Emergenza sanitaria o emergenza democratica?

Dunque, il governo sta per prorogare lo “stato di emergenza”. Per altri 5 o 6 mesi potrà ricorrere ai famigerati Dpcm (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), senza passare attraverso il vaglio del Parlamento. In sostanza il governo sta per riattribuirsi i “pieni poteri” che già si era preso nel semestre scorso.

Si potrebbe osservare che, più o meno lentamente, stiamo cessando di essere una democrazia, e che il modo in cui stiamo passando a un regime dispotico è paradossale: questo governo è nato (o meglio dice di essere nato) per impedire che libere elezioni conferissero a Salvini i “pieni poteri” che aveva invocato, ma il risultato è che i pieni poteri – quelli veri – se li sta prendendo precisamente questo governo, senza chiedere il permesso a nessuno, e meno che mai a noi cittadini.

Qui però non voglio fermarmi su questo. La domanda cui vorrei provare a rispondere è un’altra: la situazione è così grave da giustificare la richiesta di pieni poteri?

Per certi versi sì. Dopo essermi preso un mese di insulti per aver detto (a metà giugno) che l’epidemia stava rialzando la testa, devo constatare che il fronte dei minimizzatori è oggi meno saldo nelle sue convinzioni. Ormai è l’Organizzazione mondiale della sanità stessa ad avvertire che la pandemia è in espansione, e solo i più ostinati fra i negazionisti continuano ad additare a modello “gli altri paesi europei” che hanno riaperto scuole, fabbriche e viaggi prima di noi.

Aggiungo solo che un’analisi dettagliata delle province italiane, pubblicata nei giorni scorsi sul sito della Fondazione David Hume, ha mostrato che il numero di province in cui i contagi stanno aumentando è in continua crescita. Erano una ventina tre settimane fa, sono quasi il doppio oggi. Il fatto che i dati nazionali mostrino solo una leggera tendenza all’aggravamento della situazione è in realtà il frutto di una polarizzazione fra i territori in cui l’epidemia si sta lentamente spegnendo, e quelli – sempre più numerosi – in cui sta invece ripartendo, non sempre e non solo a causa di specifici, circoscritti e quindi controllabili “focolai”. In breve, per chi è disposto a vedere, la situazione è abbastanza chiara: nonostante il favore della stagione, l’epidemia non si sta spegnendo.

Meno chiaro è perché ciò accada. La mia opinione è che, fondamentalmente, ciò dipenda da una scelta di fondo che le autorità politiche e sanitarie hanno compiuto all’inizio di giugno: traghettarci in un regime di anarchia cognitiva, una sorta di “libero arbitrio” nella lettura della situazione epidemica.

Lo avete notato, parlando con i vostri amici e conoscenti? Ognuno interpreta la situazione a modo suo. Ci sono gli iper-prudenti, che rispettano le regole, e sono spesso considerati “fobici”. E ci sono gli ipo-prudenti che se ne infischiano allegramente, e sono spesso guardati come “untori”: si assembrano, non rispettano le distanze sui mezzi pubblici e nei supermercati, entrano nei negozi senza la mascherina, o con la mascherina abbassata (il che equivale a senza).

Gli uni e gli altri hanno buone ragioni per comportarsi come si comportano. Agli iper-prudenti è sufficiente richiamarsi alle ancora severe regole vigenti, agli ipo-prudenti è sufficiente appellarsi alle sciagurate esternazioni dei virologi ottimisti, e più o meno sottilmente negazionisti (eufemismo). Ma su tutti pesano due mosse cruciali delle autorità politiche, nazionali e locali: ridurre il numero di tamponi e chiudere sistematicamente un occhio sulle numerosissime violazioni delle regole. Due mosse aggravate dall’ostinazione con cui fin qui non si è voluto distinguere fra le regioni (innanzitutto la Lombardia) in cui la gravità dell’epidemia avrebbe richiesto un prolungamento del lockdown, e le regioni (molte del Sud) in cui la tenuità dell’epidemia avrebbe consentito di accorciare la durata della clausura.

