Ritorno alla lira?

C’è una narrazione che i potenti di oggi cercano di imporre al Paese, e che per ora ha avuto un discreto successo. Più o meno suona così: noi ci siamo presentati davanti all’elettorato promettendo determinate cose, l’elettorato ci ha dato la maggioranza, quindi abbiamo non solo il diritto ma il dovere di fare quel che abbiamo promesso. Non solo: chiunque ci critici, così facendo nega al popolo il sacrosanto diritto di esercitare la sua volontà, liberamente espressa attraverso il voto.

Molto si potrebbe dire sull’idea di democrazia (e di opinione pubblica) implicita in questo ragionamento. Ad esempio che chi ragiona così disprezza la Costituzione, che come ha ricordato il presidente della Repubblica prevede esplicitamente meccanismi di delimitazione e distribuzione del potere, volti ad evitare l’instaurarsi di una “dittatura della maggioranza”.

Ma non è su questo che vorrei attirare l’attenzione. Quel che mi pare interessante domandarci non è se gli attuali governanti si muovano con il dovuto senso dello Stato e il necessario rispetto delle istituzioni, perché chiunque non sia accecato dalle proprie credenze politiche sa perfettamente che la risposta è: NO. Quel che a me sembra degno di discussione è semmai se sia vera, oppure no, la pretesa dei nuovi padroni del potere statale di rappresentare le istanze del popolo che li ha eletti. E’ vero o non è vero quel che sentiamo ripetere fino alla noia, ovvero che la “manovra del popolo” realizza finalmente le promesse?

Per quanto riguarda la promessa principale del Movimento Cinque Stelle, ossia il reddito minimo (impropriamente chiamato “di cittadinanza”), la risposta è: sì, forse fin troppo (10 miliardi). Se partirà senza aver riorganizzato i centri per l’impiego, e non terrà conto del livello dei prezzi, il cosiddetto reddito di cittadinanza di soldi ne distribuirà addirittura più di quelli che servono, almeno in certe aree (quelle in cui il costo della vita è molto sotto la media nazionale). Quindi Di Maio ha tutte le ragioni di essere soddisfatto. Ma per quanto riguarda la promessa principale di Salvini, ovvero la flat tax?

Qui è il disastro. La flat tax doveva costare 50 miliardi, se non di più: la “manovra del popolo”, invece, non introduce alcuna flat tax, e di miliardi non ne stanzia neppure uno (l’aliquota del 15% per le piccole partite Iva produrrà sgravi per 600 milioni, cioè per 0.6 miliardi). Non vorrei essere crudele, ma la realtà è questa: Di Maio porta a casa (al suo popolo, concentrato al Sud) più o meno il 70% del suo impegno più importante, Salvini porta a casa (al suo popolo, concentrato al Nord) circa l’1% del suo impegno più importante. Dopo aver ripetuto in tutte le salse, durante la campagna elettorale, che non ci sarebbero stati problemi di copertura, scopre improvvisamente che quei problemi sono enormi (perché la pace fiscale non manterrà le promesse) e quindi le tasse non si possono ridurre. E non è tutto: se ci prendiamo la briga di ricostruire tutte le voci di bilancio della manovra scopriamo che, rispetto al 2018, gli italiani dovrebbero pagare 19 miliardi di euro di tasse e contributi in più, di cui 8.1 previsti dalla manovra stessa, in quanto necessari per finanziare le nuove spese (reddito di cittadinanza e revisione della legge Fornero).

Quindi, tanto per cominciare, diciamo una cosa: non è vero che c’è un governo che ha ricevuto un mandato elettorale dal popolo, e che sta mantenendo le promesse. Semmai esistono due forze politiche popolari, una molto forte al Sud, l’altra al Nord, di cui la prima sta mantenendo la sua promessa economica principale (reddito di cittadinanza), mentre l’altra ha preferito mettere in stand by la sua (flat tax), forse pensando che – elettoralmente – potesse bastare intestarsi i respingimenti dei barconi e l’affondamento della Fornero.

