Paralisi sanitaria

La buona notizia è che, da circa un mese e mezzo, nella maggior parte dei paesi del mondo l’epidemia sta battendo in ritirata. La cattiva notizia è che in Europa sono molti i paesi in cui la ritirata è lenta, o non è affatto in corso, o addirittura i ricoveri ospedalieri sono in aumento. Fra i grandi paesi europei i due messi peggio sono la Francia e l’Italia, dove non solo le cose non stanno migliorando, ma da qualche giorno manifestano una chiara tendenza al peggioramento. Per un’infausta congiunzione astrale la nascita del governo Draghi è avvenuta esattamente nel momento in cui l’epidemia, ancora pericolosamente diffusa ma comunque in lieve regresso, ha invertito il suo cammino e ha ripreso a correre.

Di qui lo spiazzamento dei partiti che sostengono il governo. L’istinto di Lega, Forza Italia (e pure di Italia Viva, a quel che sembra) è di spingere per allargare il perimetro della normalità, il che – in buona sostanza – vuol dire ragazzi a scuola, mezzi di trasporto pieni, bar e ristoranti aperti anche la sera. Quello della triplice Pd-Leu-Cinque Stelle è di continuare con la politica dell’Italia a colori, sperando che l’evoluzione dell’epidemia consenta presto di attenuare la morsa delle chiusure, ma ben sapendo che ciò non avverrà e quindi non potremo far altro che assistere a qualche nuovo giro di vite.

Il risultato è la paralisi, in perfetta continuità con il governo precedente. Ma forse oggi la difficoltà di imboccare una strada ben definita, indicando e spiegando al paese una comprensibile via di uscita, è ancora maggiore di un mese fa.

Salvini dichiara che “parlare già oggi di una Pasqua chiusi in casa non è rispettoso degli italiani”, come se nel giro di poche settimane la drammatica situazione attuale potesse retrocedere, e come se l’Italia fosse l’unico grande paese europeo in cui si pianificano chiusure a medio e lungo termine. La triplice Pd-Leu-Cinque Stelle ha buon gioco ad accusare Salvini di imprudenza, perché l’epidemia galoppa e gli esperti (questa volta quasi tutti: governativi e indipendenti) prevedono che, se nulla si farà, a Pasqua i casi saranno molti più di adesso.

Ora però c’è una complicazione, rispetto a un mese fa. Essendo al governo, e non potendo sconfessare l’operato dei ministri di Pd-Leu-Cinque Stelle, anche la destra è imbavagliata. Se fosse una destra seria e libera, farebbe la lista delle cose che il governo rosso-giallo non ha fatto, e che avrebbero evitato il riesplodere del contagio. Chiederebbe che quelle cose finalmente si facessero, per permettere – fra qualche mese – un vero ritorno alla normalità. E spiegherebbe agli italiani che la promessa di vaccinare il 70% dei cittadini entro l’estate non è credibile, e serve solo a non farle per l’ennesima volta, quelle benedette cose che si potevano e dovevano fare, se non si volevano vanificare i nostri sacrifici.

Quali cose?

Sono una dozzina, ma ne ricordo almeno sei: test di massa (almeno 300 mila tamponi molecolari al giorno), aumento degli addetti al contact tracing, rafforzamento del trasporto locale, protocollo nazionale di cure domiciliari, aumento del numero di sequenziamenti, controllo delle frontiere.

Ma quelle cose, nei lunghi mesi della pandemia, la destra non le ha mai invocate né pretese con la dovuta convinzione, preferendo quasi sempre puntare sul comodo binomio ristori-riaperture. Ciò ha finito per cucire addosso alla sinistra l’abito che ora indossa, e la fa apparire come il saggio “partito della prudenza”, che si oppone all’irrazionale e antiscientifico vitalismo di Salvini. Un partito, quello della prudenza giallo-rossa, cui nessuno, da destra, chiede conto del proprio operato precisamente perché la destra – anziché incalzare il governo sulle cose non fatte – ha finito a sua volta per autocucirsi addosso l’abito opposto e contrario, quello che la fa apparire come il partito delle riaperture, incauto e indifferente alle fondate preoccupazioni della scienza.

Ecco perché, sul piano della politica sanitaria, il governo Draghi appare come una (sia pur bella) copia del governo precedente, di cui non può che ereditare l’immobilismo su tutto ciò che esula dalla scontata battaglia per avere i vaccini. Intrappolati dalle loro condotte passate, i rappresentanti della destra e della sinistra sono condannati a combattersi (e a negoziare) solo intorno al falso dilemma apertura-chiusura. Come se un po’ di prudenza in più o in meno potesse cambiare il nostro destino. Mentre la realtà è tanto semplice quanto sconfortante: stringere o allentare di qualche maglia le catene della nostra prigione serve solo a spostare di qualche settimana la data in cui i nostri ospedali potrebbero non farcela più.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 febbraio 2021




Modello orientale?

