Sinistra, tolleranza zero?

Adesso che tutto è passato, il Salone del Libro di Torino è finito, la “mobilitazione antifascista” ha raggiunto il suo obiettivo (impedire a un piccolo editore che si proclama fascista di esporre i suoi testi, fra i quali un libro-intervista al ministro dell’interno Matteo Salvini), forse è possibile provare a parlare di quel che è accaduto con un minimo di pacatezza. Perché una cosa credo non si possa negarla: l’episodio di Torino un problema lo solleva, e si tratta di un problema grosso come una casa.
È giusto impedire l’esercizio della libertà di espressione a chi ha idee politiche che si richiamano al fascismo? Può una democrazia, che si proclama tollerante e aperta al diverso, comportarsi come una dittatura nei confronti di determinate persone e di determinate idee?
Come si sa, sul piano giuridico la questione si riduce a interpretare in modo più o meno severo le due leggi che si occupano del tema (la legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993), specie nei casi in cui lo zelo antifascista può entrare in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, che tutela la libertà di pensiero: “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Ma sul piano politico e civile?
Su questo piano, a me pare che l’episodio di Torino non sia un buon segnale di salute della nostra democrazia. E lo credo per due ragioni, che si intrecciano fra loro. La prima riguarda le anime belle che hanno proclamato di non essere disposte a partecipare al Salone in quanto indignate, offese, turbate, imbarazzate dalla mera presenza fisica di una casa editrice il cui proprietario ha idee che le anime belle stesse considerano deprecabili. Ebbene quelle idee le trovo pessime anch’io, ma penso che dovremmo sempre distinguere fra le opinioni espresse in modi che non ledono alcun diritto e le opinioni espresse in modi che possono ledere diritti individuali (è il caso delle intimidazioni, dell’istigazione alla violenza, delle ingiurie), o addirittura costituire concreta minaccia all’ordine democratico (era questa l’ispirazione della legge Scelba, ed è questo l’orientamento della legislazione antinazista in Germania).
Mi si permetta di dirlo in modo provocatorio: il turbamento ideologico di qualcuno non può mai essere un buon motivo per tappare la bocca a qualcun altro, finché questo “qualcun altro” si limita a esprimere un punto di vista, senza minacciare, offendere, esercitare violenza o prevaricazione. Né si pensi che il problema riguardi solo la politica: la pretesa di far valere la propria personale sensibilità (o i propri pregiudizi) sta già mettendo in crisi alcuni insegnamenti universitari negli Stati Uniti, dove può accadere che a un professore venga proibito di leggere un canto di Dante perché alcuni versi turberebbero la sensibilità di qualche individuo, gruppo o minoranza. Del resto succede anche da noi, quando una maestra ritiene che un bambino di religione islamica possa sentirsi turbato dalla vista del presepe. Di questo passo dovremmo arrivare a imporre il velo o il burqa alle ragazze occidentali, per non turbare la sensibilità dei maschi di culture meno libertine della nostra!
Per non parlare del problema speculare rispetto a quello del fascismo, quello dell’apologia del comunismo. Quanti milioni di persone si sentono ancora comuniste? Quanti sacerdoti dell’industria culturale sono stati comunisti o lo sono ancora? Ma che cosa diremmo se un perseguitato dal regime sovietico, o un intellettuale fuggito dalle prigioni cinesi, si rifiutasse di partecipare al Salone del libro perché offeso dalla presenza fisica di autori o case editrici che simpatizzano per il comunismo? Cosa potremmo replicare se ci dicesse che, ospitando certi stand, noi diventiamo moralmente corresponsabili delle terribili torture che lui ha subito in un lager comunista?
Credo che gli diremmo che non può sentirsi offeso dalla presenza di persone che, del comunismo, apprezzano ancora alcuni aspetti, e comunque lo fanno in modo civile e democratico, senza mettere a repentaglio la libertà di nessuno. Se si sente personalmente offeso, al punto da non poter partecipare a un incontro perché cinquanta metri più in là c’è uno stand che espone l’opera completa di Lenin, è un problema suo, solo suo. Ci mancherebbe altro che, in piena democrazia, dovessimo denunciare e cacciare tutte le case editrici che simpatizzano con il comunismo.
C’è però anche un’altra ragione per cui l’episodio di Torino mi ha rattristato, una ragione che, a suo modo, ha evocato anche l’editore Giuseppe Laterza in una bella intervista a “La Stampa”. Sotto quell’episodio, temo, c’è anche una malattia brutta dell’élite progressista in Italia: la sua incapacità di confrontarsi con quel pochissimo di dissenso culturale che ancora esiste nel nostro paese. Se provate a fare una lista dei pochi intellettuali, pensatori, scrittori, giornalisti difficili, in quanto in perenne dissenso con le idee che dominano nel mondo della cultura e dello spettacolo, non ne troverete quasi nessuno nel programma del Salone. Più che un’arena in cui si confrontano lealmente concezioni forti e contrapposte (come giustamente auspicava Laterza, editore di sinistra che ha pubblicato Marcello Veneziani), la festa del libro è ormai diventata essenzialmente una occasione di conferma reciproca, di autocelebrazione, di rassemblement della grande famiglia di quelli che hanno le idee giuste.
Il che solleva una ovvia domanda: ma se le idee sono così giuste, così democratiche, così aperte e tolleranti, perché tanta paura di confrontarsi con chi la pensa in modi radicalmente diversi?
E poi, forse, anche una meno ovvia: non sarà proprio per la sua incapacità di ascoltare il dissenso, di misurarsi con gli avversari politici e i critici non autorizzati, che la sinistra ha perso ogni contatto con la realtà? E non sarà proprio questo arroccamento nel proprio mondo di autocompiaciuti giusti ad averla irreparabilmente separata dai ceti popolari?

