Il diritto alla paura – In margine al caso Bruck

Hanno suscitato un certo scalpore le recenti parole di Edith Bruck, scrittrice ebrea progressista, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Dachau. In due distinte interviste, una rilasciata all’agenzia “LaPresse” (3 novembre), l’altra al Corriere della Sera (5 novembre), la scrittrice e poetessa confessa che, dopo il massacro dei bambini israeliani perpetrato da Hamas, ha cambiato idea sull’immigrazione, le politiche si accoglienza, l’antisemitismo arabo e palestinese.

E lo spiega con frasi molto chiare ed esplicite, sia sulla situazione in Francia, sia su quel che accade in Italia. Sulla Francia dice: “stiamo accogliendo i nostri stessi nemici in casa. Ma vediamo che cosa è accaduto in Francia? Quasi otto milioni di immigrati e sono loro i più antisemiti di tutti”. Quanto all’Italia: “Per anni abbiamo accolto tutti coloro che arrivavano dal mare. Io stesso dicevo: poveretti, dobbiamo aiutarli. Ma adesso è molto diverso”. E poi: “Io non avevo alcun pregiudizio, ho sempre difeso i più deboli (…). Però ora tutto è cambiato. Io stessa sono cambiata. Sì, sono cambiata. Quelle atroci immagini delle teste di bambini decapitati usate per giocare a calcio sono le stesse di Auschwitz. E ora, in mezzo a chi arriva, è facile immaginare che ci siano terroristi, militanti antisemiti. Davvero non so come si possa fare, difficile selezionare chi arriva. Ma far entrare tutti, ora, è assurdo”.

Le interviste contengono anche altri passaggi assai duri, contro “certa sinistra” cieca di fronte al terrorismo di Hamas, o contro la scelta di boicottare Lucca Comics a causa del patrocinio di Israele. E prospettano pure una sorta di rivalutazione di Salvini e Meloni. Cito testualmente: “Noi prima ce l’avevamo con loro due per come la pensavano sull’immigrazione. Oggi per me non è più così”.

Le parole di Edith Bruck sono importanti. Anzi, direi che sono cruciali, perché ci costringono a riflettere a fondo su concetti come razzismo, xenofobia, islamofobia. Il pensiero dominante sui media (e fra le élite) è che si tratti di atteggiamenti di ostilità, talora di odio, verso determinati gruppi o etnie, e che tali atteggiamenti siano basati su ignoranza, pregiudizi, false credenze. Di qui la necessità, anzi l’imperativo categorico, di correggere, istruire, rieducare a una corretta percezione della realtà.

Ma qualcuno può pensare di dover rieducare Edith Bruck? Qualcuno può pensare che le sue riserve sulle politiche di accoglienza, o sul potenziale antisemita degli immigrati musulmani, siano frutto di pregiudizi razziali?

No, credo che Edith Bruck sia stata semplicemente sincera. E che sia venuto il momento di riconoscere qual è il meccanismo che, spesso, fa scattare la diffidenza verso determinati gruppi e, simmetricamente, qual è il meccanismo che la disattiva. Ebbene il meccanismo-base è l’esposizione differenziale al rischio. Ci sono gruppi sociali più esposti al rischio di interazioni sociali pericolose, e gruppi sociali meno esposti. È questo che differenzia i “ceti medi riflessivi” dai ceti popolari. È questo che, nelle grandi città, distingue chi vive nella Ztl da chi abita nelle periferie. Non è perché sono rozzi e incolti che i ceti popolari sono più inclini dei ceti alti a diffidare degli immigrati, ma semplicemente perché – per i luoghi in cui vivono, e per gli strumenti di autodifesa di cui (non) dispongono – sono più soggetti a vari tipi di rischio: aggressioni, furti, rapine, ma anche concorrenza sul mercato del lavoro e nell’accesso al welfare. Simmetricamente, non è perché sono dotati di una superiore moralità che i ceti privilegiati sono aperti e tolleranti, ma perché corrono obiettivamente meno rischi, e talora riescono pure a usare le loro doti civiche come simboli di status (un meccanismo che ha condotto lo psicologo Rob Henderson a coniare l’espressione luxury beliefs, convinzioni di lusso).

