Corpi neutri e de-gendering – Il grande scandalo della medicina moderna

Come ti regoli se ti si presenta un ragazzino con personalità multipla che vuole cambiare sesso? Be’, semplice: ti metti lì e con santa pazienza chiedi il consenso per il trattamento a tutte quante le personalità. L’evenienza è tutt’altro che rara: “Vedo un bel po’ di gente con seri problemi mentali: disturbi dello spettro autistico, stress post-traumatico, psicosi”. Conferma un collega: “Be’, il trauma è molto comune… un sacco di pazienti soffre di disturbi dissociativi”. La chat interna di WPATH, resa pubblica da Michael Shellenberger, presidente e fondatore del think tank Environmental Progress -nonché “eroe dell’ambiente” di “Time”, vincitore del Green Book Award e titolare della cattedra di Politica, Censura e Libertà di parola all’Università di Austin -è letteralmente sconvolgente. WPATH (World Professional Association For Transgender Health) è ritenuta la massima autorità scientifica e medica globale sulla “medicina trans”. Da decenni i suoi standard di cura plasmano le linee guida, le politiche e le pratiche di governi, associazioni mediche, sistemi sanitari pubblici e cliniche private in tutto il mondo, OMS compresa. I file, debitamente screenshottati, dimostrano che WPATH non soddisfa gli standard di una medicina basata sull’evidenza. Nella chat i membri -chirurghi, terapisti e attivisti- ammettono di ritrovarsi a improvvisare i trattamenti: in sostanza una sperimentazione in vivo. E si mostrano consapevoli del fatto che bambini e adolescenti non sono in grado di esprimere un vero consenso alla terapia affermativa (puberty blocker, ormoni, chirurgia) perché per esempio mostrano di non capire quando gli parli di rischi come la sterilità e la compromissione della funzione sessuale. Dice Dan Metzger, endocrinologo canadese: “In teoria è giusto parlare con un quattordicenne del fatto di preservare la sua fertilità, ma so che è come parlare al muro… La maggior parte dei ragazzi non ha nessuno spazio cerebrale per parlarne in modo serio”. “Tanti dicono: bleah: bambini, neonati, che schifo. Risposta media: Ok, nel caso adotterò”. Neanche le famiglie capiscono bene, “gente che magari non ha manco studiato biologia a scuola… certi genitori” dice un terapista “non riescono nemmeno a formulare le domande riguardo a un intervento medico per il quale hanno già sottoscritto il consenso”. In chat si discute di bloccare la pubertà a una bambina di 10 anni e a un bambino di 13 anni affetto da ritardo mentale. Un altro scambio descrive in dettaglio l’esecuzione di interventi di chirurgia genitale su persone affette da schizofrenia. Un membro chiede consiglio su un paziente di 14 anni che si identifica come ragazza e chiede la rimozione di pene e testicoli con utilizzo del tessuto per creare una pseudo-vagina, intervento che richiede pratiche di dilatazione a vita: troppo giovane? Forse sì, ammette Marci Bowers, presidente transgender di WPATH e chirurgo pelvico-ginecologico in California. “Il tessuto è immaturo, la routine di dilatazione complicata, gli esiti chirurgici potrebbero essere problematici”, si dovrebbe prelevare un segmento di intestino per costruire la finta vagina. Bowers ne sa qualcosa: ha eseguito più di 2.000 vaginoplastiche, la sua paziente più nota è Jazz Jennings, giovanissima trans operata in diretta nel corso il reality “I’m Jazz”. Nel caso di Jazz sono stati necessari tre interventi correttivi dati i problemi della prima operazione. Però qualsiasi limite di età “è arbitrario” puntualizza Bowers. Sconsigliabile attendere i 18 anni, meglio operare “qualche tempo prima della fine della scuola superiore, così stanno sotto la sorveglianza dei genitori nella casa in cui sono cresciuti”, ti immagini i casini al college con i dilatatori. Si parla con franchezza anche delle complicazioni della chirurgia di transizione per le ragazze, falloplastiche con pseudo-peni insensibili e ovviamente anorgasmici modellati con tessuto dell’avambraccio o della coscia, e delle gravi conseguenze degli interventi: malattia infiammatoria pelvica, atrofia vaginale, incontinenza, problemi intestinali debilitanti, sanguinamento e dolore lancinante durante il sesso (“sensazione di vetro rotto”). Una parte della chat è dedicata all’emergente chirurgia per non-binary. Thomas Satterwhite, chirurgo plastico a San Francisco, dal 2014 ha operato decine di pazienti under 18. “Ho scoperto” dice “che sempre più pazienti richiedono procedure ‘non standard’ tipo una “chirurgia superiore non binaria”, mastectomia che elimina anche i capezzoli. L’obiettivo, spiega il claim di una clinica californiana, “è un corpo liscio e neutro, esteticamente privo di identificazione sessuale”. Su TikTok la tendenza si chiama “fronte piatto”. WPATH ha incluso il “de-gendering” nei suoi nuovi standard di “cura”: castrazione chimica o chirurgica per pazienti che si identificano come eunuchi, fenomeno con un suo lato fetish. Lo stesso documento ha approvato l’intervento chirurgico sperimentale “bi-genitale” che tenta di costruire un secondo set di organi sessuali. Nella chat si ammette perfino che alcuni giovanissimi pazienti hanno sviluppato tumori: si parla per esempio di una 16enne con cancro al fegato in seguito alla somministrazione di ormoni. Dopo la pubblicazione della chat interna il servizio sanitario nazionale britannico (NHS) si è affrettato a dichiarare che già da 5 anni ha preso le distanze dalle linee guida WPATH. In Italia invece ci andiamo ancora a nozze. Infotrans, portale istituzionale dedicato dell’Istituto Superiore di Sanità, fa riferimento agli “standard of care” WPATH; idem l’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (ONIG); così la Società Italiana di Endocrinologia e le altre società scientifiche che hanno protestato contro l’ispezione ministeriale al servizio per minori con disforia al Careggi. EPATH, analogo europeo di WPATH, è stato fondato tra gli altri da Alessandra Fisher e tra i suoi membri c’è Jiska Ristori, le due mediche Careggi nell’occhio del ciclone; anche i pediatri italiani (SIP) fanno ampio riferimento alle linee guida WPATH in un position paper in via di pubblicazione sull’“Italian Journal of Pediatrics”. Sempre che lo pubblichino: la bomba è esplosa, non si può più far finta di niente. “I file del WPATH” è il commento di Michael Shellenberger, “dimostrano che la medicina di genere comprende esperimenti non regolamentati e pseudoscientifici su bambini, adolescenti e adulti vulnerabili. Sarà ricordato come uno dei peggiori scandali medici della storia”.