Naturalmente non è difficile capire la logica di queste scelte: non allarmare la popolazione, favorire la ripartenza dell’economia, salvare la stagione turistica. Come se una pandemia potesse essere domata lasciando le briglie sciolte sul turismo internazionale, allentando le regole di distanziamento sugli aerei, e più in generale incentivando la circolazione delle persone.

Ed eccoci allora al punto. La situazione è grave, e forse richiede davvero la ri-proclamazione dello “stato di emergenza”, ma la situazione stessa è diventata grave perché il governo, coscientemente, ha permesso che lo diventasse. Il regime di libero arbitrio sanitario, in cui uno vale uno e l’analisi della situazione si fa nei salotti televisivi, è il risultato della schizofrenia governativa: lasciare in piedi regole molto severe, e al tempo stesso permettere che siano sistematicamente violate.

Ecco perché rispondere alla domanda sulla sensatezza o meno di una proroga dello stato di emergenza è difficile. Sì, verrebbe da dire, perché occorre – ma soprattutto potrebbe occorrere in autunno – una nuova stretta (ma allora perché il governo continua a tollerare le violazioni?). No, perché questo governo ha già dimostrato di non saper governare l’epidemia: l’aggravamento della situazione sanitaria non è dovuto a un meteorite piovuto dal cielo, ma è stato favorito dall’inerzia dell’esecutivo, che proprio così si è costruito le pre-condizioni e il pretesto per invocare un ulteriore aumento dei propri poteri.

C’è poi un’ultima osservazione, che lascio lì sotto forma di dubbio. Siamo sicuri che lo stato di emergenza di cui ora si parla durerà solo altri 6 mesi? La maggior parte degli scienziati ritiene che, da oggi a dicembre, la situazione sia destinata a peggiorare drasticamente già solo per ragioni climatico-ambientali, e che a fine anno, quando lo stato di emergenza dovrebbe finire, la situazione non potrà che essere peggiore di quella odierna. Dunque, facendo 2 + 2: fanno finta di chiedere altri 6 mesi di pieni poteri, ma la richiesta verrà rinnovata in inverno, così quello che di fatto stanno chiedendo è un altro anno di pieni poteri, che si aggiungono ai 6 mesi già consumati.

Ma diciotto mesi di pieni poteri non sono un po’ troppi per un governo che si è lasciato sfuggire di mano la situazione e, per quanto formalmente legale, non ha alcuna legittimazione democratica?

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 luglio 2020




Sul populismo fiscale

Non sono particolarmente incline all’ottimismo. Tendo a pensare che questo governo ce lo terremo il tempo sufficiente a distruggere l’economia del paese, un’impresa per completare la quale – dopo tutto quel che (non) si è fatto – basta ancora davvero poco. Altri sei mesi così, e neanche Mandrake potrà fare il miracolo. Però dentro di me albergava ancora, fino a pochi giorni fa, un lumicino di speranza. Pensavo: magari adesso hanno capito che devono assolutamente fare qualcosa per salvare l’economia, e magari sanno persino che cosa. Magari nei prossimi mesi vedremo un altro film, magari Renzi – che ci ha messi in questo guaio – prova anche a tirarcene fuori.

Poi, pochi giorni fa, è arrivata una trasmissione televisiva (credo fosse “In Onda”), e quella domanda di uno dei conduttori al ministro dell’economia. Più o meno diceva così: signor ministro, si rende conto che, a forza di scostamenti di bilancio, a breve il rapporto debito/Pil schizzerà dalle parti del 170%, e a quel punto ci sarà poco da fare, o aumenti le tasse o riduci la spesa pubblica, “tertium non datur”, insomma altre alternative non ce ne sono.

A questa osservazione perfettamente ragionevole del conduttore, il ministro dell’economia accennava un sorrisetto di soddisfazione, e ribatteva che no, non è vero, “tertium datur”, un’alternativa c’è.

Non ero affatto curioso di sapere che cosa questo “tertium” potesse essere, perché credevo di saperlo già. Dentro di me mi sono detto: ecco, adesso ripeterà il solito discorsetto degli ultimi 10 anni, tanto elegante quanto evanescente: il problema non è ridurre il numeratore (il debito) ma far crescere il denominatore (il Pil). Il che tradotto significa: se cresciamo abbastanza, il rapporto debito/Pil può diminuire senza aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica, due cose che nessun politico ama fare per paura di perdere voti.

