L’Italia e gli altri. Bollettino Hume sul Covid-19 (2°)

Bollettino bisettimanale sull’andamento dell’epidemia

Continua oggi, venerdì 1° maggio, la pubblicazione dei bollettini della Fondazione David Hume sull’andamento dell’epidemia.
In questo secondo bollettino, che esce a pochissimi giorni dall’avvio della fase 2, ci concentriamo su tre domande:
1) a che punto siamo nel percorso che dovrebbe condurci alla meta di “contagi zero”?
2) qual è la posizione dell’Italia rispetto agli altri paesi?
3) quanto tempo potrebbe essere ancora necessario perché l’obiettivo di contagi-zero venga centrato dal nostro paese?
La risposta alla prima domanda sta tutta in questo istogramma:La valutazione della velocità del contagio è basata sulla mortalità per abitante, l’unico dato relativamente comparabile fra paesi.
Come si vede, siamo ancora al 40%: vuol dire che, fatto 100 il numero di nuovi contagiati del giorno di picco, dobbiamo ancora discendere 40 scalini per arrivare a contagi-zero. Meglio di noi stanno, fra i grandi paesi, Spagna e Francia, peggio di noi stanno la Germania, il Regno Unito, gli Stati Uniti.
Insomma, a prima vista la posizione dell’Italia non sembra troppo cattiva.
I guai cominciano, però, non appena si considerano due elementi. Il primo è l’anzianità epidemica, ossia il numero di giorni da cui è iniziata l’epidemia, che per l’Italia è maggiore che per qualsiasi altro paese (eccetto Cina e Corea del Sud, ovviamente).
Il secondo elemento di preoccupazione è la velocità alla quale scendiamo verso la meta di contagi-zero. La velocità dell’Italia è del 2.9% al giorno, una delle più basse fra i paesi considerati.Peggio di noi fanno Stati Uniti e Regno Unito, meglio di noi Spagna, Francia, ma soprattutto Germania.
Fra i 26 paesi considerati gli unici che paiono relativamente vicini alla meta sono Finlandia, Estonia e Lussemburgo. Essi hanno infatti percorso buona parte della strada che li separa da contagi-zero, e paiono caratterizzati da una velocità di discesa piuttosto elevata.
Quanto tempo è ancora necessario per arrivare a contagi-zero?
Impossibile dirlo, perché non sappiamo la velocità alla quale l’Italia percorrerà l’ultimo tratto di strada. Un elemento di rassicurazione, però, esiste: sia i dati sul numero dei morti sia quelli sul numero di nuovi contagiati si riferiscono ad eventi che sono avvenuti, rispettivamente, circa 3 e 2 settimane prima. Come la luce delle stelle lontane, i morti di oggi ci informano su contagi avvenuti 20-25 giorni fa.
Possiamo solo sperare che, nel frattempo, la corsa verso contagi-zero sia proseguita. Anche se la prudenza suggerirebbe di attendere che sia i decessi giornalieri, sia i nuovi casi diagnosticati, si portino molto vicini a zero.

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Nota tecnica 
I paesi considerati sono tutti quelli in cui:
a) l’epidemia ha varcato la soglia dei 10 morti per milione di abitanti;
b) il picco è già stato superato da almeno 4 giorni.
Il picco è stato calcolato come variazione trigiornaliera della mortalità per abitante.

Leggi il 1° Bollettino Hume sul Covid-19




Esuli pensieri. Un’agenda dell’epidemia

Esuli pensieri

Su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar 

(Giosuè Carducci, San Martino)

Un’agenda dell’epidemia

Era un po’ di tempo che avevo voglia di cominciare una specie di diario, una sorta di “agenda della crisi” che raccontasse questi giorni funestati dal Covid-19.

Un’agenda fatta di numeri e di analisi, perché maneggiare numeri è il mio mestiere. Ma un’agenda, anche, fatta di riflessioni e di pensieri, che il procedere della crisi continuamente sollecita. Li ho chiamati “esuli pensieri”, perché mi sento in esilio.

Ora ho sentito in Tv il discorso di Conte che annuncia la riapertura il 4 maggio, e non posso più rimandare. La mia agenda comincia da qui, dal discorso che ci è stato inflitto stasera.