La politica sanitaria del governo Conte bis “ha causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia”.

Potrebbe essere un riassunto, rozzo e semplicistico, del mio ultimo libro (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia). E invece no. Ora a riconoscere questi due tristissimi fatti – le vite umane perdute, i punti di Pil bruciati – è nientemeno che Walter Ricciardi, il consulente principe del ministro Speranza, che ci spiega che “nel precedente governo” il ministro stesso “trovava un muro”, perché a prevalere era “la linea di chi voleva convivere con il virus”.

Nella sostanza, un atto di accusa gravissimo verso il ministro della salute. Se è vero che, fin da ottobre, il consulente lo avvertiva della pericolosità della linea sanitaria adottata, e se è vero che il ministro ne condivideva analisi e suggerimenti, allora come ha fatto, il ministro stesso, ad avallare una linea che avrebbe “causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia” ?

Volendo lasciar da parte il passato (peraltro greve di responsabilità, di cui mi auguro che a un certo punto qualcuno si faccia carico), ora che Draghi sta per enunciare il suo programma ci piacerebbe che venisse finalmente detta una parola chiara sulla politica sanitaria svolta finora e su quella futura. Perché, arrivati a questo punto, noi italiani siamo davanti a un paradosso davvero singolare. Da una parte, un ministro della sanità che viene confermato non si sa se per proseguire o per capovolgere la disastrosa politica sanitaria adottata fin qui. Dall’altra, un coro di critiche diametralmente opposte: per buona parte della destra il disastro è stato chiudere troppo, per Ricciardi e per la maggior parte degli studiosi indipendenti il disastro – se mai – è stato chiudere troppo tardi e troppo poco.

Ciò detto, il j’accuse retrospettivo di Ricciardi è comunque più che mai opportuno e saggio. Aspettavamo da mesi un discorso del genere, chiaro e coraggioso, che mettesse finalmente i cittadini di fronte alla grave situazione che abbiamo davanti: il piano di vaccinazione che ritarda, e l’incubo delle varianti emergenti.

Ma è sui modi che abbiamo per uscirne, che dobbiamo interrogarci. Ricciardi propone l’abbandono del protocollo occidentale (che persegue la mitigazione dell’epidemia) a favore del protocollo orientale e dell’emisfero Sud (che persegue la soppressione del virus). Un cambio di passo davvero decisivo, una clamorosa inversione di rotta, cui personalmente non posso che plaudire, come non possono che plaudire quanti, come  gli studiosi di Lettera 150, lo hanno invocato fin dalla primavera scorsa.

I cardini del passaggio, secondo Ricciardi, dovrebbero essere tre: “lockdown breve e mirato, tornare a testare e tracciare, vaccinare a tutto spiano”. Ed è qui la domanda nevralgica: è questa la sostanza del protocollo dei paesi lontani, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda, che ce l’hanno fatta a ridurre quasi a zero la circolazione del virus? (lascio volutamente fuori dalla lista la Cina, che Ricciardi evoca ma, in quanto dittatura, è un modello improponibile in un paese democratico).

A me sembra che il modello dei paesi lontani sia molto più complesso. Intanto, ovviamente, i vaccini non potevano far parte delle loro armi di difesa; e poi, non esiste una ricetta unica di quei paesi; infine, il lockdown assai raramente costituisce l’ingrediente fondamentale.

Il lockdown può anche diventare assolutamente necessario (come lo è oggi in Italia), ma non è la via maestra per la soppressione del virus. È il primo e doveroso passo, a cui però vanno affiancate altre misure, senza le quali si rischia un ulteriore fallimento.

Le ricette dei paesi lontani hanno due ingredienti basilari comuni: il controllo rigoroso delle frontiere da parte del governo, e il rispetto scrupoloso delle regole di distanziamento e autoprotezione da parte dei cittadini, entrambe condizioni che in Italia non si sono mai verificate.

E hanno poi ingredienti specifici, altrettanto basilari: il tracciamento elettronico (anche a scapito della privacy), l’uso sistematico e generalizzato delle mascherine, la stretta sorveglianza sul rispetto della quarantena, i tamponi di massa, e infine, sì, i lockdown duri e circoscritti. Ogni paese ha scelto un mix diverso dei vari ingredienti, ma il punto è che tutti hanno messo in campo più di un tipo di misura, perché una o due misure soltanto non bastano.