C’è un altro motivo, ben più importante, per cui l’idea che questo sia il governo del popolo, che agisce in nome e nell’interesse del popolo stesso, mi lascia alquanto perplesso. Non mi riferisco qui al fatto che, secondo molti osservatori, saranno i ceti popolari e i giovani a pagare le conseguenze più nefaste della manovra del popolo. Questo è molto verosimile, ma lo dirà solo il tempo. Il punto che mi lascia perplesso è che questo governo non sta facendo nulla per ridurre il rischio di una crisi finanziaria, il cui esito potrebbe essere la nostra uscita dall’euro e il ritorno alla lira. E dicendo “non sta facendo nulla” uso un eufemismo, perché la realtà è che sta facendo di tutto per aumentare la tensione, quasi che cercasse l’incidente.

Ebbene, io penso che sia giunto il tempo di dire in modo netto e chiaro almeno tre cose. Primo, una larghissima e crescente maggioranza degli italiani (7 a 3, secondo un sondaggio Ipsos di pochi giorni fa), certamente molto più ampia di quella che ha votato Lega e Cinque Stelle, non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro: da questo cruciale punto di vista l’attuale governo è profondamente anti-popolare. Secondo, l’eventualità di una crisi finanziaria drammatica, che sfoci in un ritorno alla lira non è remota come pare ai più: una stima recente, basata sul prezzo dei Cds, assegna 24 probabilità su 100 all’eventualità di una “Italexit”. Terzo, se all’incidente si arrivasse, tutto si potrebbe dire tranne una cosa: che il nostro governo abbia fatto tutto il possibile per evitarlo.

E’ questo che è poco accettabile: continuare a dire che si vuole restare nell’euro, ma comportarsi come se si desiderasse arrivare all’incidente che ci costringerebbe ad uscirne.

Sarebbe il colmo: infliggere alla maggioranza degli italiani quel che non vogliono (il ritorno alla lira) e arrivarci in nome del popolo sovrano.




Una manovra coraggiosa?

A proposito della “manovra del popolo”

Il presidente del Consiglio ha definito “coraggiosa” la manovra del suo governo, che rifiuta di ridurre il deficit pubblico e anzi pianifica di mantenerlo per tre anni al 2.4% del Pil. I critici del governo giallo-verde, per parte loro, vedono nella manovra una sorta di svolta epocale, una specie di contro-riforma che capovolge la linea di prudenza adottata dai governi che lo hanno preceduto (Renzi e Gentiloni).

Mi permetto di dissentire radicalmente con entrambi. No, si possono scegliere mille aggettivi per definire questa manovra, ma “coraggiosa” no, quello non è l’aggettivo giusto. Nella lingua italiana un comportamento è coraggioso se comporta l’assunzione di un rischio per chi lo mette in atto, e solo per chi lo mette in atto. Se ti butti in un fiume in piena per salvare un bambino che sta annegando, stai compiendo un atto coraggioso. Ma se induci un tuo amico a fare un investimento che potrebbe anche fargli perdere metà del suo patrimonio, e magari pretendi anche una provvigione per i consigli che gli dai, non ti stai comportando in modo coraggioso, ma semmai in modo opportunista e irresponsabile.

Ora, comunque la si pensi sulla “manovra del popolo”, l’aggettivo giusto non è certo coraggioso. Non pretendo di stabilire quale sia l’aggettivo giusto, perché questo dipende dal giudizio che diamo sulle intenzioni dei nostri governanti e sulle conseguenze delle loro azioni. Ma la gamma degli aggettivi è tutta un’altra: “audace”, se pensiamo che anche loro corrano qualche rischio, “imprudente” se pensiamo che tutti corriamo dei rischi, “miope” se pensiamo che le conseguenze di lungo periodo siano negative per l’Italia, “suicida” se pensiamo che porterà (solo) alla caduta del governo, “incosciente” se pensiamo che porterà anche alla nostra rovina, “avventurista” se pensiamo che porterà alla catastrofe del Paese ma che “loro” troveranno il modo di salvarsi.