E allora andiamo subito al sodo. Che cosa ha detto Conte?

Il succo è questo: Cari italiani, è giunto il momento di riaprire. Certo, riaprire già adesso comporta dei rischi, perché l’epidemia può ripartire in qualsiasi momento. Ma impedire al virus di tornare a circolare si può: dipende essenzialmente da voi, dal vostro senso di responsabilità. Se rispetterete le regole, l’epidemia si potrà tenere sotto controllo, se non le rispetterete l’epidemia ripartirà.

Eh no, caro presidente del Consiglio, questo non puoi proprio dirlo. Dire che l’epidemia potrebbe ripartire è già un inganno. L’epidemia è tuttora in corso, non c’è un solo indizio empirico che sia finita, quindi la prima cosa che dovevi dirci è che voi, politici, avete cambiato idea. Ci avete fatto credere che prima avremmo fermato l’epidemia, e poi avremmo riaperto. Invece ora ci dite che riaprite ad epidemia in corso, esponendo tutti noi a rischi drammatici.

Ma l’inganno più grande è scaricare su di noi, comuni cittadini, la responsabilità di impedire una nuova esplosione del contagio. Troppo comodo. Questo lo potreste dire se, in questi mesi, ci aveste messi in condizione di difenderci. Se, dopo settimane e settimane in cui siamo stati dimenticati nelle nostre case (o nelle nostre residenze per anziani), senza assistenza, senza mascherine, senza tamponi, ora foste in grado di dirci: state tranquilli, ora le mascherine ci sono per tutti, ora un tampone non ve lo negheremo più, ora i medici vi verranno a trovare a casa quando state male.

Invece su tutto questo non una parola, non un numero. Apprendiamo che verrà fissato un prezzo massimo per le mascherine, e si sprecano parole di fuoco contro la speculazione che fa lievitare i prezzi. Ma nemmeno Manzoni avete letto? Non lo sapete che, se gli speculatori prosperano, è perché voi non siete in grado di assicurare un approvvigionamento adeguato? Non vi vergognate a chiederci di mettere le mascherine, salvo coprirci con foulard, sciarpe e asciugamani se le mascherine non le troveremo?

Per non parlare dei tamponi, che avete negato e disincentivato in tutti i modi, nascondendovi – finché vi è stato possibile – dietro le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E ora che l’OMS ha fatto macchina indietro, e invita a fare tamponi (“test, test, test”), perché continuate a farne così pochi? Non lo sapete che i paesi in cui la conta dei morti è meno drammatica sono quelli che hanno puntato sui tamponi di massa? Quanti dati, quante analisi, quanti grafici dobbiamo darvi per convincervi che le cose stanno così?

E i lavoratori cui chiedete di tornare al lavoro, “nella massima sicurezza”? Ci sarebbe piaciuto sentire qualche numero sui cosiddetti dispositivi di protezione individuale. Quanti ne occorrono, quanti sono attualmente disponibili, chi provvederà a fornirli alle imprese, chi si farà carico del costo.

E invece no. Anziché dare garanzie su questo, il governo si compiace di farci sapere che presto inonderà imprese e organizzazioni con dettagliatissimi “protocolli di sicurezza”, nel solito consueto stile degli apparati pubblici: io ti dico a quali norme devi attenerti, non mi preoccupo di metterti effettivamente in grado di rispettarle.

E allora, almeno una cosa lasciatecela dire. Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali.

Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa.

 




L’azzardo della ripartenza

Sono stato facile profeta quando, una settimana fa, scrissi che ai primi di maggio la fase 2 sarebbe partita comunque, a prescindere dall’andamento dell’epidemia. E infatti così è: il mese di maggio sarà il mese della ripartenza. Più o meno modulata, più o meno differenziata, ma comunque ripartenza, allentamento delle misure restrittive, riapertura di molte fabbriche ed esercizi commerciali.
Può essere più o meno sbagliato, ma è inevitabile. La democrazia è sospesa, l’opinione pubblica preme, gli operatori economici scalpitano: impensabile che la politica non ne tenga conto.
Che poi tanti medici e tanti scienziati dicano che è pericoloso, poco importa. E nemmeno contano le parole del prof. Andrea Crisanti, probabilmente il nostro epidemiologo più esperto, quello che ha realizzato l’indagine su Vo’, ha scoperto l’enorme peso degli asintomatici, e fin da febbraio ha avvertito che occorreva chiudere, e chiudere subito: “tutti quelli che si affannano e spingono per riaprire non si rendono conto delle conseguenze a lungo termine; i rischi esistono perché c’è ancora tantissima trasmissione: tremila casi al giorno sono ancora molti, mica pochi”.
Che dire, dunque?
Forse semplicemente a che punto siamo, quel che sappiamo e quel che non sappiamo.
Soprattutto quel che non sappiamo, perché nessuno può pensare di governare un’epidemia senza i dati di base della situazione, e senza strumenti di monitoraggio ragionevolmente precisi.

