La frattura tra ragione e realtà 1 / Su Mosca sventola bandiera rossa

Da quando è iniziata la guerra in Ucraina va di moda ripetere che Putin sarebbe un “fascista”. Eppure, sia la logica che i dati di fatto dicono il contrario: Putin è a tutti gli effetti un comunista e anche i suoi comportamenti che possono a prima vista apparire “di destra” in realtà si collocano tutti perfettamente nel solco della tradizione sovietica in cui si è formato. Perché allora questa idea si è diffusa al punto che oggi viene data praticamente per scontata non solo da tutta la sinistra, ma anche da gran parte dei moderati? In parte si tratta di opportunismo politico, ma la ragione più profonda è la perdurante assenza di un giudizio chiaro sulla natura totalitaria del comunismo.

Con questo articolo inizio una serie di interventi su problemi abbastanza diversi fra loro, ma unificati dal tema della frattura tra ragione e realtà, che aveva suscitato un certo dibattito anche fuori dal sito della Fondazione Hume e con il quale avevo concluso i miei contributi sul Covid (che, per la cronaca, usciranno fra poco raccolti in un libro, Covid, la lezione del Pacifico, scritto a sei mani con le mie dottorande Silvia Milone e Loredana Parolisi e con una prefazione di Luca Ricolfi, di cui siamo profondamente onorati e per la quale colgo l’occasione per ringraziarlo pubblicamente).

Anche se la maggior parte di tali interventi riguarderà temi legati alla scienza, che è il mio principale campo di ricerca, voglio dedicare i primi tre (che idealmente costituiscono un unico articolo in tre parti) a una grande questione culturale in cui la suddetta frattura tra ragione e realtà è particolarmente grave, non solo per la sua importanza intrinseca, ancor maggiore dopo le ultime elezioni, ma anche perché ha spesso conseguenze rilevanti per gli altri temi che toccherò in seguito.

Per farlo partirò da una delle cose più surreali che si siano sentite in questi mesi e di cui avevo già parlato in precedenza, ma solo brevemente (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/): il fatto, cioè, che la sinistra italiana, dopo aver deciso di schierarsi (quasi) compattamente contro Putin, cosa di per sé lodevole, abbia sempre più accentuato le accuse di “populismo” e “sovranismo” che già da tempo gli rivolgeva, fino ad arrivare al paradosso di definirlo esplicitamente “fascista”.

Tale posizione è stata espressa nel modo più chiaro qualche mese fa da Giuseppe Provenzano (non proprio uno qualunque, visto che si tratta del vicesegretario del PD) nella seguente dichiarazione resa a Annalisa Cuzzocrea: «Il problema di filo-putinismo ce l’ha la destra, in particolare quella italiana. Il silenzio di Berlusconi i legami consolidati della lega di Salvini con il partito di Putin, ma anche Giorgia Meloni, che ancora guarda a Trump, l’altro polo del vento conservatore e reazionario, che non a caso definisce Putin “un genio”. Poi c’è qualche cretino di sinistra, avrebbe detto Leonardo Sciascia. Quelli che sono talmente “complessi” da ignorare anche la verità più banale: al Cremlino non sventola bandiera rossa, sventola bandiera nera» (Giuseppe Provenzano, “Giusti gli aiuti militari a Kiev, gli amici di Putin sono a destra”, su La Stampa del 27/03/2022).

Ma se questa è la formulazione più epslicita, non è certo l’unica. Si tratta infatti di una tesi molto comune, non solo tra i politici. Per limitarci agli ultimi giorni, l’hanno ripetuta, fra gli altri, il celebre storico britannico Timothy Garton Ash, il direttore del quotidiano La stampa Massimo Giannini e un opinionista in genere moderato ed equilibrato come Paolo Mieli, che a Porta a porta di domenica 2 ottobre è arrivato addirittura ad affermare che «a parte la Camera dei Fasci e delle Corporazioni» quello di Putin è a tutti gli effetti un regime fascista.

Ma perché Putin dovrebbe essere considerato fascista, questo nessuno lo sa dire. Forse perché è un dittatore? O perché fa una propaganda spudoratamente menzognera? O perché è imperialista? O perché è guerrafondaio? Ma tutte queste caratteristiche le aveva anche il regime sovietico, di cui Putin è figlio legittimo, dato che è stato per 16 anni un alto ufficiale del KGB, ha sempre giudicato una catastrofe la dissoluzione dell’URSS e da tempo, forse da sempre, sta dedicando tutte le sue forze a ricostruirla.

Inoltre, Putin ha l’esplicito sostegno del Partito Comunista Russo, giustifica l’intervento in Ucraina dicendo che bisogna liberarla dai nazisti, chiama i paesi del Terzo Mondo a unirsi a quella che presenta come una crociata contro l’Occidente capitalista che li opprime e segue pedissequamente in ogni dettaglio i metodi dell’Unione Sovietica degli anni Settanta, sia nella comunicazione che nella repressione del dissenso interno e perfino nel modo di fare la guerra, benché ciò rischi di fargliela perdere (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/). E se ancora non bastasse, pochi giorni fa ha ulteriormente chiarito il concetto mettendo a capo della sua sporca guerra il generale Sergey Surovikin, uno dei protagonisti del fallito golpe contro Gorbaciov messo in atto nel 1991 dall’ala dura del Partito Comunista Sovietico in un estremo tentativo di restaurare il vecchio assetto dell’URSS.