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 17 maggio 2019



Il martedì di Capaneo a Dio spiacente e a li nimici sui

Il Presidente della Vulgata

Gettano un’ombra di tristezza nell’animo degli italiani pensosi e alieni da ogni tipo di retorica (ce ne sono e sono la maggioranza) gli interventi di Sergio Mattarella sul 25 aprile e prima ancora sul giorno della memoria. Era doveroso ricordare, nelle scuole e sui media, il giorno in cui fu abbattuto un regime che, portando il paese nel baratro, aveva causato la ‘morte della patria’ ma, ricordando una pagina che Benedetto Croce scrisse nel 1918 (forse il documento spirituale più alto del 900 italiano), quando gli arrivò la notizia della fine della guerra, ci si chiede: far festa perché? Se in un incidente stradale si perde la gamba destra invece di perdere la vita, se fuor di metafora, l’Italia è stata bombardata, dilaniata dalla guerra civile, ferita nei suoi monumenti storici e nei suoi ricordi e, in tal modo, ha potuto evitare il peggio del peggio, ovvero il destino di satellite del Terzo Reich, c’è proprio materia di festeggiamento? E non sarebbe stato meglio, invece delle adunate antifasciste alle quali l’ANPI ha invitato i resistenti palestinesi (dimenticando, lo ricorda Fabrizio Cicchitto sul ‘Tempo’ che «in quegli anni le autorità religiose islamiche simpatizzavano per il nazismo e nessun gruppo ad essi ispirato partecipò alla Resistenza»), non sarebbe stato meglio, dicevo, deporre corone di fiori nei cimiteri di guerra inglesi, americani, polacchi che della Liberazione furono i veri non retorici artefici?

 Mattarella non ha avuto nessun dubbio nel ripercorrere le strade del fascismo, che sulle sue discutibili ricostruzioni della storia d’Italia apponeva il sigillo delle verità ufficiali: allora il dissenso comportava una condanna penale, oggi (per fortuna) comporta solo un’esecrazione morale—quella che manda in visibilio Ugo Magri, il Mario Appelius della ‘Stampa’, che, dinanzi alle esternazioni del Presidente, commenta ammirato: «Un’ammissione così esplicita mai si era udita finora sul Colle».

