Sulla domanda di sicurezza – La paura e la rabbia

Una vena di schizofrenia, da qualche tempo, affligge il dibattitto politico sulla sicurezza. La destra è in difficoltà perché diversi reati (a partire dalle violenze sessuali) sono in aumento, e la sinistra dà la colpa al governo. Le opposizioni, a loro volta, sono in imbarazzo perché si sentono costrette ad occuparsi di un tema che non è loro congeniale e che hanno sempre snobbato. Quello cui assistiamo è così uno spettacolo inedito: la destra costretta a minimizzare il problema della sicurezza, la sinistra a drammatizzarlo.

Quello su cui un po’ tutti sembrano concordare è che la gente è preoccupata, ha paura di uscire di casa la notte, e chiede più pattuglie di polizia nelle strade.

Ma è davvero la paura lo stato d’animo che si è impossessato dell’opinione pubblica? Ѐ davvero l’aumento del numero di poliziotti la via maestra per ridurre le ansie dei cittadini?

Ne dubito fortemente. Le numerose indagini degli ultimi anni non segnalano un aumento massiccio dei sentimenti di paura e insicurezza. Quanto al numero di poliziotti, l’Italia è fra i paesi che ne hanno di più in relazione al numero di abitanti. Aumentarli ancora può essere utile, ma non va certo alla radice del problema.

E allora? Qual è il problema?

Il problema, il vero problema è la rabbia. Ѐ questo il sentimento dominante. Un sentimento che non nasce dalla inadeguatezza delle forze dell’ordine (polizia, carabinieri, guardia di finanza, vigili del fuoco), che anzi suscitano per lo più l’ammirazione e la gratitudine dei cittadini, ma dal malfunzionamento del sistema giudiziario e penale. Un sistema che, di fatto, ha reso strutturale l’impunità. Quello che la gente non sopporta è che chi viene espulso possa restare tranquillamente sul territorio italiano. Che chi ruba venga arrestato e rilasciato in meno di 24 ore, anche se è l’ennesima volta che commette il reato. Che quello di borseggiatrice possa diventare un mestiere. Che chi compie devastazioni (nelle scuole, nelle università, nelle strade di una città) non sia mai chiamato a risarcire il danno. Che chi esercita la violenza e la sopraffazione, magari mascherate da dissenso politico, possa continuare a togliere la parola agli altri. Che chi difende sé stesso o i propri beni da un aggressore possa finire in carcere. Che coloro che compiono determinati reati, nei campi agricoli come nelle piazze dello spaccio, possano operare indisturbati anche quando i reati si vedono a occhio nudo.

Ebbene tutto questo non è principalmente paura. È semmai rabbia, collera, indignazione, senso di frustrazione, sentimento di impotenza. E non è qualcosa di momentaneo, che potrebbe rapidamente appassire se ci fossero un po’ più di poliziotti per le strade. Anzi, potrebbe persino accentuarsi, ove più poliziotti e più arresti  venissero vanificati dal combinato disposto delle leggi e dell’indulgenza dei giudici.

Perché siamo arrivati a questo?

Alcune ragioni sono contingenti, e strettamente politiche. Le leggi varate dal parlamento non puniscono a sufficienza la recidività, e rinunciano in grandissima parte allo strumento dell’incapacitazione (rendere inoffensivi con la reclusione). E vi rinunciano anche per un ottimo motivo: i posti in carcere scarseggiano, e lo stato degli istituti di pena non è degno di un paese civile.

Ma la ragione vera, quella che sta alla base del nostro sentimento di rabbia, è di natura culturale, e si riassume in una parola: civilizzazione. Un processo che, secondo il grande sociologo Norbert Elias, ha preso il via nell’alto Medioevo, ma secondo altri – ad esempio la filosofa americana Martha Nussbaum – era ampiamente avviato già nel V secolo avanti Cristo, quando Eschilo, nell’Orestea, esaltava il passaggio dalla cultura del genos (stirpe) basato sulla vendetta, a quella della dike (giustizia), con cui Athena per così dire riforma e riplasma le vendicatrici, orribili e crudelissime Erinni, trasformandole nelle più gentili, razionali e giuste Eumenidi. In concreto, questo millenario processo ha condotto a una progressiva mitigazione delle istituzioni giuridiche e del sistema penale. Una mitigazione che,  fortunatamente, ha comportato la messa al bando della giustizia fai da te, la soppressione della pena di morte, l’abbandono della giustizia retributiva, l’introduzione di principi garantisti e di istituti come la rieducazione del reo e le pene alternative al carcere. Insomma la Giustizia è diventata più umana e comprensiva verso le ragioni di chi delinque.