È pertanto evidente che chiamare Putin “fascista” è semplicemente grottesco e ricorda molto i mitici servizi del TG3, da sempre monopolio della sinistra, che, quando ci fu la caduta del comunismo in Romania, parlava degli eroici insorti che combattevano «contro i fascisti di Ceausescu» o i discorsi di tanti intellettuali di sinistra di allora sulle «sedicenti Brigate Rosse» che “in realtà” sarebbero state anch’esse “fasciste”.

Ma non solo è falso che Putin sia fascista. È falso anche che lo siano i suoi amici. Per convincersene basta guardare i risultati del voto all’ONU sui referendum-farsa in Donbass.

I 4 paesi che hanno votato a favore della Russia sono tutti retti da dittature comuniste (Bielorussia, Nicaragua e Corea del Nord) o socialiste (Siria). Quanto ai paesi che si sono astenuti (35) o non hanno partecipato al voto (10), di essi 8 sono retti da dittature comuniste (Cina, Cuba, Eritrea, Laos, Tajikistan, Turkmenistan, Venezuela, Vietnam), 11 da governi di sinistra con forti tendenze autoritarie (Algeria, Bolivia, Repubblica Centrafricana, Congo, Mongolia, Mozambico, Namibia, Tanzania, Togo, Uganda, Zimbabwe) e 3 da regimi islamici integralisti apertamente antioccidentali (Iran, Pakistan, Sudan). L’unico regime comunista che abbia votato contro Putin è la Cambogia.

Al contrario, nessun regime di destra ha votato a favore (neanche l’Ungheria del “fascista” Orbán, che anzi ha votato contro, così come il Brasile di Bolsonaro) e soltanto 7 si sono astenuti (Burkina Faso, Burundi, Eswatini, Guinea, Guinea Equatoriale, Mali, Thailandia). Completano il quadro degli astenuti o non votanti 5 repubbliche ex sovietiche, democratiche ma fortemente condizionate da Mosca (Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Kyrghizistan, Uzbekistan) e 10 paesi del Terzo Mondo retti da governi moderati (Camerun, El Salvador, Etiopia, Honduras, Gibuti, Lesotho, São Tomé, Sudafrica, Sud Sudan, Sri Lanka), nessuno dei quali ha mai manifestato particolari simpatie per l’estrema destra, almeno in tempi recenti, a parte l’Honduras, che però attualmente ha un governo di centrosinistra. Infine c’è l’India, che gioca una partita tutta sua, retta com’è da un governo nazionalista, ma comunque democratico e con una politica estera spiccatamente terzomondista.

Insomma, non sono esattamente i paesi che ci si aspetterebbe di vedere schierati a sostegno di un regime fascista…

E anche se guardiamo a quanto sta accadendo in Europa, il quadro non cambia molto. L’unico politico occidentale che sia finito sul libro paga di Putin alla luce del sole è il socialdemocratico tedesco Gerhard Schröder, assunto come dirigente (strapagato) di Gazprom non appena terminato il suo mandato di Cancelliere. A rompere la ritrovata solidarietà europea è stato un altro Cancelliere tedesco socialdemocratico, quello attualmente in carica, Olaf Scholz, con il suo sciagurato ostruzionismo all’introduzione di un tetto al prezzo del gas. Il pacifismo di sinistra, dopo un breve periodo di eclissi, sta tornando a riempire le piazze con manifestazioni che, pretendendosi equidistanti tra l’aggredito e l’aggressore, finiscono oggettivamente per essere a favore di quest’ultimo.

Infine, per quanto riguarda l’Italia, il partito più filo-russo attualmente è quello dei 5 Stelle, che ormai da tempo è un partito di sinistra a tutti gli effetti e il cui già annunciato voto contrario alla prossima fornitura di armi all’Ucraina pesa molto più delle parole in libertà di Berlusconi. Queste ultime, infatti, per quanto censurabili, non sono dettate da una strategia politica, bensì dal suo narcisismo e dalla sua incapacità di accettare di non essere più lui il capo, ma non hanno prodotto nessuna conseguenza pratica rilevante e verosimilmente non ne produrranno neanche in futuro.

Poi, certo, è vero che Putin in patria è sostenuto anche dai nazionalisti di destra e dai vertici della Chiesa ortodossa; che si richiama a simbologie che spesso hanno a che fare più con la tradizione zarista e, appunto, ortodossa che con quella comunista; e che, in generale, si presenta come garante dei “veri” valori tradizionali contro la corruzione morale dell’Occidente. Ed è altrettanto vero che è visto con simpatia anche da diversi partiti occidentali di destra, che ha certamente condizionato e  probabilmente pure finanziato (anche se prima di darlo per scontato sarebbe meglio aspettare di vedere le prove promesse dagli USA).

Tuttavia, il fatto che Putin collabori (anche) con forze di destra non significa che sia egli stesso di destra. Anzi, è vero esattamente il contrario: questi, infatti, sono tutti comportamenti da perfetto manuale del KGB, tanto che erano già stati tutti messi in atto da Stalin in persona.

