Il diavolo e il padreterno

Lo sapevo, che avrebbero dato la colpa a noi. Tanto è vero che lo scrissi già il 27 aprile (quasi 7 mesi fa) quando si cominciò a parlare di riapertura: perdonate l’autocitazione, ma in questa maledetta storia i tempi sono cruciali.

“Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali. Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa”.

E infatti ci stanno provando, alla grande. Da giorni e giorni il ritornello è sempre lo stesso: voi vi assembrate, noi siamo costretti a chiudervi. E qualche giorno fa il ritornello è quasi diventato una teoria. Uno dei più ascoltati esperti del governo è arrivato a dire che no, a lui questa faccenda delle ondate non torna, non è che ci sono ondate che arrivano, in realtà c’è un mare che torna ad agitarsi non appena loro (i nostri governanti) ci lasciano un po’ di libertà, a quel punto noi ce ne prendiamo troppa e loro sono costretti a rimetterci in castigo (le parole non erano esattamente queste, ma il senso sì, era proprio questo).

Dunque le ondate non esistono, non c’è una prima ondata seguita da una seconda e forse da una terza. C’è un popolo indisciplinato, che periodicamente deve essere rimesso in riga. Quindi che non si illuda, il popolo. Quando riapriremo, sarà per un po’ di tempo, poi si dovrà richiudere di nuovo. Lo stop and go è inevitabile, fino a quando la maggior parte della popolazione sarà vaccinata (fine estate, se va bene).

Questo racconto è sostanzialmente falso. E lo è in due sensi: sul piano della psicologia sociale, e dal punto di vista storico.

Cominciamo dal “popolo” che (oggi) si ammassa per fare acquisti e (ieri) si ammassava per godersi le vacanze. Possiamo anche, se siamo sufficientemente moralisti e vecchio stampo, deprecare il nostro consumismo e l’incapacità di fare rinunce. Ok, ci sta. Ma la domanda è: coloro che avrebbero dovuto informarci, indirizzarci, guidarci, proteggerci, come si sono mossi?

Risposta: quest’estate con il bonus vacanze, le discoteche aperte, la libertà di scorazzare per i cieli alla ricerca di mete più o meno goderecce; in questi giorni pre-natalizi con gli esercizi commerciali spalancati, il cash-back, la lotteria degli scontrini (in un paese già ludo-maniacale: spendiamo per il gioco d’azzardo quanto lo Stato spende per la sanità).

Che immane ipocrisia. E’ come se Dio decidesse di recitare entrambe le parti in commedia, quella del Diavolo e quella del Padreterno. Prima strizza l’occhio agli esercenti e cosparge la nostra vita di tentazioni (quasi non ne avessimo già abbastanza per conto nostro). Poi ci redarguisce con cipiglio severo perché ci siamo cascati, in tentazione: come se il fatto stesso di parlare di continuo di terza ondata in arrivo, con relative chiusure, non fosse un formidabile incentivo al carpe diem, del tipo godiamoci il Carnevale prima che arrivi la Quaresima.

Ma c’è un altro senso in cui il racconto ufficiale è falso. E’ falso perché nega la storia effettiva di questa epidemia. Provo a ricapitolarla, nei limiti di spazio che ho a disposizione.

Le strategie con cui l’epidemia è stata affrontata nelle varie parti del mondo sono sostanzialmente tre. Herd immunity: non fare (quasi) nulla attendendo l’immunità di gregge (idea accarezzata da molti governi, ma applicata solo in Svezia). Suppression: perseguire lo sradicamento del virus (strategia applicata soprattutto in Asia, in Australia e in Nuova Zelanda); Mitigation: frenare la corsa del virus mediante il lockdown, sperando di tenerlo sotto controllo dopo la riapertura (strategia applicata nella maggior parte dei paesi occidentali).

