Il neonato in agonia

Di elezioni ne ricordo tante (la prima è quella del 1963: avevo 13 anni), e di governi italiani ne ho visti all’opera tantissimi, più o meno una cinquantina. Però un governo come questo non l’avevo mai visto. Non voglio dire che questo sia il peggior governo che l’Italia abbia mai avuto, questa è una questione di punti di vista (personalmente credo di averne visti di peggiori).

No, quello che voglio dire è che non ricordo sia mai successo, negli ultimi 50 anni, quel che sta accadendo ora, e cioè che un governo appena nato venga già, dopo pochissime settimane, dipinto come agonizzante non già dai suoi avversari (naturalmente inclini a confondere realtà e sogni), ma dai suoi stessi sostenitori, a partire dall’establishment mediatico progressista.

Governo confuso, litigioso, senz’anima sono i giudizi meno malevoli che si leggono in questi giorni. Come è stato possibile? Che cosa ha fatto sì che i salvatori della patria, che ci avevano evitato l’aumento dell’Iva e la calata degli Hyksos leghisti, si trasformassero – agli occhi di tanti commentatori – in un manipolo di inetti politicanti incapaci di fornire una guida e una speranza al Paese?

Una risposta, naturalmente, è che il racconto drammatizzante secondo cui saremmo stati destinati alla catastrofe ove il capo degli Hyksos avesse espugnato la cittadella della democrazia era, per l’appunto, nient’altro che un racconto. E per di più un racconto creduto da pochi. Se fossimo così convinti che il governo giallo-rosso ci ha evitato una catastrofe, e che tale catastrofe sia tuttora possibile, digeriremmo tutto senza andare tanto per il sottile, grati al governo per la sua mera esistenza, che ci protegge dal peggio incombente. E invece no: nessuno digerisce, il governo non piace nemmeno a chi lo ha fortemente voluto.

Ma il fatto che ben pochi abbiano realmente creduto al racconto con cui cercavano di spaventarci non è l’unico motivo per cui il governo riceve oggi solo critiche. A questa ragione di fondo se ne affianca almeno un’altra, che riguarda il tipo di alleanza che i quattro partiti che lo compongono hanno dato vita. Questa alleanza, nata con l’illusione (di alcuni) di segnare una discontinuità e l’ambizione di offrire agli elettori una sintesi che non riproducesse la formula fallimentare del “contratto”, ha invece riproposto precisamente quella logica. Una logica che si è ripresentata nel modo più evidente nella Legge di bilancio perché i contraenti, anziché elaborare una proposta di politica economica unitaria e coerente, hanno preferito “portare a casa” ciascuno il proprio specifico trofeo: intangibilità dell’Iva (Renzi), cuneo fiscale (Zingaretti), abolizione superticket (Speranza), cui vanno aggiunti i numerosi trofei di Di Maio, dal mantenimento di tutto il pregresso (quota 100 e reddito di cittadinanza) fino alla sciagurata soppressione dello scudo fiscale sugli amministratori della ex Ilva di Taranto.

Quella logica, però, non sarebbe stata così dannosa, e autolesionistica, se le quattro sinistre non avessero fatto anche due scelte ulteriori: quella di non mettere solennemente ed esplicitamente davanti agli elettori i termini del contratto (come invece avevano fatto Lega e Cinque Stelle), e quella di rinegoziare continuamente fra loro tali termini, con procedure opache e completamente sottratte a un vero e leale dibattito politico.

Il tutto aggravato da una circostanza ulteriore: l’ossessiva attenzione agli appuntamenti elettorali locali, che ha condotto alle più pirotecniche giravolte, dai migranti tenuti in mare 11 giorni per non disturbare le elezioni in Umbria, alla penosa marcia indietro sulla plastic tax, per non compromettere il risultato elettorale in Emilia Romagna.

Il risultato di tutto ciò è disastroso innanzitutto per la sinistra. Un candidato come il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, che si è meritato sul campo il rispetto dell’elettorato di centro-destra, rischia di perdere le elezioni non per i propri demeriti ma per quelli del governo nazionale. Che danneggia il candidato governatore non solo con la plastic tax e l’orientamento complessivo anti-imprese della manovra, ma con il mero fatto di essersi imposto con una manovra di Palazzo. Non si può escludere, infatti, che l’ostinato rifiuto di andare ad elezioni politiche convinca molti elettori incerti a votare la candidata della Lega solo per punire il governo nazionale, a dispetto di quel che pensano del candidato del Pd.