Il caso della Bruck illustra in modo perfetto il meccanismo: per l’élite culturale l’apertura è un comodo segno di distinzione e di superiorità morale fino a quando non si corre il rischio di diventare bersagli, ma diventa improvvisamente una postura irrazionale allorché ci si rende conto di essere personalmente vulnerabili, in questo caso in quanto ebrei.

Di qui una semplice lezione. Quel che viene sbrigativamente etichettato come razzismo, xenofobia, islamofobia, talora è effettivamente odio e disprezzo immotivato per determinati gruppi o minoranze, ma non di rado è semplicemente paura, timore, preoccupazione, avversione al rischio. Fra i tanti diritti che ci piace esaltare e tutelare, forse dovremmo includere anche il diritto a provare paura. Un sentimento che troppo spesso rimproveriamo agli altri, salvo riscoprirne la legittimità quando, improvvisamente, irrompe nella nostra vita.

P.S. Nei giorni scorsi Edith Bruck ha sentito il bisogno di ritrattare le affermazioni rilasciate nelle due interviste, accusando il “Corriere della Sera” di aver omesso un punto interrogativo, e la stampa in generale di “estrapolare e fraintendere”. Forse avrebbe fatto meglio a rivendicare la propria sincerità, magari rievocando quella famosa, indimenticabile, vignetta di Altan, in cui il vecchio operaio rivela: “alle volte mi vengono in testa idee che non condivido”.




Perché non festeggio la vittoria di Macron

Se avessi la cittadinanza francese, avrei votato anch’io per Emanuel Macron ma non mi associo ai festeggiamenti per la sua vittoria. Macron, infatti, è poco amato dai Francesi, ha uno scarso seguito e solo lo spettro del presunto sovranismo lepeniano (sovranismo sta per fascismo) lo ha riportato all’Eliseo. Mi chiedo, allora, ma che democrazia è quella in cui vince solo chi rimane l’unico candidato presentabile in campo perché l’avversario politico non è considerato un avversario ‘normale’ ma un nemico, l’incarnazione di Satana?

Ho un terribile sospetto: che le sinistre di governo, perdenti su tutta la linea (gli operai francesi hanno votato per Marine), abbiano trovato il modo di rimanere per sempre in sella. Basta evocare ‘Annibale alle porte’ per ottenere un’assicurazione sulla vita ovvero una facile maggioranza elettorale. Non a caso leader postcomunisti che non hanno nessun serio e realistico progetto in mente, che sono a rimorchio, in Italia e in Europa, dei ‘poteri forti’, dedicano tutte le loro energie alla demonizzazione dei ‘populisti’, sostenuti da giornali che sono ‘fogli d’ordine’ al servizio dello squadrismo intellettuale che caratterizza ormai gran parte della political culture — forse non soltanto nel nostro paese.

Un giornalista non certo wertfrei come Gianni Riotta, in un articolo del 22 aprile, Tribalisti contro globalisti (“la Repubblica”) si è quasi compiaciuto per il fatto che alla divisione tradizionale ‘destra/sinistra’ si sia sostituita quella tra patrioti, “rinchiusi in confini ancestrali”, e globalisti “che guardano al mondo”. Nessun sospetto che mettendo, da una parte, gli ”scalmanati che detestano emigranti, culture e identità diverse”, i nostalgici dello “Strapaese italiano, del protezionismo economico” gli odiatori della “ cultura digitale delle piattaforme sociali” e, dall’altra, i cittadini responsabili e assennati, che non hanno paura della globalizzazione ma la giudicano un’opportunità, non stia descrivendo il mondo ma stia facendo il ritratto di Dorian Gray, allo scopo di mettere in guardia contro gli appestati. E’ la fine della dialettica politica e dello stesso spirito — tante volte chiamato in causa retoricamente — dell’Occidente, impensabile senza la consapevolezza che, nel conflitto politico e sociale, ci sono ‘verità’ sia in uno schieramento che nell’altro.