Colpisce non poco che, tranne qualche eccezione, Mattarella abbia fatto a pezzi il revisionismo storiografico del più grande studioso del fascismo, Renzo De Felice, senza suscitare la benché minima reazione da parte di studiosi e di pubblicisti che pure continuano a richiamarsi alla lezione dello storico reatino. Il fascismo fu una bieca tirannide che tenne per vent’anni gli italiani schiavi di una dittatura implacabile, sanguinaria, spietata con «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini asserviti». E gli ‘anni del consenso’, al quale era dedicato il più importante volume dell’opera monumentale di De Felice che quarant’anni fa scatenò la reazione dei retori dell’antifascismo ma di cui, di lì a poco, si sarebbe riconosciuto da tutti il valore storico (a cominciare dal Giorgio Amendola dell’Intervista sull’antifascismo)? Cancellati dalla retorica quirinalizia! Dire che il fascismo ha lasciato opere pubbliche ed enti assistenziali importanti, ricordare che alle une e agli altri si interessò molto Franklin D. Rooosvelt che incaricò una Commissione di studiare le ricette fasciste per la crisi, significa diventare complici del nazifascismo (v. la pioggia di insulti caduta sul povero Tajani). «La storia non si riscrive!» ha sentenziato Mattarella: il fascismo è stato quello che ci hanno detto l’ANPI e gli storici partigiani, punto e basta! De Felice, scrive Francesco Perfetti, «contesta duramente la qualifica di ‘secondo Risorgimento’ per la lotta di liberazione degli anni 1943-1945: questa gli appare storicamente inconsistente perché gli ‘ideali civili’ (sintesi di ‘nazione’, ‘patria’, ‘libertà’) del Risorgimento e le forze politiche che ne erano state protagoniste erano, in gran parte, diversi da quelli che caratterizzarono il cosiddetto ‘secondo Risorgimento’». A Mattarella non potrebbe interessare meno: parlare di ‘Secondo Risorgimento’ significa infatti—per lui come per l’establishment culturale di sinistra– che la Resistenza non fu una mera ‘restaurazione democratica ’(come la definì—‘riduttivamente’?— Panfilo Gentile), ma una vera e propria rifondazione della comunità politica che non doveva limitarsi a disinfestare la casa occupata dall’invasore nazista  ma costruire un nuovo edificio, ispirato alla ‘democrazia progressiva’—la formula escogitata da Togliatti per far dimenticare lo stalinismo del PCI e mettere in piedi un’alleanza di tutte le forze antifasciste, dai cattolici ai soupirants azionisti.

Ognuno è libero di pensare e di dire quel che crede—anche il Presidente della Repubblica, anche il Presidente del Parlamento europeo— ma ci si chiede sommessamente: l’opinione pubblica—su cui si fonda la democrazia, quel ‘banale conteggio delle teste’—conta qualcosa o no? E se l’opinione pubblica non vede nella dittatura fascista (almeno fino alle leggi razziali, che secondo Mattarella, noto studioso dell’antisemitismo e del razzismo, erano connaturate all’ideologia di Mussolini) l’inferno in terra,  se non vuol saperne di democrazia progressiva, come dimostrò nel 1948 con la sconfitta del Fronte popolare, se sente così poco il 25 aprile—Festa in piazza, ma i partigiani sono pochi, ha scritto Ettore M. Colombo sul QN— da tenersi lontana dalle cerimonie ufficiali, come  reagirà il Colle? Potenziando l’ANPI, moltiplicando le iniziative tipo la storia in piazza, esigendo dai professori di storia contemporanea l’impegno solenne a non riscrivere la storia? La libertà non si baratta con l’ordine ma neppure col ‘politicamente corretto’, Signor Presidente!

Pubblicato il 30 aprile su L’Atlantico



Giovanni Amendola eroe del liberalismo che amava la nazione (e capì il fascismo)

Giovanni Amendola. Una vita in difesa della libertà (Ed. Rubbettino) è il titolo del volume collettaneo, a cura di Elio d’Auria, lo storico che ha dedicato un’esistenza allo studio e alla raccolta di scritti del leggendario capo dell’opposizione aventiniana al fascismo. Della complessa e poliedrica personalità di Amendola vi vengono analizzati quasi tutti gli aspetti: dal filosofo (Girolamo Cotroneo, Angelo Sabatini), al pubblicista (Mario Pendinelli, Sandro Rogari, Gerardo Nicolosi), dallo statista (Federica Guazzini) al teorico di una nuova democrazia (Fabio Grassi Orsini, Luigi Compagna). Non mancano capitoli di grande interesse sulle ‘amicizie politiche’ di Amendola (Sergio Zoppi, Lucio D’Angelo), sulle sue idee economiche (Guido Pescosolido), sulla sua analisi del fascismo (Giuseppe Bedeschi).