Ecco perché parlare di coraggio è del tutto fuori luogo. Coraggioso è un governo che, per il bene del Paese, mette in atto misure impopolari, e perciò corre, consapevolmente, il rischio di perdere il consenso. Una misura popolare, giusta o sbagliata che sia, non richiede alcun coraggio, perché il consenso lo alimenta. Ecco perché della “manovra del popolo” tutto si può dire, tranne che sia coraggiosa.

Detto questo, possiamo almeno ammettere che la manovra, giusta o sbagliata che sia, audace o incosciente, sia comunque una svolta radicale rispetto a quelle attuate dai passati governi?

Prima di provare a rispondere a questa domanda, vorrei far notare una cosa: la tesi della svolta epocale accomuna i critici più feroci e i difensori più accaniti dell’attuale governo. I critici considerano saggi e gloriosi gli anni dei governi Pd, i difensori del governo (specie i Cinque Stelle) non perdono occasione per dire che siamo entrati nella Terza Repubblica, e che ora – finalmente – tutto cambierà. In poche parole: il giudizio sul passato è opposto, ma l’idea di una rottura radicale con esso è perfettamente condivisa.

E’ su questa analisi comune che vorrei sollevare qualche dubbio. Io vedo tanta, tanta continuità con il passato, sia con quello recente sia con quello remoto. E mi conforta di non essere il solo a notarlo. Come non essere d’accordo, ad esempio, con Giorgia Meloni quando nota che, più che traghettarci nella terza Repubblica, Di Maio sta riesumando le peggiori pratiche della prima, quella dei Fanfani e dei Cirino Pomicino? E’ allora che la politica imparò a comprare il consenso con misure assistenziali (ricordate le baby pensioni? le false pensioni di invalidità?) che fecero esplodere il debito pubblico che ora soffoca l’economia e limita i margini di manovra della politica stessa. Ma non è solo il passato più remoto che ritorna. L’economista Roberto Perotti, per qualche tempo collaboratore del governo Renzi, ha ricordato che nei gloriosi anni del Pd (2013-2017) il disavanzo è sempre stato maggiore di quello programmato, e comunque superiore al 2.4% che ora tanto ci preoccupa. Altri hanno giustamente fatto notare che fu Renzi, appena un anno fa, a proporre di mantenere il disavanzo al 2.9% per ben 5 anni, contro il 2.4% (per 3 anni) dell’attuale governo.

Ma c’è molto di più e molto ancora. Si pensa giustamente che la fretta di Di Maio sul cosiddetto reddito di cittadinanza sia dettata dall’approssimarsi delle elezioni europee (maggio 2019), cui vuole arrivare con una misura-simbolo già in vigore, pur sapendo benissimo che quella misura non potrà che risolversi in pura assistenza finché i centri per l’impiego non saranno stati riformati, e la crescita non avrà acquistato vigore. Ma che cosa c’è di diverso rispetto agli 80 euro di Renzi, anche allora presentati come sostegno alla domanda, ma in realtà concepiti essenzialmente per vincere alle elezioni europee?

E la cosiddetta pace fiscale? Che cos’altro nasconde dietro l’eufemismo “pace” se non l’ennesimo condono, la solita sanatoria, di nuovo in perfetta continuità con la prima e la seconda Repubblica?

Per non parlare dell’orientamento generale della politica economica. Ci viene presentato come un cambio di rotta rispetto all’austerità che avremmo infruttuosamente praticato in questi anni. Ma la realtà è che in questa legislatura, lo ha ricordato più volte l’economista Veronica De Romanis, l’orientamento della politica economica è sempre stata espansivo, non restrittivo. Ancora una volta, la differenza con il passato è solo che, di una medicina che non ha funzionato (siamo tuttora ultimi in Europa per crescita del Pil), ora si prova ad aumentare la dose, anziché cambiare la medicina stessa. So che ricordarlo suscita incredulità (e qualche malumore), ma la realtà è che di austerità l’Italia ha fatto esperienza solo sotto il governo Monti, e l’austerità “buona” – quella che aggiusta i bilanci pubblici riducendo la spesa e tagliando le tasse – semplicemente non l’ha mai sperimentata, né con Berlusconi, né con Monti, né con Letta-Renzi-Gentiloni.