Anzitutto, l’alleanza con forze politiche di qualsiasi orientamento, purché utili alla causa, è sempre stata praticata dall’URSS, che da questo punto di vista era di un pragmatismo, o, più esattamente, di un cinismo totale. Inoltre, ai sovietici trattare con le forze di estrema destra è sempre riuscito più naturale che avere a che fare con quelle democratiche, per via di un’affinità culturale di fondo, dato che marxismo, fascismo e nazismo hanno tutti le loro comuni radici nell’idealismo tedesco, in particolare nella dottrina hegeliana dello Stato etico, anche se dirlo è gravemente politically incorrect e può causare seri problemi (vedi il linciaggio subito per anni da Nolte e De Felice).

Oggi tutti fanno finta di dimenticarsene, ma l’Unione Sovietica è stata per ben due anni alleata della Germania nazista, in virtù dello sciagurato patto Ribbentrop-Molotov che fu all’origine della Seconda Guerra Mondiale, giacché permise a Hitler di rivolgersi contro l’Occidente sapendo di avere le spalle coperte sul fronte orientale. E se Hitler stesso non l’avesse violato, invadendo l’URSS a tradimento (con una decisione che non ha spiegazioni strategiche, ma esclusivamente psichiatriche), quest’ultima non sarebbe mai entrata in guerra al nostro fianco contro i nazisti.

D’altra parte, quando ciò accadde e la sua stessa sopravvivenza fu messa in discussione, Stalin proclamò la mobilitazione generale non in nome del comunismo o della dittatura del proletariato, ma della “Grande Madre Russia”, che (a parte la parola “Madre” al posto di “Santa”, il che obiettivamente per lui sarebbe stato un po’ troppo) si richiamava all’immaginario collettivo della Chiesa ortodossa e non certo a quello dell’Internazionale Socialista.

Ma non si trattò di un fatto episodico e strumentale. A differenza del comunismo europeo, più marcatamente laicista e scientista, quello sovietico ha sempre avuto una forte componente messianica, ascetica e quasi mistica, derivante anch’essa dalla mitologia ortodossa e, in particolare, dall’idea della “missione” unica che Dio avrebbe assegnato alla Russia.

È stato anche grazie a questa idea, sia pure opportunamente “laicizzata”, che Stalin ha potuto giustificare il suo tentativo di realizzare “il socialismo in un solo paese”, che da un punto di vista marxista è una vera e propria eresia. Ed è sempre a causa di questa idea che l’URSS, esattamente come la neo-URSS putiniana di oggi, non ha mai escluso l’uso delle armi nucleari in una guerra contro l’Occidente, anche a costo di rischiare un olocausto atomico su scala globale. In questa prospettiva, infatti, un mondo senza la Russia è letteralmente privo di senso e quindi non vale la pena che continui ad esistere, come Putin ha più volte esplicitamente affermato, benché, di nuovo, da un punto di vista marxista ciò non abbia invece alcun senso.

Eppure, non è solo Putin a dirlo: anche i sovietici ragionavano così. Chi non ci crede vada a leggersi La terza guerra mondiale di Sir John Hackett, generale inglese che per cinque anni fu a capo delle armate NATO dell’Europa Settentrionale (anche se è del 1978 si trova facilmente su Internet). Si tratta di un saggio camuffato da romanzo che a suo tempo fece scalpore e probabilmente ci evitò la terza guerra mondiale di cui parla. Hackett, infatti, riuscì a convincere i paesi europei a tornare a curare le proprie difese convenzionali, mostrando attraverso documenti originali trafugati ai sovietici che questi ultimi se si fossero convinti di poter vincere avrebbero attaccato, anche a costo di rischiare un conflitto nucleare.

Anche il sostegno del Patriarca Kirill, che è arrivato a usare toni degni degli integralisti islamici, promettendo il Paradiso a tutti quelli che moriranno in guerra (mancavano solo le 72 vergini…), è certamente scellerato, ma per niente affatto sorprendente, né tantomeno nuovo. È vero infatti che molti sacerdoti ortodossi si sono opposti eroicamente al regime sovietico e per questo hanno subito dure persecuzioni e spesso perfino il martirio. Tuttavia, storicamente i vertici della Chiesa ortodossa sono sempre stati conniventi con il potere di turno, compreso quello sovietico. E questo non solo per paura o per comodo, ma per una ragione molto più profonda.

Infatti, a differenza di quella cattolica (parola che significa “universale”), la Chiesa ortodossa ha sempre concepito sé stessa come una Chiesa intrinsecamente nazionale. E se è vero che l’amore per la patria è un valore importante, che ha prodotto frutti meravigliosi di arte, di letteratura e di santità, è altrettanto vero che questo particolare modo di concepirlo porta troppo spesso a una sua indebita sacralizzazione. Molti aspetti della cosmovisione ortodossa, pur esposti con linguaggio cristiano, sono di fatto assai più affini ai miti pagani della terra e del sangue che non al cristianesimo. E purtroppo gli dei della terra e del sangue prima o poi pretendono sempre tributi di terra e di sangue.