Che dialogo ci può essere, infatti, tra i ‘virtuosi’ globalisti, esaltati da Riotta, e i perversi ‘tribalisti’? I primi, a suo dire, hanno contribuito “a sradicare la miseria da sterminati Paesi ma contraendo lo status di ceti medi e lavoratori” e tuttavia solo loro sanno come porvi rimedio e come si possa essere “veri patrioti, sereni della propria identità, lingua, classici, tradizioni” ma “curiosi di incrociarla con altri, senza paure o nevrosi”. Insomma tutti i civilizzati sulla stessa barca e i barbari buttiamoli pure in mare. Non può esserci vera partita tra il Bene e il Male giacché il secondo va espulso (almeno moralmente) dal campo di gioco.

In realtà, in una vera democrazia liberale quanti competono per il potere non si dividono in eletti, da una parte, e dannati, dall’altra. Se i secondi ottengono voti, vuol dire che vengono incontro a interessi, bisogni, paure — ossessioni, se si vuole — che sono da tenere in seria considerazione giacché si  richiamano pur sempre a valori diversi ma tutti  in sé rispettabili (anche se i modi per metterli in pratica trasformano il vino in aceto). In una società aperta, non si vince mai per ko ma solo ai punti. Avrei preferito Macron a Le Pen non perché la seconda è una creatura satanica (come credono al ‘Foglio’) ma perché, pur non nascondendomi le poche buone ragioni del Rassemblement National, il Presidente uscente mi dava più affidamento in politica estera, oggi divenuta di cruciale, drammatica, importanza.

Sono disposto ad ammettere che i populisti e i sovranisti italiani — per i quali non ho mai votato —ingenerino non poche riserve ma i loro avversari sono forse migliori? Discendono dai lombi di Cavour, di Giolitti, di De Gasperi? Ormai persino nei salotti liberali fare i nomi di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni è come fare il nome di Silvio Berlusconi negli stessi salotti di trent’anni fa. Non parliamo dei Dipartimenti universitari. Se si chiede, però, quali battaglie sovraniste sono intollerabili per un paese civile — quando non si tirano in campo le solite politiche di limitazione delll’immigrazione, ribadite  da Trump come da Biden, che non ha tolto un mattone dal muro fatto  costruire dal primo — si ottengono risposte vaghe e generiche che alludono a presunti razzismi (sull’antirazzismo leggere il grande Pierre-André Taguieff), alla persecuzioni dei ‘diversi’, alla bocciatura — che peraltro ho salutato con un sospiro di sollievo–della  legge Zan, all’apologia di fascismo (che spesso consiste nel riproporre verità scontate per la storiografia revisionista). Vero è che lo snobismo etico-estetico con cui si guarda alla destra italiana ha una sua funzione precisa: quella di farci sentire parte di una ‘comunità di linguaggio’ che ci consente di venir tollerati (se si è liberalconservatori) nei circoli che contano.




Noi e l’Europa/L’illusione che Macron ci salvi dalla Merkel

Il parziale insuccesso di Angela Merkel e la netta avanzata di Alternative für Deutschland (AfD), partito nazionalista anti-immigrati, sembra aver suscitato, in Italia, due reazioni opposte. Al di là della preoccupazione per l’avanzata di una forza radicalmente anti-europea, valutazione che accomuna la maggior parte delle forze politiche (con le importanti eccezioni di Lega e Fratelli d’Italia), il vero punto di frattura fra gli osservatori sono le conseguenze economiche del voto tedesco.

Per alcuni l’indebolimento della Merkel comporterà la fine dell’egemonia franco-tedesca sull’Europa, e lascerà più gradi di libertà a paesi come la Francia e l’Italia, specie in materia di deficit pubblico. Per altri è invece possibile che l’ingresso al governo dei liberali renda ancora più severe le politiche seguite fin qui, non solo in termini di flessibilità, ma anche in materie come la politica monetaria (fine del Quantitative Easing) o le regole bancarie (minori possibilità, per le banche, di detenere titoli di Stato di paesi altamente indebitati). I primi sperano che Macron faccia da argine alla Merkel facendoci passarea ad “un’Europa plurale”, i secondi temono che ad avere la meglio sia ancora una volta la cancelliera tedesca, con conseguente rafforzamento delle politiche di rigore care al ministro Schäuble.

