Più tardi in pensione, meno posti per i giovani?

La domanda aleggia ormai da una decina d’anni, ovvero da quando ci si è resi conto che, alla lunga, il nostro sistema pensionistico non sarebbe stato in grado di erogare pensioni decenti, o perlomeno pari a quelle attuali, alla totalità dei futuri pensionati. La domanda è: siamo sicuri che mandare in pensione sempre più tardi i lavoratori anziani ancora occupati non finisca per penalizzare i giovani, che un’occupazione la cercano ma non la trovano, o la trovano solo a tempo determinato?

Il dubbio è stato sollevato più volte, specie in occasione delle riforme che hanno progressivamente spostato in avanti l’età della pensione, e l’anno agganciata in modo pressoché automatico alla speranza di vita. Un percorso che ha inciso soprattutto sulle donne lavoratrici, che hanno progressivamente perso il diritto di andare in pensione prima dei lavoratori maschi.

Ma il massimo della tensione e del dubbio si è toccato nelle ultime settimane, quando l’Istat, che l’anno scorso aveva annunciato una (lieve) riduzione della speranza di vita (registrata nel 2015), ha invece confermato la tendenza all’aumento, e che il picco, o l’anomalia, del 2015 era stata riassorbita, dando così il via libera ad uno spostamento in avanti dell’età della pensione. Dal 2019, ha annunciato il governo, fatte salve alcune eccezioni (lavori usuranti), si andrà in pensione tutti quanti, uomini e donne, all’età di  67 anni, ovvero qualche mese dopo il limite attuale. Peccato che nei medesimi giorni l’ultima rilevazione Istat sulle forze di lavoro, relativa al mese di settembre, annunciasse un calo dell’occupazione giovanile, un dato che non faceva che allungare l’elenco delle cattive notizie degli ultimi anni: l’occupazione giovanile ristagna, i nuovi posti di lavoro occupati dai giovani sono quasi sempre a termine, l’emigrazione dei giovani verso l’estero pare un fiume inarrestabile.

Ecco perché, sempre più insistentemente, ci si chiede: ma siamo sicuri che a forza di trattenere al lavoro i vecchi, non stiamo creando un “tappo” che impedisce ai giovani di entrare sul mercato del lavoro? Non sarebbe meglio lasciare andare in pensione i vecchi e fare spazio ai giovani?

Messa così, l’obiezione pare convincente. Molti economisti, tuttavia, pensano che sia un’obiezione sbagliata. In estrema sintesi, le contro-obiezioni sono tre.

Primo, nei paesi in cui si va in pensione più tardi il tasso di occupazione dei giovani non è affatto più basso che negli altri, anzi mediamente è un po’ più alto.

Secondo, se si ritarda l’innalzamento dell’età pensionabile diventerà inevitabile alzare i contributi sociali, una misura che potrebbe costare assai cara ai giovani stessi sotto forma di minore occupazione e buste paga più leggere.

Terzo, spesso i posti di lavoro lasciati liberi dagli anziani potrebbero semplicemente sparire (quante aziende hanno tutt’ora forza di lavoro in eccesso!), o non essere facilmente ricopribili da lavoratori giovani, cui spesso mancano le conoscenze e l’esperienza dei lavoratori più anziani.

La prima obiezione è molto debole, perché dimostra solo che, da qualche parte, è stato possibile dare un lavoro a tutti, vecchi e giovani. La seconda è molto forte, perché nessuno sa come tamponare la voragine che il mancato adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita aprirebbe nei conti pubblici.

Ma l’obiezione veramente interessante è la terza, secondo cui anziani e giovani non sarebbero intercambiabili, in quanto dotati di competenze troppo diverse. Qui, per sapere come stanno veramente le cose, occorrerebbe una ricerca, molto approfondita e inevitabilmente più costosa delle poche indagini che finora si sono avvicinate a questa delicata questione. E’ scontato che una parte dei posti occupati da anziani in prossimità della pensione non sono occupabili da giovani, o lo sarebbero solo dopo un più o meno lungo tirocinio, ma la questione cruciale non è “se” questo sia vero, ma “quanto” lo sia. Nessuno sa se i posti di questo tipo siano, poniamo, il 20% o l’80%. Il che fa una differenza enorme.

Io tendo a pensare che siano parecchi, ma non siano la stragrande maggioranza, e che quindi un po’ di vero ci sia nell’idea che – in qualche misura – i vecchi sottraggano posti di lavoro ai giovani. E’ possibile, in altre parole, che gli economisti sopravvalutino un po’ il grado di segmentazione del mercato del lavoro, o i costi di strategie volte a rendere più comunicanti i vasi del sistema.