E noi? Facciamoci qualche domanda. Noi saremmo disposti a rinunciare alla privacy e lasciarci tracciare, rispettare rigorosamente le regole, indossare sempre le mascherine FFP2, sugli autobus, nei negozi, per strada? Saremmo disposti a controllare le frontiere (e chiuderle addirittura, in alcuni casi), nei modi in cui avviene per esempio in Giappone, dove i viaggiatori che arrivano in aeroporto vengono sottoposti a test in entrata e in uscita, e il governo pretende di sorvegliare la quarantena con il Gps?

Non è un caso che noi europei, noi occidentali, abbiamo perseguito il modello del mitigare e non quello del sopprimere, ovvero, per dirla con una formula che ormai ci è familiare: noi europei abbiamo scelto la filosofia del “convivere col virus”. Filosofia che ora, di fronte alle varianti pericolose che ci invadono, ci rendiamo conto che non può più funzionare.

Se ora volessimo davvero cambiare modello, dovremmo smettere i panni europei, la mentalità occidentale e, non dico diventare orientali, ma almeno provarci.

Quel che voglio dire è che un lockdown duro ora non basta. Ben venga, anche se – non mi stancherò mai di dirlo – il lockdown non è la soluzione, bensì semplicemente il certificato di fallimento della politica sanitaria. Ben venga, perché arrivati a questo punto, non ha alternative: ma deve più che mai, ora, accompagnarsi all’attuazione di molte, se non tutte, le altre misure di contenimento e prevenzione. Soprattutto perché la campagna vaccinale non potrà avere effetti apprezzabili prima dell’estate, e più che mai ove tale campagna dovesse subire ulteriori ritardi; e perché intanto le varianti ad alta trasmissibilità accelerano la circolazione del virus. In questa situazione, un inasprimento delle misure attuali non accompagnato da tutto il resto non basterà certo a sradicare il virus.

Questo ci aspettiamo che il nuovo governo ci sappia indicare, con chiarezza e coraggio. Perché la delusione più grande sarebbe ascoltare l’ennesima ripetizione della promessa di “fare tutti gli sforzi per accelerare la campagna vaccinale”, magari accompagnata da qualche concessione alla linea della prudenza, ma senza un chiaro e dettagliato cronoprogramma su tutto quel che ancora non si è fatto, o si è appena iniziato a fare.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 febbraio 2021




Una svolta nella politica sanitaria?

E’ abbastanza stupefacente, almeno per me che da un anno seguo quotidianamente l’andamento dell’epidemia, quanta attenzione si concentri sulle scelte di Draghi in campo economico-sociale, e quanto poco, invece, ci si interroghi sul futuro della politica sanitaria. Come se accelerare la campagna di vaccinazione fosse l’unica cosa che ci si può aspettare da lui.

E’ quindi con un sospiro di sollievo che ho ascoltato le considerazioni di Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza, in una intervista televisiva concessa martedì notte. In essa, accanto a una (ben poco convincente) difesa della politica di Conte durante la prima ondata, Ricciardi ha sostenuto tre tesi molto forti, che meritano attenta considerazione. Le riassumo brevemente.

Tesi 1: nella seconda ondata, decidendo lockdown tardivi e troppo blandi, il governo Conte ha sbagliato politica, finendo per dilapidare i sacrifici degli italiani.

Tesi 2: dobbiamo cambiare completamente rotta, abbandonando il protocollo europeo, che si accontenta di mitigare l’epidemia, e passare risolutamente al protocollo dei paesi orientali e dell’emisfero Sud, che punta alla soppressione del virus.

Tesi 3: la via maestra per farlo è un inasprimento e allungamento dei lockdown.

Sulle prime due tesi, avendole io sostenute da più tempo di Ricciardi, non posso che concordare (ho addirittura scritto un libro, La notte delle ninfee, per spiegare come la seconda ondata si sarebbe potuta evitare). L’unica cosa che avrei da aggiungere è: poiché il prezzo di questi errori, misurato in migliaia di vite umane sacrificate, è enorme, e poiché – questo gli va riconosciuto – è da quattro mesi che il consulente del ministro Speranza critica la politica sanitaria del governo, come mai né lui né il ministro della salute si sono mai palesati nell’unico modo politicamente efficace, ossia minacciando le dimissioni? Possibile che, per sferrare un attacco frontale a Conte, si sia dovuto aspettare che Conte stesso avesse perso il potere, disarcionato da Renzi?