 [articolo uscito sul Foglio, 8 marzo 2024]




Mettiamoli in castigo

Scenetta n. 1

Siamo in un bar molto elegante, un caffè storico nel centro di una grande città. Divanetti e poltroncine di velluto, boiserie, quadri ottocenteschi, specchi, tappeti, e gran carrelli di dolci e salati. Camerieri in livrea. Le cinque del pomeriggio.

Entra una giovane coppia con bambino, sui quattro anni. Molto carino, riccioli biondi, camicia a quadri, jeans. Si siedono a un tavolino, sorridenti. Loro, si siedono, i genitori. Il bambino no. Il bambino si allunga, si sdraia, si divincola, si contorce, sul divanetto e poi per terra, dove comincia a strisciare, va sotto le sedie, ne esce, si mette a correre tra i carrelli, urla, saltella, sbraita. Mamma e papà si alzano a turno, cercando di riprenderlo, domarlo, acquietarlo. Alla fine, in due, lo riportano al tavolino, ma non riescono a farlo sedere. Il bambino ricomincia a sdraiarsi, strisciarsi, scivolarsi…

La scena è, per me, molto penosa. Credo anche per quei due ragazzi sulla trentina, divenuti (loro malgrado, verrebbe da dire!) genitori.

La pena sta nel constatare che non ce la fanno. I due giovani genitori non riescono proprio: pur tentando in ogni modo, tenero e violento, mettendocela tutta, impegnandosi, falliscono miseramente. Alla fine accettano. Subiscono. Sopportano. In una parola, perdono la battaglia. Il bambino non si siederà mai, e loro se lo terranno accanto alla bene e meglio, trattenendolo per un braccio in modo che almeno non vada a correre tra i tavoli.

La pena sta nel fatto che vorrei che non accettassero la situazione. Vorrei che vincessero loro, o almeno che non facessero questa patetica figura mista di imbarazzo, vergogna, impotenza, rabbia e rassegnazione.

Il problema è che a mia volta non saprei né cosa dire né cosa fare, come comportarmi. Mi sento nei loro panni e, nello stesso tempo, mi sento contro, avversa, contrariata. E infinitamente triste.

Scenetta n. 2

Questa non la vedo con i miei occhi, me la raccontano.