Invece, sorpresa: il “tertium” che il ministro dell’economia ha in mente per ridurre il rapporto debito/Pil è un massiccio recupero di evasione fiscale. Un’idea non nuova, ripetuta per decenni sindacalisti e politici convinti che “se tutti pagassero le tasse, l’Italia risolverebbe tutti i suoi problemi”.

A quel punto ho perso ogni speranza. Perché si può anche ipotizzare che un’idea simile sia un parto solitario del ministro dell’economia, ma la realtà – temo – è che è il governo nel suo insieme che a questo punta: ridurre l’extra-debito rimpinguando le casse dell’erario (e dell’Inps) con i proventi della sacrosanta “lotta all’evasione fiscale”.

Che questa idea, che agli ingenui e ai moralisti pare una genialata, sia invece catastrofica, lo si può capire da due semplici considerazioni.

Primo, una parte non trascurabile dell’evasione fiscale è “di necessità”, come da anni coraggiosamente ripete Stefano Fassina, il che significa che, se dovessero pagare le tasse con le attuali aliquote, centinaia di migliaia di piccole attività semplicemente chiuderebbero, distruggendo un numero enorme di posti di lavoro. Ma c’è anche una seconda considerazione, ancora più decisiva. Supponiamo che, domattina, un fisco improvvisamente divenuto onnisciente ed efficiente, riuscisse a scovare tutti gli evasori, e che nessuna impresa fallisse. Anche ammettendo questa eventualità (chiaramente impossibile), il risultato sarebbe un aumento spaventoso della pressione fiscale, già oggi a livello record, perché i soldi eventualmente recuperati non verrebbero da Marte, come tanti parrebbero credere, ma verrebbero prelevati dalle tasche di produttori e consumatori, con conseguente drastica contrazione del reddito disponibile e della domanda aggregata. Qualcuno può pensare che, con un incremento della pressione fiscale di 7-8 punti di Pil (a tanto ammonta l’evasione fiscale e contributiva) l’economia non riceverebbe il colpo di grazia?

Si può obiettare, naturalmente, che i soldi recuperati con la lotta all’evasione dovrebbero andare a ridurre le aliquote che pesano sull’economia regolare, ma è proprio qui che il ragionamento del ministro dell’economia va in cortocircuito: se non si vuole aumentare la già insostenibile pressione fiscale attuale, e quindi tutti i proventi della lotta all’evasione fiscale vengono (molto opportunamente!) usati per ridurre le aliquote, alla fine non resta un solo euro per ridurre il debito pubblico. Questo è il duro, e inaggirabile, nocciolo del problema.

Giunti a questo punto, si potrebbe supporre che io auspichi che il timone dell’economia passi ad un ministro espressione dell’opposizione, che della riduzione della pressione fiscale ha fatto un articolo di fede. Sfortunatamente, però, anche questa non è una via rassicurante. Uno dei drammi dell’Italia attuale è il populismo fiscale, che vagheggia riduzioni generalizzate delle aliquote senza fare i conti con la realtà, ed è purtroppo radicato sia in buona parte della sinistra giallo-rossa sia in buona parte della destra verde-azzurra. Riduzione dell’Iva e dell’Irpef, taglio delle aliquote contributive, flat tax per tutti e su tutto: di questo parlano i maggiori partiti, a destra come a sinistra. E se la sinistra di governo preoccupa per la sua incapacità di individuare delle priorità e scegliere una politica fiscale realistica, ancor meno rassicura la destra quando Salvini ripropone forme più o meno mascherate di condono fiscale per finanziare la flat tax, o quando dice che la Lega è pronta ad appoggiare qualsiasi riduzione delle tasse, come se questo non equivalesse a confessare di non avere delle chiare priorità.

Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che in materia fiscale le forze più avvedute, e avvedute in quanto capaci di scegliere, non siano quelle con il maggiore seguito elettorale. A sinistra, solo i piccoli partiti di Calenda e Renzi paiono in grado di formulare delle priorità, ancorché talora un po’ vaghe (detassare le imprese e il lavoro). A destra solo Giorgia Meloni, sia pure molto cautamente, ha più volte dato segni di capire che occorre scegliere, e procedere con gradualità: premiare innanzitutto le imprese che aumentano l’occupazione, introdurre la flat tax solo sul reddito incrementale (sui maggiori guadagni da un anno all’altro), unificare le tutele sul mercato del lavoro, superando la frattura fra garantiti e non garantiti.

Una situazione che lascia un enorme spazio al populismo fiscale. Perché la politica economica del governo la fanno Cinque Stelle e Pd, non certo il partitino di Renzi. E, a destra, la linea continua a dettarla Salvini, non certo il partito di Berlusconi, né quello di Giorgia Meloni. Per adesso.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 luglio 2020




Contro la sagra dell’ovvio

Degli Stati generali dell’economia si è detto di tutto. Che sono solo una passerella, che sono un omaggio alla Troika, che rischiano di essere “generici” più che generali, che parole d’ordine come “modernizzazione, transizione ecologica, inclusione” sono di una banalità disarmante (e forse anche un po’ irritante). Beppe Severgnini si è giustamente chiesto quale capo di governo potrebbe mai puntare, invece, su “invecchiamento, inquinamento, esclusione”. Quanto agli inviti alla “concretezza”, che sono piovuti da tutte le parti in questi giorni, non si può non osservare che, finché non si indicano dettagliatamente le cose da fare e soprattutto quelle da non fare, o che sarà impossibile fare subito, non c’è nulla di più astratto dell’invito a essere concreti.
Per parte mia, sono stato colpito soprattutto da due circostanze. La prima è la scelta di tenere gli Stati generali a porte chiuse, senza ammettere ai lavori né i giornalisti né altri osservatori indipendenti. Una scelta aggravata dal fatto che non è la prima volta che il governo percorre la via della non trasparenza. Invano i giornalisti hanno richiesto, nei mesi scorsi, i verbali delle riunioni del Comitato tecnico-scientifico. Invano gli studiosi hanno atteso che l’Istituto Superiore di Sanità mettesse a disposizione i propri dati (o almeno parte di essi), un’esigenza resa sempre più impellente dalla pessima qualità dei dati diffusi dalla Protezione Civile.
Ma la circostanza che più mi ha colpito è un’altra, che peraltro non dipende solo dal governo ma anche dall’opposizione, e in definitiva da tutti noi: la mancanza di un dibattito di politica economica all’altezza della gravità della situazione dell’Italia. Tutta la discussione sul futuro economico-sociale del Paese si svolge sulle note dell’ovvio più ovvio e più trito. Gli esponenti dell’esecutivo sciorinano la mesta giaculatoria dei due-trecento problemi irrisolti del paese, come se – dopo almeno tre decenni di atti mancati – improvvisamente ci fossero le condizioni politiche per porvi mano. Di qui la solita invocazione sulla necessità di “fare le riforme” (quali, con quali priorità e quali tempi?), la immancabile proclamazione della necessità di attuare interventi espansivi per “stimolare la domanda interna”, l’attesa messianica delle ingenti risorse promesse dall’Europa, il tutto condito dalla commedia dell’accesso ai fondi del Mes, con il Pd nella veste di poliziotto buono e i Cinque Stelle in quello di poliziotto cattivo.
Per chi è vissuto in epoche nelle quali la politica economica era oggetto di un serrato dibattito pubblico, nonché di contrapposizioni appassionate, lo spettacolo di questi giorni è più stupefacente che deprimente.