Benissimo, ma cosa non ha funzionato?

Quel che non ha funzionato è che la civilissima rinuncia allo strumento della vendetta, la giusta preoccupazione di rieducare e reinserire il reo, si è accompagnata – quanto inevitabilmente? – al progressivo smantellamento della punizione o “castigo” (per usare un’espressione cara a Simone Weil), necessaria premessa a ogni percorso rieducativo.

Il disagio dell’opinione pubblica non nasce da una regressione, da un ritorno irrazionale alla cultura della vendetta, frutto della nostra incapacità di accettare la civilizzazione della macchina della Giustizia, ma dal fatto che l’impunità dilagante offende gravemente il senso di giustizia, innato in ogni essere umano. È da decenni che film come quelli di Charles Bronson mettono in scena un eroe – un “giustiziere della notte” – alle prese con l’impotenza e l’inettitudine della Giustizia. È da decenni che il pubblico mostra di apprezzarli, e accoglie con sollievo il gesto che punisce l’autore del male: chiediamoci perché.

[articolo uscito sul Messaggero il 21 dicembre 2025]




A proposto di legittima difesa – Paura o rabbia?

La recente condanna a 14 anni di carcere del gioielliere Mario Roggero – colpevole di aver inseguito e ucciso due rapinatori che avevano assalito il suo esercizio a Grinzane Cavour mettendo in pericolo la vita di moglie e figlia – ha riaperto per l’ennesima volta il dibattito sulla legittima difesa. Da una parte i leghisti, per i quali la difesa è sempre legittima, dall’altra i progressisti per cui non lo è quasi mai.

La vicenda delle norme sulla legittima difesa è abbastanza atipica, perché è in marcata controtendenza rispetto al trend permissivista e perdonista con cui negli ultimi decenni (ma per certi versi negli ultimi secoli) sono evolute le norme penali e più in generale le procedure di contrasto alla violenza. Non occorre evocare le tesi di Norbert Elias sul processo di civilizzazione”, per rendersi conto che, da tempo immemore,. la tendenza dominante è alla mitigazione delle sanzioni in tutti i campi: abolizione della pena capitale, amnistie, indulti, pene alternative al carcere, sconti di pena, allentamento delle regole in materia migratoria, eccetera. Una tendenza, questa, che è stata anche di tipo culturale, con l’ampia diffusione di teorie volte a promuovere indulgenza, perdono, permissività un po’ in tutti i campi, dalla scuola alla giustizia. Ci sono naturalmente anche eccezioni e controtendenze, ma negli ultimi due secoli il trend è stato quello.

Per questo può suscitare un briciolo di sorpresa che il legislatore italiano, in materia di legittima difesa, si sia mosso perlopiù nella direzione esattamente opposta. Nel 2006 il governo Berlusconi varò una legge che allargava i limiti della legittima difesa (legge 59), nel 2019 il governo Conte I procedette ad un ulteriore allargamento (legge 36) mediante una serie di modifiche del codice penale (articoli 52 e 55).

La più significativa di tali modifiche è quella che introduce come causa di non punibilità  lo stato di “grave turbamento” del soggetto che, aggredito, reagisce a sua volta con violenza. Quest’ultima modifica della legge, inevitabilmente, conferisce al giudice un enorme potere discrezionale, perché la condizione di “grave turbamento” non può essere né provata né esclusa in modo obiettivo.

Ma che cosa significa “grave turbamento”? È verosimile ipotizzare che il gioielliere di Grinzane Cavour abbia sparato perché soggetto a uno stato di grave turbamento? Si può essere gravemente turbati di fronte a un gruppo di rapinatori in fuga?