L’Italia sceglie quest’ultima strategia, che è la più inefficiente. Inoltre la applica nel modo più autolesionista possibile, ossia ritardando il lockdown (9 marzo), e inasprendolo solo dopo averne constatato la scarsa efficacia (22 marzo). A nulla servono i pareri contrari provenienti dagli studiosi indipendenti (e dallo stesso Comitato Tecnico Scientifico), che fin dai primi giorni di marzo caldeggiano un lockdown immediato e duro.

Nella prima decade di marzo, nonostante la storia dell’epidemia sia appena iniziata, l’evidenza empirica che mostra la inefficienza dei lockdown tardivi e progressivi applicati nei maggiori paesi europei (con la parziale eccezione della Germania) è imponente. E il 10 marzo viene resa pubblicamente accessibile su internet da Tomas Pueyo, probabilmente il più lucido analista dell’epidemia, in un articolo scaricabile da internet e ripreso da qualche quotidiano.

Il 29 marzo, un gruppo di scienziati (fra cui il prof. Antonio Bianconi) invia al premier Conte e al ministro della salute Speranza una lettera in cui viene accuratamente spiegata la differenza, in termini di costi umani ed economici, fra la strategia vincente dei paesi asiatici, e la strategia perdente adottata dall’Italia. Il gruppo propone di emanare un decreto legge per adottare la strategia più efficiente, e mette a disposizione i propri studi e le proprie competenze per attuarla immediatamente.

Nessuna risposta dal governo, che prosegue imperterrito per la sua strada. Pochi tamponi, caos sulle mascherine, zero tracciamento elettronico dei contatti, nessun rafforzamento del trasporto pubblico. E, di lì a un mese, disco verde alla stagione delle riaperture, con il bonus vacanze e tutto il resto.

Per tre mesi, complice la stagione, tutto sembra andare abbastanza bene. Solo alcuni irriducibili, ogni tanto, segnalano che qualcosa non va, e che non siamo affatto un modello per il resto del mondo. Fra luglio e settembre i principali indici rivelano che il numero di positivi è in costante aumento, ma nell’esecutivo nessuno se ne preoccupa. Alla fine di settembre il quoziente di positività (una rozza stima del numero di contagiati) è già 4 volte quello di luglio. E a ottobre comincia a galoppare: alla fine del mese è 25-30 volte il livello di luglio.

Ormai la situazione è fuori controllo. E non c’è più niente da fare: se lasci che i contagiati aumentino di 30 volte, poi ci vogliono mesi e mesi per riportare la situazione al punto di partenza. Anzi: è impossibile portarla al punto di partenza, perché ci vorrebbero 3 mesi di lockdown durissimo, o 6 mesi di lockdown light, ma comunque esiziale per l’economia.

E allora?

Allora avanti così, per mesi, in stop and go. Un po’ di settimane di quaresima, poi un sobrio carnevale, poi di nuovo quaresima, poi ancora carnevale. Il tutto regolato dal semaforo delle terapie intensive: quando si riempiono scatta la quaresima, quando si svuotano riparte il carnevale. La gente l’ha capito, che va a finire così, e si adatta come può, a seconda dell’età e del carattere di ciascuno.

Ma era a obbligatorio precipitare in questo abisso?

No. Tanto è vero che, contrariamente a quel che molti ancora credono, la seconda ondata non è affatto arrivata ovunque: fra le società avanzate l’hanno evitata 10 paesi su 25, dunque più di 1 paese su 3 (vedi grafico). E 4 di questi 10 paesi che ce l’hanno fatta sono in Europa: Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca.

Ma per non essere travolti bisognava fare qualcosa di più, e di diverso dai lockdown tardivi cui siamo stati costretti in Italia. Non dico adottare in toto la strategia asiatica, per cui non eravamo pienamente attrezzati (specie sul tracciamento elettronico), ma almeno assimilarne gli elementi cruciali: controlli severi alle frontiere + mascherine obbligatorie + tamponi di massa + contact tracing + quarantene rigorose. E se non basta – ma di solito basta – lockdown duro al primo segnale di ripresa dell’epidemia, perché se intervieni subito il lockdown dura poco, e la ricerca dei contatti non va in tilt.