Ecco perché l’opposizione a questo governo è impotente, o addirittura si capovolge in consenso (è il caso della sinistra radicale, da sempre fautrice della spesa in deficit). La ragione è semplicemente che non c’è una differenza qualitativa vera con i governi precedenti, ma solo una differenza di grado, un “salto di imprudenza” mi verrebbe da chiamarlo, perché la medesima politica di prima ci viene somministrata in dosi più massicce, e quindi più rischiose.

Con questo non intendo dire che la politica economico-sociale di questo governo ci porterà necessariamente al disastro, o addirittura a uscire dall’euro. Questo non può saperlo nessuno, e l’opposizione che se ne proclama certa dà solo prova di isteria e di disfattismo. Quel che voglio dire è semplicemente che il cocktail che ci stanno somministrando è pericoloso, molto pericoloso. Non tanto perché il deficit programmato è al 2.4%, ovvero al medesimo livello degli ultimi anni. Ma perché quel deficit si accompagna a due ingredienti altamente infiammabili, se mi si consente l’immagine: una manovra sbilanciata dal lato della spesa, un drammatico deficit di credibilità, aggravato dall’umiliazione inflitta al ministro dell’Economia, uno dei pochi che un po’ di credibilità ce l’aveva.

Per questo, tutto possiamo pensare di questo governo, persino che le cose alla fine andranno bene (dopotutto nessuno ha la palla di vetro), ma su una cosa sarebbe meglio non autoingannarci: ci sono già stati parecchi danni per il bilancio pubblico, per i risparmiatori, per le imprese, e nulla assicura che non ve ne saranno altri, anche molto più gravi, quando dovessero aumentare le rate dei mutui e le banche stringessero i cordoni del credito. Insomma la “manovra del popolo” apre molte speranze, forse anche qualche opportunità reale, ma carica sul popolo stesso una notevole dose di incertezza e di rischio.

Questo è il motivo per cui possiamo chiamarla come vogliamo, ma non coraggiosa. Almeno finché continuiamo a pensare, con il dizionario della lingua italiana, che coraggioso è chi mette in pericolo sé stesso a beneficio degli altri, non chi il rischio lo fa correre a un intero paese e si comporta come se il rischio fosse zero. Proprio come, ironia della sorte, facevano le (giustamente) vituperate banche fallite, che vendevano obbligazioni ad alto rendimento senza avvertire i risparmiatori dei rischi che si assumevano.

 




Immigrazione e decreto dignità, intervista a Luca Ricolfi

Domanda. Il governo giallo-verde ha mosso i primi passi. Tra proclami fatti e provvedimenti adottati, si connota come governo di destra o di sinistra?

Risposta. Entrambe le cose, con una specificazione però: della destra e della sinistra prende le componenti più populiste e anti-moderne. A Salvini il respingimento degli immigrati pare interessare più della flat tax, a Di Maio l’irrigidimento del mercato del lavoro pare interessare di più che la riforma dei centri per l’impiego. Non a caso il Decreto Dignità piace a LeU, e viene criticato solo perché non è ancora abbastanza di sinistra: ma è la sinistra nostalgica, che crede che rimettendo l’articolo 18 il mondo si raddrizzi.

D. Lei sostiene che alle origini dell’accresciuto senso di insicurezza degli italiani non c’è solo la campagna della Lega contro lo straniero. Può spiegarsi meglio?

R. Prima di accusare il popolo di non conoscere “le vere cifre” dell’immigrazione in Italia invito a riflettere sulle cifre degli sbarchi.

