in concomitanza con la sconfitta referendaria e il passaggio del testimone da Renzi a Gentiloni.
Ancora un segno di continuità, o forse il vero tratto distintivo, il marchio di fabbrica, del ceto politico degli ultimi cinquant’anni: diviso su tutto ma, con pochissime eccezioni, assolutamente unito nella scelta di non contrastare la crescita del debito pubblico.

Articolo pubblicato su Il Messaggero l’11 agosto 2018



Decreto dignità?

Non so se sia vero che nella predisposizione del “decreto dignità” abbia avuto un ruolo significativo la Cgil. Certo l’ipotesi non è inverosimile, vista l’impostazione del decreto nella parte che riguarda il mercato del lavoro. Non entro qui nei dettagli (lo ha già fatto ottimamente ieri (3 luglio ndr) Oscar Giannino su questo giornale), se non per ricordare che il decreto rende la vita più dura alle imprese sia sotto il profilo dei costi sia sotto quello della flessibilità. E infatti il governo è stato sommerso dalle proteste delle associazioni delle imprese, comprese quelle piccole che il partito di Di Maio tanto aveva corteggiato in campagna elettorale.

L’impressione è che il Movimento Cinque Stelle, recuperando alcune idee della sinistra dura e pura, stia cercando di allargare il proprio consenso verso l’elettorato progressista, sottraendo consensi sia a Leu sia al Pd, i cui elettori non sono tutti entusiasti del Jobs Act. Del resto un certo collateralismo fra una parte del mondo sindacale e i Cinque Stelle non è una novità di oggi, sia a livello locale sia a livello nazionale. Quali che siano le intenzioni dei Cinque Stelle, sta di fatto che il Pd è stato preso in contropiede dall’iniziativa di Di Maio, come si vede bene dalle prime dichiarazioni, che oscillano fra la drammatizzazione (il decreto “farà diminuire l’occupazione ovunque”) e la minimizzazione (il decreto “non cambia niente”, perché “l’impianto del Jobs Act non viene neanche scalfito”).

Come spesso accade, credo che la verità stia nel mezzo. Dire, come ha fatto il capo dei Cinque Stelle, che il decreto dignità è “la Waterloo del precariato” è semplicemente ridicolo. Il precariato in Italia è fatto di circa 6 milioni di posti di lavoro, abbastanza equamente suddivisi fra 3 milioni di regolari (quelli contro cui combatte il “decreto dignità”) e altri 3 milioni in nero (quelli di cui nessuno intende occuparsi). E’ ragionevole pensare che il principale effetto del decreto sarà un aumento della quota in nero del lavoro precario, piuttosto che l’inizio di una serie di trasformazioni di posti a tempo determinato in posti stabili. Quanto alla ventilata diminuzione dell’occupazione, anch’essa mi pare un’esagerazione: la crescita dei posti di lavoro rallenterà un po’, ma se si fermerà sarà per altri motivi, non certo a causa del decreto dignità.

Quel che mi colpisce, tuttavia, non è tanto l’apparente ingenuità della promessa di sconfiggere il precariato, quanto la diagnosi che sembra star dietro le prime mosse del governo in materia economica. L’idea che 3 milioni di posti di lavoro a tempo determinato ma regolari, pari al 17% degli occupati dipendenti, siano un dramma, un’anomalia assoluta, o addirittura la priorità fondamentale in campo economico-sociale, è piuttosto bizzarra. Se si dà un’occhiata alla situazione nell’Unione Europea si vede che non è certo il precariato il nostro problema: la nostra posizione in graduatoria è a centro classifica, facciamo peggio di Germania e Regno Unito, ma meglio di Francia e Spagna, giusto per stare ai quattro grandi paesi con cui di solito si fanno le comparazioni. Il nostro vero problema, semmai, è il numero di posti di lavoro, specie nella componente giovanile: fra i paesi Europei solo la Grecia ha un tasso di occupazione totale più basso del nostro.

Ma c’è anche un altro aspetto che lascia perplessi nella filosofia del decreto dignità. Il pugno duro contro i contratti a termine pare ignorare un aspetto cruciale del funzionamento del mercato del lavoro in Italia, ovvero il fatto che la percentuale di posti di lavoro regolari ma a termine (oggi vicina al 17%) si muove in sincronia con il ciclo economico: quando l’economia tira aumenta il peso dei contratti temporanei, quando l’economia va male aumenta il peso dei contratti stabili. Un aumento del tasso di occupazione a termine può non piacerci, ma è anche il segno di un’economia che cresce, mentre un aumento del tasso di occupazione stabile può rallegrarci, ma è anche il segno che il ciclo economico sta perdendo colpi: nella grande recessione del 2008-2009 il tasso di occupazione precaria era in diminuzione, ma non era certo una buona notizia. Da questo punto di vista l’attuale impetuoso aumento del numero di posti di lavoro a termine andrebbe, quantomeno, guardato come una moneta a due facce, negativa sul versante delle tutele, ma positiva su quello dei livelli occupazionali.