E’ questa, del resto, un’abitudine mentale contratta in anni e anni di battaglie per negare che gli immigrati portino via il posto di lavoro agli italiani. Anche in quel caso, nessuno sa con precisione in che misura i posti di lavoro occupati da stranieri riguardino lavori che gli italiani rifiuterebbero, o non accetterebbero alle medesime condizioni. E tuttavia colpisce quanto stereotipati siano gli esempi addotti per sostenere la tesi che i due mercati del lavoro non comunichino: muratori, braccianti impegnati nella raccolta del pomodoro, badanti, facchini, colf. Raramente si pensa, ad esempio, all’esercito dei commessi, spesso alle dipendenze di medie e grandi aziende, ai dipendenti pubblici, ai portieri di albergo, agli addetti delle pompe di benzina, ai fattorini, per non parlare dell’arcipelago delle partite Iva. Tutte posizioni abbondantemente occupate, e spesso più che meritoriamente conquistate, da lavoratori stranieri, ma non certo invise ai lavoratori italiani, specie nel Mezzogiorno.

Insomma: certe affermazioni, un po’ perentorie, sulla segmentazione del mercato del lavoro forse meriterebbero qualche analisi empirica in più. Quando si parla di vecchi e di giovani, ma anche quando si parla di italiani e di stranieri.

Pubblicato sul numero di Panorama del 9 novembre 2017



Nuovi emigranti

Ha suscitato qualche preoccupazione il quadro dell’Italia dipinto da un recente rapporto dell’Ocse sullo stato dell’istruzione nelle società avanzate. Pur lodando riforme che qui suscitano minore apprezzamento, dal Jobs Act alla Buona scuola, l’Ocse mette il dito sulla piaga: da noi i laureati sono pochissimi (appena 1 giovane su 5), gli stipendi sono decisamente bassi, i disoccupati sono tantissimi, anche perché i giovani italiani si ostinano a laurearsi in discipline che hanno poco mercato, come la maggior parte di quelle umanistiche. E, comunque, in generale gli studenti italiani risultano molto indietro nei confronti internazionali (i famosi test PISA) in competenze critiche come lettura e matematica.

Di qui, sempre secondo l’Ocse, avrebbe origine il ristagno della produttività, del Pil e quindi dell’occupazione. Se il nostro paese non cresce, è perché si è instaurato un circolo vizioso fra la domanda delle imprese, che tiene in scarso conto i laureati, e l’offerta di lavoro, che risponde in modo bifronte: sempre meno giovani italiani proseguono gli studi oltre il diploma, sempre più sovente chi riesce a laurearsi sceglie l’emigrazione all’estero (la cosiddetta “fuga dei cervelli”). Una diagnosi da cui scaturisce la solita ricetta, cui nessuno si sente di obiettare: più istruzione, più istruzione, più istruzione, secondo il mantra coniato da Tony Blair giusto vent’anni fa (Education, education, education).

Premesso che si tratta di temi complicati, e che nessuno è in grado di ricostruire con certezza quali sono i meccanismi che governano le scelte dei giovani e quelle delle imprese, vorrei almeno insinuare qualche dubbio su questa diagnosi e sulla relativa terapia.

Il primo dubbio è questo: siamo sicuri che la stagnazione dell’economia italiana dipenda così strettamente dalla scarsità di figure professionali qualificate? Dico questo non solo perché, per circa mezzo secolo (dal 1945 al 1995), un ritardo in termini di istruzione ancora maggiore di quello di oggi non ha impedito all’Italia di crescere a ritmi molto elevati, superiori alla media dei paesi Ocse, ma perché sono talmente tanti e gravi i fattori diversi dalla bassa istruzione che secondo tutti gli studi azzoppano la crescita, dalle alte tasse sulle imprese a una burocrazia soffocante, che mettere sul banco degli imputati il cosiddetto capitale umano ha tutto il sapore di una forzatura, quasi un diversivo per non concentrarsi sui problemi veri, la cui soluzione richiede purtroppo interventi molto più radicali e dolorosi.

C’è anche un secondo dubbio, però. Se la qualità della nostra scuola è così bassa, come si spiega il fatto che tanto spesso i giovani italiani che emigrano all’estero intraprendano brillanti carriere e ottengano grandi riconoscimenti? E come conciliare il fatto che, quasi invariabilmente, i nostri studenti liceali che frequentano un anno di scuola all’estero, ritornano stupefatti per il basso livello degli studi dei loro coetanei stranieri?