Se fossi Bonaccini, scongiurerei gli esponenti del governo e dei partiti che lo sostengono di non mettere piede in Emilia Romagna fino alla notte del 26 gennaio, quando sarà stato chiuso l’ultimo seggio.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 novembre 2019



La destra della sinistra

Sono stati in molti, soprattutto a destra, ad affermare che il governo giallo-rosso è il governo “più di sinistra” che l’Italia abbia mai avuto. Questo giudizio non è privo di una sua plausibilità, se riflettiamo sul fatto che, oltre al Pd, nel governo sono presenti l’estrema sinistra di Leu e il Movimento Cinque Stelle, che alcuni vedono come una sinistra più pura, più radicale, meno compromessa con il potere. In effetti ci sono temi su cui Leu e il Movimento Cinque Stelle hanno posizioni più radicali (più di sinistra?) del Pd, ad esempio in materia di giustizia (i Cinque Stelle sono più giustizialisti) e di assistenza (la spesa per il reddito di cittadinanza è un multiplo di quella per il reddito di inclusione). Quanto al presidente del consiglio Giuseppe Conte, la sua dichiarazione di guerra all’evasione, con relativo patto degli italiani onesti contro quelli disonesti, non può non richiamare l’elogio delle tasse che così spesso è risuonato a sinistra, tanto ai tempi di Vincenzo Visco (che da destra veniva gentilmente dipinto come il “vampiro rosso”), quanto a quelli di Padoa Schioppa (sua l’affermazione secondo cui le tasse “sono una cosa bellissima”).

E tuttavia, a ben pensarci, la tesi che questo governo sia “di sinistrissima” non è poi così fondata. Io direi, piuttosto, che questo governo è sì un governo di sinistra, ma ha al suo interno due bombe a orologeria di destra, che prima o poi potrebbero portarlo a deflagrare.

Pensate a Renzi?

Sì, una è Italia Viva, il partito di Renzi. Sul tetto al contante, su quota 100, e più in generale sull’introduzione di nuove tasse, Italia Viva è più vicina all’opposizione di destra che agli alleati di governo (in particolare i post-comunisti di Pd e Leu). Questo non significa che Renzi sia “di destra”, come amano affermare i suoi detrattori di sinistra, ma mostra che la sinistra che ha in mente Renzi ha poco a che fare con quella del partito da cui proviene.

Ma la vera bomba a orologeria non è quella di Renzi, bensì quella di Di Maio. Non si può ignorare, infatti, che nel Movimento Cinque Stelle è presente anche una corposa componente di destra, o comunque ostile alla sinistra, e in particolare al Pd. Sui migranti, ad esempio, una parte considerevole degli elettori Cinque Stelle sono più vicini alla linea dura di Salvini che all’ideologia dell’accoglienza cara alla sinistra doc.

Quanto alle tasse, il minimo che si possa dire è che le “sensibilità” dentro il Movimento sono parecchio variegate. Il partito di Di Maio, da sempre, ha un occhio di riguardo per le partite Iva e per le piccole imprese. E ora che l’incauto Conte annuncia una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, ai dirigenti Cinque Stelle non può non sovvenire che il grosso dei loro voti provengono dal Mezzogiorno, ossia dalle regioni con la più alta propensione all’evasione. Una propensione che è difficile mettere tutta in carico ai ricchi, alle grandi imprese e alle multinazionali, visto che – al Sudo come al Nord – la si vede quotidianamente, e ad occhio nudo, per le strade, nei negozi, nei mercati, nei cantieri, nei campi, dove coinvolge anche tante persone normali o povere, compresi disoccupati che lavorano in nero e occupati con il doppio lavoro.

Ed eccoci al punto. Questo sarà pure un governo di sinistra, ma le due bombe a orologeria Renzi e Di Maio potrebbero anche, prima o poi, farlo esplodere, o perlomeno provocare qualche terremoto interno.

Quando?

Credo che molto dipenderà da come andranno le molte elezioni regionali in vista, a partire da quella di domani in Umbria. Perché è vero che, se c’è la volontà di restare al potere fino all’elezione del Presidente della Repubblica (2022), non c’è risultato elettorale locale, per quanto eclatante, che possa convincere chi siede in parlamento ad affrontare anticipatamente la sfida elettorale. Ma è anche vero che, se l’elettorato Cinque Stelle, cui fino a ieri il Pd è stato presentato come l’impero del male, mostrasse di non gradire la nuova alleanza, difficilmente potrebbero non esservi conseguenze.