Sfortunatamente non esiste una interpretazione univoca del termine turbamento. Qualcuno potrebbe leggerlo come angoscia, paura, terrore. Altri potrebbero associarlo al concetto di vendetta: un grave torto subito provoca uno stato di turbamento, che suscita rabbia e desiderio di vendetta.

C’è una differenza fondamentale, però, fra le due interpretazioni. Nella nostra cultura attuale la paura è un sentimento legittimo, accettato, compreso. E quindi atto a giustificare le azioni che dalla paura stessa sono motivate e dalla paura stessa possono essere mosse.

Rabbia, risentimento e desiderio di vendetta invece no: sono sentimenti che consideriamo inammissibili, in quanto confliggono con il risultato di 2500 anni di evoluzione della Giustizia in occidente, grosso modo dall’Orestea di Eschilo (V secolo a.C.) a oggi. È questa la tesi energicamente sostenuta da Martha Nussbaum, forse la principale filosofa americana contemporanea, nel suo importante libro Anger and Forgiveness (sottotitolo: Resentment, Generosity, Justice), pubblicato nel 2016.

Se riflettiamo su questa evoluzione, che specie negli ultimi 80 anni (dopo la seconda guerra mondiale), con la proliferazione degli organismi sovranazionali e del diritto internazionale, ha avuto una straordinaria espansione, non possiamo stupirci che i giudici del gioielliere di Grinzane Cavour, come quelli di altre vicende analoghe, abbiano deciso per la colpevolezza. Per loro il gioielliere non poteva essere stato mosso dal terrore, perché i rapinatori erano ormai in fuga, e non aveva diritto al risentimento, perché il desiderio di vendetta che può scaturirne non è compatibile con l’idea contemporanea di Giustizia.

Tutto logico e comprensibile, salvo che per un fatto: la Giustizia della tolleranza, della generosità e del perdono di fatto funziona in modo così iniquo, così illogico, così umiliante per le vittime, che la gente poco per volta sta riscoprendo il concetto arcaico di Giustizia, quello contro cui si scaglia Martha Nussbaum nel suo libro. Quando vede ladri sistematicamente scarcerati dopo un furto, stupratori in libertà dopo pochi mesi, parenti dei rapinatori che pretendono milioni di euro di risarcimento dai rapinati, la gente è “gravemente turbata” non tanto perché è terrorizzata dai criminali, ma perché vede devastato il proprio naturale senso di giustizia.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 dicembre 2025]




Lo Sato e le tragedie della vita

Ci sono vicende per le quali non si può che provare un’immensa, infinita pietà. È il caso di Sara Campanella e del suo assassino, Stefano Argentino, suicidatosi in carcere poche settimane fa, chiudendosi in bagno e impiccandosi con le lenzuola. Ed è più che mai il caso, verificatosi qualche anno fa in un ospedale di Vigevano e riemerso nelle cronache di questi giorni, della donna che, esausta dalla fatica del parto, ha involontariamente schiacciato il suo bambino appena nato, rendendolo tetraplegico e cerebroleso.

Ma non è solo la pietà ad accomunare questi casi, per tanti altri versi diversissimi. C’è anche un altro aspetto, al tempo stesso giuridico e culturale, che li accomuna e merita una riflessione: in entrambi i casi la giustizia si è mossa alla ricerca di un colpevole, in entrambi i casi il colpevole è stato individuato in un ente Ente Statale (Ministero della Giustizia a Azienda Sanitaria Locale), in entrambi i casi sono state attivate o ipotizzate procedure per i risarcimenti, in entrambi i casi l’individuazione dei beneficiari e dei non beneficiari solleva interrogativi.

Andiamo con ordine. Nel caso di Sara Campanella e del suo assassino ci sono già 7 indagati per “omessa sorveglianza” e lo Stato potrebbe essere costretto a risarcire pesantemente la famiglia dell’assassino, mentre – in base alla legge vigente – ai familiari della ragazza uccisa nella migliore delle ipotesi verrà attributo un risarcimento poco più che simbolico. Quanto all’eventualità che la famiglia della ragazza uccisa intraprenda una causa civile contro la famiglia dell’assassino, come stanno facendo i familiari di Giulia Cecchettin (oltre 2 milioni di euro la loro richiesta), si tratta di una via puramente teorica, perché occorrerebbe che il ragazzo suicida possedesse un suo patrimonio e che i parenti ne accettassero l’eredità. In breve: niente (o quasi) alla famiglia della ragazza uccisa; probabile risarcimento milionario – a carico dei contribuenti – per i familiari dell’assassino suicida in carcere; possibile condanna per 7 imputati rei di non aver previsto e impedito l’atto suicida: la direttrice e la vice-direttrice dell’istituto di pena, la responsabile del trattamento e il pool di 4 esperti – uno psichiatra e tre psicologi – che avevano in cura il giovane.