Una possibile spiegazione è questa. La nostra scuola e la nostra università, oltre ad essere gravemente sottodotate di strutture materiali e organizzative, sono anche arretrate nei percorsi di studio, che restano relativamente tradizionali nei metodi (lezione frontale, studio teorico) e nei contenuti (programmi poco cambiati rispetto al passato). Questo certamente le svantaggia nei test PISA, che sono concepiti per sistemi scolastici più modernizzati, ma crea anche un curioso fenomeno di polarizzazione delle capacità. Da un lato, agli studenti che non hanno voglia o capacità di studiare, ma al tempo tesso non intendono rinunciare al pezzo di carta, è spessissimo offerta la possibilità di conseguirlo pur essendo sprovvisti delle conoscenze e competenze che quel diploma certifica. Dall’altro, agli studenti (ma più spesso: alle studentesse) cui piace lo studio (non più di 1 su 3, secondo la mia esperienza), è offerto un percorso che, specie nelle scuole del centro-nord, li può portare molto in alto nella padronanza delle materie che la scuola e l’università insegnano.

Un fenomeno, questo, di cui esistono indizi anche nei test Pisa, che mostrano un enorme divario fra gli apprendimenti delle scuole del sud e quelle del centro-nord, con le prime molto al di sotto della media Ocse, e alcune delle seconde un po’ al di sopra. Può accadere così che un laureato italiano che ha frequentato una buona università o politecnico, spesso collocato nel centro-nord, possa rapidamente trasformare in un vantaggio lo studio “troppo teorico” che ha compiuto in Italia, arricchendolo con le esperienze pratiche che il lavoro comporta (un percorso, sia detto per inciso, che è molto più difficile compiere il cammino a ritroso, colmando sul posto di lavoro basi teoriche insufficienti). Del resto, pure di questi percorsi esistono indizi statistici. Quando si parla della fuga dei giovani italiani all’estero, un fenomeno che è esploso in questi ultimi 10 anni, tendiamo a pensare a una massa di giovani con titoli di studio elevati: in realtà i laureati sono meno di 1 su 3, e provengono prevalentemente dalle regioni del centro-nord, quelle che secondo le statistiche hanno le scuole e le università migliori.

Ed ecco l’ultimo dubbio. Perché i giovani italiani hanno cominciato a fuggire all’estero? Le statistiche, e gli esperti, suggeriscono che la crisi, con la distruzione di due milioni di posti di lavoro, abbia avuto un ruolo importante. Ma l’esperienza diretta racconta anche un’altra storia: se quelli che se ne vanno sono spesso i migliori è perché il talento è l’unica risorsa che, in Italia, non si può spendere se non si ha anche un santo protettore, una rete di conoscenze, un’entratura nelle stanze che contano. E i nostri giovani questo l’hanno capito: un curriculum in Italia ha alte probabilità di essere cestinato, all’estero viene letto e preso in considerazione.

E’ forse questo, più che la mancanza di investimenti in istruzione, il male oscuro del nostro Paese.

Pubblicato su Panorama l’11 ottobre 2017



I giovani: futuri pensionati poveri? Intanto facciamoli lavorare

Il futuro dei giovani preoccupa molto gli adulti, forse ancora di più dei giovani stessi, a giudicare dalle sempre più frequenti esternazioni in materia. Curiosamente, però, le preoccupazioni degli adulti che, a vario titolo, si occupano di giovani, più che sul presente dei giovani, fatto di precariato e mancanza di lavoro, si concentrano sul loro futuro remoto: sui giovani non in quanto oggi giovani, ma in quanto dopodomani pensionati poveri. I giovani di oggi, si dice, alla fine della carriera lavorativa finiranno per percepire pensioni da fame e, complice il probabile innalzamento dell’età pensionabile, saranno costretti ad andare in pensione a un’età molto avanzata. Il nostro sistema pensionistico, infatti, prevede che l’aumento della speranza di vita trascini con sé un aumento dell’età dopo la quale si matura il diritto alla pensione.

Di qui alcune proposte che sono circolate negli ultimi giorni. Ad esempio, bloccare l’aumento automatico dell’età pensionabile. O riconoscere gli anni universitari ai fini pensionistici, naturalmente a carico dello Stato. Si tratta, in entrambi i casi, di misure assai discutibili, anche se per ragioni in parte diverse.