Ecco perché, nonostante gli elettori chiamati al voto non siano molti (circa 700 mila), il test umbro potrebbe risultare cruciale non solo per gli umbri, ma per il futuro del governo nazionale.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 ottobre 2019



Il taglio dei parlamentari è solo populismo?

I sondaggi più recenti ci informano che quasi il 90% degli italiani giudica favorevolmente il taglio dei parlamentari. Dunque, praticamente tutti gli elettori stanno dalla parte della riforma recentemente votata alla Camera ed al Senato; una riforma che è stata tentata per diversi decenni da tutti i governi, o le bicamerali, che si sono succeduti nel corso del tempo, a cominciare dal 1963 per finire con la riforma costituzionale proposta da Renzi, senza mai riuscirci per un motivo o per un altro. E’ curioso ricordare che la limatura approvata lunedì scorso è esattamente quella proposta dalla bicamerale guidata da Nilde Iotti e Ciriaco De Mita nel 1994, sull’onda di Tangentopoli.

Ma come si era arrivati a questo numero di 945 parlamentari (630 alla Camera e 315 al Senato, escludendo i senatori a vita) ed esiste un numero “giusto”? Il percorso, per limitarci all’Italia repubblicana, è molto semplice: la Costituzione del 1948 aveva stabilito che il numero di deputati fosse pari a 1 ogni 80mila abitanti e quello dei senatori a 1 ogni 200mila; era dunque variabile, ed aumentava con l’incremento della popolazione. Nel 1948, ad esempio, furono eletti 574 deputati e 237 senatori, mentre dieci anni dopo furono rispettivamente una ventina e una decina di più, 596 e 246. La riforma costituzionale del 1963 abolì questa variabilità, stabilendo infine la numerosità del Parlamento attuale.

Troppi? Troppo pochi? Impossibile ovviamente dare una risposta a questa domanda. Resta il fatto che l’Italia è il paese che, con quasi un migliaio, detiene oggi il record del maggior numero di parlamentari al mondo di origine elettiva, fatta eccezione della Cina che ne ha circa 3000, ma quello è certo un mondo a parte. Con la riduzione a 600, se il referendum lo confermerà, ci troveremmo invece ad un livello intermedio, in compagnia di diverse altre Nazioni e in linea con le principali democrazie nel rapporto tra eletti e popolazione elettorale.

Le motivazioni che hanno spinto alla riforma le forze politiche, ed in particolare il Movimento 5 stelle che – si sa – ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, sono di due ordini di motivi: il primo è la maggior efficienza di un Parlamento più snello, mentre il secondo, di gran lunga quello più motivante e sottolineato dai proponenti, è il risparmio nei conti pubblici. Che in realtà non è poi così eclatante: le analisi ci dicono che si risparmierebbe una cifra compresa tra gli 80 e i 100 milioni l’anno (circa 250mila euro per ognuno dei 345 parlamentari in meno), pari allo 0,006% del nostro debito pubblico.

Certo, non è molto, né lo sarebbe se si tagliassero anche gli stipendi di chi siede in Parlamento. Ma è sicuramente un segnale, che come si è visto procede nella direzione indicata dalla volontà popolare, che approva questo provvedimento. E’ un segnale di populismo, di demagogia un po’ fine a se stessa? Può darsi. Sono in molti a sottolinearlo, sia tra i politici che tra i commentatori. Le campagne e gli atteggiamenti anti-casta sono da sempre presenti nel nostro come peraltro in molti altri paesi, e i politici rappresentano forse l’emblema di ciò che si ritiene essere una “casta”, tanto che nelle periodiche rilevazioni, sono proprio loro quelli che stanno in fondo alle classifiche sulla fiducia, subito prima dei rom.

Che con questa riforma si voglia solleticare la parte più populistica della popolazione può essere vero, soprattutto se non sarà accompagnata – come promesso – da una vera riforma elettorale che renda questo “snellimento” adeguato ad un reale miglioramento delle funzioni legislative (ed esecutive) del Parlamento (e del Governo). E che, soprattutto, si apra un dibattito costruttivo sulla mai risolta diatriba tra rappresentatività e governabilità, tra sistema proporzionale e sistema maggioritario, tra turno unico e ballottaggio. Questi temi, forse, sono più decisivi per le sorti della nostra democrazia, rispetto al fatto che – magari – il Molise avrà un suo rappresentante in meno nel nostro Parlamento. Ma occorre affrontarli e risolverli. Rapidamente.