E’ quello che scienziati, ricercatori e studiosi non hanno mai smesso di chiedere, fin dai primi giorni di marzo. Tutto inutile, i nostri governanti non hanno voluto sentire ragioni. Gli errori che hanno commesso nella prima ondata non hanno esitato a ripeterli, aggravati, nella seconda. E ora pretendono pure di dire che, se non riescono a tenere sotto controllo l’epidemia, la colpa è nostra.

Incredibile.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 dicembre 2020




Caro Conte, troppo comodo dare la colpa a noi

Come temuto, non hanno fatto quasi nulla per impedire la ripartenza dell’epidemia, e ora – per assolvere sé stessi – scaricano la colpa su di noi.

Eppure li avevamo avvertiti. Guardate un po’ che cosa scrivevo, il 27 aprile, sul sito della Fondazione Hume.


Esuli pensieri. Un’agenda dell’epidemia

27 Aprile 2020 – di Luca Ricolfi

 Su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar 

(Giosuè Carducci, San Martino)

 

Ora ho sentito in Tv il discorso di Conte che annuncia la riapertura il 4 maggio, e non posso più rimandare. La mia agenda comincia da qui, dal discorso che ci è stato inflitto stasera.

E allora andiamo subito al sodo. Che cosa ha detto Conte?

Il succo è questo: Cari italiani, è giunto il momento di riaprire. Certo, riaprire già adesso comporta dei rischi, perché l’epidemia può ripartire in qualsiasi momento. Ma impedire al virus di tornare a circolare si può: dipende essenzialmente da voi, dal vostro senso di responsabilità. Se rispetterete le regole, l’epidemia si potrà tenere sotto controllo, se non le rispetterete l’epidemia ripartirà.

Eh no, caro presidente del Consiglio, questo non puoi proprio dirlo. Dire che l’epidemia potrebbe ripartire è già un inganno. L’epidemia è tuttora in corso, non c’è un solo indizio empirico che sia finita, quindi la prima cosa che dovevi dirci è che voi, politici, avete cambiato idea. Ci avete fatto credere che prima avremmo fermato l’epidemia, e poi avremmo riaperto. Invece ora ci dite che riaprite ad epidemia in corso, esponendo tutti noi a rischi drammatici.

Ma l’inganno più grande è scaricare su di noi, comuni cittadini, la responsabilità di impedire una nuova esplosione del contagio. Troppo comodo. Questo lo potreste dire se, in questi mesi, ci aveste messi in condizione di difenderci. Se, dopo settimane e settimane in cui siamo stati dimenticati nelle nostre case (o nelle nostre residenze per anziani), senza assistenza, senza mascherine, senza tamponi, ora foste in grado di dirci: state tranquilli, ora le mascherine ci sono per tutti, ora un tampone non ve lo negheremo più, ora i medici vi verranno a trovare a casa quando state male.

Invece su tutto questo non una parola, non un numero. Apprendiamo che verrà fissato un prezzo massimo per le mascherine, e si sprecano parole di fuoco contro la speculazione che fa lievitare i prezzi. Ma nemmeno Manzoni avete letto? Non lo sapete che, se gli speculatori prosperano, è perché voi non siete in grado di assicurare un approvvigionamento adeguato? Non vi vergognate a chiederci di mettere le mascherine, salvo coprirci con foulard, sciarpe e asciugamani se le mascherine non le troveremo?

Per non parlare dei tamponi, che avete negato e disincentivato in tutti i modi, nascondendovi – finché vi è stato possibile – dietro le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E ora che l’OMS ha fatto macchina indietro, e invita a fare tamponi (“test, test, test”), perché continuate a farne così pochi? Non lo sapete che i paesi in cui la conta dei morti è meno drammatica sono quelli che hanno puntato sui tamponi di massa? Quanti dati, quante analisi, quanti grafici dobbiamo darvi per convincervi che le cose stanno così?