Apparentemente diverso, ma per determinati aspetti assai simile, il caso della mamma che, inavvertitamente, schiaccia il suo bambino nel letto rendendolo invalido. La Asl – dunque, ancora una volta, i contribuenti – è stata condannata a pagare un risarcimento milionario alla madre, al marito e ai loro familiari perché, così riferiscono le cronache, il giudice ha ritenuto corresponsabile della disgrazia il personale ospedaliero che: a) non avrebbe vigilato con sufficiente frequenza (ogni 10 minuti) le operazioni di allattamento; e b) non avrebbe adeguatamente istruito la neo-mamma sulle procedure e le precauzioni da seguire.

Ma il dato più sorprendente è non tanto l’entità quanto la ripartizione dei risarcimenti: 1.091.218 euro al bambino per i danni permanenti (e si può capire); 100 mila euro a ciascuno dei genitori (e forse si può capire pure questo); 25mila euro al fratello minore (mah…); 35mila euro a ciascuno dei quattro nonni (qui qualcosa mi sfugge).

Va detto, naturalmente, che in entrambi i casi – il suicidio di un assassino in carcere e l’errore di una madre esausta per il parto – è difficilissimo sapere come sono andate esattamente le cose, e se vi siano state davvero omissioni da parte di chi, secondo i protocolli e secondo la legge – avrebbe dovuto sorvegliare e vigilare. Quel che mi colpisce, però, è la completa sparizione dal nostro orizzonte mentale delle categorie con cui questi fatti sarebbero stati percepiti un tempo: come una scelta individuale (il suicidio di un assassino) e come una tragica fatalità (l’errore di una madre). In noi, ormai, prevale l’imperativo di trovare per ogni male un responsabile, e di cercarlo immancabilmente nello Stato e negli apparati pubblici. Ai quali sempre meno viene richiesto di proteggerci dal male che possono farci gli altri, e sempre più dal male che può venire da noi stessi e dai nostri errori. Con il corollario che, una volta messi alla sbarra gli apparati pubblici, da essi vengono fatti scaturire benefici ben poco comprensibili (premi alla famiglia dell’assassino) e dimenticanze scandalose (spiccioli per le famiglie delle vittime).

Forse c’è qualcosa da rivedere. Non solo nelle leggi, ma anche nel nostro modo di reagire alle tragedie della vita.

[articolo uscito sulla Ragione il 26 agosto 2025




Riforma della giustizia – La flebile voce dei liberali

Non succede spesso, in Parlamento, che 3 forze di opposizione su 6 votino con la maggioranza. Ma è successo pochi giorni fa alla Camera con la legge sulla separazione delle carriere dei magistrati, approvata con i voti dei tre partiti di maggioranza, ma anche grazie al voto favorevole di Azione (Carlo Calenda) e di +Europa, nonché all’astensione di Italia Viva, il partito di Renzi. Contro la legge, invece, hanno votato i partiti del “monoblocco” Pd+Cinquestelle+Avs che, a dispetto di alcune divergenze interne, quasi sempre vota compattamente contro tutto ciò che viene proposto dalla maggioranza.

Se guardiamo alla storia dei tre partitini di opposizione che hanno votato a favore della separazione delle carriere, nessuno può sorprendersi del loro comportamento. Renzi e Calenda sono sempre stati garantisti. Quanto a +Europa, è una formazione politica con ascendenze radicali: chi è sufficientemente vecchio ricorderà che più volte in passato (in particolare nel 1994 e nel 1996) i radicali sono stati alleati del centro-destra e di Silvio Berlusconi. Nessuno stupore, quindi, che – su una questione che ha a che fare con la libertà e i diritti dei cittadini – si siano trovati in sintonia con la maggioranza.