Su questo aveva detto parole chiarissime la grande poetessa russa Olga Sedakova (collaboratrice dell’associazione Memorial che ha appena vinto il Nobel per la pace) già nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, che è all’origine di ciò che sta accadendo oggi e che era stata giustificata da Putin esattamente con le stesse menzogne: «Putin dice di essere il difensore dei valori tradizionali. È qualcosa di abbastanza comico, perché da noi i valori tradizionali sono stati distrutti ormai molti anni fa. […] Oggi si pensa soltanto al valore della famiglia. Si tratta, in realtà, di una polemica nei confronti della richiesta, in Occidente, di leggi per i matrimoni tra omosessuali. Ma non si parla mai di lavoro, né di persona, né di libertà. L’unica cosa che si accosta alla famiglia è il patriottismo: ognuno deve essere pronto a dare la vita per la patria. Il valore ultimo non è la persona, ma la patria. E non mi pare sia una posizione molto cristiana. […] Ai tempi di Stalin l’aborto era proibito, e le donne morivano perché abortivano clandestinamente senza medici. Esisteva il divieto, non la ragione per cui era sbagliato abortire. Così non ci si faceva problemi ad abortire clandestinamente. Trovo curioso che Stalin sia diventato il nuovo modello di moralità. La società tardo-staliniana era, potremmo dire, vittoriana. Il divorzio, ad esempio, era molto difficile da ottenere, in alcuni casi era addirittura proibito. Ma più che una difesa della famiglia, era un modo per limitare la libertà» (Olga Sedakova, L’infinito contro la noia, in Tracce n. 7, 2014, pp. 40-44).

D’altronde, anche il comunismo occidentale, pur essendo più laico di quello sovietico, in passato era piuttosto “vittoriano” (si pensi solo ai problemi che ebbe Togliatti, che pure era il capo indiscusso del PCI, quando lasciò la moglie per mettersi con Nilde Jotti). Anche da questo punto di vista, pertanto, Putin continua ad agire come un comunista sovietico degli anni Settanta, il periodo in cui si è formato e in cui, come sostengo da tempo, è rimasto mentalmente “imprigionato” (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/ e https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

Ma se così stanno le cose, perché allora la sinistra, non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente, continua a ripetere che Putin è fascista?

Certamente vi è un aspetto di opportunismo politico, perché ciò da un lato la aiuta a far “digerire” più facilmente la guerra ai suoi elettori, tra i quali il pacifismo è ancora molto forte, mentre dall’altro le permette di tacciare di “fascisti” tutti i partiti di destra che hanno simpatie per Putin. Tuttavia, la vera ragione, che in fondo ricomprende anche questa, è molto più profonda.

A metterci sulla strada giusta è lo stesso Provenzano nella parte finale della sua dichiarazione, laddove dice che i “cretini di sinistra” non sono disposti a condannare Putin perché non capiscono che la sua bandiera non è rossa, ma nera, cioè che non è comunista, ma, appunto, fascista. Ciò, infatti, equivale ad affermare che Putin non va condannato in quanto criminale, bensì in quanto fascista. E da questo, secondo logica, seguirebbe che se invece Putin fosse davvero comunista, allora i suddetti “cretini di sinistra” non sarebbero più tali e farebbero bene a non condannarlo anche se lui commettesse esattamente le stesse azioni criminali.

Attenzione! Non sto dicendo che Provenzano pensi realmente questo. Anzi, sono certo che non lo pensa affatto, per la semplice ragione che, come tutti i suoi colleghi, non è nemmeno in grado di concepire un pensiero simile. Infatti, per la sinistra italiana (e non solo italiana) il Male è sempre per definizione di destra e la destra è sempre per definizione il Male, mentre il Bene è sempre per definizione di sinistra e la sinistra è sempre per definizione il Bene. Ne segue che il dilemma su cosa fare se Putin fosse comunista e ciononostante commettesse ugualmente queste nefandezze semplicemente non si pone perché è logicamente impossibile: se Putin fosse comunista, infatti, non potrebbe per definizione commetterle, mentre se le commette non è per definizione comunista.

Ora, questo atteggiamento nasce dal fatto che la sinistra non ha mai fatto realmente i conti con il comunismo (intendo dire con il comunismo in quanto tale e non con questa o quella sua concreta realizzazione storica), rifiutandosi ostinatamente di riconoscerne la natura intrinsecamente totalitaria e perciò irrimediabilmente oppressiva e violenta, attribuendo tali caratteristiche solo ed esclusivamente al totalitarismo di destra. E ciò ha avuto e ha tuttora conseguenze profonde, non solo quanto al giudizio su Putin, ma anche quanto alla questione di fondo della crisi di identità della sinistra e del suo possibile (o impossibile) rinnovamento.

Ne parlerò nel prossimo articolo.