E i lavoratori cui chiedete di tornare al lavoro, “nella massima sicurezza”? Ci sarebbe piaciuto sentire qualche numero sui cosiddetti dispositivi di protezione individuale. Quanti ne occorrono, quanti sono attualmente disponibili, chi provvederà a fornirli alle imprese, chi si farà carico del costo.

E invece no. Anziché dare garanzie su questo, il governo si compiace di farci sapere che presto inonderà imprese e organizzazioni con dettagliatissimi “protocolli di sicurezza”, nel solito consueto stile degli apparati pubblici: io ti dico a quali norme devi attenerti, non mi preoccupo di metterti effettivamente in grado di rispettarle.

E allora, almeno una cosa lasciatecela dire. Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali.

Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa.




Covid, siamo i peggiori in Europa. Intervista a Luca Ricolfi

Cosa dicono i dati del vostro osservatorio della Fondazione Hume: l’epidemia sta scemando?
“Scemando” è una parola forte, che allude a una prossima fine. No, non sta scemando, sta solo rallentando un po’. Voglio essere più preciso, nei limiti dei dati forniti dalla Protezione Civile. Fatto 1 il numero medio di contagi a luglio, adesso siamo più o meno a 25 volte tanti. Certo, un po’ meglio che 2 settimane fa, quando eravamo a quota 29. Ma i progressi restano molto modesti e, soprattutto, lentissimi.
Questo vuol dire che il rischio di incontrare una persona contagiosa è circa 25 volte quello di luglio.

La seconda ondata era inevitabile?
No, era evitabilissima, come dimostra inequivocabilmente il fatto che più di un terzo (10 su 27) delle società avanzate l’ha evitata (vedi grafico). E fra le società che l’hanno evitata, 4 sono in Europa.

Ma allora non siamo i più bravi in Europa?
No, in questo momento (bimestre ottobre-novembre) siamo i peggiori dopo il Belgio (vedi grafico).
La favola del “modello italiano” è, a mio parere, la più grandiosa bufala della pandemia, un falso colpevolmente accreditato dalla maggior parte dei media, giornali-radio-tv.

Ma come ha potuto reggere, se era una bufala?
Ci soni due fattori, uno politico e l’altro tecnico. Il fattore politico è che la maggior parte della stampa e della tv pubblica ha un occhio di riguardo per il Governo. In Italia la stampa è libera, anzi liberissima, ma questo significa anche liberissima di ignorare i fatti, di seguire le convenienze, di non fare vere inchieste, di non tallonare il potere.
Il fattore tecnico è che non è facile leggere i dati, se almeno non ci si sforza un po’. Confrontare i paesi in base ai numeri assoluti (anziché per abitante) è un’ingenuità imperdonabile. Ma anche usare i dati giornalieri dei nuovi casi, enormemente influenzati dalla politica dei tamponi e dalla capacità diagnostica di ogni paese, vuol dire rinunciare a capire quel che succede davvero.

Che dati dovremmo usare, allora?
I decessi per abitante e il quoziente di positività (al netto delle persone ritestate) sono gli indicatori meno inaffidabili nei confronti internazionali.

Cosa avremmo potuto copiare e imparare dalle esperienze degli altri paesi?
Prima di tutto dobbiamo renderci conto che non c’è un unico modo di vincere il Covid. Ci sono paesi che hanno usato soprattutto i tamponi di massa, altri il lockdown precoce, altri mascherine e tracciamento. Altri ancora il senso civico, a quanto pare: quasi tutti i paesi europei senza seconda ondata sono della galassia del Nord, dall’Islanda alla Norvegia, dalla Finlandia alla Danimarca, paradisi del welfare e della cultura civica.
Fra i paesi a noi più vicini, e con noi più comparabili, il caso di maggiore (relativo) successo è la Germania, dove la seconda ondata è molto più modesta che da noi. Lì la chiave è stata la forza del sistema sanitario, ma ancora più cruciale è stata la politica dei tamponi.