Eppure le scelte che abbiamo davanti non sono né ovvie né facili. Finora la politica economica, con i suoi ritardi e la sua impostazione assistenziale (a oggi sono circa 40 i “bonus” vigenti), ha gettato le basi per trasformare l’Italia in una “società parassita di massa”, in cui il numero dei produttori (già esiguo prima della crisi) si restringe ulteriormente, e una frazione sempre più grande della popolazione è ridotta a dipendere dalla benevolenza della mano pubblica. Siamo sicuri di volere questo? O preferiamo illuderci che non andrà così? E se pensiamo che non andrà così, su quali basi siamo in condizione di ipotizzare un percorso diverso? Come pensiamo di gestire i conti pubblici quando il rapporto debito/Pil sarà a livelli greci e i mercati finanziari rialzeranno la testa?
Si potrebbe pensare che a queste domande, cui la sinistra al governo non sa rispondere perché manco se le fa, sia in grado di rispondere l’opposizione di destra. Ma basta scorrere i programmi economico-sociali della destra, e segnatamente della Lega che ne è il partito più forte, per rendersi conto che anche la destra non ha un’idea convincente del futuro dell’Italia. Per certi versi, anzi, la politica economica della sinistra e quella della destra appaiono varianti del medesimo schema. La tentazione assistenziale, come dimostra la battaglia di tutto il centro-destra per quota 100, non è monopolio della sinistra. E la propensione a risolvere i problemi allargando la voragine del debito pubblico è quanto di più bipartisan sia dato osservare nella politica italiana. Come bipartisan è il mantra degli investimenti pubblici, immancabilmente da “rilanciare” e da “sbloccare”, ma inspiegabilmente sempre al palo.
Certo, si potrebbe pensare che, se non vogliamo affogare nell’assistenzialismo, se vogliamo che l’iniziativa privata non sia definitivamente soffocata e sepolta dall’invadenza degli apparati pubblici, faremmo meglio a cambiare esecutivo e affidarci alla destra. Dopotutto “meno tasse” è l’imperativo fondamentale dell’opposizione di destra, mentre dalla sinistra il meno peggio che possiamo aspettarci in materia fiscale sono ulteriori dosi di sacrosanta “lotta all’evasione fiscale” (il peggio è una patrimoniale e un aumento delle aliquote). Ma attenzione, il diavolo si annida nei dettagli. Meno tasse non vuol dire nulla se non si specifica quante meno tasse, e per chi. E l’esperienza degli anni passati, e dei programmi elettorali, suggerisce che il “meno tasse” della destra sia più al servizio della ricerca del consenso che a quello della crescita. Era così fin dai tempi del “contratto con gli italiani”, che prometteva l’abbattimento delle imposte sulle famiglie ma era silente sull’imposta societaria (Ires) e sull’Irap. Ed è così oggi, in piena crisi Covid, quando riemergono i fantasmi dei condoni fiscali, comunque li si voglia denominare: rottamazione delle cartelle, saldo e stralcio, pace fiscale. Come se, per evitare la chiusura di centinaia di migliaia di attività, fosse più importante un condono una-tantum che assicurare un lungo periodo di basse aliquote.
Il fatto è che destra e sinistra, fondamentalmente, non differiscono negli scopi, ma nel modo di perseguire il proprio scopo dominante, ovvero l’acquisizione del consenso: la sinistra predilige incrementare il debito pubblico per distribuire bonus e mance, la destra incrementare il debito pubblico per distribuire esenzioni e sgravi fiscali.
Ad entrambe, mi pare, manchi la consapevolezza che di debito ulteriore, passata la crisi, non ne potremo fare molto, e quindi è essenziale non riproporre per l’ennesima volta – come è di moda in questi giorni – l’elenco dei 2-300 “ritardi” dell’Italia, ma dire chiaramente quali siano le 2-3 cose di cui ci si occuperà effettivamente nei prossimi mesi, e come lo si intenda fare. Possibilmente nei dettagli.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 giugno 2020




Esuli pensieri. Un’agenda dell’epidemia

Esuli pensieri

Su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar 

(Giosuè Carducci, San Martino)

Un’agenda dell’epidemia

Era un po’ di tempo che avevo voglia di cominciare una specie di diario, una sorta di “agenda della crisi” che raccontasse questi giorni funestati dal Covid-19.

Un’agenda fatta di numeri e di analisi, perché maneggiare numeri è il mio mestiere. Ma un’agenda, anche, fatta di riflessioni e di pensieri, che il procedere della crisi continuamente sollecita. Li ho chiamati “esuli pensieri”, perché mi sento in esilio.