Tornando al punto centrale, ovvero gli effetti prevedibili del decreto dignità, credo che essi saranno essenzialmente tre. Il primo, ovvio per chi guarda il mercato del lavoro senza lenti ideologiche, è di rallentare la formazione di nuovi posti di lavoro. Il secondo effetto è di convincere le autorità Europee che l’Italia è entrata in un’era di contro-riforme, e quindi non merita ulteriori concessioni sul versante della flessibilità di bilancio (da questo punto di vista enfatizzare l’entità della retromarcia sul Jobs Act è semplicemente autolesionistico).

Il terzo effetto è più sottile, ma non meno importante. Se questo decreto indica la strada che si intende percorrere anche in futuro, dobbiamo aspettarci che il mito del reddito di cittadinanza finisca per rivelarsi una sorta di profezia che si autorealizza. A forza di misure che, in nome dei diritti dei lavoratori, mettono sabbia negli ingranaggi dell’economia, la formazione di posti di lavoro potrebbe prima rallentare e poi diventare negativa, e così convincere gli elettori che l’unica strada sia il reddito di cittadinanza: in un paese in cui il lavoro non c’è, non resta che dare un reddito a tutti, che lavorino o no.

Ecco perché ci andrei piano, con l’espressione “decreto dignità”: in Italia c’è ancora moltissima gente che un reddito preferirebbe guadagnarselo, piuttosto che ricevere un sussidio grazie alla benevolenza del Principe.




Un’opposizione spiazzata

Che Pd e Forza Italia abbiano promesso un’opposizione responsabile, non pregiudiziale, e basata sul merito dei provvedimenti, è senz’altro un fatto positivo. Che quasi tutti i partiti di opposizione (con l’importante eccezione di Fratelli d’Italia) siano fermamente intenzionati a difendere la permanenza dell’Italia in Europa e nell’Eurozona è anch’esso un fatto positivo. Così come è positiva la vigilanza sull’evoluzione dei conti pubblici che da quella scelta procede: molto possiamo permetterci, ma non di far ripiombare l’Italia in una crisi finanziaria, che avrebbe effetti nefasti sui risparmi e sull’occupazione.

Se queste sono le premesse, è arduo non rilevare che il comportamento effettivo dell’opposizione, in Parlamento come sulla stampa amica, sia ben poco coerente con esse. Qui non mi riferisco all’impegno profuso nel mettere alla berlina le gaffe e le goffaggini dei barbari appena entrati nel Palazzo, una pratica che in fondo fa parte della commedia della politica, e a cui i nuovi venuti offrono ogni sorta di pretesto. No, quel che mi colpisce è la sostanza politica dei discorsi dell’opposizione quando si parla di cose serie, ovvero di questioni che possono incidere profondamente sulla vita di tutti: tasse, pensioni, sussidi. Perché quando si arriva al punto, ovvero alle promesse del “contratto” giallo-verde, la critica al neonato esecutivo del professor Conte imbocca, contemporaneamente, due strade divergenti.

La prima strada, detto in estrema sintesi, è l’accusa di mettere a repentaglio i conti pubblici e, per questa via, i risparmi (e il futuro) degli italiani. Poiché il governo si guarda bene dallo spiegare dove prenderà i soldi per mantenere le promesse, si avanza (giustamente, a mio parere) il sospetto che finirà per aumentare il deficit, con conseguente ulteriore aumento del debito pubblico. Un sospetto che sarà difficile dissipare finché il partito di Grillo non ritirerà la proposta di legge 520 (ripresentata poche settimane fa), volta a togliere dalla Costituzione tutte le norme che impongono il pareggio di bilancio nei conti dello Stato.