 

Paola Musso




Il manicheismo è la peggiore eredità del fascismo

L’invasione dell’Ucraina voluta dal nuovo imperialismo russo con le sue distruzioni di case, di edifici civili, di monumenti, con le migliaia di vittime civili e militari, con i milioni di profughi che si riversano sulla generosa Polonia rende superflua la domanda da che parte stare. A destra e a sinistra tutti vedono in Putin il reo di crimini contro l’umanità. E tuttavia le opinioni sulle cause della guerra in corso e sul come fermarla divergono spesso radicalmente. Ed è naturale che sia così se si pensa alla  geniale riflessione di G. G. F. Hegel, il più grande filosofo dell’800:” il tragico della storia non è la lotta del giusto contro l’ingiusto, ma quella del giusto contro il giusto”. E’ giusto fornire armi all’Ucraina, si chiedono gli uni, per protrarre una guerra che seminerà altri morti e altre devastazioni? Si può chiedere al Davide ucraino di deporre la fionda e diventare schiavo del Golia russo, ribattono gli altri? Uno stato sovrano non ha il diritto di associarsi, per la sua difesa, con chi gli pare? Sì, ma ci sono considerazioni geopolitiche di cui si dovrebbe tener conto: gli Stati Uniti tollererebbero, forse, un Canada legato alla Cina di Xi? Andando ancora più a monte, alcuni ritengono che la ‘ragion di Stato’—la sicurezza dei confini—sia un retaggio dell’Ottocento e che le democrazie non abbiano nulla da temere le une dalle altre, mentre altri pensano che, ai di là delle forme di governo, essere accerchiati da stati potenzialmente ostili è qualcosa  da evitare.””Meglio rossi che morti” dicono gli uni”. “Non si può   perdere la dignità per salvare la vita’replicano gli altri. “Quot  capita tot sententiae”, dicevano gli antichi. Ebbene è proprio per questo  che anche  gli antiputinaini più convinti (come me) avvertono un fastidio sempre più profondo per le aggressioni verbali piovute su quanti—Donatella Di Cesare, Franco Cardini, Luciano Canfora, Piero Sansonetti etc.—vorrebbero porre fine all”’inutile strage” sia pure con compromessi e lacerazioni dolorose (come quelli, ad es. ,che costarono l’Alsazia-Lorena alla Francia sconfitta da Bismarck). Ci sono giornalisti, come Claudio Cerasa, che senza un nemico ideologico temono di perdere l’identità. E’ questa, in fondo, la peggiore eredità del fascismo.




Dimenticare Tienanmen!

L’anniversario della strage di Tienanmen non ha dato la stura ai fiumi di retorica che, soprattutto nel nostro paese, sono lo scotto da pagare in queste ricorrenze. Ci sono diverse buone ragioni che spiegano il ricordo sobrio e quasi in sordina della rivolta contro il Rosso Impero di Mao Tse Tung, il cui ritratto campeggia ancora nella piazza più importante di Pechino. Innanzitutto la Cina è una grande potenza industriale e finanziaria, che suscita ammirazione e che viene, per le sue imponenti realizzazioni, trattata con rispetto. Sta comprando mezza Africa e, in Europa, i suoi investimenti massicci, che rappresentano per alcuni il nuovo “pericolo giallo”, sono per altri una risorsa insperata per imprese (e persino per società sportive) decotte. L’Unione Sovietica pregorbaceviana, in quanto  realtà economica lontana ed estranea all’Europa, suscitava uno sdegno e una indignazione per le sue politiche repressive incomparabilmente ben maggiori di quelli suscitati  dai carri armati di Deng e dei suoi successori in doppio petto: il suo tasso di totalitarismo non era affatto superiore a quello cinese (chi parla mai delle stragi di Mao e delle violenze della rivoluzione culturale?) ma, ciononostante, tuttora in letteratura gli studiosi del totalitarismo continuano a citare, insieme a Hitler, Stalin ma raramente il “Grande Timoniere”. Diciamoci la verità, in una società come quella in cui viviamo, per la quale esistono ormai solo gli interessi economici, da un lato, e i diritti, dall’altro, e in cui l’universalismo individualista del mercato fa a gara con l’universalismo individualista dei diritti nell’eliminare come tertium incomodo la dimensione della politica, dello Stato, delle identità culturali, delle tradizioni etc., affidando beni e valori esistenziali nel primo caso, al Mercato Globale e, nel secondo a corti giudiziarie sovranazionali, la Cina non può in alcun modo rientrare nella categoria degli “stati canaglia”. A destra come a sinistra.

A destra (mi riferisco a una destra che non è poi tanto destra, quella iperliberista) perché è difficile, in realtà, avercela con un sistema politico che, grazie a dosi massicce di capitalismo, sta facendo registrare a un popolo asiatico, che, a differenza di quello giapponese, sembrava refrattario alle “benedizioni della modernità”, un progresso tecnologico gigantesco quale non si era mai visto nel corso della sua storia millenaria. A molti liberali questo basta—in fondo odiavano l’URSS più per il suo collettivismo che per la sua mancanza di libertà attribuita esclusivamente al controllo statale dell’economia—e se pure ammettono che, per Pechino, il cammino verso la “società aperta” è lontano (manca, ad es., la libertà sindacale ma i lettori di Ludwig von Mises sanno bene che per il loro Maestro non era poi così indispensabile ed anzi poteva essere nociva alla libertà imprenditoriale), vedono con soddisfazione nel modello cinese la riprova dei miracoli che può fare il mercato (sia pure con tutti i vincoli che ancora lo impacciano e che, secondo loro, verranno rimossi dalla logica delle cose). A loro modo, sono dei “materialisti storici”: è la “struttura”, sono i rapporti di produzione, che determina la “sovrastruttura”, lo Stato con i suoi apparati, i suoi simboli, il suo diritto etc.