D. Quali sono?

R. Sotto i governi di centro-sinistra gli sbarchi sono circa quintuplicati: fatto 100 il flusso prima delle cosiddette primavere arabe (periodo 1997-2010), nel periodo 2011-2016 il flusso era salito a 450 circa. Poi è arrivato Marco Minniti, ministro dell’interno con Gentiloni, che i flussi li ha più che dimezzati, portandoli a 214. Ma si trattava pur sempre di un livello più che doppio rispetto a quello storico, che già suscitava inquietudini nei cittadini italiani.

D. E il governo Conte?

R. L’attuale governo a giugno ha ulteriormente dimezzati gli sbarchi, portandoli a quota 100, esattamente il livello anteriore al 2011. E nei primi 17 giorni di luglio il flusso è sceso più o meno a livello 75, ossia più in basso del livello storico.

D. Lei sta dicendo che il senso di paura non è più motivato?

R. All’origine delle paure ci sono elementi oggettivi: l’aumento degli sbarchi, l’impossibilità di rimpatriare chi non ha diritto, la conseguente crescita di un esercito di immigrati irregolari, di cui solo una parte si sposta in altri paesi europei. C’è poi da considerare un altro fattore: la domanda di sicurezza, che non è alimentata solo dagli imprenditori della paura, ma – molto banalmente – dalla pubblicità, sia quella commerciale, sia quella “progresso”.

D. In che modo la comunicazione incide sulle paure?

R. Da almeno vent’anni siamo ossessionati dai pericoli che correremmo negli ambiti più diversi, da quando ci laviamo i denti a quando saliamo su un’automobile. Le parole «sicuro», «sicurezza», «protezione», «rischio», «pericolo» e i loro sinonimi spadroneggiano sugli schermi dei nostri televisori, e non solo negli intervalli pubblicitari.

D. Insomma, la sicurezza è un must, al di là della Lega e di Salvini…

R. Quello che voglio dire è che nessuno si stupisce che la gente pretenda più sicurezza sul lavoro o in strada, ma molti si stupiscono che voglia più sicurezza in materia di immigrazione. Eppure la logica è la stessa: gli standard di sicurezza dei cittadini occidentali si sono enormemente alzati negli ultimi decenni, ma lo hanno fatto un po’ in tutti gli ambiti, al punto che l’ultima generazione – cresciuta a pane, internet e genitori iperprotettivi – è considerata patologicamente insicura da molti psicologi. Sul punto consiglierei di leggere Iperconnessi di Jean Twenge, edito da Einaudi.

D. E qual è la differenza allora?

R. La differenza è questa: se la domanda di protezione riguarda criminalità e immigrazione si accusano gli «imprenditori della paura», ma se la domanda di protezione riguarda le donne (stalking) o gli incidenti in fabbrica, a nessuno viene in mente di accusare la Boldrini o la Camusso di essere «imprenditrici della paura». C’è qualcosa che non va, sul piano logico.

D. Quali sono gli errori compiuti dalla sinistra e dagli ultimi governi su immigrazione e legalità?

R. Aver continuato, con i suoi uomini più lucidi, a proclamare che il tema della sicurezza è anche di sinistra, salvo comportarsi come se fosse solo di destra. Sull’immigrazione e gli sbarchi la sinistra, con pochissime eccezioni, è stata sempre e semplicemente negazionista. Un atteggiamento di una miopia incredibile, che mostra quanto nel mondo progressista l’ideologia prevalga ancora sul senso comune.

D. Intanto la cronaca racconta di una migrante salvata da una Ong dopo che da 48 ore era aggrappata a un barcone alla deriva, un’altra donna e un bambino sono stati ritrovati morti. Ed è polemica contro il Viminale e gli accordi presi con i libici. Il pugno duro di Salvini sugli sbarchi potrebbe diventare un boomerang in termini di consenso per la Lega?

R. Non credo, la gente accetta qualsiasi cosa purché gli sbarchi finiscano. Ma questo dovrebbe preoccuparci, perché fermare gli sbarchi non può essere la soluzione di tutto.