NADEF

Se mi chiedessero di indovinare quale ordine sia stato impartito ai tecnici che hanno il compito di stilare la NADEF (Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza) risponderei che, probabilmente, gli hanno ingiunto: “facite ammuina!”. Tale infatti è la confusione di cifre, stime, ipotesi, percentuali che risulta difficile ipotizzare che non sia intenzionale.

E’ vero che, nel tempo, i documenti che illustrano la manovra finanziaria (non meno che altri testi: vedi i regolamenti universitari) sono diventati sempre meno lineari e comprensibili, ma devo confessare che mai ho avuto tante difficoltà a capire che cosa veramente il governo abbia intenzione di fare. E non mi consola certo il fatto di essere in buona compagnia: nei due giorni successivi all’uscita della NADEF su nessun quotidiano sono apparse le consuete dettagliate tabelle riassuntive da cui, tradizionalmente, tutti gli osservatori e gli studiosi cercano di farsi un’idea di quel che ci aspetta.

Devo quindi avvertire che quel che dirò si basa sul pochissimo che si riesce a capire, talora avventurandosi in calcoli resi necessari dalla reticenza del documento, dove insieme a tante cose mal spiegate si incontrano vere e proprie contraddizioni (esempio: i dati sul rapporto debito/Pil di pag. 10 sono incompatibili con quelli di pagina 9).

Ma andiamo con ordine.

La prima cosa che si deduce dalla Nota di aggiornamento è che, per l’anno prossimo, la manovra intende aumentare la spesa corrente un po’ di più dell’aumento già previsto “a legislazione vigente” (18 miliardi): le nuove spese previste sono infatti leggermente superiori alle spese soppresse (spending review). Dunque non c’è alcuno sforzo significativo per combattere sprechi e spesa improduttiva.

Il grosso della manovra consiste nella cosiddetta sterilizzazione (temporanea, ossia per il 2020) degli aumenti dell’IVA (23 miliardi), più una modesta riduzione del cuneo contributivo (2.7 miliardi, da giugno 2020), esclusivamente a vantaggio dei lavoratori.

Ma da dove arrivano questi 25.7 miliardi?

Per quel che si capisce, circa 15 miliardi provengono dalla rinuncia a ridurre il deficit pubblico, che senza manovra sarebbe stato di 24.6 miliardi, mentre con la manovra verrà portato a circa 40 miliardi di euro; quanto agli 11 miliardi mancanti si procederà con aumenti di tasse nella triplice forma di nuove tasse, taglio di sgravi fiscali, “lotta all’evasione”. In breve: per non far aumentare l’Iva ed alleggerire il cuneo fiscale (il che costa 25.7 miliardi), si procederà con 11 miliardi di nuove altre tasse da pagare subito, più 15 miliardi di debito pubblico a carico delle generazioni future.

Ed eccoci alla domanda chiave: ma in definitiva, la pressione fiscale aumenterà o diminuirà fra il 2019 e il 2020? L’aritmetica desumibile dalla NADEF (pag. 42) suggerisce: pagheremo circa 15 miliardi di tasse in più, ma se il Pil nominale crescerà nella misura prevista dal governo la pressione fiscale resterà sostanzialmente invariata. Se invece il Pil nominale dovesse crescere di meno (il che è probabile, perché sia le previsioni sul Pil reale, sia quelle sull’inflazione sono un po’ troppo ottimistiche), allora la pressione fiscale potrebbe crescere leggermente, ma meno di quanto sarebbe successo senza la manovra. Conclusione: tenuto conto che le misure pro-impresa sono sostanzialmente assenti, e che la pressione fiscale nella migliore delle ipotesi resterà costante, il meno che si possa dire della manovra è che non fornisce alcuna apprezzabile spinta all’economia (un punto prontamente rilevato dal presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, nell’assemblea generale dell’associazione).

Non è tutto, però. L’altro elemento che emerge dalla NADEF è che il governo giallo-rosso non ha la minima intenzione di correggere i conti pubblici (per il 2020 prevede un deficit fermo al 2.2%, come quello ereditato dal governo giallo-verde), e questo nonostante la prevista diminuzione degli interessi sul debito. E, cosa ancora più inquietante, il nuovo governo pianifica un peggioramento (di 2 decimali) dell’indebitamento netto strutturale, che il governo precedente aveva invece migliorato (di 3 decimali).

Che dire?