Si potrebbe pensare, dunque, che quella sulla giustizia sia una scappatella minore che – a tempo debito – non impedirà al campo
largo di ricompattarsi su tutto il resto.

Ma è così?

Nessuno può escludere l’ipotesi della semplice scappatella: la retorica antifascista e il racconto di imminenti gravissimi pericoli per la democrazia possono fare miracoli, sdoganando alleanze contro natura e la formazione (o meglio ricostituzione) di “fronti popolari” contro le destre-destre.

Ma se ragioniamo a mente fredda, e ci interroghiamo sul DNA di quei tre partitini non solo in ambito giudiziario ma anche e soprattutto sul versante della politica economico-sociale, non possiamo ignorare alcune circostanze fondamentali. Primo, tradizionalmente le proposte di politica economica dei Radicali hanno puntato sulla riduzione delle tasse e sul risanamento dei conti pubblici, non certo sull’ulteriore espansione della spesa corrente. Secondo, Renzi e Calenda hanno sempre avuto un occhio di riguardo per le istanze del mondo imprenditoriale e le esigenze della crescita. Terzo, il periodo renziano è stato l’unico, nella seconda Repubblica, che ha visto una apprezzabile riduzione della pressione fiscale.

Di qui la domanda: che succederà quando, in vista delle prossime elezioni politiche, i partiti del monoblocco dovranno spiegare dove troveranno le risorse per rafforzare sanità e scuola, e soprattutto chi (stato o imprese?) dovrà sopportare i costi del salario minimo legale.

È facile immaginare che Pd-Avs-Cinquestelle, anche senza rispolverare la vecchia campagna “anche i ricchi piangano”, non potranno esimersi dallo spiegare da dove andranno prese le risorse del loro costoso programma, e inevitabilmente si tornerà a parlare di patrimoniale (“chi più ha, più deve contribuire”), anzi di patrimoniale permanente, visto che tutti gli aumenti di spesa strutturali (ad esempio quelli per gli stipendi di insegnanti, infermieri e medici) non possono essere coperti con imposte una tantum. A quel punto, che faranno i tre partitini di matrice liberale?

Non credo che riusciranno a convincere i partiti del monoblocco a cercare le risorse con una severa spending review, e ancor meno credo che si lasceranno convincere a lasciar correre il debito pubblico, in plateale contrasto con le raccomandazioni dell’Unione Europea. In breve, i tre partitini che oggi dissentono dai maggiori partiti di opposizione solo sulla riforma della Giustizia, potrebbero domani trovarsi a dover dissentire anche sulla politica economico-sociale. E avrebbero pure tutte le ragioni per farlo. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, ma mentre si continuano (giustamente!) a denunciare le lunghe liste d’attesa negli ospedali, le aule fatiscenti nelle scuole, il permanente rischio idrogeologico, i bassi stipendi dei dipendenti pubblici, si dimentica che tutto ciò coesiste con una pressione fiscale record non solo in Europa ma rispetto a tutti i paesi avanzati, appartenenti all’Oecd (solo Francia e Danimarca fanno peggio di noi).

Basterà promettere che la lotta all’evasione fiscale risolverà tutto?

Forse sì, perché – fra le innumerevoli illusioni della politica – questa è l’illusione più dura a morire. Ma potrebbe anche succedere che i tre partitini non si scordino di un piccolo, cruciale, principio della politica economica: se non vuole innescare una drammatica implosione dell’economia, la lotta senza quartiere all’evasione fiscale deve servire ad abbassare le aliquote dell’economia legale, non certo ad alimentare una spesa pubblica corrente già largamente fuori controllo.

Insomma, la partita è incerta. Può essere che i partitini di ispirazione liberale, magari con il comprensibile obiettivo di non sparire, si lascino assorbire dalla “gioiosa macchina da guerra” del campo largo. Ma è anche possibile, e per alcuni auspicabile, che prevalga il desiderio di non sperperare un’eredità politica, e che la voce dei liberali non si estingua per sempre.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 gennaio 2025]




L’incertezza del diritto

È di ieri la notizia che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto un’indagine conoscitiva (non un’ispezione, né un procedimento disciplinare) sulla vicenda della magistrata Iolanda Apostolico, da qualche tempo nell’occhio del ciclone per due motivi distinti, anche se collegati. Primo: avere ripetutamente disapplicato il decreto Cutro, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel CPR di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Secondo: avere in passato (nel 2018) partecipato a manifestazioni anti-governative e pro-migranti.