La seconda strada è quella dello sbugiardamento: una per una, le promesse di Lega e Cinque Stelle vengono passate ai raggi X, mostrando che non verranno mantenute, o saranno abbondantemente annacquate. La legge Fornero non sarà abolita, ma solo ritoccata. Il reddito di cittadinanza non partirà subito, perché prima il governo intende rafforzare i Centri per l’impiego. Quanto alla flat tax, nel 2019 scatterà solo per le imprese, le famiglie dovranno attendere il 2021, quando compileranno la dichiarazione dei redditi per il 2020. Il messaggio è chiaro: attenti, cari elettori di Salvini e Di Maio, perché vi hanno promesso la luna, ma presto vi accorgerete che siete stati ingannati.

Curiosamente, ai politici dell’opposizione pare sfuggire che queste due critiche si elidono a vicenda. E’ piuttosto illogico annunciare la catastrofe dei conti pubblici e, contemporaneamente, accusare il governo di voler drasticamente ridimensionare (o diluire nel tempo) le sue promesse.

Delle due l’una. O stanno per spendere una vagonata di soldi, e allora è vero che mettono a rischio i conti pubblici ma non è vero che stanno tradendo il programma. Oppure stanno facendo retromarcia sulle promesse più costose, ma allora dobbiamo attenuare (non certo cancellare) le nostre preoccupazioni sui conti pubblici. Insomma: un’opposizione non isterica dovrebbe compiacersi dell’auto-smontaggio del contratto di governo, anziché criticare l’esecutivo perché si mostra meno avventato di quanto si supponeva.

Ma c’è di più. Se riuscissimo a mettere più attenzione sulla sostanza di quel che bolle in pentola, forse riusciremmo a cogliere meglio alcune notevoli novità delle politiche che ci attendono. Una prima novità è lo stanziamento di 2 miliardi per le “politiche attive del lavoro”, con il rafforzamento dei finora disastrosi Centri per l’impiego. Si può giudicare come buona o cattiva questa misura (io la trovo pessima) ma non possiamo non notare che è precisamente quel che la sinistra riformista predica da anni, e non è mai riuscita a realizzare, né con Letta, né con Renzi, né con Gentiloni. Una seconda importante novità è l’introduzione di un salario minimo legale, un’altra misura cara alla sinistra, ma mai realizzata, anche per le perplessità dei sindacati, timorosi di veder svuotato il proprio ruolo e il proprio potere.

Il segnale di novità più importante, però, a mio parere è il capovolgimento delle priorità della politica fiscale. Finora sia la destra sia la sinistra hanno sempre privilegiato, per ovvie ragioni di ricerca del consenso, la riduzione delle tasse che gravano sulle famiglie. Vale per Renzi, che nel 2014, di fronte al dilemma fra intervenire sull’Irap (che pesa sui produttori) e intervenire sulle buste paga, sceglie quest’ultima strada, che gli spiana la via del trionfo alle elezioni europee del 2014. Ma vale anche per Berlusconi, che nel 2001, al primo punto del “Contratto con gli italiani”, prevede l’abbattimento delle imposte sulle famiglie (le famose due aliquote al 33 e 23%), ma nulla promette alle imprese.

Ora, se dobbiamo prestar fede alle dichiarazioni di Alberto Bagnai (senatore della Lega) il governo si prepara a capovolgere lo schema: prima (2019) le imprese, poi (2020) le famiglie. Una scelta che, se effettivamente farà scendere subito al 20% l’imposizione complessiva sui redditi delle società, delle imprese individuali, delle partite Iva, segnerà un vero cambiamento di filosofia nella politica fiscale. Un cambiamento che, tradotto in parole semplici, si può enunciare così: anziché distribuire a pioggia pochi spiccioli a tutte (o quasi) le famiglie, proviamo a mettere le imprese in condizione di creare occupazione aggiuntiva, e per questa via aumentare il reddito delle famiglie. Può piacere o non piacere, e soprattutto può funzionare o non funzionare, ma è una novità vera.

Forse, anziché limitarsi a lanciare quotidiani (peraltro sovente fondati) rimproveri verso ogni mossa del governo, alle opposizioni non farebbe male cercare di capire quel che di nuovo bolle in pentola. Se non altro per non restare spiazzate quando il nuovo vedrà effettivamente la luce, e magari si rivelerà un po’ diverso da come lo si era dipinto.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 9 giugno 2018



Pietà per i nostri carnefici (populisti)