D. Perché non potrebbe essere la soluzione?

R. Per almeno tre motivi. Il primo è che non possiamo chiudere gli occhi sulle condizioni di detenzione e di rimpatrio di chi prova a lasciare le coste della Libia. E questo non tanto perché i governi libici sono corrotti e si macchiano di crimini orrendi, decine di altri governi fanno la stessa cosa, ma perché finché noi supportiamo i libici con soldi, mezzi e contratti (L’Eni è in Libia), non possiamo chiamarci fuori. Trovo stupefacente che nessun governo italiano, di qualsiasi colore esso fosse, abbia mai condizionato gli aiuti alla Libia a rigorose condizioni sul rispetto dei diritti umani nei campi profughi, nonché a controlli severi sull’uso degli aiuti stessi.

D. Il secondo motivo?

R. Il problema più grande non sono i flussi annui di 10, 100 o 200 mila sbarchi, ma i 500, 600 o 700 mila immigrati irregolari che circolano in Italia, e che nessuno sa come gestire. Infine, il terzo motivo per cui azzerare gli sbarchi non è la soluzione è che noi comunque di un flusso di migranti, regolare e regolato, abbiamo comunque bisogno. E non bastano certo i complicati meccanismi dei decreti flussi ad assicurarlo.

D. In questi giorni si è consumato uno scontro assai accesso tra il ministro del lavoro, Luigi Di Maio, e il presidente Inps Tito Boeri circa gli effetti del Decreto Dignità: 8 mila posti in meno l’anno, stima l’Inps. Per Di Maio, Boeri così fa politica e dovrebbe dimettersi. Che ne pensa?

R. Indubbiamente Boeri fa politica, le sue posizioni su vitalizi, pensioni e ruolo economico dei migranti non sono asettiche. In certe circostanze, anzi, Boeri ha fatto sponda con Di Maio o viceversa. Ma sul punto degli effetti del decreto dignità Boeri ha pienamente ragione, e Di Maio ha torto marcio.

D. Perché?

R. Lo spiego subito, i numeri dell’Inps, sottoscritti dalla Ragioneria dello Stato, non hanno nulla di politico, sono un mero esercizio contabile, peraltro obbligatorio quando si vara un decreto che ha effetti sul gettito e sulla spesa. Non li si può contestare dicendo che non c’è base scientifica, ma solo proponendo altri numeri, argomentati in modo più convincente. Io li ho esaminati.

D. E che cosa emerge dalla sua analisi?

R. Mi sono formato l’opinione che sì, i numeri di Boeri, ovviamente, non sono indiscutibili, ma non perché i posti di lavoro perduti potrebbero essere meno di 8 mila, ma perché, molto più verosimilmente, potrebbero essere di più. Anche parecchi di più. Insomma, secondo me Boeri è stato fin troppo cauto o, se vogliamo a tutti i costi buttarla in politica, è stato fin troppo filo-governativo.

D. Sul decreto si stanno registrando anche le prime crepe tra Lega e M5s, tra le ragioni delle imprese e quelle del lavoro…la contrapposizione è destinata a sanarsi oppure ad esplodere a breve?

R. È probabile che l’alleanza si romperà, ma non per i contrasti interni. Se ambedue i partner avessero voglia di governare per 5 anni, un compromesso lo troverebbero senza difficoltà. Il problema è che uno dei due, Salvini presumibilmente, a un certo punto si convincerà che gli conviene tornare al voto, e che quello è il momento buono. A quel punto non ci sarà accordo, contratto o compromesso che possa evitare la crisi.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 19 luglio 2018



Parole di nebbia

Sul piano dei contenuti, questo governo non somiglia granché a nessun governo del passato. I governi del passato, infatti, o guardavano a sinistra, o guardavano a destra, o si barcamenavano fra destra e sinistra, alla ricerca di un compromesso, di un punto di equilibrio. Ora no: a giudicare dai programmi e dai primi atti questo governo cerca di essere, al tempo stesso, molto di destra e molto di sinistra, a settimane alterne. Ora un colpo inferto ai migranti (blocco dei porti alle Ong), ora un colpo inferto alle imprese (decreto dignità). In attesa del colpo definitivo, quello ai conti dello Stato (flat tax e reddito di cittadinanza).