Che relazione c’è tra numero di tamponi e decessi?
Incredibilmente stretta. Ho appena finito di stimare l’elasticità dei decessi per abitante e dei tamponi per abitante nella prima fase dell’epidemia. Ebbene, il valore è circa -2. Il che, in concreto, significa: se raddoppi il numero dei tamponi la mortalità si riduce del quadruplo. Ancora più in concreto: se i tamponi passano da 100 a 200 i morti passano da 100 a 25.

La Svezia non ha fatto nessun lockdown e ha meno morti di noi. Ma numero abitanti e territorio diversi da quelli italiano. Sono fattori che incidono sulle curve?
In parte sì. Le mie analisi statistiche mostrano che il numero dei morti per abitante è molto sensibile alla distribuzione geografica della popolazione: a parità di altre condizioni si muore di più nelle aree urbane, e di meno in quelle agricole, specie se remote.
Non è facile dire se, nel caso della Svezia, il sorprendente contenimento della mortalità (a dispetto del mancato lockdown) sia dovuto anche alla geografia interna del paese, o sia da imputare soprattutto ad altri fattori, come la qualità del sistema sanitario, la politica dei tamponi, la bassa socialità, l’elevato senso civico.
Ci sto lavorando, ma finché non ho dei risultati robusti preferisco non azzardare alcuna ipotesi.

Il governo si accinge ad allentare con il nuovo dpcm alcune misure, salvo poi stringere sugli spostamenti tra le regioni a ridosso del natale. Che strategia intravede?
La solita: tergiversare sfogliando la margherita del “riapriamo?”, ”chiudiamo?”, con il solo scopo di massimizzare il consenso. O meglio: minimizzare lo scontento. Di strategia ne vedo una sola: pregare Domine Iddio che il vaccino funzioni, arrivi in quantità adeguata, sia accettato dalla maggioranza degli italiani.
E’ questo il pericolo più grande: l’attesa messianica del vaccino avrà l’effetto di convincere i politici che, ancora una volta, possono non mettere mano alle 10 cose – dai tamponi alla riorganizzazione della medicina di base (vedi petizione sul sito della Fondazione Hume) – che non hanno saputo fare nel semestre di tregua maggio-ottobre.

La scuola è stata la prima a chiudere a marzo e tra gli ultimi settori a riaprire, salvo poi richiudere. Ora che si riparte con le lezioni in presenza il 7 di gennaio, ci saranno condizioni diverse? 
Penso che un po’ di scaglionamento degli orari, e un po’ di limiti all’affollamento sui mezzi pubblici, finiremo per vederli, prima o poi. Sui test rapidi prevedo solita confusione e disorganizzazione. Sui dispositivi di sanificazione dell’aria, fondamentali negli ambienti chiusi, temo che non vedremo quasi nulla. O meglio: vedremo i soliti studenti con la coperta di lana portata da casa, per poter aprire la finestra d’inverno.

Un recente sondaggio di Swg dice che gli italiani preferirebbero non allentare le misure restrittive e che anche sacrificare il Natale non sarebbe poi grave.
Mah, i sondaggi vanno interpretati, una domanda non basta a capire quel che davvero vuole la gente. Tendo a pensare che a bramare la riapertura siano più gli esercenti che i cittadini, e che i cittadini stiano soppesando i pro e i contro: il rischio che a gennaio tutto ricominci frena gli entusiasmi per riapertura e feste natalizie. La gente ha paura della terza ondata.
Sfortunatamente governo e media sono riusciti a far passare il messaggio che tutto dipende da noi comuni cittadini. E a nascondere il fatto che, invece, molto dipende da loro, ossia dalle scelte (e dalle omissioni) della politica.