Ma veniamo alla tesi 3: ci vuole un maxi-lockdown. Su questa tesi è inevitabile che ognuno abbia le proprie opinioni, per lo più dettate dall’età (i giovani si ammalano pochissimo) e dalla professione (gli autonomi rischiano di perdere tutto). Però c’è un punto di cui, a mio parere, dovremmo renderci conto tutti: esaurita la sorpresa della prima ondata, ogni lockdown lungo e non circoscritto è semplicemente un certificato di fallimento della politica. Perché, ormai dovrebbe essere chiaro, quando il governo chiede ai cittadini di farsi carico, con le loro rinunce e con i loro sacrifici, della lotta al virus, è precisamente perché le autorità politiche e sanitarie non hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per contenere l’epidemia. Vogliamo ricordarle, queste omissioni e mancanze?

Eccone un succinto elenco: dimezzamento (anziché aumento) del numero di tamponi nel bimestre critico che va da metà novembre 2020 a metà gennaio 2021; sostanziale rinuncia al tracciamento elettronico; debolezza delle misure di controllo della quarantena; timidezza nel far rispettare le regole in estate; mancato rafforzamento del trasporto locale; mancata messa in sicurezza delle scuole e delle università sul versante dell’aerazione e deumidificazione dei locali;  debolezza della politica di controllo delle frontiere e dei flussi turistici.

Ecco perché l’invocazione del lockdown, di un lockdown più severo e lungo, è poco credibile, per non dire inquietante, se non è accompagnata dal riconoscimento che, dopo la prima ondata, l’errore primario del governo Conte non è stato di non aver fatto un lockdown durissimo a ottobre (quello è stato l’errore secondario, o derivato), ma è stato quello di non fare tutto ciò che ci avrebbe permesso di arrivare a ottobre in condizioni meno critiche, rendendo assai meno necessario il ricorso al lockdown.

Perché, nell’intervista a Ricciardi, tutto questo non emerge con la dovuta evidenza?

Forse per lo stesso motivo per cui il consulente del ministro Speranza considera “ineccepibile” il comportamento del governo durante la prima ondata. Spiace doverglielo ricordare, ma anche ammesso (e non concesso) che nulla sia stato sbagliato nella tempistica dei lockdown di marzo-aprile, resta il fatto che nella prima ondata egli fu in prima linea nella guerra del governo contro la politica dei tamponi del Veneto, accusato di farne troppi. E che, oltre all’errore di frenare i tamponi di massa, furono parecchi gli errori gravi ed evitabili del governo Conte anche durante la prima ondata: perché nulla fu fatto, a gennaio-febbraio, per dotare il personale medico di dispositivi di protezione individuale? Perché si aspettarono così tanti mesi per rendere obbligatorio l’uso delle mascherine nei negozi e nei locali al chiuso? Perché così poco venne fatto per controllare le frontiere?

Insomma, la mia impressione è che il fascino discreto che il lockdown esercita sui politici dipenda semplicemente dalla loro consapevolezza che su tutto il resto, su cui si è fatto quasi nulla quando si era in tempo, si continuerà a fare ben poco. E che alla fine della fiera, nell’attesa messianica del vaccino, la loro idea sia ancora oggi quella di sempre: che la lotta al virus non si fa dall’alto, costruendo politiche sanitarie incisive, ma si fa dal basso, limitando le nostre libertà.

E’ come se la politica, tutta la politica, fosse perfettamente in grado di riconoscere il debito accumulato dai governi passati quando esso è di natura economica, ma non lo fosse quando è di natura sanitaria. Eppure il dramma odierno, in cui un nuovo e severo lockdown appare a molti come l’unica misura praticabile, è il frutto amaro del debito sanitario accumulato in mesi e mesi di omissioni e atti mancati.

Non ci resta che sperare che, con questo genere di debito, il governo Draghi cominci a fare i conti nell’unico modo possibile: facendo oggi, finalmente, tutto ciò che non si è fatto fino a ieri.

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 febbraio 2021




La destra e le elezioni anticipate

La richiesta di tornare al voto, ripetuta innumerevoli volte dai partiti del centro-destra, non è priva di buone ragioni. E’ vero che la nostra resta una repubblica parlamentare, e che i cambi di governo in corso di legislatura sono perfettamente legittimi, ma è altrettanto vero che di questa flessibilità si è abusato troppo. Siamo nel 2021, e bisogna risalire al lontano 2008 per rintracciare un governo e un premier (il governo Berlusconi) che fossero espressione del voto popolare. Da allora a decidere chi governa sono state sempre alchimie di palazzo, di volta in volta innescate da emergenze e situazioni eccezionali, o presunte tali: la crisi finanziaria (2011), la mancanza di un chiaro vincitore (2013), l’impazienza di Renzi (2014), l’esito del referendum istituzionale (2016), di nuovo la mancanza di un chiaro vincitore (2018), il rischio di una vittoria elettorale della destra (2019), fino al colpo di teatro di questi giorni, motivato con la doppia emergenza economica e sanitaria.