A sinistra per motivi forse molto più complessi. Se si parla con qualche reduce del ’68, ci si sente dire della Cina di Xi Jinping: “ma che è socialismo questo?”. E tuttavia come i nostalgici del fascismo—non certo grati a Franco per non essersi associato alla guerra dell’Asse ma costretti a riconoscere che “elementi di fascismo” non potevano essere negati, se non al franchismo reale, ai crociati di “Arriba Epagna” —anche i delusi dal comunismo reale e dal tramonto delle idealità della “Lunga Marcia” non possono far finta che a Piazza Tienanmen non ci sia ancora il ritratto di Mao. I nuovi dirigenti della Repubblica Popolare saranno membri degeneri ma conservano un posto incontestabile nell’ “album di famiglia”.

Divenute pacifiste e non violente, le sinistre oggi riconoscono senza esitazione che la repressione degli studenti cinesi, che chiedevano libertà e democrazia, è ingiustificabile ma, ad attenuare l’indignazione, è il morbo totalitario di cui stentano a guarire. “Si, ammettono in molti, la restaurazione dell’ordine affidata ai carri armati fu crudele e disumana, ma gli stati capitalisti non hanno fatto di peggio? Condannare Pechino significa vedere l’albero (comunista) e non accorgersi della foresta (capitalista)”.

Ebbene la mens totalitaria consiste proprio in questo: nell’attaccare a un robusto chiodo piantato sul muro di una storia immaginata, tutta la rete dei rapporti sociali e degli eventi tragici che ne conseguono (il monocausalismo). E’ il trionfo della sineddoche: ciò che fa parte di un insieme (gli ebrei, i capitalisti, le etnie culturali, i retrogradi, i progressisti) viene reso responsabile del tutto ovvero di tutte le tempeste che su quell’insieme si sono abbattute e si abbattono. Le guerre? Le colonizzazioni? Le politiche di potenza? Per la  sinistra, che ancora non si è liberata del tutto del virus totalitario,  non sono fenomeni che dipendono da una serie sterminata e complessa di cause che avrebbero potuto anche combinarsi diversamente (ad es., l’industria metalmeccanica avrebbe potuto far valere il suo europeismo e il suo interesse all’apertura dei mercati contro l’industria metallurgica, legata a logiche protezionistiche e potenzialmente guerrafondaie) ma sono il prodotto di un “Capitalismo”—sempre identico pur nelle sue forme proteiche— abile nel rivestire ideologicamente i suoi biechi interessi con idealità superiori (la “guerra di civiltà”, la “missione dell’uomo bianco” etc.). Se, come ho rilevato altre volte, l’azzeramento della complessità è il segno equivocabile della sindrome totalitaria, tale azzeramento porta a porre sullo stesso piano, Portello della Ginestra e la rivolta di Budapest,  Tienanmen e Piazza della Loggia: in ognuno di questi casi, il “sistema” semina morte.

Eh no, va ricordato ai protagonisti degli “anni ruggenti” di ieri, divenuti oggi scettici e antipolitici, le violenze comuniste (e fasciste) nascono da una volontà precisa, da un programma, da un potere politico ben determinato che controlla la società civile e la tiene prigioniera; le violenze che costellano la storia dei regimi liberali e democratici dove il governo è un attore tra gli altri sono il risultato (spiacevole quanto si vuole) di un interagire tra gruppi sociali, associazioni, località, chiese, istituzioni culturali, stampa, scuola, i cui interessi diversi e intrecciati determinano spesso “conseguenze inintenzionali”.

Dire pertanto: “neppure a me piace quanto è avvenuto a Tienanmen ma pensate al Vietnam e alle altre guerre “capitalistiche””, significa, ahimè, restare prigionieri di un’ideologia che continua a rendere difficili i nostri rapporti con la civiltà liberale.

Articolo inviato a Il Dubbio



Sinistra, tolleranza zero?