La decisione della magistrata è stata contestata dal Governo in quanto fondata, tra l’altro, sulla tesi che la Tunisia non sia un “paese sicuro”, valutazione che, sempre secondo il governo, non spetterebbe al singolo magistrato ma ad organi istituzionali, quali il governo stesso, che fin dal 2008 aveva incluso la Tunisia fra i paesi sicuri (confermando nel marzo scorso la medesima lista di 16 paesi, fra cui la Tunisia). Contro la magistrata è stato anche sollevato il dubbio di parzialità, o scarsa indipendenza di giudizio, stante il suo (documentato) impegno pubblico contro la politica dei “porti chiusi” di Salvini.

L’esecutivo impugnerà il provvedimento della Apostolico, e la Cassazione deciderà chi ha ragione. Fine della storia?

Direi proprio di no. La vicenda Apostolico, infatti, ci consegna un problema grande come una casa, quale che sia la decisione finale della Cassazione: il problema dell’incertezza delle norme. Quel che è interessante dell’affaire Apostolico, infatti, non è che cosa deciderà la Corte, ma il fatto che – almeno per chi non è accecato dalle sue convinzioni politiche – non è affatto evidente né che Apostolico abbia ragione, né che abbia torto. Ci troviamo, in altre parole, in una situazione di incertezza intrinseca. In una situazione, cioè, nella quale la normale, ordinaria, spesso inevitabile, necessità di interpretare le norme, assume un carattere abnorme, patologico, per non dire perverso.

In un recente dibattito, proprio a proposito del caso Apostolico, Luciano Violante, magistrato e parlamentare di lungo corso, ci ha ricordato il perché: il fatto è che, rispetto a 20-30 anni fa, i margini di discrezionalità del magistrato nell’interpretazione della legge si sono enormemente allargati. E questo è avvenuto non solo per la sovrapposizione fra norme di livello differente (internazionale, europeo, nazionale), ma anche per la crescente dipendenza delle sentenze dall’evoluzione del costume e dalla specifica sensibilità del singolo giudice. Esemplare, in questo senso, il recentissimo ribaltamento, in appello, della sentenza che aveva condannato il sindaco Mimmo Lucano a 13 anni di carcere per reati gravissimi, tutti (tranne uno) evaporati nel secondo grado di giudizio.

È naturale che il comune cittadino ne sia sconcertato: come è possibile che i medesimi fatti siano valutati così diversamente da due giudici? come possiamo avere fiducia nella magistratura se, in tante circostanze, constatiamo che l’assoluzione o la condanna dipendono da “che giudice ti capita”? come difendersi dalle sentenze “creative”, in cui un giudice guarda una vicenda dall’angolo visuale delle sue convinzioni personali e delle sue idiosincrasie?

Sono domande cui non è facile dare una risposta costruttiva e praticabile, se non altro perché i responsabili di questo stato di anomia normativa (mi si permetta l’ossimoro), sono almeno tre. Il legislatore, incapace di frenare l’impulso a moltiplicare le leggi, né a badare alla loro coerenza e applicabilità. La lobby dei magistrati, che ha sempre vittoriosamente difeso la sostanziale irresponsabilità dei giudici per i loro errori e i loro arbitrii. I singoli magistrati, troppe volte incapaci di mettere tra parentesi le proprie convinzioni personali.

Abbiamo tanto discusso, a proposito del libro del generale Vannacci, della opportunità, per certe categorie (militari, poliziotti, magistrati), di rinunciare alla manifestazione pubblica del loro pensiero a causa del potere esorbitante di cui sono dotati. Ma, forse, non abbiamo abbastanza riflettuto sul fatto che, in fatto di potere, sono i magistrati che dispongono del potere più pericoloso, e malamente esercitato: quello di dare e togliere la libertà.