Sintetizzando il significato più profondo dell’impegno etico-politico amendoliano, ha scritto d’Auria: «La battaglia che egli combatté in difesa della libertà e della democrazia, si concentrò nel ridare allo Stato l’autorità di organismo al disopra delle parti che risolveva i conflitti sociali e politici attraverso la libera partecipazione dei cittadini all’esercizio degli affari pubblici» Alla forte valenza mazziniana di tale battaglia si era richiamato il prestigioso storico cattolico Gabriele De Rosa: «Tutta la pubblicistica amendoliana—si legge in un saggio del 1961— si muove attorno a una concezione mazziniana della democrazia, attorno a una concezione, cioè, in cui l’istanza parlamentare è subordinata all’idea dello Stato nazionale, come espressione degli interessi e delle aspirazioni ideali di una comunità che non esaurisce la sua vita pubblica in quella delle classi e dei partiti».

In un’epoca, come la nostra, in cui il Risorgimento, i suoi ‘eroi’, i suoi simboli sembrano tramontati nelle coscienze e nel ricordo degli Italiani, non può che apparire inattuale la lezione del  filosofo napoletano che rivendicava con forza il nesso tra lo stato nazionale, la democrazia e i diritti di libertà: un nesso che le giovani generazioni, va detto francamente, non sentono più, anche per colpa dei petulanti revisionismi storici che, presenti persino in trasmissioni televisive di grande ascolto (v. ‘Made in Sud’), dileggiano la fede dei ‘nostri padri’—di Francesco De Sanctis, di Benedetto, Croce, di Giustino Fortunato, di Gaetano Salvemini, di Gioacchino Volpe, di Rosario Romeo etc. etc.—riproponendo vetusti luoghi comuni come il ‘saccheggio piemontese’.

Introducendo la raccolta dei suoi scritti politici, chiestagli da Piero Gobetti, Amendola ricordava con orgoglio il principio ideale a cui aveva ispirato tutta la sua vita di filosofo e di combattente. «Tale direttiva si riassume in una appassionata ed incrollabile fede nello Stato nazionale, concepito come la sola creazione veramente rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano, e come la sola garanzia efficace del suo avvenire; ed in una consapevole volontà di azione rivolta ad introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato, allargando, profondando e consolidando le sue fondamenta in tutta 1’estensione spirituale della coscienza italiana». Di qui, altro motivo della sua inattualità, il suo liberalismo anti-individualista che lo portava a scrivere: «L’individuo non ha diritti assoluti contro la tradizione e contro la società; perché tradizione e società entrano a costituirlo in larga misura. Pertanto l’autonomia del singolo, su cui è fondata la libertà civile, non assolve l’individuo dalle sue responsabilità verso il passato, il presente e l’avvenire della società in cui egli vive; ma anzi le rende più precise ed imperative».

Ne derivava una strategia dell’attenzione verso Mussolini—v. il magistrale saggio Bedeschi—nutrita di illusioni comuni a gran parte dei liberali del suo tempo (sulla possibile costituzionalizzazione del fascismo) ma, altresì, capace di porre problemi cruciali che la retorica antifascista e resistenziale ha azzerato. Non si tratta per lui solo di riconoscere che contro la ‘minaccia del bolscevismo dissolvitore’ il fascismo (siamo nel 1922!) «rappresenta una tutela, la cui persistenza continua ad essere necessaria, una garanzia per l’avvenire del nostro Paese» ma di ben altro: del tentativo, appunto, di «introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato», nella fattispecie, «l’Italia di Vittorio Veneto». Per Amendola la vera tragedia italiana sta nel fatto che una reazione ‘sana’, quella fascista, si sia trasformata nella demolizione dello ‘Stato di diritto’ e che il rimedio sia risultato peggiore della malattia. Risposta sbagliata a un problema reale, quindi: è quanto una storiografia anpista e faziosa si ostina ancora a non vedere.