Me la racconta una ragazza rumena che fa la babysitter presso una famiglia e deve badare a due bambini, 2 e 5 anni. Siamo sul pullman. Non so come attacchiamo bottone e lei si sfoga. Mi dice che non ne può più. Sta coi bimbi otto ore al giorno, i genitori non ci sono mai perché lavorano entrambi. Lei fa tutto in casa, stira, pulisce, fa da mangiare e sta con i piccoli, gioca, li mette a dormire, dà loro da mangiare. Un inferno. Ma non per l’eccesso di lavoro. È che mi picchiano, dice. Mi prendono a calci, mi tirano addosso sassi e mi insultano. Me ne dicono di tutti i colori, il più grande soprattutto mi urla sempre contro e mi dice Va’ via, brutta… (ometto la parola, perché non riesco nemmeno a scriverla). Giocano, lo capisco. Ma io non ne posso più. E ho paura, perché non mi obbediscono mai e ho paura che gli succeda qualcosa e poi ci vado di mezzo io.

Le chiedo se ha informato della situazione i genitori. Mi dice che lo sanno come sono i loro figli e le chiedono di aver pazienza; se lei raccontasse loro cosa succede veramente ogni giorno in casa, potrebbero dire che non è in grado di tenerli, e magari la licenzierebbero. E io non posso perdere questo posto di otto ore, non posso proprio.

Scendo alla mia fermata. La lascio lì, seduta su quel pullman, con la sua grossa sporta di tela in braccio, le braccia robuste abbandonate in grembo, che scoppiano nella camicetta troppo stretta, gli occhi persi lontano, credo al suo paese rumeno dove ha lasciato marito e figlio per venire a lavorare qui da noi.

Scenetta n. 3.

In pizzeria una sera come tante. Tavolata di amici quarantenni con figli, dai due ai dieci anni più o meno. Figli che disturbano, urlano, si agitano, schiamazzano, si alzano, corrono fuori, tornano dentro, si aggrappano alle vesti per chiedere, per avere, per tormentare. Solita scena di una sera al ristorante. Poi, di colpo, tutti i genitori tacitamente e “naturalmente” concordi piazzano un tablet ai loro pargoli. E tutto miracolosamente tace e s’acquieta. Regna di colpo una grande pace. E un silenzio ristoratore regna finalmente sovrano intorno a noi.

Scenetta n. 4

Fine degli anni ’70. Avevo poco vent’anni, più o meno, e cominciavo a fare le prime supplenze, un po’ ovunque: scuole medie, licei, istituti tecnici, in centro, in periferia, in provincia. Arrivo in una scuola media e, prima di entrare in aula, mi avvicina una bidella avvertendomi, con gentilezza e spavento: Guardi che l’ultima supplente l’hanno picchiata. Non ci possono credere, e mi tremano le gambe. Faccio un giro in corridoio e nei bagni, prendo tempo. Non so che fare. Poi, entro. Entro come una furia sbattendo i libri sulla cattedra e cominciando la mia lezione. Invento una lezione, credo sul mio poeta preferito. Non importa chi e come, l’importante è parlare subito, ancor prima di sedermi, senza nemmeno salutarli, parlare, inondarli di parole, delle mie parole. In breve, dire chi sono facendo lezione: sono un insegnante, insegno letteratura italiana, voglio vedere chi osa aggredirmi, aggredisco io voi, a colpi di poesie, faccio la voce grossa, vi anniento a furia di versi e di bellezza…. Qualcosa del genere, che oggi mi fa sorridere. Avevo vent’anni. Non voglio dire che questo sia il modo, oggi: era l’unico modo che io, ieri, avevo trovato.

Solo per dire che il problema esisteva già. Era il contorno, che era diverso, il mondo attorno, le famiglie, le istituzioni, la società, la politica, le biblioteche, i libri, le penne stilo…. Tutto. Diverso. Intorno.