Francesco Damato, nel suo meditato articolo, Giustizialisti l’album di famiglia – Il Dubbio del l° giugno – tesse le lodi di Angelo Panebianco che, nell’editoriale I politici sovranisti non vengono da Marte – Corriere della Sera del 28 maggio – sostiene la tesi che le forze politiche emergenti oggi in Italia sono ostili alla democrazia rappresentativa (liberale) e che il  «diffuso rigetto nei confronti della democrazia rappresentativa, delle sue regole, e delle istituzioni liberali che la sorreggono, è il frutto di una trentennale, martellante, propaganda che ha dipinto la politica rappresentativa come un verminaio, il concentrato di tutte le lordure e le brutture, e i suoi esponenti come gente per la quale vale l’inversione dell’onere della prova: è ciascuno di loro che deve dimostrare di non essere un corrotto. Il lavaggio del cervello a cui il “circo mediatico-giudiziario” ha sottoposto per decenni tanti italiani, ha funzionato». Damato fa rilevare giustamente che a quel “circo” il Corriere della Sera non ha fatto mancare il suo contributo. Gli autori del libro La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili (2007), Sergio Rizzo e Antonio Stella, facevano parte, infatti, dello staff di Via Solferino e tale circostanza «ha dato un po’ il sapore freudianamente autocritico al titolo assegnato all’editoriale di Panebianco “Album di famiglia”», con immancabile riferimento all’articolo di Rossana Rossanda, su Il Manifesto, in cui le BR venivano riconosciute come una costola della sinistra.

A me non sono mai piaciuti i giornalisti come Stella e Rizzo «di indiscussa bravura ma spesso lasciatisi prendere la mano nella loro campagna contro la “casta”» (Damato), e ho sempre pensato che ci fosse “qualcosa di marcio in Danimarca” se il libro-denuncia di Raffaele Costa, L’Italia del privilegi (Mondadori 2002) non ha venduto il milione e duecentomila copie che in soli sette mesi fecero della Casta un best seller. Probabilmente al libro di Costa mancava, del “circo mediatico-giudiziario”, la seconda componente, quella giudiziaria, che fu la carta vincente dei due PM della carta stampata distaccati alla redazione del quotidiano milanese. Detto questo, però, bisogna mettere in guardia della tentazione di ritenere che i citati muckraker (‘rastrellatori di scandali’) abbiano instillato nell’immaginario collettivo l’idea falsa (o quanto meno esagerata) che siamo il paese più corrotto del mondo e che stiamo sprofondando nel baratro della decadenza morale, sociale e politica. Non è affatto vero che, quanto a corruzione politica, il nostro paese sia ai primi posti, ma il problema non è questo. Il problema è che abbiamo una classe politica che, con la complicità dei grandi corpi dello Stato, dei sindacati, della Confindustria (quella più legata alle commesse statali), ha fatto a pezzi il Paese, ha creato una  spaventosa voragine del debito pubblico, che ora ci impedisce di fare la voce grossa in Europa perché non si è mai visto che debitori quasi insolventi mettano in riga i loro creditori, ha minato lo stato di diritto con sentenze a orologeria, che «applicano le leggi agli amici e le interpretano per i nemici», ha distrutto la scuola con le lauree facili e le moltiplicazioni delle sedi universitarie sul territorio, (è stato calcolato che se chiudessero quelle di Imperia e di Savona e la Regione Liguria  ospitasse nei migliori alberghi di Genova gli studenti delle due province, ci sarebbe un risparmio per le casse pubbliche di almeno il 50%), non si vergogna di un sistema carcerario che ricorda il film di Alan Parker Fuga di mezzanotte (1978).

Qualche volta autorevoli opinion maker ci ricordano che abbiamo la classe politica che ci meritiamo e se i governanti lasciano a desiderare i governati non sono certo esempi preclari di virtù civiche. E’ ovvio ma non si dimentichi quanto sapevano bene gli antichi, che «l’esempio viene dall’alto» e, soprattutto, non si perda di vista la differenza fondamentale tra chi fa le leggi e chi le subisce. A distinguere la sfera politica dalle altre dimensioni della convivenza umana è il fatto che la prima emana decisioni vincolanti erga omnes e può farle valere con le sanzioni previste dai codici per i disobbedienti laddove la società civile esercita influenza, ma non potere, sui costumi, sugli atteggiamenti collettivi, sulle mentalità e la comunità religiosa prescrive a quei pochi che ne fanno ancora parte precetti la cui infrazione comporta sanzioni che non sono di questo mondo.