Il blocco dell’aumento dell’età pensionabile (ammesso che tale aumento abbia luogo: in Italia la speranza di vita sta scendendo, anziché aumentare) ha un ovvio costo per il sistema previdenziale, di cui qualcuno dovrà farsi carico. Quanto al riscatto degli anni di studio, non solo ha un costo ingente, ma è una misura fortemente inegualitaria. Gli studenti che conseguono la laurea sono ancora, in Italia, una piccola minoranza dei giovani, e nella maggior parte dei casi provengono dai ceti alti. Non si vede perché la collettività debba conferire un ulteriore vantaggio a questo gruppo sociale, e a spese di chi.

Qualsiasi cosa si pensi di queste proposte, il problema giovanile comunque resta in piedi, in tutta la sua dura realtà. Ed è così grave che qualcuno comincia a pensare che sia un problema epocale, intrinsecamente irrisolvibile, almeno per le economie occidentali. Il rallentamento della crescita provocato dalla crisi e l’avanzare dei processi di automazione, basati sull’intelligenza artificiale, le macchine, i robot, renderebbero sempre più difficile garantire un lavoro a tutti. E poiché i giovani, per definizione, sono quelli che nel sistema devono ancora “entrare”, ecco pronta la diagnosi: per loro non c’è spazio, e non ce ne sarà mai, perché i posti nuovi scarseggiano e chi un posto ce l’ha se lo tiene stretto.

Questa visione delle cose, che spesso si manifesta nel registro dell’indignazione, ha anche un’importante funzione autoconsolatoria, che diventa autoassolutoria quando ad esprimerla sono persone con responsabilità di governo. Se questo è il destino delle nostre società, c’è ben poco da fare, e comunque la colpa non è di nessuno. Così va il mondo…

A ben guardare, tuttavia, questa diagnosi è incompatibile con i dati. E non lo è per la semplice ragione che il dramma giovanile non è affatto universale. Anche restando nel mondo occidentale, anche restringendo il nostro campo di osservazione all’Europa, o limitandoci ai paesi europei a noi più comparabili (Francia, Spagna, Germania, Regno Unito), quel dramma non emerge affatto. O meglio emerge come caratteristico di certi paesi, ma non di altri.

Sia prima sia dopo la crisi, a fronte di paesi con un tasso di occupazione bassissimo (Turchia, Grecia, Italia), vi sono molti paesi con tassi di occupazione giovanile che superano l’80%, e in alcuni casi sfiorano il 90%. E non si tratta affatto dei paesi più arretrati, risparmiati dal progresso tecnico e dall’automazione, bensì di alcune fra le più moderne economie dell’Europa occidentale: Francia, Regno Unito, Irlanda, Austria, Svizzera, Norvegia, Svezia, Finlandia, Olanda, Belgio, per limitarci ai casi più significativi. Lì i giovani un lavoro lo trovavano ieri, prima della crisi, e lo trovano oggi, dopo il grande shock subito dalle economie occidentali nel 2007-2011.

Ma, si potrebbe obiettare, la crisi ha comunque ridotto le chances occupazionali dei giovani. Questo in parte è vero, perché in media, in Europa, il tasso di occupazione giovanile (nella fascia 25-34 anni) fra il 2008 e il 2016 ha perso 2.6 punti percentuali. Quel che è interessante, tuttavia, è che questa riduzione ha riguardato poco più della metà dei paesi europei, mentre per gli altri le possibilità di trovare lavoro dei giovani sono aumentate. Questo vale soprattutto per diversi paesi dell’Est, ma vale anche per alcuni paesi occidentali, come il Regno Unito, l’Austria e, soprattutto, la Germania, l’unico paese occidentale importante che, prima della crisi non era nel gruppetto di testa dei paesi con tasso di occupazione giovanile superiore all’80%.

E l’Italia? Nel 2007 era penultima in Europa, solo la Turchia (complice la cultura islamica, che non favorisce certo l’ingresso delle donne sul mercato del lavoro), faceva peggio di noi. Oggi siamo ultimi: facciamo peggio della Grecia, della Turchia, della Spagna.

Forse, anziché considerare inevitabile che i giovani vivano alle spalle degli adulti, dovremmo chiederci perché questo succede solo in alcuni paesi. E come mai, fra questi paesi, il nostro è quello in cui succede di più.

Pubblicato su Panorama il 14 agosto 2017