Di tutte queste ragioni che hanno condotto a costituire governi sganciati da ogni riferimento al consenso popolare la più inquietante è quella che, nel 2019, ha portato al Conte bis. In questo caso, infatti, la motivazione che ha portato a formare il nuovo governo giallorosso non è stata, come in passato, né un’emergenza reale, né l’assenza di un chiaro orientamento dell’elettorato, ma – tutto al contrario – la convinzione che tale orientamento ci fosse, ma non fosse quello “giusto”. Tutti i sondaggi, infatti, indicavano (ed indicano tuttora) che, ove la parola fosse restituita ai cittadini, il colore politico del nuovo governo sarebbe stato di centro-destra, e non di centro-sinistra. Ed è fonte di sconforto che, a 75 anni dalla nascita della Repubblica, la cultura progressista non abbia ancora la maturità democratica per accettare che siano gli elettori, anziché gli abitanti del Palazzo, a scegliere chi li dovrà governare.

Dico tutto questo per dire che capisco l’amarezza dei leader del centro-destra di fronte al rifiuto del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere e dare la parola agli elettori. E penso anch’io che, in circostanze normali, il capo dello Stato avrebbe fatto bene a sciogliere le Camere, senza farsi condizionare dal timore che a vincere siano i cattivi.

Ma nello stesso tempo non posso non aggiungere che, come studioso che segue l’evoluzione dell’epidemia, penso che in questa circostanza la posizione di chi ha invocato le elezioni anticipate, in particolare Giorgia Meloni e Matteo Salvini, non sia solidamente fondata, e che abbia fatto bene Mattarella a non percorrere questa via, che pure era nelle sue facoltà. E provo a spiegare perché.

Lascio da parte le considerazioni, peraltro assai convincenti, sull’opportunità che a gestire il Recovery Fund sia una personalità di alto profilo e di indubbia competenza, e mi concentro solo sull’altro motivo sottolineato da Mattarella, ossia il rischio che due mesi di campagna elettorale potessero alimentare ulteriormente l’epidemia.

Come si sa il caso che, in queste settimane, ha originato questo genere di preoccupazioni è quello delle elezioni presidenziali in Portogallo, tenutesi alla fine di gennaio. E infatti, per sostenere l’infondatezza di tale preoccupazione, sia Giorgia Meloni sia Matteo Salvini hanno tentato di smontare precisamente quel caso.

Giorgia Meloni, in un’intervista a Porta a Porta (giovedì notte), ha affermato che si è votato il 24 gennaio, e che “poiché il virus incuba 14 giorni” non era ancora possibile osservare eventuali effetti sull’epidemia. Matteo Salvini, all’opposto, tali effetti ha preteso di osservarli, e lo ha fatto notando che il giorno delle elezioni i contagiati erano 11721, e 8 giorni dopo erano 5805, ovvero circa la metà (in realtà la diminuzione, calcolata in modo appropriato, è stata molto minore).

Ebbene, entrambe queste argomentazioni non fanno adeguatamente i conti con quel che è successo in Portogallo. Quel che, per settimane, ha preoccupato gli analisti non è tanto il rischio che l’afflusso ai seggi (in un singolo giorno) potesse moltiplicare i contagi, quanto il timore che a far esplodere l’epidemia provvedesse la campagna elettorale (lungo un periodo di parecchie settimane). Questo timore era supportato dal fatto che, circa un mese prima del voto (all’inizio della campagna elettorale), la curva dei contagi avesse invertito repentinamente la sua rotta, passando da calante a crescente, e più o meno una settimana dopo la medesima sorte fosse toccata alla curva dei decessi.

In effetti, nel giro di un mese, e proprio in coincidenza con l’appuntamento elettorale, il Portogallo ha scalato sia la classifica della velocità di propagazione dell’epidemia (quella che si misura con Rt), sia la classifica della diffusione del contagio, andando ad occupare il triste primato che per quasi tutto il 2020 era toccato al Belgio. Non solo: entrambe le curve, dei contagi e dei decessi, hanno cominciato a dare segnali di arretramento solo 1-2 settimane dopo l’appuntamento elettorale (prima quella dei contagi, poi quella dei decessi). Infine, è di questi giorni la notizia che gli ospedali portoghesi sono al collasso, e il paese ha dovuto richiedere l’aiuto degli altri paesi europei.

