L’eredità del centro-sinistra

Può sembrare strano, ma un bilancio del quinquennio di governo del centro-sinistra (dal 2013 al 2018), ovvero dell’azione dei governi Letta, Renzi e Gentiloni, ancora non l’abbiamo né letta né ascoltata. Renzi se l’è sbrigata con poche battute, ma anche dai padri nobili e dai candidati alla successione sono arrivati, finora, solo discorsi più fumosi che alati, ma ben poche analisi. E autocritica ancor meno, se non la ferma  decisione di voler fare autocritica, e le solite due ammissioni di colpa: forse c’è stato un difetto di comunicazione, forse dovevamo parlare di più con la gente.

Eppure è di analisi e di autocritica che ci sarebbe bisogno. Servirebbero al Pd, se vuole fermare il declino e sperare di tornare al governo, ma servono anche a noi, studiosi ed opinione pubblica, per inquadrare l’azione (e le difficoltà) del governo gialloverde. L’azione di un nuovo governo, infatti, non è mai un inizio assoluto, ma sempre la continuazione di una storia scritta da altri, con cui i nuovi venuti sono costretti a fare i conti.

Qual è, dunque, l’eredità del centro-sinistra?

La risposta dei diretti interessati la conosciamo abbastanza bene, è il racconto autocelebrativo che abbiamo ascoltato in tutte le salse, centinaia e centinaia di volte: noi siamo quelli che hanno portato il Paese fuori della crisi; prima davanti al dato del Pil c’era il segno meno, ora c’è il segno più; con il Jobs Act e la decontribuzione abbiamo creato centinaia di migliaia di posti di lavoro; con gli 80 euro abbiamo dato un po’ di ossigeno alle famiglie, stremate da 9 anni di crisi; siamo stati noi a varare, per la prima volta in Italia, una misura di carattere universalistico contro la povertà (il reddito di inclusione); anche se con lo ius soli non ce l’abbiamo fatta, abbiamo varato importantissime leggi su unioni civili, fine vita, femminicidio; con il ministro Minniti abbiamo ridotto dell’80% gli sbarchi. Come hanno fatto gli italiani a non accorgersi di quanto bene abbiamo governato? Come hanno potuto spedirci all’opposizione?

Provo a rispondere, prima come studioso, poi come cittadino. Come studioso la mia obiezione è semplice: molto di quel che rivendicate come merito vostro, cari dirigenti del Pd, è semplicemente effetto della ripresa economica, che ha preso vigore, in Europa, giusto quando voi siete andati al governo. La marea alza tutte le barche, ma la barca dell’Italia negli ambiti che contano (occupazione e crescita del Pil) è rimasta agli ultimi posti in Europa, esattamente come prima, in certi casi peggio di prima.

Dunque la vera domanda non è se, dopo cinque anni di governo, l’Italia stia meglio o peggio di prima, ma è che cosa avreste potuto fare di diverso, e che cosa avete lasciato in eredità a chi oggi deve governare.

E allora vediamola, questa eredità.

Tasse. Per avere l’ok dell’Europa alle leggi di bilancio avete, come tanti governi del passato, inserito le stramaledette “clausole di salvaguardia”; così oggi chi ci governa deve trovare 12 miliardi e mezzo per non far aumentare l’Iva.

Conti pubblici. Anziché approfittare della ripresa per ridurre il debito pubblico, avete mendicato flessibilità in Europa, promettendo ogni anno che il debito l’avreste ridotto, ma l’anno dopo; poi l’anno dopo arrivava, e il debito continuava a crescere, e voi rimandavate di nuovo, o promettevate senza poi mantenere; una vera discesa del rapporto debito/Pil non è mai iniziata. E i mercati finanziari se ne sono accorti: contrariamente a quel che si crede, la tensione sui nostri titoli di Stato è partita fin dalla fine del 2016, in corrispondenza con il referendum perduto da Renzi (per accorgersene, basta dare un’occhiata, anziché allo spread con la Germania, allo spread fra i titoli di Stato di Spagna, Portogallo e Grecia rispetto a quelli dell’Italia).