Alla luce di questi rilievi, ci si chiede davvero chi possa essere interessato al pensiero di Amendola: non gli antisovranisti duri e puri, per i quali lo Stato nazionale è un fantasma di cui ci si deve disfare al più presto; non i neo-liberali per i quali un liberalismo anti-individualista sarebbe un ossimoro; non gli idolatri del nuovismo, per i quali destra e sinistra non stanno sullo stesso piano, giacché l’una è la reazione e l’altra il progresso (Amendola aveva denunciato il ‘bacillo deleterio’ che portava a non riconoscere più nello stato democratico il garante della civile competizione tra destra e sinistra); non i fanatici della globalizzazione, che non intendono più il nesso aristotelico, chiaro ad Amendola, tra la forza delle classi medie e la vitalità della democrazia liberale. (v. l’opportuno cenno di Pescosolido).

E tuttavia il ‘superato’ Amendola fuori d’Italia non si troverebbe oggi in cattiva compagnia. Da anni, infatti, in Francia come nei paesi anglosassoni, la demonizzazione dello Stato nazionale è oggetto di profonda revisione critica. Autori come Abigail P. Aguilar, Yoram Hazony, Pierre Manent, David Miller, Roger Scruton, Yael Tamir parlano di «liberal nationalism» in un senso che sarebbe piaciuto molto al grande antifascista. Uno dei più importanti sociologi del nostro tempo, Edward Shils  nel 1995 aveva scritto in Nazione, nazionalità, nazionalismo e società civile: «I diritti nascono dall’essere membri di una collettività indipendentemente dal fatto di venire etichettati come ‘diritti umani’. Essi sono rivendicazioni nei confronti degli altri membri della collettività, non sono diritti che un individuo  possiede per il semplice fatto di appartenere alla specie homo sapiens; egli chiede e ottiene diritti come conseguenza dell’essere membro di una collettività.». Amendola avrebbe condiviso toto corde.

Articolo pubblicato su Il Giornale del 5 aprile 2019



Un caso inequivocabile di antifascistite acuta

 Alberico Giostra non è uno dei tanti che scrivono su Facebook o su riviste on line lette da pochi intimi—parenti e amici. Ha lavorato al Tg La7 e scritto su ‘Liberazione’, ‘Il Manifesto’, ‘Il Riformista’, l’’Espresso’ e ‘Diario’. Nel 2007 ha pubblicato un’inchiesta su Clemente Mastella nel volume collettaneo, I nostri ponti hanno un anima, nel 2009, Il Tribuno. Storia politica di Antonio Di Pietro, nel 2013 l’e-book, Di Pietro ultimo atto. La caduta del Tribuno e nel 2018 Il partito del F.Q. Chi trova un nemico trova un tesoro, un feroce attacco al ‘Fatto Quotidiano’. Da tempo lavora alla RAI ovvero nell’ente pubblico che svolge un ruolo decisivo nell’informazione e, volente o nolente, nella formazione culturale degli italiani—qualche anno fa si sarebbe detto nella nazionalizzazione delle masse—e che, pertanto, dovrebbe fare una politica delle assunzioni particolarmente prudente e severa. L’8 gennaio Giostra ha postato su Facebook queste sue riflessioni: «Il pugile professionista che a Parigi si scaglia con violenza contro il poliziotto a terra, l’aggressione dei neofascisti di Forza Nuova contro il giornalista dell’Espresso, Federico Marconi, al Verano, dimostrano non solo che il fascismo non è un’ideologia ma un reato, ma che il fascismo è ed è sempre stato nient’altro che un orpello retorico per attribuire una miserabile logica politica ai più beceri istinti di violenza e sopraffazione. Si diventa fascisti perché si ha voglia di menare le mani, non per difendersi da qualche minaccia. Si diventa razzisti e omofobi perché si odiano i diversi da noi, non perché neri e omosessuali minaccino qualcosa o qualcuno. Si diventa antiabortisti perché si odia la libertà delle donne non per salvare la famiglia. Si diventa giustizialisti perché si è mossi dal sadico piacere di vedere ridotto alla gogna o condannato qualcuno, non per riaffermare una qualche presunta giustizia. Si diventa fascisti perché si ama la menzogna, perché la prima violenza il fascismo e i suoi fiancheggiatori la commettono contro la verità».