E’ la prova inconfutabile che a far precipitare la situazione sia stato l’appuntamento elettorale?

No, non lo è. In questo campo non si possono fornire dimostrazioni rigorose, ma solo individuare indizi, più o meno supportati da evidenze matematico-statistiche. Però si può osservare che, nel caso delle elezioni portoghesi, gli indizi ci sono, purtroppo. E che, quanto alle elezioni italiane, oggi il numero di contagiati è circa 10 volte quello di settembre, che già non aveva mancato di suscitare le preoccupazioni di alcuni studiosi.

In questa situazione, in cui mancano le prove ma abbondano gli indizi, ognuno ha buone ragioni per tenersi le idee che preferisce. Ma è difficile non comprendere quelle del capo dello Stato, che ha ritenuto imprudente interrompere la legislatura in un momento in cui il numero di contagiati è molto alto e l’epidemia non accenna a piegare la testa.

Pubblicato su Il Messaggero del 6 febbraio 2021




Fake Journalism. Sul lockdown, la libertà e il tradimento dell’informazione italiana

Credo che dalla fine delle dittature del ‘900 mai, in Occidente, si sia visto un giornalismo sleale, fazioso e asservito alla linea governativa, come si vede oggi in Italia. Punto; e a capo.

In termini scientifici, la questione richiede una ricerca più seria, che sta partendo in questi giorni grazie alla collaborazione tra l’Università IULM e l’Osservatorio di Pavia [anche se la posizione che esprimo qui è del tutto personale, e non riguarda in alcun modo il mio Ateneo]. In questa sede, vorrei soffermarmi più discorsivamente su tre strategie messe in campo dai media: l’esercizio sistematico di disinformazione, orientato a generare smarrimento ed allarme; l’imbarazzante difesa del Governo; infine, e specularmente, la continua  ed inaccettabile criminalizzazione dei cittadini.

Quanto al primo argomento, parte del problema è senza dubbio la cattiva informazione scientifica, dovuta ad una perversa combinazione di fattori: l’incapacità dei giornalisti di leggere un paper di ricerca; il personalismo, ottuso e vanesio, dei medici chiamati ad intervenire in TV; la sciatteria di chi lavora nell’informazione; la rincorsa al titolo più rumoroso. Lascio la questione a chi si occupa di public understanding of science, una materia su cui ho poche competenze, per sollevare l’altra metà del problema: non la cattiva informazione, gestita in modo approssimativo e dilettantesco, ma la palese intenzione di seminare allarme e smarrimento nel pubblico. Un’intenzione evidente nella scelta di sottolineare sempre gli aspetti negativi – il dato in peggioramento anziché quelli in miglioramento, nel folle bollettino quotidiano del Sars-Cov-2 – e nella serie infinita di menzogne belle e buone che la stampa ha raccontato, sull’Italia e sullo stato generale dell’epidemia. In particolare è il paragone con le altre nazioni, su cui il pubblico medio ha maggiore difficoltà ad orientarsi, ad essere gestito in modo terroristico, mentendo senza ritegno sulle virtù di un “modello italiano” che non è mai esistito, e insistendo ogni giorno sull’aspetto peggiore del paese che vive il periodo peggiore, senza alcun rispetto per le proporzioni generali e senza nessuna visione di insieme. E perfino con buone ragioni, se la vediamo dal lato dei manipolatori: perché quello che appare evidente, se allarghiamo le linee dell’analisi, è che la correlazione tra la durezza del lockdown e la riduzione dell’epidemia è tutt’altro che scontata e assai difficile da dimostrare, senza contare gli spaventosi costi umani che ne derivano. L’analisi comparata di John Ioannidis[1], recentemente, mostra come le misure aggiuntive rispetto a quelle di precauzione generale – e segnatamente lo “stay-at-home” obbligatorio – non producano vantaggi misurabili. Cosa di fatto prevista dalla Dichiarazione di Great Barrington, il manifesto contro il contenimento scritto nello scorso ottobre da altri tre epidemiologi di fama mondiale [Martin Kulldorff, di Harvard; Sunetra Gupta, di Oxford; Jay Bhattarchaya, di Stanford], e firmato da 53.000 – cinquantatremila – tra medici e scienziati in cinque continenti[2]. Provate a verificare lo spazio concesso a questa posizione scientifica, nel dibattito italiano – ma vedrete che non servirà molto tempo.