Se sul piano dei contenuti tutto è cambiato, sul piano del metodo, dello stile di governo, dei modi di comunicazione, la continuità con il passato è perfetta. Come i governi che l’hanno preceduto, anche l’esecutivo Conte non esita ad abusare dello strumento del decreto legge, contando sul fatto che la prassi ormai è quella, e nessuno può impedire a un governo di fare ciò che è sempre stato concesso ai governi precedenti. Il cosiddetto “decreto dignità”, ad esempio, viola due principi fondamentali, l’uno stabilito dalla Costituzione, l’altro dalla legge 400 del 1988. Secondo il primo lo strumento del decreto può essere utilizzato solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Quanto al secondo, la legge stabilisce che “i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. Basta dare una scorsa all’accozzaglia di materie di cui si occupano i 15 articoli del cosiddetto decreto dignità per rendersi conto che il loro contenuto non è omogeneo, e che per nessuna di esse sussistono condizioni di necessità e urgenza, tantomeno di “straordinaria” necessità e urgenza (a meno di considerare straordinariamente necessaria e urgente l’esigenza di Di Maio di recuperare consenso e togliere spazio a Salvini).

Quel che più mi colpisce, però, non è la somiglianza con il passato nell’abuso dei decreti legge; quel che mi colpisce è l’abuso manipolatorio delle parole, accuratamente scelte per indorare la pillola che viene somministrata ai cittadini, nascondendo la sostanza di cui è fatta. Faccio tre esempi.

Pensioni d’oro. Nell’immaginario collettivo una pensione d’oro è una pensione di importo altissimo, non giustificata dal lavoro e dai meriti del beneficiario, tipicamente percepita da un membro della “casta”. Nelle dichiarazioni dei Cinque Stelle, e nel discorso di insediamento del presidente Conte, il concetto è stato esteso a chiunque percepisca una pensione alta con una componente retributiva. Ma alta quanto? Ancora a giugno Di Maio e Conte assicuravano che il taglio dei compensi avrebbe riguardato solo le pensioni sopra i 5000 euro netti. Poi, qualche settimana fa si è cominciato a parlare di 4-5000 euro, senza specificare se netti o lordi. Negli ultimi giorni la soglia è scesa a 4000 euro. Così un provvedimento, più o meno condivisibile, che colpisce (retroattivamente) i ceti medio-alti, viene presentato come sacrosanto intervento contro gli ingiustificati e intollerabili privilegi della “casta”.

Decreto dignità. Se si vara un decreto “a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese” ci si aspetta che esso intervenga con urgenza per impedire violazioni della dignità di questi due soggetti. Ma se mi si parla di “dignità”, e per di più si aggiunge che l’intervento ha carattere di “straordinaria necessità e urgenza”, a me vengono in mente fenomeni come la richiesta del pizzo (che offende la dignità delle imprese), e il caporalato nelle campagne (che offende la dignità dei lavoratori). In questo secondo caso, data la stagione estiva, sussisterebbe anche il requisito di urgenza. Pensate che bello: dopo anni in cui tutti i governi hanno preferito chiudere un occhio, il governo giallo-verde decide di stroncare il caporalato, ispezionare i campi e le baraccopoli, garantire ai lavoratori (spesso immigrati dall’Africa, quasi sempre privi di contratto) condizioni di lavoro e di salario umane. E invece no: se andate a leggere il decreto dignità, in mezzo a un guazzabuglio di norme che con il lavoro nulla hanno a che fare, quel che trovate sono soprattutto norme che rendono un po’ più difficile e costoso per le imprese attivare alcuni tipi di contratto perfettamente regolari, e che certo non offendono la dignità del lavoratore.