Il Covid e la gestione che ne è stata fatta in Italia hanno avuto un impatto psicologico sulle persone? (ho spezzato la domanda)
Un qualche impatto senz’altro, il difficile è dire di che tipo. Senza dati di qualità è impossibile capire che tipo di impatto: depressione? spinte suicidarie? frustrazione ? rabbia? rassegnazione?
L’unica conseguenza psicologica che si riconosce ad occhio nudo è l’azzeramento di qualsiasi piano proiettato nel futuro: una condizione esistenziale mortificante, e un vero disastro per il tessuto produttivo del Paese, posto che fare impresa significa precisamente fare sconnesse sul futuro.

Lei che Natale farà?
Nulla cambierà. Sono già in lockdown e ci resterò. L’alternativa è fra un Natale a due (Paola ed io) e un natale a tre (con nostro figlio), se il governo ci concederà spostamenti interregionali.
Il lato buono, uno dei pochissimi lati buoni, del lockdown natalizio è la tendenziale scomparsa dei regali di Natale generalizzati (non solo ai bambini), una prassi che negli ultimi decenni aveva assunto dimensioni patologiche.

Dobbiamo prepararci a una terza ondata?
Fino a poco fa temevo l’arrivo di una terza ondata. Ora non la escludo ma ritengo più probabile un altro scenario, basato sullo stop and go. Rinunciamo a quasi-azzerare il virus, e ci disponiamo a chiudere e riaprire a più riprese, a fisarmonica, magari con un algoritmo che ci dice quando e che cosa fare, togliendo i politici dall’imbarazzo di spiegare e motivare quel che ci impongono.
La realtà è che è impossibile fare previsioni, l’evoluzione dell’epidemia dipende poco dal virus (che è quel che è, e ha le sue leggi di propagazione) e molto dalla politica. E la politica non è prevedibile, perché è un mix di tentennamenti e di decisioni scarsamente informate.
La Merkel ha una laurea in fisica e un dottorato in meccanica quantistica. Quando parla della funzione esponenziale, di R0 e di Rt, sa esattamente di che cosa sta parlando, ed ha persino il coraggio di farlo davanti ai suoi cittadini.
Notata la differenza?

Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi, ItaliaOggi, 3 dicembre 2020




Lockdown a rilento

C’è un certo strabismo, ultimamente, nella comunicazione sul Covid. Il messaggio principale è che dobbiamo stare rinchiusi, e che se ci rinchiudono è “per il nostro bene”, come si dice ai bambini per fargli accettare qualche sacrificio. Il numero dei morti (che viaggia verso quota 1000 al giorno) serve assai bene allo scopo.

C’è però anche un messaggio secondario, che accomuna una parte dei media, qualche analista ingenuo, una parte (minoritaria) del governo, e sostanzialmente tutta l’opposizione: le misure sono eccessive, la curva epidemica sta già piegando verso il basso, le terapie intensive si stanno svuotando, è già tempo di allentare un po’ il freno.

Due visioni opposte, insomma.

E allora proviamo a vedere come stanno le cose. Consideriamo il numero di persone contagiose (in grado di trasmettere il virus) nel mese di giugno, e chiediamoci di quanto è aumentato il loro numero nel tempo. La risposta è che, posto a 100 il numero di soggetti contagiosi a giugno, nella prima settimana di settembre erano 250, nella prima di ottobre erano diventati 500, e nella prima settimana di novembre – quando è decollato il semi-lockdown in corso, erano 2500, a dispetto delle (blande) misure adottate nel corso di ottobre. Dopo due settimane di semi-lockdown la curva epidemica era ulteriormente salita (il nostro numero-indice a base giugno segnava quasi 3000), e solo negli ultimi 10-15 giorni ha cominciato a scendere. Ora siamo a circa 2500, cioè allo stesso livello di un mese fa: il semi-lockdown è stato così blando che, nella prima settimana di dicembre, siamo messi più o meno come lo eravamo nella prima settimana di novembre. In breve, siamo ancora lontanissimi dalla situazione di giugno.