Povertà. Che il numero di poveri fosse aumentato durante la crisi e continuasse ad aumentare anche negli anni della ripresa, l’Istat ve l’ha comunicato ogni anno. Ciononostante, quando si è trattato di decidere se ridurre l’Irpef, ridurre l’Irap o pensare agli “incapienti” (così poveri da non pagare tasse), avete preferito – con il bonus da 80 euro – convogliare le risorse sul ceto medio dipendente, il più vicino alla vostra base elettorale. E quando avete varato il reddito di inclusione, che ora chiedete al nuovo governo di potenziare, gli avete destinato le briciole, circa un decimo di quel che servirebbe. Come potete stupirvi che gli elettori abbiano voluto credere alla promessa del “reddito di cittadinanza”?

Investimenti pubblici. Nonostante i ripetuti omaggi a Keynes e alle politiche keynesiane, i governi di centro-sinistra si sono ben guardati dal sostenere gli investimenti pubblici, che anzi di anno in anno, chiunque fosse al governo (Letta, Renzi, Gentiloni), sono sempre stati ridotti, a differenza della spesa corrente, ben più redditizia sul piano elettorale. Il precario stato di tante infrastrutture in Italia ha indubbiamente origini lontane, ma è difficile non notare che – negli ultimi anni – la costante preferenza accordata alla spesa corrente non può che averlo aggravato.

Immigrazione. Minniti ha fatto un buon lavoro, non c’è dubbio, e questo è forse il principale asset che il governo gialloverde ha ricevuto in dote. Ma come ci si è arrivati? Il fenomeno che Minniti ha domato, gli sbarchi, è stato alimentato da anni e anni in cui i suoi compagni di partito hanno badato solo a sostenere l’industria dell’accoglienza, fatta di eroici salvataggi in mare e assai più prosaiche gesta delle cooperative che gestiscono gli sbarcati. Il risultato è stato che, in pochi anni, in Italia sono entrati quasi 500 mila migranti che non avevano diritto ad alcuna forma di protezione, e che nessuno (nemmeno Salvini) è in grado di rimandare indietro. Se il lavoro di Minniti non è stato apprezzato dall’elettorato è anche perché, in fondo, il Pd e la sinistra se ne vergognavano, in quanto capovolgimento dell’ideologia dell’apertura cavalcata negli anni precedenti.

Questi, purtroppo, sono i lati oscuri, il non detto e non visto, dell’eredità del centro-sinistra. Capisco che riconoscerli sia difficile, perché può suonare come un’implicita legittimazione del governo gialloverde. Ma non si riflette abbastanza sul fatto che non riconoscerli può essere ancora più pericoloso: senza un’autocritica spietata, un’opposizione di sinistra credibile non vedrà mai la luce.

Quello cui invece quotidianamente assistiamo, sui giornali come in Tv, è l’incredibile recita del seguente copione fisso: prima si dice che certamente c’è stato qualche errore di comunicazione, e che si sarebbe dovuti stare di più sulla rete; poi si ammette che sì, qualche errore politico deve essere stato fatto, se no non si sarebbero persi milioni di voti; ma poi, quando l’incuriosito giornalista chiede “dove avete sbagliato?”, o se il Jobs Act è stato un errore, scatta il grande nulla: dobbiamo riflettere, dobbiamo discutere (ma allora perché non avete ancora indetto il Congresso?), dobbiamo tornare fra la nostra gente. Come se la gente li avesse abbandonati non per le loro scelte politiche, ma perché non si facevano più vedere in giro. Incredibile.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 10 settembre 2018



Elezioni e candidature: l’intervista a Luca Ricolfi

Alle prossime elezioni gli schieramenti tradizionali si confronteranno con il M5s. Centrodestra e centrosinistra sono in grado di riguadagnare consensi dentro quella che lei ha definito la Terza società, i nuovi esclusi?