Ignoranza 1. Non sappiamo quanti sono i contagiati, né quanti fra i contagiati sono tuttora contagiosi. E non lo sappiamo innanzitutto perché, nonostante fin da metà marzo vi fossero proposte di condurre un’indagine su un campione nazionale rappresentativo, e per quanto alla fine anche le autorità si fossero convinte della sua utilità, il pachiderma dell’apparato addetto all’indagine nazionale non ha ancora fornito un solo bit di informazione. Dunque, se vogliamo avere un’idea della diffusione del contagio siamo costretti a ricorrere a stime ultra-incerte, che viaggiano arditamente fra i 2 e i 12 milioni di persone.

Ignoranza 2. Non conosciamo neppure la diffusione territoriale relativa del contagio. Il dato meno inquinato di cui disponiamo è quello dei morti per Covid-19 in ogni regione. Ma da quando si è appreso che non solo il numero dei morti effettivo è molto superiore a quello ufficiale (da 2 a 4 volte), ma il numero oscuro dei morti nascosti è estremamente variabile da regione a regione, da provincia a provincia, da comune a comune, siamo costretti a concludere che la distribuzione territoriale del contagio potrebbe essere molto diversa da quella suggerita dai morti per abitante, e che i rischi per il Sud potrebbero essere sensibilmente maggiori di quel che si pensa basandosi sul numero di morti ufficiali (del numero di contagiati fornito dalla Protezione Civile non vale neppure la pena di parlare, tanta è la loro dipendenza dai tamponi effettuati in ogni territorio). E dire che, per saperne di più, basterebbe che le autorità, anziché trincerarsi dietro il paravento della privacy, si degnassero di comunicare il numero di morti comune per comune.

Ignoranza 3. Non sappiamo a che velocità viaggia effettivamente l’epidemia, nonostante vi siano esperti che presumono di conoscere il cosiddetto “numero riproduttivo” (ossia il numero di contagiati per persona) addirittura regione per regione.
Credo non a tutti sia chiaro che i numeri che quotidianamente ci vengono comunicati dalla Protezione civile non si riferiscono al “mare” dei contagiati, ma a un “laghetto” di pazienti intercettati dalle autorità sanitarie. Nessuno conosce esattamente le dimensioni relative del laghetto rispetto al mare, ma le stime più ottimistiche dicono che il mare potrebbe essere “solo” 10 o 20 volte più grande del laghetto, mentre le più pessimistiche (vedi la virologa Ilaria Capua) si spingono ad ipotizzare che possa essere 100 volte tanto (la stima della Fondazione Hume, che verrà pubblicata nei prossimi giorni, è che il mare sia circa 50 volte più grande del laghetto). Questo significa che, quando la sera ascoltiamo con trepidazione le cifre dei nuovi casi, quello di cui gli esperti ci stanno parlando è quel che succede nel laghetto che loro riescono ad osservare, mentre di quel che capita nel restante 90, 95 o 98% della realtà nulla di preciso è dato sapere.