 Vale la pena occuparsi di queste farneticazioni? L’obiezione che mi è stata fatta da un amico giornalista al quale avevo manifestato il mio stupore dinanzi a tante banalità ideologiche, è tutt’altro che infondata. Sennonché è difficile trattenere lo sconcerto se si pensa che, piaccia o no, la mens di Giostra è la stessa di tanta, tantissima, parte della nostra political culture: i suoi giudizi   sono moneta corrente nelle nostre facoltà umanistiche, nei mass-media, nelle pagine culturali dei grandi quotidiani nazionali, nei tribunali dell’ANPI, quelli che hanno dato notizia della morte di Giorgio Albertazzi col comunicato Un bastardo ci lascia e hanno contribuito a stendere un velo di silenzio sul 1918—l’inutile strage voluta da una minoranza cieca e violenta. Pubblicisti come Giostra, in realtà, non sono da sottovalutare: rappresentano, infatti, un case study esemplare che consente di mettere a fuoco la degenerazione dell’antifascismo in antifascistite acuta e le ragioni del discredito odierno che tale repellente metamorfosi getta sulla più nobile delle cause politiche, quella della lotta per la libertà dei popoli e in difesa della dignità umana.

A chi da una vita si occupa di fascismo, sulla scia di grandi storici e filosofi del XX secolo—da Renzo de Felice ad Augusto Del Noce, da Ernst Nolte a Domenico Settembrini—il post di Giostra fa un effetto terribile e sconvolgente. Dà il senso dell’assoluta inutilità di una ricerca storica che, sulle due rive dell’Atlantico, ha segnato momenti fondamentali per l’evoluzione stessa della democrazia liberale: non è casuale che il revisionismo storiografico—che ha avuto in De Felice il suo simbolo per antonomasia—abbia ridato nuovo vigore intellettuale al liberalismo contemporaneo, ispirando, ad es., opere come Il passato di un’illusione del grande storico François Furet, prematuramente scomparso, e abbia ridestato l’attenzione  sulla produzione saggistica di Raymond Aron, il principe del liberalismo novecentesco, quasi un revisionista ante litteram per i suoi studi sulle destre—conservatrice e radicale. Leggere che « il fascismo non è un’ideologia ma un reato» e che « il fascismo è ed è sempre stato nient’altro che un orpello retorico per attribuire una miserabile logica politica ai più beceri istinti di violenza e sopraffazione» significa trasmettere alle giovani generazioni, avide frequentatrici di facebook, un’immagine della dittatura italiana che avrebbe fatto trasalire persino il Palmiro Togliatti delle Lezioni sul fascismo (il celebre ciclo di conferenze tenuto dal Migliore a Mosca tra il gennaio e l’aprile 1935) per non parlare del Gramsci dei Quaderni.

 Con Giostra siamo ancora nella fase preanale della riflessione sui movimenti totalitari di destra, segnata dall’autocompiacimento per le proprie secrezioni etico-emotive e dall’estraneità assoluta all’etica weberiana della ricerca, che distingue analisi e valutazioni, scienza e coscienza. Sennonché l’auogratificazione di chi si sente immune dai «più beceri istinti di violenza e di sopraffazione» ha un costo elevato: la cancellazione della realtà, l’incapacità di riconoscere che, per tanti anni, una parte rilevante della società italiana ha plaudito al duce e che tanti illustri intellettuali—da Giovanni Gentile a Luigi Pirandello, da Gioacchino Volpe a Guglielmo Marconi —hanno visto in lui il pater patriae, il salvatore di una  ‘comunità nazionale’ dilacerata non tanto dai problemi enormi della ricostruzione postbellica quanto dall’irresponsabilità politica dei principali partiti e sindacati  privi del senso delle istituzioni e restìi  a mettere da parte i loro contrasti per salvare natura e funzioni dello Stato di diritto.