Ora ho sentito in Tv il discorso di Conte che annuncia la riapertura il 4 maggio, e non posso più rimandare. La mia agenda comincia da qui, dal discorso che ci è stato inflitto stasera.

E allora andiamo subito al sodo. Che cosa ha detto Conte?

Il succo è questo: Cari italiani, è giunto il momento di riaprire. Certo, riaprire già adesso comporta dei rischi, perché l’epidemia può ripartire in qualsiasi momento. Ma impedire al virus di tornare a circolare si può: dipende essenzialmente da voi, dal vostro senso di responsabilità. Se rispetterete le regole, l’epidemia si potrà tenere sotto controllo, se non le rispetterete l’epidemia ripartirà.

Eh no, caro presidente del Consiglio, questo non puoi proprio dirlo. Dire che l’epidemia potrebbe ripartire è già un inganno. L’epidemia è tuttora in corso, non c’è un solo indizio empirico che sia finita, quindi la prima cosa che dovevi dirci è che voi, politici, avete cambiato idea. Ci avete fatto credere che prima avremmo fermato l’epidemia, e poi avremmo riaperto. Invece ora ci dite che riaprite ad epidemia in corso, esponendo tutti noi a rischi drammatici.

Ma l’inganno più grande è scaricare su di noi, comuni cittadini, la responsabilità di impedire una nuova esplosione del contagio. Troppo comodo. Questo lo potreste dire se, in questi mesi, ci aveste messi in condizione di difenderci. Se, dopo settimane e settimane in cui siamo stati dimenticati nelle nostre case (o nelle nostre residenze per anziani), senza assistenza, senza mascherine, senza tamponi, ora foste in grado di dirci: state tranquilli, ora le mascherine ci sono per tutti, ora un tampone non ve lo negheremo più, ora i medici vi verranno a trovare a casa quando state male.

Invece su tutto questo non una parola, non un numero. Apprendiamo che verrà fissato un prezzo massimo per le mascherine, e si sprecano parole di fuoco contro la speculazione che fa lievitare i prezzi. Ma nemmeno Manzoni avete letto? Non lo sapete che, se gli speculatori prosperano, è perché voi non siete in grado di assicurare un approvvigionamento adeguato? Non vi vergognate a chiederci di mettere le mascherine, salvo coprirci con foulard, sciarpe e asciugamani se le mascherine non le troveremo?

Per non parlare dei tamponi, che avete negato e disincentivato in tutti i modi, nascondendovi – finché vi è stato possibile – dietro le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E ora che l’OMS ha fatto macchina indietro, e invita a fare tamponi (“test, test, test”), perché continuate a farne così pochi? Non lo sapete che i paesi in cui la conta dei morti è meno drammatica sono quelli che hanno puntato sui tamponi di massa? Quanti dati, quante analisi, quanti grafici dobbiamo darvi per convincervi che le cose stanno così?

E i lavoratori cui chiedete di tornare al lavoro, “nella massima sicurezza”? Ci sarebbe piaciuto sentire qualche numero sui cosiddetti dispositivi di protezione individuale. Quanti ne occorrono, quanti sono attualmente disponibili, chi provvederà a fornirli alle imprese, chi si farà carico del costo.

E invece no. Anziché dare garanzie su questo, il governo si compiace di farci sapere che presto inonderà imprese e organizzazioni con dettagliatissimi “protocolli di sicurezza”, nel solito consueto stile degli apparati pubblici: io ti dico a quali norme devi attenerti, non mi preoccupo di metterti effettivamente in grado di rispettarle.

E allora, almeno una cosa lasciatecela dire. Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali.

Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa.

 




L’economia dimenticata

Se scorriamo i titoli dei giornali e dei telegiornali delle ultime settimane, è inevitabile constatare che tre argomenti hanno ormai monopolizzato l’attenzione dei media e della politica: il processo a Salvini per la vicenda della nave Diciotti, la giustizia, con la questione della prescrizione, e il coronavirus (ora ribattezzato Covid-19).