Eppure, ci viene obiettato, le terapie intensive si stanno svuotando, il sistema sanitario non è più sotto pressione come fino a poche settimane fa. Dimenticano che, con 7-800 morti al giorno, le terapie intensive cominciano (lentamente) a svuotarsi semplicemente perché il numero di decessi è ancora più grande del numero di nuovo ingressi: se entrano 700 pazienti al giorno, ma ne escono in quanto deceduti 750, si “liberano” 50 posti. Non mi sembra un bel modo di “alleggerire” la pressione sul sistema sanitario.

La realtà è che, per ora, il semi-lockdown sta dando risultati estremamente deludenti. Il valore di Rt è sceso finalmente sotto la soglia critica 1, ma lo ha fatto in una misura così piccola da rendere lentissimo il percorso di abbassamento della curva epidemica. Al ritmo attuale, occorrono 5-6 mesi di chiusura per riportare il numero di infetti al livello di sicurezza raggiunto a giugno. E anche si tornasse a un lockdown totale, come quello attuato dal 22 marzo al 3 maggio, di mesi ne occorrerebbero 2.

E’ una situazione paradossale. Il governo si vanta di non avere imposto un lockdown generalizzato, duro come quello di marzo. L’opposizione, anziché fare due conti e obiettare che di questo passo andiamo a finire a Pasqua, non trova di meglio che invocare aperture, veglioni, sciate e messe in presenza: un insperato assist al governo, che ne esce con l’aureola della saggezza e della prudenza.

Che cos’è che non va?

Non va che non ci stanno dicendo le cose come stanno. Ai ritmi attuali il semi-lockdown ci porterà, dopo l’Epifania, a quota 1400, ossia 14 volte più contagiati che a giugno. E anche immaginando che il valore di Rt dovesse essere abbastanza simile a quello toccato nel lockdown di marzo, tutto quel che potremmo sperare entro l’Epifania è di arrivare vicino a quota 500, dunque 5 volte il numero di contagiati di giugno. Insomma, in una situazione di rischio non trascurabile.

Dunque, dove ci stanno portando?

Temo che stiano navigando a vista, come hanno fatto dal primo giorno. Non possono fare un lockdown totale, perché hanno promesso di non farlo, e comunque non basterebbe. Non possono aprire, o allentare il lockdown come pretende l’opposizione, perché sarebbe un disastro. Non possono ammettere che a gennaio il numero di persone contagiose sarà ancora troppo alto, e che la riapertura porterà di nuovo Rt sopra 1. Non sono abbastanza umili da chiedere scusa, e fare oggi quel che dovevano fare ieri sui terreni chiave: tamponi, tracciamento, medicina territoriale, trasporti.

Una sola cosa sembrano avere in testa: che il vaccino, salvando noi, salverà loro.

E’ l’errore più grande. Perché, anche dovesse tutto filare liscio, il vaccino non risolverà certo l’emergenza del primo semestre 2021, quando milioni di persone avranno l’influenza, la curva epidemica tornerà a salire, e l’arma del lockdown non potrà più essere usata senza distruggere definitivamente l’economia.

Meglio pensarci ora, all’emergenza che verrà, e “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. Parola di Trapattoni.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 dicembre 2020




Stop and go?

Chi è abbastanza vecchio da avere memoria degli anni ’70, o è abbastanza curioso da averli studiati, ricorderà di sicuro la politica dello stop and go, o “politica del semaforo”, con cui, in quel periodo, molti paesi occidentali cercavano di domare l’inflazione, senza però frenare troppo l’economia. La conseguenza era una crescita a singhiozzo, in cui a brevi periodi di espansione seguivano altrettanto brevi periodi di rallentamento, per tenere l’inflazione sotto controllo.