Ammetto che la questione è tremendamente complessa, perché di fronte a processi così ampi è impossibile filtrare le variabili,  e ridurre il tutto ad una chiara relazione di causalità: così che ognuno tende a selezionare i segmenti statistici in linea con la propria tesi di fondo, e io non faccio eccezione. Ma il punto critico è un altro, e nasce esattamente da questa incertezza epistemologica: misure di restrizioni tanto gravi ed illiberali possono essere giustificate soltanto dalla ragionevole certezza della loro utilità. E quindi sta a chi sostiene il confinamento dimostrarne la ragione scientifica, e non a chi lo contesta dimostrare il contrario – esattamente come tocca all’accusa l’onere della prova, e mai alla difesa. Affermare la sospensione dei diritti come azione preventiva – che “tanto male non fa”, come hanno il coraggio di dire certi anchor-men – non è altro che un esperimento di controllo sociale su vastissima scala, a cui dovremmo dedicare tutte le nostre energie critiche, tanto devastante è il suo effetto sui principi ultimi della convivenza civile e delle democrazie liberali.

Quello che ha così preso corpo, in un clima di incredibile conformismo, è il ribaltamento delle categorie valoriali su cui si fondano le democrazie: è la libertà che deve essere giustificata, e non la sua limitazione; le misure restrittive diventano uno scopo in sé, anziché una misura da applicare con cautela, in base a motivazioni scientifiche verificabili e solide legittimazioni giuridiche; e i dati – gestiti in modo opaco e arbitrario, con cambi continui delle variabili in gioco – contano meno del pretesto a cui possono essere piegati. E trovo singolare che quasi nessuno, tra chi si occupa di lavoro intellettuale, abbia la forza di vedere come la messa in disciplina del corpo sociale stia diventando – e certamente non solo in Italia – un problema ben più ampio di quello epidemiologico.

Il secondo peccato capitale, per quanto sta invece alla nostra contingenza politica, è la costante adulazione della maggioranza “giallorossa”, come piace dire ai giornalisti. Di un governo che ha portato il Paese agli ultimi posti in ogni categoria di valutazione, e che allo stato attuale è semplicemente il peggiore del mondo, se combiniamo tra loro i diversi indicatori: tasso di mortalità; letalità del virus; durezza delle misure di contenimento; mesi di chiusura delle scuole; impatto della crisi economica in termini di occupazione e di PIL; ritardo di programmazione per il piano Next Generation. Eppure, sommersa da risultati catastrofici da ogni immaginabile punto di vista, la stampa ha pensato bene di reggere il gioco al Governo, con tanto di celebrazione totalitaria di Giuseppe Conte, paragonato senza senso del ridicolo – in ordine sparso – ad Aldo Moro, Camillo Benso di Cavour, Winston Churchill, François Mitterrand, Giovanni Giolitti, Luigi Sturzo, Angela Merkel [e dal Fatto Quotidiano, pace all’anima nostra, perfino al leggendario Muhammad Alì di Kinshasa]. Osservate ad esempio le fotografie di Conte pubblicate dai quotidiani, o i video di un qualsiasi TG: l’inquadratura dal basso a costruire un’aura napoleonica; gli occhi che guardano lontano, come quelli di chi fissa l’orizzonte con intraprendenza; le immagini apparentemente rubate durante una giornata di lavoro, con l’obiettivo che mette in campo l’angolo della porta socchiusa; la camminata fiera e veloce, palesemente messa in scena per l’occasione. Intendiamoci, si tratta di soluzioni tecnicamente banali, perfino grette, da ufficio stampa di quarta categoria – ma tanto sembra bastare per i giornalisti italiani, che ritengono tutto questo normale.

Il terzo tema è fatalmente correlato al secondo, e riguarda la colpevolizzazione dei cittadini, di cui mi è capitato di scrivere già nella primavera del 2020[3]. Senza mezze misure, e senza eccezioni significative, i media di opinione hanno scelto da subito la loro battaglia: servire il Governo, e scaricare sui singoli la colpa dell’epidemia. Di qui, l’ossessiva ricerca del capro sacrificale: il vicino che porta a spasso il cane; i runner; la movida;  le discoteche; le [presunte] feste clandestine; gli assembramenti di turno. A poco serve, far notare che l’Italia è il paese occidentale che ha imposto le misure più dure; che i dati del Ministero dell’Interno svelano un notevole rispetto delle regole, almeno per i nostri parametri, con una quota di multati mai superiore all’1% dei controllati; che incontrarsi all’aperto comporta rischi risibili; che ben altri sono i luoghi in cui il Covid-19 ha colpito duramente; o che, diciamolo una volta buona, vivere senza socialità e senza contatti fisici è semplicemente impossibile, ed è bene che così sia. Niente da fare: pensate a quante volte avete visto le immagini dello shopping o della cosiddetta “movida” – di norma schiacciate da un uso criminale del tele-obiettivo, per eliminare la profondità di campo – e quante poche volte avete sentito parlare dell’affollamento sugli autobus, delle infezioni contratte in ospedale, delle barbarie ripetute negli ospizi, dell’assenza di un piano epidemiologico, di un’assistenza sanitaria che non migliora mai [quando la cura dei malati, nella bufera di una crisi epidemiologica, è l’unica cosa che conta]. Chiedetevi quante volte avete sentito associare la colpa ai cittadini, e quante volte alla classe dirigente che ha la responsabilità di proteggerli; e anche qui, darvi una risposta non dovrebbe essere troppo complicato.