La questione della prescrizione è arrivata al punto di minacciare la sopravvivenza del governo, mettendo in evidenza la incompatibilità fra Italia Viva e Cinque Stelle.

Il problema del coronavirus ha riacceso le accuse di razzismo e xenofobia che il mondo progressista riversa su chiunque non sposi la linea ufficiale, per la quale il diritto allo studio (niente quarantena preventiva per gli studenti che arrivano dalla Cina) ha la precedenza su quello alla salute. O, se preferiamo dirla in modo più filo-governativo: per le autorità preposte a gestire l’epidemia, i rischi di contagio sono così bassi che possiamo permetterci di correrli.

In tutto ciò, quel che è completamente sparito dalla scena sono i problemi dell’economia. Eppure l’economia batte alle porte.

Ci sono, innanzitutto, i problemi che fino a ieri parevano cruciali, e che ora si preferisce rimuovere. Ricordate il dramma dell’Ilva, che fino a due mesi fa pareva una questione di vita o di morte, per la salute dei cittadini di Taranto come per l’economia del mezzogiorno e dell’intero paese?

E l’Alitalia ? Una vicenda che si trascina da anni e ora è tornata alla ribalta solo perché la magistratura ha deciso di indagare una ventina di dirigenti per presunti favori illeciti a Etihad.

C’è poi la questione della revoca della Concessione ad Autostrade, un problema che si tende ad affrontare in modo ideologico, come se le scelte (o le non scelte) che si compiono non avessero pesanti ripercussioni economiche (la revoca potrebbe costare miliardi alle casse dello Stato, la rinuncia a imporre investimenti al concessionario potrebbe peggiorare ulteriormente lo stato della nostra rete autostradale).

E il MES? Qualcuno ricorda che fino a un paio di mesi sulla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità volavano le accuse, e anche i più cauti fra gli economisti avanzavano preoccupazioni?

Tutto cancellato, tutto sottotraccia, tutto in sordina, sommerso dalle intemperanze dei politici che si sfidano sul processo al capo della Lega, sulla prescrizione, sulle misure da adottare per contrastare il contagio.

Ma non è tutto. Accanto ai problemi specifici dell’economia italiana ci sono le turbolenze che arrivano da fuori e da lontano. La crescita mondiale sta rallentando, la Brexit sta creando incertezza e instabilità, il commercio con la Cina subirà certamente una frenata.

E in questo quadro arrivano le stime di crescita per il 2020 e il 2021 della Commissione europea, che annunciano un rallentamento dell’Europa in generale, e dell’Italia in particolare. La vera notizia, per noi, è che anche nei prossimi anni, così come in quelli passati, l’Italia occupa l’ultimo posto, dietro paesi come Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda. Tutti i paesi dell’euro, secondo le previsioni, cresceranno più dell’1%, e 10 paesi (su 19) cresceranno fra il 2 e il 4%. Solo per l’Italia la Commissione prevede una crescita prossima a zero (0.3%).

Qualcuno dirà che questa è l’amara eredità del governo populista e del suo capo, quel Giuseppe Conte che aveva profetizzato che il 2019 sarebbe stato “un anno bellissimo”. Qualcun altro obietterà che, nel passaggio da giallo-verde a giallo-rosso, o da Conte 1 a Conte 2, le cose sono addirittura peggiorate, visto che per il terzo trimestre del 2019 l’Istat prevede addirittura una contrazione del Pil (-0.3%).

Ma ad entrambi, e a chi rimpiange gli anni precedenti, vorrei ricordare che il primo segno meno davanti al tasso di crescita del Pil risale al secondo trimestre del 2018, quando il timone dell’economia era ancora in mano al governo Gentiloni. Dunque, facciamocene tutti una ragione: se guardata dal lato dell’economia, l’Italia brilla per la continuità delle sue non-politiche.

Sono anni e anni che, chiunque governi, siamo ultimi in Europa. E sono anni e anni che i nostri nodi veri, dal debito pubblico alla pressione fiscale, dalla produttività all’occupazione, preferiamo non affrontarli. E ogni coronavirus che passa ci fornisce l’insperata occasione di perseverare nella nostra inerzia.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 febbraio 2020