Qualcosa di simile, forse, si sta preparando ora sul versante della gestione dell’epidemia, con il Covid in un ruolo simile a quello che fu dell’inflazione. Se davvero, come appare sempre più verosimile, il 3 dicembre il governo consentirà una serie di riaperture, in modo che la corsa ai regali di Natale dia un po’ di ossigeno all’economia, e se nel periodo delle feste dovessero esserci di nuovo limitazioni, più o meno volontarie, magari seguite da un nuovo allentamento delle regole a gennaio, allora sì, dovremmo concludere che il governo ha deciso per lo stop and go.

Il che significherebbe: non riusciamo a stroncare l’epidemia, ma nemmeno vogliamo che ci arrivi in faccia la terza ondata, quindi navighiamo a vista. Teniamo aperto finché gli ospedali respirano, tiriamo il freno appena ci accorgiamo che gli ospedali potrebbero riempirsi di nuovo di pazienti Covid.

E’ razionale questa strategia?

Probabilmente sì, se l’obiettivo è solo di non far saltare il sistema sanitario e dare un po’ di ossigeno all’economia. E, naturalmente, se i sensori del governo sono meno arrugginiti di quelli usati fin qui, rivelatisi incapaci di avvisare in tempo dell’arrivo della seconda ondata.

Se però l’obiettivo fosse quello di minimizzare sia i morti sia i punti di Pil perduti, non sono sicuro che mesi e mesi di andamento a fisarmonica, con le Regioni impegnate in una danza senza fine fra i quattro colori di cui possono fregiarsi (verde-giallo-arancio-rosso), sarebbero la via più efficace. E questo per due motivi, uno relativo alla salute, l’altro relativo all’economia.

Sul versante della salute, non si può non osservare che mantenere le terapie intensive costantemente un po’ sotto il livello di guardia (diciamo al 20% della capacità anziché al 30%), obiettivo comprensibilissimo dal punto di vista dell’equilibrio del sistema sanitario, comporta circa 300 morti al giorno, dunque oltre 100 mila all’anno: più o meno 100 volte il numero annuo di morti sul lavoro, che già ci appare inaccettabilmente elevato.

Sul versante dell’economia i conti sono più ardui, perché mancano due informazioni cruciali: quanti saranno i mesi di vera apertura all’anno, e quanta mobilità in meno (spostamenti e consumi) comporterà lo stato di paura permanente indotto da un regime di stop and go, specie se nulla cambia nella medicina di base (una quota importante delle nostre paure è dovuta alla credenza, del tutto fondata, che in caso di infezione difficilmente riceveremo cure domiciliari). Secondo un recente studio del Fondo Monetario Internazionale, il rischio che la paura congeli la mobilità, e la mancanza di mobilità spenga l’economia, è molto forte. Se la paura non scende sotto un certo livello, è inutile illudersi che l’economia riparta.

Immagino che qualcuno, arrivati a questo punto, obietterà: e il vaccino? Non sarà il vaccino la nostra salvezza? Perché pensare a un lungo periodo di stop and go quando il vaccino è alle porte?

Personalmente nutro un misto di ammirazione e di invidia per chi è dotato di tanto ottimismo. Può darsi che, a differenza del vaccino influenzale, il vaccino contro il Covid arrivi presto, ed entro l’estate prossima sia disponibile per tutti. Può darsi che la maggior parte della popolazione si vaccini con entusiasmo, e non dia alcun credito alle cautele del prof. Crisanti, secondo cui assumere un vaccino non testato è rischioso (“senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio”).

Ma temo che lo scenario più verosimile sia un altro. E cioè che il vaccino diventi per qualche mese l’argomento preferito dei talk show, e insieme uno specchietto per le allodole che permette ai politici, ancora una volta, di eludere le domande importanti e di non fare le molte cose che spetta loro di fare. A partire dai dieci punti della petizione che, in 35 mila, abbiamo firmato una decina di giorni fa, e cui né il premier Conte, né il ministro Speranza (ai quali era indirizzata), hanno sentito il dovere di dare una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 novembre 2020