Dobbiamo concludere che stiamo per ripartire, ma nulla sappiamo dell’epidemia?
Non esattamente. Sfortunatamente alcune cose, invece, le sappiamo eccome, e non sono cose che ci possano rassicurare.
Che cosa sappiamo?
Quasi tutto quel che sappiamo è legato ai decessi accertati. Rispetto ai casi, infatti, i decessi hanno molto minori possibilità di essere occultati. E’ vero, ci sono i decessi nascosti nelle residenze per anziani. E ci sono le persone lasciate a casa a morire perché nessuno è venuto a visitarle, o il numero verde non risponde, o il 118 non arriva, o una mail si è perduta nel labirinto della sanità moderna e digitalizzata. Ma, nonostante tutto ciò, resta il fatto che il numero di morti nascosti può essere 2 o 3 volte il numero di morti ufficiali, ma non 20, 30, o 100 volte, come avviene nel caso dei contagiati non diagnosticati. Il “mare” dei morti totali è più grande del “lago” dei morti accertati, ma non è immensamente più grande. Di qui un’importante conseguenza: se vogliamo avere un’idea dell’andamento dell’epidemia, l’evoluzione dei decessi è la migliore (o la meno inaccurata) fonte di informazione di cui disponiamo (anche le ospedalizzazioni sarebbero una buona fonte, se solo a Protezione Civile fornisse dati un po’ più analitici).
Ebbene, lavorando sui decessi, alcune cose possiamo dirle con ragionevole sicurezza. La prima è che, in base ai dati dell’ultima settimana, in almeno la metà delle regioni l’epidemia non dà chiari segni di arretramento, e in diversi casi è tuttora in espansione
La seconda è che, nel percorso di avvicinamento alla meta di “contagi zero”, siamo ancora molto indietro. E’ passato un mese esatto dal giorno in cui le morti raggiunsero il loro picco (919 in un giorno), ma da allora – dopo una sensibile riduzione nella prima settimana (da 919 a circa 600) – la diminuzione dei decessi è stata decisamente lenta. Negli ultimi giorni siamo a quota 400-500 morti al giorno, ossia esattamente a metà del cammino che ci separa dall’obiettivo di azzerarli. Il progresso tendenziale, in altre parole, nelle ultime 3 settimane è di circa 10 morti in meno al giorno: a questo ritmo, il numero di morti quotidiani si azzererebbe solo a metà giugno, e i contagi – presumibilmente – nell’ultima parte di maggio (i morti di oggi, infatti, sono la traccia di contagi avvenuti circa 3 settimane prima).
Ma la cosa più preoccupante che la contabilità dei decessi rivela è un’altra ancora: nel confronto internazionale l’Italia non solo risulta ai primissimi posti fra i paesi occidentali per gravità e precocità dell’epidemia, ma è anche fra i paesi in cui più lenta è la discesa dopo il picco del contagio e la messa in atto delle misure di contenimento. In Germania, Francia, Spagna, Stati Uniti, la curva di discesa dei decessi è molto più ripida che da noi (solo il Regno Unito, fra i grandi paesi, presenta un profilo simile al nostro).
Insomma, siamo ancora lontani dalla condizione che – fino a poco tempo fa – da tutti veniva considerata una pre-condizione ovvia e inderogabile dell’avvio della fase 2: che il numero di nuovi contagi sia prossimo a zero. Possiamo ugualmente sperare che, nonostante tutto, l’epidemia resterà sotto controllo?
Penso proprio di no. E questo non perché la cosa sia in linea di principio impossibile, ma perché – per riaprire evitando la ripartenza del contagio – occorrerebbe essere consapevoli che il mero fatto di moltiplicare il numero di persone che lavorano e si muovono sui trasporti pubblici non può non facilitare la trasmissione del contagio. Tale consapevolezza porterebbe, o meglio avrebbe già portato, a prendere tutte le contromisure che sono indispensabili per evitare che i nuovi i focolai tornino ad espandersi come hanno fatto tra febbraio e marzo. Fra tali misure vi sono indubbiamente le procedure di tracciamento (che da noi sono “allo studio”), l’indagine nazionale sulla diffusione (che partirà il 4 maggio, se va bene), ma soprattutto i tamponi di massa.
E’ questa la via che sta permettendo alla Germania (ma anche ad altri paesi: Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Canada) di limitare drasticamente il numero di morti. Ed è questa la via che, inspiegabilmente, noi non abbiamo voluto seguire, e continuiamo ostinatamente a non percorrere.
Non capisco perché. E non lo capisce uno sconsolato Andrea Crisanti, che grazie ai tamponi sta salvando il Veneto, ma non può salvare il resto del paese: “penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione”. Trasmissione il cui inevitabile aumento – strano doverlo sottolineare – è il nodo cruciale della fase 2.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 aprile 2020