Assecondando in anticipo un’obiezione possibile, per quanto di scarso mordente: sì, certo, non tutti i giornalisti sono uguali; qualcuno ha mantenuto una linea di decenza; qualcuno ha fatto inchieste interessanti; qualcuno ha tirato fuori i dati reali e i reali problemi, e per questo ha subito la punizione squadrista degli opinionisti di apparato. Ma si tratta appunto di giornalisti, di singoli dotati di buone intenzioni, per lo più di area liberale; nulla che intacchi la linea editoriale delle testate più note, né tanto meno la collusione tra informazione e Governo [qui semmai l’unica eccezione, assai limitata, è data dai quotidiani della destra sociale]. E questo è un problema di drammatica urgenza, perché in nessun paese democratico la stampa prende di petto l’opposizione, anziché il governo; o perseguita sadicamente i cittadini, anziché tenere sotto controllo il potere. Il primo è un vizio tipico dei sistemi illiberali, e il secondo di quelli totalitari: e noi, è tempo di aprire gli occhi sulla realtà, subiamo da mesi sia l’uno che l’altro. E nessuno parla.

E’ infatti vero, bisogna essere onesti, che in questo disastro i giornalisti si trovano in ottima compagnia: ancora più avvilente è anzi il silenzio della classe intellettuale; e il suo tradimento, ben più doloroso. A fronte di una gestione cialtronesca e approssimativa; a fronte di risultati che sarebbero comici, se non contenessero in sé la tragedia della malattia e della morte; a fronte dell’abuso di potere più sistematico; davanti all’ignobile arroganza mostrata dagli uomini dello Stato, che bullizzano la popolazione anziché mettersi al suo servizio – di fronte a tutto questo, praticamente nessuno ha parlato, nel mondo della cultura, dell’arte, dell’opinione progressista, dell’accademia. Nulla di sorprendente, forse, trattandosi di un mondo largamente finanziato dallo Stato, e con vincoli tutt’altro che puerili con l’apparato di potere del Partito Democratico. Donne e uomini sempre pronti alla battaglia, quando si tratta di affrontare un nemico astratto, o localizzato qualche migliaia di chilometri più in là; tutti compiacenti e passivi, da quando gli arresti domiciliari, il coprifuoco e lo Stato di Polizia sono diventati storia di casa nostra.

Tutti in silenzio, ho detto; quasi tutti, è corretto dire, rendendo merito alle eccezioni, a partire dalla più luminosa: Giorgio Agamben[4], un pensatore studiato in tutto il pianeta, e messo serenamente ai margini qui da noi [e che anzi, anche nella Tv di Stato, è stato deriso da opinionisti che in un mondo normale non avrebbero diritto di spolverargli la scrivania]. Prima i giornalisti; poi l’intero campo della cultura; e da buon ultimo – per onestà – parliamo anche dell’ambiente di cui sono parte, la sociologia e la sociologia dei media. Perché a fronte di un tale stato dell’informazione, combattere soltanto le fake news in rete – e, guarda un po’ il caso, sempre quelle che conducono a Trump o a Salvini – smette di essere un atto di conformismo accademico, e rischia di diventare una forma di complicità. Mentre per le donne e gli uomini liberi, se ce ne sono ancora là fuori, è venuto il tempo di alzare la voce.

[1] J. Ioannidis, E. Bendavid, C. Oh, J. Bhattharcaya, Assessing Mandatory Stay-at-home and Business Closure Eeffects on the Spread of Covid-19, 2021, disponibile al sito https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/eci.13484.

[2] La dichiarazione di Great Barrington è disponibile al sito https://gbdeclaration.org/.

[3] A. Miconi, Epidemie e controllo sociale, Roma, manifestolibri, 2020.

[4] G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Macerata, Quodlibet, 2020. Per lo schema teorico su cui si fonda la sua analisi, inopportunamente banalizzata nel discorso pubblico italiano, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.