Ma è fondata l’idea che Macron possa fare da argine alla Merkel?

Per certi versi sì, perché in effetti, come ha giustamente rilevato Lucrezia Reichlin qualche giorno fa, i punti di vista dei due paesi sulla politica economica europea non collimano. La Francia vede di buon grado un accrescimento delle risorse a disposizione delle autorità sovranazionali per attuare politiche di stabilizzazione, la Germania pensa a un accrescimento del potere di sorveglianza, se non di ingerenza, sulle politiche nazionali, troppo sbilanciate dal lato della spesa.

Per altri versi, invece, penso che gli entusiasti dell’europeismo anti-tedesco di Macron si illudano. E lo penso per una ragione molto semplice: a suo tempo mi è capitato di leggere Rivoluzione, il libro in cui Emmanuel Macron enunciava il suo programma, uscito nel 2016 in Francia, e tradotto quest’anno in Italia (La Nave di Teseo, 2017). Di quel libro, la cosa che più mi aveva colpito, sul piano politico, è il modo in cui il futuro presidente della Repubblica francese parlava della Germania. Un modo estremamente rispettoso dell’alleato tedesco, e assolutamente autocritico riguardo alle scelte passate della Francia. Lungi dall’immaginare un futuro braccio di ferro con la Merkel, Macron delinea una vera e propria politica dei due tempi, in cui l’autoriforma della Francia precede ogni richiesta alla Germania, e anzi ne è la condizione di legittimità:

“Se vogliamo convincere i nostri partner tedeschi ad andare avanti, il nostro compito primario sarà quello di riformarci. Oggi la Germania è attendista, e boccia molti progetti europei perché non ha fiducia in noi”. E tale sfiducia, spiega Macron, è perfettamente giustificata, perché noi francesi (ma il medesimo discorso potrebbe essere fatto per l’Italia), la fiducia della Germania “l’abbiamo tradita almeno tre volte: nel 2003-2004 impegnandoci a introdurre riforme di fondo che solo i tedeschi hanno poi condotto; nel 2007 bloccando unilateralmente l’agenda di riduzione della spesa pubblica che avevamo stabilito insieme; e ancora nel 2013 guadagnando tempo senza poi concludere nulla di concreto”.

Di qui un impegno: “nell’estate 2017 presenteremo la strategia delle riforme di modernizzazione del paese e il piano quinquennale di riduzione delle spese correnti, provvedendo senza indugio alla loro attuazione”.

E’ solo a questo punto del ragionamento che Macron introduce la visione francese del futuro dell’Europa: “in cambio chiederemo ai tedeschi di procedere a una vera riprogrammazione di bilancio. Essi dovranno concordare con noi sull’idea di un bilancio dell’eurozona, nonché sull’autorizzazione di futuri investimenti nel complesso dei paesi dell’eurozona”.

Come si vede siamo lontanissimi dal registro vittimistico che accomuna tutto l’arco delle forze politiche nostrane. Nessuna richiesta di aumentare il deficit, nessuna accusa all’Europa di essere l’origine dei guai francesi, nessuna giaculatoria sulla flessibilità di bilancio.

Chi plaude a Macron e lo vede come il contrappeso al potere della Merkel forse dovrebbe riflettere. Si può pensare che la rigidità tedesca sia l’origine principale dei guai italiani (io non lo penso). Ma immaginare che sia Macron a tirarci fuori dai nostri guai ammorbidendo la politica della Germania mi pare decisamente azzardato. Perché, giusta o sbagliata che sia l’impostazione dei problemi europei che egli ha enunciato nel suo libro-manifesto, quella è una visione da uomo di Stato. Precisamente la materia prima che scarseggia in Italia.

Pubblicato su Il Messaggero il 30 settembre 2017