Adesso che tutto è passato, il Salone del Libro di Torino è finito, la “mobilitazione antifascista” ha raggiunto il suo obiettivo (impedire a un piccolo editore che si proclama fascista di esporre i suoi testi, fra i quali un libro-intervista al ministro dell’interno Matteo Salvini), forse è possibile provare a parlare di quel che è accaduto con un minimo di pacatezza. Perché una cosa credo non si possa negarla: l’episodio di Torino un problema lo solleva, e si tratta di un problema grosso come una casa.
È giusto impedire l’esercizio della libertà di espressione a chi ha idee politiche che si richiamano al fascismo? Può una democrazia, che si proclama tollerante e aperta al diverso, comportarsi come una dittatura nei confronti di determinate persone e di determinate idee?
Come si sa, sul piano giuridico la questione si riduce a interpretare in modo più o meno severo le due leggi che si occupano del tema (la legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993), specie nei casi in cui lo zelo antifascista può entrare in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, che tutela la libertà di pensiero: “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Ma sul piano politico e civile?
Su questo piano, a me pare che l’episodio di Torino non sia un buon segnale di salute della nostra democrazia. E lo credo per due ragioni, che si intrecciano fra loro. La prima riguarda le anime belle che hanno proclamato di non essere disposte a partecipare al Salone in quanto indignate, offese, turbate, imbarazzate dalla mera presenza fisica di una casa editrice il cui proprietario ha idee che le anime belle stesse considerano deprecabili. Ebbene quelle idee le trovo pessime anch’io, ma penso che dovremmo sempre distinguere fra le opinioni espresse in modi che non ledono alcun diritto e le opinioni espresse in modi che possono ledere diritti individuali (è il caso delle intimidazioni, dell’istigazione alla violenza, delle ingiurie), o addirittura costituire concreta minaccia all’ordine democratico (era questa l’ispirazione della legge Scelba, ed è questo l’orientamento della legislazione antinazista in Germania).
Mi si permetta di dirlo in modo provocatorio: il turbamento ideologico di qualcuno non può mai essere un buon motivo per tappare la bocca a qualcun altro, finché questo “qualcun altro” si limita a esprimere un punto di vista, senza minacciare, offendere, esercitare violenza o prevaricazione. Né si pensi che il problema riguardi solo la politica: la pretesa di far valere la propria personale sensibilità (o i propri pregiudizi) sta già mettendo in crisi alcuni insegnamenti universitari negli Stati Uniti, dove può accadere che a un professore venga proibito di leggere un canto di Dante perché alcuni versi turberebbero la sensibilità di qualche individuo, gruppo o minoranza. Del resto succede anche da noi, quando una maestra ritiene che un bambino di religione islamica possa sentirsi turbato dalla vista del presepe. Di questo passo dovremmo arrivare a imporre il velo o il burqa alle ragazze occidentali, per non turbare la sensibilità dei maschi di culture meno libertine della nostra!
Per non parlare del problema speculare rispetto a quello del fascismo, quello dell’apologia del comunismo. Quanti milioni di persone si sentono ancora comuniste? Quanti sacerdoti dell’industria culturale sono stati comunisti o lo sono ancora? Ma che cosa diremmo se un perseguitato dal regime sovietico, o un intellettuale fuggito dalle prigioni cinesi, si rifiutasse di partecipare al Salone del libro perché offeso dalla presenza fisica di autori o case editrici che simpatizzano per il comunismo? Cosa potremmo replicare se ci dicesse che, ospitando certi stand, noi diventiamo moralmente corresponsabili delle terribili torture che lui ha subito in un lager comunista?
Credo che gli diremmo che non può sentirsi offeso dalla presenza di persone che, del comunismo, apprezzano ancora alcuni aspetti, e comunque lo fanno in modo civile e democratico, senza mettere a repentaglio la libertà di nessuno. Se si sente personalmente offeso, al punto da non poter partecipare a un incontro perché cinquanta metri più in là c’è uno stand che espone l’opera completa di Lenin, è un problema suo, solo suo. Ci mancherebbe altro che, in piena democrazia, dovessimo denunciare e cacciare tutte le case editrici che simpatizzano con il comunismo.
C’è però anche un’altra ragione per cui l’episodio di Torino mi ha rattristato, una ragione che, a suo modo, ha evocato anche l’editore Giuseppe Laterza in una bella intervista a “La Stampa”. Sotto quell’episodio, temo, c’è anche una malattia brutta dell’élite progressista in Italia: la sua incapacità di confrontarsi con quel pochissimo di dissenso culturale che ancora esiste nel nostro paese. Se provate a fare una lista dei pochi intellettuali, pensatori, scrittori, giornalisti difficili, in quanto in perenne dissenso con le idee che dominano nel mondo della cultura e dello spettacolo, non ne troverete quasi nessuno nel programma del Salone. Più che un’arena in cui si confrontano lealmente concezioni forti e contrapposte (come giustamente auspicava Laterza, editore di sinistra che ha pubblicato Marcello Veneziani), la festa del libro è ormai diventata essenzialmente una occasione di conferma reciproca, di autocelebrazione, di rassemblement della grande famiglia di quelli che hanno le idee giuste.
Il che solleva una ovvia domanda: ma se le idee sono così giuste, così democratiche, così aperte e tolleranti, perché tanta paura di confrontarsi con chi la pensa in modi radicalmente diversi?
E poi, forse, anche una meno ovvia: non sarà proprio per la sua incapacità di ascoltare il dissenso, di misurarsi con gli avversari politici e i critici non autorizzati, che la sinistra ha perso ogni contatto con la realtà? E non sarà proprio questo arroccamento nel proprio mondo di autocompiaciuti giusti ad averla irreparabilmente separata dai ceti popolari?