Sì, cari Panebianco e Damato, siamo tutti colpevoli: i nostri Hykson «li abbiamo allevati noi» ma ci sono colpe e colpe: noi uomini della strada abbiamo potuto chiedere favori e raccomandazioni illecite ai nostri politici ma il potere di soddisfare le nostre richieste -con espressione altisonante “l’autorità dello Stato” – ce l’avevano loro, non noi. Una civil society, priva di ogni senso dell’interesse collettivo, può aver ottenuto provvedimenti e leggine volte a favore di questa o quella categoria sociale ma quei provvedimenti e quelle leggine sono state concesse da parlamenti e governi che avevano in una mano la spada e l’altra mano libera, avendo gettato per terra la bilancia del diritto.

Al direttore di un grande quotidiano storico, un tassista napoletano rimbrottato per aver votato il 4 marzo per un partito populista, recplicò «Dottò, ce stanno tre tassì: une saie che t’arrobbane; n’ate vide che fiete e merda; nu tierze, nun saie che cazz’è: agge vutate pe ‘o’ tierze!». Temo che nei prossimi mesi impareremo a nostre spese che cosa ci riservi il terzo taxi, quello del Governo Conte. Per citare Panebianco, mi spaventa, tra l’altro, il proposito di abolire «la prescrizione dei reati» che «neanche ai fascisti era mai venuto in mente» ma dobbiamo essere consapevoli che, se siamo a questo punto, la colpa è soprattutto di chi ci ha governato finora. E di quell’establishment fatto di prestigiosi giuristi, di alti ‘servitori dello Stato’(sic!), di economisti di regime, di maitres-à-penser della carta stampata, di presunti “cavalli di razza” della politica che hanno ferocemente denunciato le crepe del Palazzo ma non hanno mai spiegato che cosa abbiano fatto, loro che ci abitano confortevolmente da anni, per porvi rimedio. La colpa è sempre dell’uomo qualunque, ignorante e irresponsabile, che si lascia abbindolare dai Simon mago di turno? Se questo è populismo, ebbene sì, sono un populista anch’io pur non avendo votato (né penso di votare in futuro) per i gialloverdi.




Per capire il governo evitare le etichette

Che quello che ha giurato ieri sia un governo di destra, anzi il governo “più di destra che l’Italia abbia mai avuto dalla fine della seconda guerra mondiale”, è un’opinione espressa da diversi osservatori. In questo giudizio non fa che riemergere, ancora una volta, un classico vizio del linguaggio democratico, che da sempre considera sinonime, e dunque intercambiabili, tre parole: brutto, fascista, di destra.

Sfortunatamente un simile uso del linguaggio, (forse) efficace come strumento di propaganda, è invece ben poco utile per comprendere ciò di cui si parla. Se vogliamo capire la natura del neonato governo giallo-verde, la prima cosa da fare è sbarazzarci delle etichette di destra e sinistra. Non perché, nel contratto di governo, non vi siano molte cose considerate di destra e molte cose considerate di sinistra, ma perché la novità sta proprio qui: il governo giallo-verde non è affatto “né di destra né di sinistra”, nel senso in cui lo sono stati diversi governi di compromesso sperimentati nel passato, ma è, tutto al contrario, “sia di destra sia di sinistra”.

Il governo che si appresta a nascere è il primo che, di fronte all’alternativa fra tagliare la spesa pubblica per abbassare le tasse (destra) e aumentare le tasse per sostenere il welfare (sinistra), ha l’ambizione di sommare i due sogni della destra e della sinistra: meno tasse e più spesa. Perché, al di là di qualche progetto a costo zero o a basso costo, sono questi i piatti forti del menu di governo: il piatto “di destra” ambisce a sterilizzare l’aumento dell’IVA e ad abbassare le aliquote fiscali su famiglie e imprese (slogan: flat tax), il piatto di sinistra ambisce ad aumentare la spesa pensionistica e le misure di reddito minimo (slogan: abolire la Fornero, reddito di cittadinanza).

E’ il caso di sottolinearlo: un governo “additivo”, che vagheggia esplicitamente più spesa e meno tasse, non si era mai visto in tutta la storia repubblicana. Fanno benissimo, dunque, i protagonisti a chiamarlo governo del cambiamento: più diverso da quelli del passato non si può. E fanno altrettanto bene gli osservatori sbigottiti da cotanta novità a chiedersi: dove prenderanno i soldi? Non è, per caso, che la soluzione sarà di aumentare ancora il debito pubblico, prendendoci il rischio di un’uscita più o meno indolore dall’eurozona?

Di fronte a questa entità nuova possiamo dividerci in tanti modi, a seconda delle nostre inclinazioni politiche. Io trovo più utile, invece, cercare di immaginare, concretamente, che cosa potrebbe succedere, e quali siano gli ostacoli che il programma additivo potrà incontrare. Azzardo dunque qualche previsione, consapevole del detto dell’indimenticabile Gianni Brera: non sbaglia previsioni solo chi non ne fa.