Sì, con le proposte di lotta alla povertà di Pd e Forza Italia, che però sono un po’ diverse sia da quella (demagogica e irrealistica) del Movimento Cinque Stelle, sia fra di loro: il Pd punta sul reddito di inclusione, Forza Italia sull’imposta negativa. Le due strategie molto diverse, vedremo se l’elettorato si fiderà più dell’una o dell’altra.

In passato la società italiana ha già sperimentato fratture importanti, come ha reagito allora la classe politica?

Dopo il 1948, con lo scontro fra Dc e Fronte popolare, la principale frattura sperimentata è stata fra la società italiana e la sua classe politica, nel 1992-1994. Allora la reazione fu di liquidare un po’ frettolosamente il passato, e coltivare l’illusione di un cambiamento radicale, superficialmente battezzato “seconda Repubblica”.

La qualità dei candidati che presenteranno i partiti sarà un fattore determinante nello spostare consensi?

Credo di no, perché esistono due potenti meccanismi che tendono a rendere irrilevante (o addirittura controproducente) la qualità dei candidati. Il primo è il voto clientelare o di scambio, diffuso soprattutto al Sud, che privilegia candidati di bassa qualità, purché in grado di promettere credibilmente benefici locali. Il secondo è il discredito generale in cui è caduto tutto il ceto politico (compreso quello Cinque Stelle: vedi Raggi e Appendino), che conduce a non chiedersi neppure più se un candidato è valido oppure no. Non avendo più vera stima di nessuno, ci si limita, sempre che si vada a votare, a puntare sul candidato che più ci sta simpatico.

Gli italiani premieranno candidati nuovi, esterni alla politica e magari provenienti dal mondo delle professioni, oppure nell’incertezza andranno alla ricerca di politici di lungo corso?

Gli italiani mangeranno la minestra che il convento dei partiti preparerà per loro. Del resto, avendo imposto agli elettori un sistema prevalentemente proporzionale, i partiti sono liberi di far eleggere chi vogliono, il che spesso significa chiunque garantisca fedeltà al capo.

Paga ancora candidare dei Vip, esterni alla politica?

Se si scelgono molto bene, penso di sì. Ma il problema è trovare dei Vip che, oltre a star simpatici a milioni di persone, non abbiano il piccolo difetto di stare antipatici ad altri milioni di elettori. Il che succede quasi sempre, salvo per figure popolari ma molto neutre, come attori, presentatori, calciatori, cantanti, scienziati.

La sinistra sarà in grado di recuperare il suo popolo o Pd e LeU sono ancora percepiti come establishment?

Credo che anche LeU, il partito di Grasso, sia percepito come establishment, forse ancora più del Pd. Dobbiamo renderci conto che establishment non significa solo poteri forti, classe dominante, apparati burocratici, ma anche dittatura culturale del politicamente corretto: uno sport in cui Boldrini batte Renzi dieci a zero.

È giusta la scelta di Renzi di puntare sui ministri in carica?

È giustissima, perché Gentiloni e il suo governo hanno uno straordinario (e imprevisto) potere di rassicurazione sull’elettorato. Certo, per essere veramente efficace, la carta dei ministri andrebbe accompagnata da due gesti simbolici complementari, ma non meno importanti. Il primo è un passo indietro di Maria Elena Boschi, la cui popolarità è in caduta libera forse più per il suo cocciuto attaccamento al potere che per i propri demeriti nelle vicende di Banca Etruria. Il secondo gesto spetta a Renzi: se vuole che la carta dei ministri funzioni davvero, più che fare un passo indietro, dovrebbe iniziare a presentare Gentiloni come già lo percepiscono gli italiani, ossia più come una riserva della Repubblica in tempi difficili, che come uno dei tanti notabili del Pd. Sempre che non sia troppo tardi, visto che la carta Gentiloni l’ha già giocata Berlusconi due settimane fa, quando lo ha indicato come leader del governo che, in caso di stallo, dovrebbe rapidamente riportarci al voto.

Intervista a cura di Antonio Signorini, pubblicata su Il Giornale il 28 dicembre 2017