Mi limiterei a due osservazioni. La prima è che, come ebbi già modo di notare l’anno scorso in relazione alla manovra di allora, questi governi si presentano come governi di svolta, ma svoltano ben poco. Il Conte 1 non introduceva alcuna radicale innovazione rispetto al piccolo cabotaggio di Gentiloni, il Conte 2 non introduce alcuna radicale innovazione rispetto alla navigazione a vista del Conte 1. Digrignare i denti (come faceva Salvini) non implica, di per sé, mordere nella polpa della spesa pubblica improduttiva; proclamare solennemente la lotta all’evasione, come fa oggi Conte, non comporta automaticamente riduzioni delle tasse ai contribuenti onesti. Finché le aliquote non scendono e i conti pubblici non migliorano, siamo sempre lì, come nel Gattopardo: tutto cambia nel bilancio dello Stato, purché nulla cambi davvero.

La seconda osservazione è che la facilità e la repentinità con cui questo governo ha annunciato di aver “trovato” i 23 miliardi necessari per disinnescare le clausole IVA, la dice molto lunga sulla strumentalità delle critiche che hanno accompagnato il governo precedente, quando Renzi invitava ad aspettare che i giallo-verdi si schiantassero sotto il peso delle loro politiche, e Zingaretti denunciava lo sfascio dei conti pubblici e l’inevitabilità di una manovra “mostruosa”, tutta lacrime e sangue. La realtà, temo, è semplicemente questa: nessuno degli ultimi tre governi ha cambiato veramente l’indirizzo della politica economico-sociale; nessuno ha avuto il coraggio di aggredire gli sprechi; nessuno è stato capace di ridurre la pressione fiscale; tutti hanno preferito rimandare al futuro la correzione dei conti pubblici. L’unica cosa che ha fatto la differenza è stato l’atteggiamento dell’Europa e dei mercati, benevolo quando al governo c’era (anche) il Pd, e comprensibilmente ostile quando al governo c’erano (solo) i populisti, stoltamente impegnati a inimicarsi tutti senza alcuna contropartita.

La conclusione non può che essere amara. Questo governo non è nato per disinnescare l’aumento dell’Iva bensì – più prosaicamente – per disinnescare il rischio che gli italiani potessero tornare al voto, e finissero per scegliere Salvini. Ma Salvini non dà alcun segno di aver capito la lezione: l’Europa non è neutrale rispetto al colore dei governi, e chi abbaia all’Europa senza essere in condizione di mordere, finisce irrimediabilmente per avere la peggio.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 ottobre 2019




Il lato oscuro della lotta all’evasione

Sui quotidiani di oggi (28 settembre ndr) avreste dovuto leggere le cifre della cosiddetta NADEF, la “Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza”. In poche parole: le intenzioni del governo per la manovra finanziaria che ci attende nel 2019. Invece non troverete nulla perché il governo le sue intenzioni ha deciso di rivelarcele un po’ più in là, ignorando la scadenza del 27 settembre entro la quale la NADEF avrebbe dovuto essere presentata.

Anche se i numeri non ci sono ancora, possiamo però cercare di capire che cosa bolle in pentola partendo da alcuni dati Istat e dalle molte dichiarazioni che sono circolate in questi giorni. Nel 2018, ultimo anno per cui si hanno dati sostanzialmente definitivi, la pressione fiscale è stata del 41.8%, esattamente come nel 2017. Nel 2019, secondo le stime a suo tempo prodotte dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, la pressione fiscale dovrebbe risultare leggermente maggiore dell’anno scorso, verosimilmente poco sopra il 42%. Questi dati sono interessanti se comparati con quelli degli anni precedenti: nel quinquennio che va dal 2012, l’annus horribilis della crisi finanziaria, al 2017, la pressione fiscale era sempre diminuita, sia pure a piccoli passi. Se vogliamo raccontarla in termini di governi, possiamo dire che sotto Letta e Renzi le tasse diminuivano leggermente, sotto Gentiloni erano ferme, sotto Salvini e Di Maio – se l’Ufficio Parlamentare di Bilancio non ha sbagliato troppo i conti – hanno ripreso ad aumentare un po’.

E l’anno prossimo, con il governo giallo-rosso, che succederà?

La prima cosa di cui tener conto è che l’ultimo Documento di Economia e Finanza, partorito dal governo Conte-1, prevede un aumento della pressione fiscale fra il 2019 e il 2020 di 0.7 punti di Pil, pari a circa 13 miliardi di euro. Tale aumento serve a mantenere sotto controllo i conti pubblici, ed è in parte finanziato con l’aumento dell’Iva. Questo, in concreto, significa che se si lascia aumentare l’Iva la pressione fiscale salirà per il secondo anno consecutivo. E se non si lascia aumentare l’Iva?