Prima previsione. Il governo non verrà travolto dalla irrealizzabilità dei suoi programmi, come sognano molti oppositori, certi che la nave dei sogni non potrà che andare a sbattere contro l’iceberg della realtà; più verosimile è che preferisca sopravvivere ridimensionando, e soprattutto spostando avanti nel tempo, le sue promesse più costose. Più che puntare a realizzare il contratto in tempi brevi, Di Maio e Salvini si preoccuperanno di dare subito qualcosa, almeno qualcosa, ai propri sostenitori. Fra le due promesse più costose, meno tasse e più spesa pubblica, penso che – almeno nel breve periodo – a essere sacrificata sarà la flat tax. Questo per vari motivi: il cosiddetto reddito di cittadinanza costa molto di meno della flat tax e può essere facilmente modulato nel tempo, basta mettere un po’ più di soldi sul reddito di inclusione (già avviato dal duo Renzi-Gentiloni) e ribattezzarlo reddito di cittadinanza; sul versante fiscale c’è già da disinnescare la bomba a orologeria dell’aumento Iva, gentile omaggio dei governi precedenti; e infine: se vuole accampare meriti con il suo elettorato, Salvini ha a disposizione diverse misure altamente simboliche e a bassissimo costo, da un giro di vite sugli sbarchi (blocco navale?) a una legge sulla legittima difesa.

Seconda previsione. I guai cominceranno l’anno prossimo, quando verrà meno il Quantitative Easing della BCE, Mario Draghi esaurirà il suo mandato, e si vedrà il “vero” valore dello spread, un punto su cui – molto opportunamente – ha attirato l’attenzione Mario Monti nei giorni scorsi. Nessuno sa con esattezza come i mercati valutino l’affidabilità finanziaria dell’Italia, ma quel che è certo è che, fino a oggi, i rendimenti sono stati tenuti artificialmente bassi dal Quantitative Easing (QE) della BCE. Quando questo intervento cesserà i rendimenti subiranno inevitabilmente uno spostamento verso l’alto. Giusto per dare un ordine di grandezza, nei primi 4 mesi dell’anno l’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici italiani, che misura il “giusto” rendimento dei nostri titoli decennali (indice VS, elaborato dalla Fondazione Hume) si aggirava intorno al 3.3%, mentre i mercati si accontentavano di meno del 2%. Se attribuiamo questa differenza, pari a circa 150 punti base, al Quantitative Easing, dobbiamo concludere che il “vero” spread, ossia quello che avremmo avuto nei giorni scorsi in assenza del sostegno della Bce, non sarebbe stato di 320 punti base, ma si sarebbe aggirato intorno a quota 480, vicino ai livelli dei momenti più drammatici del biennio 2011-2012.

Terza previsione. Proprio perché hanno promesso cose diverse, e temono di deludere i rispettivi elettorati, Di Maio e Salvini saranno sempre in tensione fra loro per decidere in che cosa convogliare le poche risorse disponibili. Logica vuole che, fra i due, a prevalere sia Di Maio, che ha il doppio dei voti e le cui promesse costano la metà. Bisognerà vedere se, messo un po’ all’angolo, Salvini non preferirà rompere il contratto e riprendersi il ruolo di leader del centro-destra, ammesso che questa espressione non sia nel frattempo diventata vuota.

Quarta e ultima previsione. Il Capo dello Stato avrà il suo daffare, e verosimilmente non si tirerà indietro. E’ infatti probabile che, non riuscendo a trovare le “coperture” che servono, Di Maio e Salvini provino a convincere il ministro dell’Economia a varare una finanziaria “espansiva”, ovvero a fare ulteriore debito pubblico, in più o meno aperta violazione dell’articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio. A quel punto bisognerà vedere che cosa farà Mattarella, ma è difficile pensare che, dopo aver avuto la fermezza di rifiutare la nomina di un ministro, il Quirinale si astenga da ogni intervento su un punto assai meno opinabile, ovvero il mancato rispetto del dettato costituzionale in materia di entrate e uscite dello Stato. E’ a quel punto, e solo a quel punto, che la sceneggiata di queste settimane, con dichiarazioni e contro-dichiarazioni sulla permanenza dell’Italia nell’Eurozona, dovrà per forza avere uno sbocco, in un senso o nell’altro. Chi vivrà vedrà.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 03 giugno 2018