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 17 maggio 2019



Il martedì di Capaneo a Dio spiacente e a li nimici sui

Il Presidente della Vulgata

Gettano un’ombra di tristezza nell’animo degli italiani pensosi e alieni da ogni tipo di retorica (ce ne sono e sono la maggioranza) gli interventi di Sergio Mattarella sul 25 aprile e prima ancora sul giorno della memoria. Era doveroso ricordare, nelle scuole e sui media, il giorno in cui fu abbattuto un regime che, portando il paese nel baratro, aveva causato la ‘morte della patria’ ma, ricordando una pagina che Benedetto Croce scrisse nel 1918 (forse il documento spirituale più alto del 900 italiano), quando gli arrivò la notizia della fine della guerra, ci si chiede: far festa perché? Se in un incidente stradale si perde la gamba destra invece di perdere la vita, se fuor di metafora, l’Italia è stata bombardata, dilaniata dalla guerra civile, ferita nei suoi monumenti storici e nei suoi ricordi e, in tal modo, ha potuto evitare il peggio del peggio, ovvero il destino di satellite del Terzo Reich, c’è proprio materia di festeggiamento? E non sarebbe stato meglio, invece delle adunate antifasciste alle quali l’ANPI ha invitato i resistenti palestinesi (dimenticando, lo ricorda Fabrizio Cicchitto sul ‘Tempo’ che «in quegli anni le autorità religiose islamiche simpatizzavano per il nazismo e nessun gruppo ad essi ispirato partecipò alla Resistenza»), non sarebbe stato meglio, dicevo, deporre corone di fiori nei cimiteri di guerra inglesi, americani, polacchi che della Liberazione furono i veri non retorici artefici?

 Mattarella non ha avuto nessun dubbio nel ripercorrere le strade del fascismo, che sulle sue discutibili ricostruzioni della storia d’Italia apponeva il sigillo delle verità ufficiali: allora il dissenso comportava una condanna penale, oggi (per fortuna) comporta solo un’esecrazione morale—quella che manda in visibilio Ugo Magri, il Mario Appelius della ‘Stampa’, che, dinanzi alle esternazioni del Presidente, commenta ammirato: «Un’ammissione così esplicita mai si era udita finora sul Colle».

Colpisce non poco che, tranne qualche eccezione, Mattarella abbia fatto a pezzi il revisionismo storiografico del più grande studioso del fascismo, Renzo De Felice, senza suscitare la benché minima reazione da parte di studiosi e di pubblicisti che pure continuano a richiamarsi alla lezione dello storico reatino. Il fascismo fu una bieca tirannide che tenne per vent’anni gli italiani schiavi di una dittatura implacabile, sanguinaria, spietata con «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini asserviti». E gli ‘anni del consenso’, al quale era dedicato il più importante volume dell’opera monumentale di De Felice che quarant’anni fa scatenò la reazione dei retori dell’antifascismo ma di cui, di lì a poco, si sarebbe riconosciuto da tutti il valore storico (a cominciare dal Giorgio Amendola dell’Intervista sull’antifascismo)? Cancellati dalla retorica quirinalizia! Dire che il fascismo ha lasciato opere pubbliche ed enti assistenziali importanti, ricordare che alle une e agli altri si interessò molto Franklin D. Rooosvelt che incaricò una Commissione di studiare le ricette fasciste per la crisi, significa diventare complici del nazifascismo (v. la pioggia di insulti caduta sul povero Tajani). «La storia non si riscrive!» ha sentenziato Mattarella: il fascismo è stato quello che ci hanno detto l’ANPI e gli storici partigiani, punto e basta! De Felice, scrive Francesco Perfetti, «contesta duramente la qualifica di ‘secondo Risorgimento’ per la lotta di liberazione degli anni 1943-1945: questa gli appare storicamente inconsistente perché gli ‘ideali civili’ (sintesi di ‘nazione’, ‘patria’, ‘libertà’) del Risorgimento e le forze politiche che ne erano state protagoniste erano, in gran parte, diversi da quelli che caratterizzarono il cosiddetto ‘secondo Risorgimento’». A Mattarella non potrebbe interessare meno: parlare di ‘Secondo Risorgimento’ significa infatti—per lui come per l’establishment culturale di sinistra– che la Resistenza non fu una mera ‘restaurazione democratica ’(come la definì—‘riduttivamente’?— Panfilo Gentile), ma una vera e propria rifondazione della comunità politica che non doveva limitarsi a disinfestare la casa occupata dall’invasore nazista  ma costruire un nuovo edificio, ispirato alla ‘democrazia progressiva’—la formula escogitata da Togliatti per far dimenticare lo stalinismo del PCI e mettere in piedi un’alleanza di tutte le forze antifasciste, dai cattolici ai soupirants azionisti.

Ognuno è libero di pensare e di dire quel che crede—anche il Presidente della Repubblica, anche il Presidente del Parlamento europeo— ma ci si chiede sommessamente: l’opinione pubblica—su cui si fonda la democrazia, quel ‘banale conteggio delle teste’—conta qualcosa o no? E se l’opinione pubblica non vede nella dittatura fascista (almeno fino alle leggi razziali, che secondo Mattarella, noto studioso dell’antisemitismo e del razzismo, erano connaturate all’ideologia di Mussolini) l’inferno in terra,  se non vuol saperne di democrazia progressiva, come dimostrò nel 1948 con la sconfitta del Fronte popolare, se sente così poco il 25 aprile—Festa in piazza, ma i partigiani sono pochi, ha scritto Ettore M. Colombo sul QN— da tenersi lontana dalle cerimonie ufficiali, come  reagirà il Colle? Potenziando l’ANPI, moltiplicando le iniziative tipo la storia in piazza, esigendo dai professori di storia contemporanea l’impegno solenne a non riscrivere la storia? La libertà non si baratta con l’ordine ma neppure col ‘politicamente corretto’, Signor Presidente!

Pubblicato il 30 aprile su L’Atlantico