Se non si lascia aumentare l’Iva la pressione fiscale potrà aumentare, diminuire o restare invariata a seconda degli strumenti che verranno usati per sterilizzare l’aumento dell’Iva. Tutto dipende dal fatto che il mancato aumento dell’Iva sia finanziato ricorrendo al deficit pubblico, diminuendo la spesa, o aumentando le entrate.

Nell’ipotesi che l’aumento dell’Iva sia interamente o prevalentemente finanziato con il deficit, il risultato non potrà che essere un ulteriore aumento del debito pubblico, con conseguente aggravamento del fardello di debiti che i giovani di oggi si troveranno sulle spalle domani. E’ perlomeno strano che i giovani stessi, sempre più persuasi che gli adulti abbiano loro “rubato il futuro”, non scendano in piazza ogni qualvolta il Governo aumenta il debito pubblico.

Nell’ipotesi che l’intero aumento dell’Iva venga finanziato con minori spese, e che alle spese già previste dalla scorsa legge Finanziaria non se ne aggiungano altre, la pressione fiscale diminuirà e l’economia potrà tirare un (piccolo) respiro di sollievo.

Ma questa ipotesi è del tutto teorica, per almeno due motivi. Il primo è che gli esponenti del nuovo governo si sono già sbilanciati su promesse elettorali di ogni genere che comportano maggiori spese (bonus vari per le famiglie) o minori entrate (riduzione del cuneo contributivo). Il secondo motivo – il più importante – è che, a giudicare dalle dichiarazioni degli ultimi giorni, il governo sembra puntare la maggior parte delle sue carte su nuove tasse e sulla cosiddetta lotta all’evasione fiscale.

In entrambi i casi la giustificazione addotta è di tipo etico. Nel caso delle nuove tasse si prova a giustificarle dicendo che le merendine fanno male alla salute dei bambini, o che il carburante dei trattori dei contadini fa male al pianeta. Nel caso della lotta all’evasione fiscale si mette in atto una campagna di delegittimazione delle transazioni in contanti, fino al punto di ipotizzare una tassazione dei prelievi di denaro cartaceo.

Qui non voglio discutere la sensatezza degli scopi di questa offensiva ideologico-morale: promuovere consumi sani, proteggere l’ambiente, far pagare le tasse a tutti sono obiettivi più che degni. Il punto su cui vorrei richiamare l’attenzione è che se lo strumento con cui questi obiettivi vengono perseguiti comporta un aumento della pressione fiscale, o anche semplicemente un aumento degli adempimenti (come pare accadrà alle partite Iva che usufruiscono del regime forfettario) l’effetto non può che essere un ulteriore soffocamento dell’economia, con tanti saluti ai discorsi sul rilancio della crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro.

Quello che spesso si dimentica, specie quando si dice che con i soldi dell’evasione fiscale potremmo risolvere una miriade di problemi grandi e piccoli, è che i 110 miliardi dell’evasione non sono soldi depositati su Marte che finalmente entrerebbero in circolo, ma sono soldi che sono già in circolo e che verrebbero sottratti al settore privato se lo Stato – non pago degli 800 miliardi di entrate di cui già si pasce – decidesse di rimpinguare le proprie casse con ulteriori soldi, che presumibilmente spenderebbe altrettanto male di quelli che già riesce a sottrarre all’economia.

Significa questo che l’evasione è un bene e la lotta all’evasione un male?

No, significa esattamente il contrario: l’evasione è un male e la lotta all’evasione è un bene (anzi è un sacrosanto dovere di uno Stato che si rispetti), ma l’unica lotta all’evasione che fa bene all’economia è quella in cui il gettito recuperato viene usato interamente ed esclusivamente per abbassare le aliquote, e quindi non fa entrare un solo euro in più nelle casse dello Stato. Abbassare le aliquote, infatti, significa incentivare l’economia regolare, che è più efficiente di quella irregolare, e disincentivare quella irregolare, che è una delle cause del divario di produttività dell’Italia rispetto agli altri paesi.

Se vogliamo che l’Italia torni a crescere è essenziale evitare che, con il pretesto della lotta all’evasione, la pressione fiscale del 2020 sia maggiore di quella del 2019. E’ su questo, innanzitutto, che sarà bene giudicare la manovra che il governo si accinge a presentare la settimana prossima.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 28 settembre 2019