 Se si definisce fascista   chi ha voglia di ‘menar le mani ’non ha più senso alcuno lo sforzo di comprensione dei nostri avversari: alla violenza si reagisce con la violenza senza perder tempo in inutili chiacchiere. Come nel vecchio western ,vince chi spara per primo e Giostra si candida a pistolero (per ora solo verbale) al servizio della Dodge City antifascista. Sennonché, nel suo concetto allargato di fascismo, tutto diventa species  del genus.« Si diventa razzisti e omofobi perché si odiano i diversi da noi, non perché neri e omosessuali minaccino qualcosa o qualcuno»: in altre parole, se si è contrari alle nozze gay e, soprattutto, all’adozione gay (ma non al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto) in nome di una visione tradizionale della famiglia non si è portatori di valori diversi da quelli di Giostra e del ‘Manifesto’—valori ereditati appunto dalla Tradizione  contrapposti ai valori  nati dal Progresso–:si diventa la mela marcia fascista che una società civile è tenuta ad espellere dal suo paniere. Del pari, se si è «antiabortisti perché si odia la libertà delle donne non per salvare la famiglia» ,le riserve manifestate da Norberto Bobbio nei confronti dell’interruzione della gravidanza vanno lette come senescenza senile, oscuramento dell’intelligenza morale.

 La sindrome totalitaria può definirsi come la malattia dello spirito che tende a fare un solo fascio di quanti non la pensano come noi e a squalificare a priori le distinzioni nel campo di Agramante che fanno perdere solo tempo. Tra il seguace del ‘Movimento per la vita’—che legittimamente, peraltro, si batte contro l’aborto—e il liberale laico che assimila l’aborto a un omicidio ma ritiene che lo sconvolgimento di vita della madre sia da tenere in maggiore considerazione della pur dolorosa soppressione di una esistenza non ancora sbocciata, non c’è nessuna differenza. Tra chi si lamenta di un’immigrazione che degrada e rende insicuri i quartieri   delle metropoli (e non sono certo quelli ricchi) e l’incappucciato del Ku Klux Klan c’è solo un diverso grado di temperatura razzista.

«Si diventa giustizialisti perché si è mossi dal sadico piacere di vedere ridotto alla gogna o condannato qualcuno, non per riaffermare una qualche presunta giustizia». Per chi sa come va il mondo—anche se non ha fatto il militare a Cuneo—l’universo morale è sempre in bianco e nero: nessun sospetto, pertanto, che nella pur detestabile categoria dei giustizialisti ci siano persone che non godono affatto (o godano poco) nel vedere qualcuno alla gogna ma che pensano a torto (dal mio punto di vista liberale) che una giustizia rapida e implacabile debba difendere la società dei corrotti e dai violenti, senza andar troppo per il sottile. Tutti fascisti, insomma, tutti parte della massa damnationis che Giostra vuole sprofondare nelle fogne! Siamo passati dalla scala f  ||f sta per fascismo|| della personalità autoritaria—la ricerca collettiva del 1950 guidata, negli Stati Uniti, dall’esule T. W. Adorno– il discusso fondatore della Scuola di Francoforte ma pur sempre erede della grande tradizione filosofica tedesca—al Fascistometro (ed. Einaudi) proposto dalla dilettante allo sbaraglio Michela Murgia, una sarda alla quale i media hanno dedicato un’attenzione a dir poco eccessiva (ed avvilente per i seri cultori delle humanities)

 Forse per aver il senso della complessità della vita e della tremenda difficoltà cui va incontro la smania dell’etichettatura ideologica bisognerebbe aver letto Montaigne e Hume—a mio avviso, da considerare padri nobili del liberalismo a maggior titolo degli stessi Locke e Montesquieu–: potrebbero essere un antidoto contro la tentazione—così forte in quanti ,da noi, si occupano di politica, a destra e sinistra—del fondamentalismo etico-politico per il quale finché c’è guerra (civile) c’è speranza. Sennonché in Italia i due classici dello scetticismo moderno—Montaigne e Hume, appunto—sono autori più ammirati che letti e, quand’anche venissero letti, servirebbero solo come armi contro la Tradizione e non certo come lame a doppio taglio in grado di scalfire le certezze del progressismo illuministico e del suo supposto punto di approdo: il comunismo sovietico.(i pochi filosofi humeani che ho conosciuto, ai tempi dell’Università, votavano tutti per il PCI, come i cd ‘filosofi analitici’ che della ‘grande divisione’ tra giudizi di fatto e giudizi di valore si riempivano la bocca, forse senza aver letto una sola pagina di Vilfredo Pareto, uno dei più grandi  sociologi del suo tempo che su quella divisione scrisse pagine definitive).