Reddito di cittadinanza. Non sappiamo ancora che forma prenderà il reddito di cittadinanza, se e quando verrà varato. Ma già sappiamo, perché esistono progetti e disegni di legge, che non sarà un reddito di cittadinanza, ma una normalissima misura di reddito minimo per le famiglie povere. Per reddito di cittadinanza si intende un reddito dato a ogni individuo (anche ai ricchi) senza alcuna condizione. Per reddito minimo si intende un reddito dato esclusivamente alle famiglie povere, sotto condizioni stringenti: ricerca attiva di un lavoro, corsi di formazione, prestazioni di lavoro gratuite, disponibilità ad accettare offerte di lavoro. Le proposte dei Cinque stelle sono proposte di reddito minimo, camuffate da reddito di cittadinanza. La loro filosofia è molto simile a quella del reddito di inclusione varato dal Pd, con due sole differenze: tante nuove assunzioni nei centri per l’impiego, molti più soldi (se troveranno le coperture) ai beneficiari. Ed è curioso che il Pd continui a dire che reddito di cittadinanza significa “dare i soldi alla gente perché non lavori”, anziché andare a vedere che cosa effettivamente c’è scritto nei progetti del Movimento Cinque Stelle.

A che serve chiamare reddito di cittadinanza quello che ovunque, in Europa e nella letteratura scientifica, si chiama reddito minimo?

Dal punto di vista del Pd serve a differenziare il Pd stesso dai Cinque Stelle (noi vogliamo creare posti di lavoro, voi volete tenere la gente a casa). Dal punto di vista dei Cinque stelle serve a nascondere la sostanza economica della loro proposta, che peraltro è la medesima del reddito di inclusione del Pd: sussidiare il Mezzogiorno. Chiamandolo “reddito di cittadinanza” se ne sottolinea il carattere universalistico, di provvedimento equo in quanto rivolto a tutti i cittadini. Eppure i dati dicono chiaramente che, a parità di condizione economica, la possibilità di beneficiare di misure come il reddito di inclusione o il cosiddetto reddito di cittadinanza, sarà sensibilmente maggiore per un cittadino del Sud che per uno del Nord e, a parità di zona geografica, per un abitante di un piccolo comune che per uno di una grande città.

La ragione è assai semplice: nonostante il livello dei prezzi sia diversissimo da Nord a Sud, nonché fra grandi e piccoli centri, la soglia di accesso è definita in termini nominali anziché in termini reali. Così può accadere che, a parità di potere di acquisto, due famiglie siano l’una inclusa e l’altra esclusa solo a causa del luogo in cui risiedono (zona del paese, ma anche comune grande o piccolo). E infatti, secondo gli ultimi dati disponibili, il Nord ha il 37% dei poveri assoluti ma solo il 18% dei beneficiari (in gran parte immigrati). Il Centro ha il 15% dei poveri, ma solo il 12% dei beneficiari. Il Sud ha il 48% dei poveri ma il 70% dei beneficiari. Questo tipo di iniquità territoriale è il difetto comune di tutte le misure di sostegno delle famiglie povere, dalla social card di Tremonti al Sia di Letta, dal Rei di Renzi al cosiddetto reddito di cittadinanza di Di Maio (l’unica proposta che non ha questo difetto è il minimo vitale dell’Istituto Bruno Leoni, ovviamente ignorato dalla politica). Ed è anche uno dei più grandi errori delle politiche di sostegno alle zone svantaggiate del passato, che troppo spesso hanno preferito elargire sussidi impropri e dunque iniqui (qualcuno ricorda le false pensioni di invalidità?) piuttosto che fare investimenti e creare posti di lavoro.

Dunque: si parla di pensioni d’oro per non riconoscere che si tagliano le pensioni alte, si parla di dignità per non dire che si irrigidisce (un pochino) il mercato del lavoro, si parla di cittadinanza per nascondere i clamorosi squilibri nell’accesso al sussidio. Non è una novità: già nel 1981, parlando della comunicazione pubblica, Natalia Ginzburg denunciava con sgomento: “il fine è dare della nebbia, e ottenere, con la nebbia, rispetto e venerazione”. Sono passati quasi 40 anni, ma siamo sempre lì: le parole della politica sono solo nebbia che circonda le cose, le indora, o semplicemente le traveste, le maschera, le camuffa. Parole che, in ogni caso, non dicono la verità.