 L’obiettivo incitamento all’’odio per il diverso’ (la destra, il fascismo, il tradizionalismo etc. etc.) che si registra nel post di Giostra non poteva non concludersi con un monito esemplare: « Si diventa fascisti perché si ama la menzogna, perché la prima violenza il fascismo e i suoi fiancheggiatori la commettono contro la verità». A questo punto forse è inutile (e persino patetico) ricordare che, per l’homo europaeus, la politica e l’etica sono senza verità giacché la verità appartiene al dominio della scienza mentre la politica e l’etica sono fatti di coscienza e non devono stabilire che cosa è vero ma che cosa è giusto e per chi…E ancor più superfluo è rilevare ciò che per gli studiosi seri sarebbe la scoperta dell’acqua calda e cioè che la violenza politica contrassegna tutte le ideologie e i regimi totalitari e che riguardare il diverso alla stregua di un criminale ricorda personaggi come Lenin, Mao, Pol Pot—che i ‘libertari’ del ‘Manifesto’ contrapponevano al burocratismo del sedicente compagno Stalin, fascista il va sans dire.




Fatti e profezie

Quando un manipolo di facinorosi dell’estrema sinistra impedì con la forza al professor Angelo Panebianco di tenere una lezione a Scienze politiche, noi del Carlino faticammo a trovare qualcuno disposto a prendere le sue difese. In precedenza i collettivi universitari fecero irruzione negli uffici del rettore di Bologna e gli appesero al collo un cartello denigratorio, poi vennero l’occupazione della biblioteca di lettere, gli scontri con le forze dell’ordine, i murales che inneggiavano alla vittoria sulla polizia, le bombe anarchiche, le sassaiole no-Tav, le minacce e le botte a un nostro cronista, i rapporti dei servizi segreti sui pericoli rappresentati dall’antagonismo “rosso”, le contestazioni alle presentazioni dei libri di Giampaolo Pansa, le scritte che glorificavano agli assassini delle nuove Br… Mai per una volta abbiamo pensato, e men che meno scritto, che la democrazia fosse in pericolo e che una riedizione del “biennio rosso” o, peggio, del brigatismo post sessantottino fossero realmente alle porte.

Ci siamo limitati a chiedere il rispetto della legge. È bastato che una decina di imbecilli manifestasse davanti a Repubblica o leggesse un proclama anti immigrati nei locali di un’associazione di Como perché si diffondesse un clima da Marcia su Roma incipiente. “Fascisti, un italiano su due ha paura”, era, ieri, il titolo di apertura di Repubblica. Ma davvero? Mica tanto. Il titolo richiamava un sondaggio, la domanda era: ‘‘Secondo lei, quanto è diffuso il fascismo in Italia?’’. L’11% degli intervistati ha risposto ‘‘molto’’, il 35% “abbastanza”; il 48% oscillava tra il “poco” e il “per niente”. La “paura” non figurava nelle domande né nelle risposte, la maggioranza degli intervistati dichiarava di non avvertire il problema. Eppure si è scelto di titolare che “un italiano su due ha paura”. Giornali in crisi di lettori e partiti in crisi di consenso soffiano su flebili fiammelle sparse per il Paese nella speranza che divampi un incendio grazie al quale ritrovare l’identità perduta. Si tratta di un meccanismo antico: quando le élite politiche o culturali della sinistra perdono la presa sulla società, un riflesso pavloviano le spinge ad evocare l’Uomo Nero, la minaccia fascista, la democrazia in pericolo. Per i gruppuscoli dell’estrema destra è una manna. Mai stati così al centro dell’attenzione, neanche ai tempi del vecchio Msi, di Terza posizione e dei Nar. Mai stati così lusingati dai media, che nel descriverli come brutti, sporchi e cattivi ne esaltano il narcisismo e ne gratificano il superominismo spingendoli fatalmente verso azioni sempre più eclatanti. Settant’anni fa, il sociologo americano Robert Merton formulò la tesi della profezia che si autoavvera. «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze», scrisse. Un consiglio agli amici di Repubblica, del Pd e dell’associazionismo “democratico”: rileggetevi Merton (“Teoria e struttura sociale”) e, nei limiti delle vostre convenienze, attenetevi ai fatti.

Articolo pubblicato il 10 dicembre 2017 su QN Quotidiano Nazionale