Scenetta n. 5

Mi è capitato anche di recente di incontrare la… “maleducazione scolastica” (o bullismo?), tre anni fa, dunque in tempi molto recenti. Era il mio ultimo anno insegnamento. Ero quindi, si può dire, un’insegnante quasi anziana, in ogni caso una signora di una certa età, non più così agile e scattante, ecco. Una professoressa un po’ polverosa e appesantita. Mi danno un’ora di supplenza. In una quarta liceo, una classe non mia. Le supplenze sono il martirio del nostro lavoro: ti sbattono in una classe sconosciuta davanti a ragazzi sconosciuti a supplire una materia sconosciuta. E tu non sai che fare. Hai parecchie opzioni: puoi inventarti una lezione tua, puoi dir loro di lavorare alle loro cose, puoi interrogarli, sederti con loro a parlare o startene seduta a leggerti un libro. Ognuno decide quel che vuole, basta che “tieni” la classe. Qual è il problema? È che appena entri nessuno ti vede. O meglio, tutti fanno finta di niente, manco ti considerano. Così tu hai la sensazione di non essere entrato, anzi, di non essere. Ti siedi. Parli. Saluti, fai l’appello, dici qualcosa, chi sei, cosa insegni. Nulla. Il nulla. Allora ti innervosisci. Ti sale una collera, Provi a fare la voce grossa, ti parte qualche ordine, qualche divieto. Niente. qualcuno si volta e ti fa cadere addosso uno sguardo tra il pietoso e l’indifferente. Mi è capitato così, tre anni fa. Allora mi è partito un discorso dei miei, edificante moraleggiante, sul rispetto, l’autorità, la gentilezza, il ruolo, l’educazione, il dovere…. Un disastro. Poi, l’ora è passata. Perché alla fine le ore passano. Ne sono uscita a pezzi.

Ma qui è chiaro: chi fa supplenza non ha potere. Chi non ha potere non viene rispettato, perché dovrebbe? Il rispetto in sé, gratuito, non esiste. Io ti rispetto per paura, per convenienza. Ti rispetto se sei il mio insegnante titolare, che alla fine dell’anno mi dà il voto. Se no niente perché tu non sei niente.

Scenetta n. 6

Fine anni ’60. Facevo terza media in una scuola di periferia. Era il 1969. Avevano il grembiulino nero noi bambine, e i compagni la giacca e i calzoni corti al ginocchio, calzettoni e scarpe marroni allacciate. C’è un’ora di supplenza. Entra un professore che non sappiamo chi sia e cosa insegni. Fa lezione. Ci parla di Konrad Lorenz e dei suoi esperimenti con le anatre, ci spiega che cos’è la scienza che si chiama etologia. Nessuno di noi ne sapeva niente. tutti siamo stati ad ascoltare per un’ora esatta, in totale silenzio.

Trentasei anni dopo, nel 2005, scrivo un libro su una piccola anatra che appena nata non sa chi è, e scambia una pantofola per sua madre.  Quella lezione me la sono ricordata tutta la vita e di sicuro, magari inconsciamente, deve aver ispirato quella mia storia. Ancora oggi provo gratitudine per quel professore, di cui ricordo che indossava un cappotto blu scuro.

Cosa voglio dire? Che i tempi sono cambiati? No. Volevo solo parlare della gratitudine.

Scenette n. 6, 7, 8, 9…….

E veniamo all’oggi. Al caso ormai noto del professore di Lucca. A cui se ne aggiungono infiniti altri: studente che minaccia la prof di scioglierla nell’acido, banchi scaraventati per aria, insulti, genitori che prendono a calci e pugni l’insegnante del figlio. E altro, non mi dilungo.

Ho inanellato questa serie di scenette, così diverse e lontane tra di loro, perché credo che siano invece straordinariamente legate, e unite da un parola cruciale: autorità. È questo che non tolleriamo più, da una sessantina d’anni. Per ragioni ideologiche (l’autorità non è democratica, discrimina, colloca qualcuno in basso e qualcuno in alto). Ma anche per ragioni più esterne che attengono a quel che chiamiamo progresso: perché viviamo immersi nei social, in questo universo della rete che ci attrae in modo esorbitante e morboso.

Visto che abbiamo in odio qualsiasi forma di autorità, e anche la parola stessa, abbiamo smesso di educare. Educazione e autorità mi sembrano piuttosto legate. Abbiamo smesso di educare quando abbiamo rifiutato, consapevolmente e deliberatamente, il concetto di autorità. Abbiamo fermamente voluto, deciso, e perseguito con grande determinazione, questa dismissione dell’autorità. A partire dagli auctores in senso letterale: via gli autori grandi del passato, i classici e ogni ipse dixit, conta l’ultimo libro pubblicato, l’ultimo messaggino su twitter. Parità. Uguaglianza. Democrazia.

Certo, nei casi di bullismo tra ragazzi emerge anche il non rispetto dell’altro, l’assenza di ogni limite, il narcisistico parossismo dell’apparire e dell’occupare la scena del mondo, ad ogni costo. Ma il bullismo verso gli insegnanti è altro. È oltraggio all’autorità.

C’è un verbo che ho sentito pronunciare da un ragazzo, intervistato a proposito dell’episodio di Lucca: Non bisognerebbe permettersi, io non mi sarei permesso. Un tempo dicevamo: Ma come ti permetti? Ecco. Noi abbiamo permesso.

Abbiamo permesso che i nostri figli non obbediscano. Che i nostri studenti non studino (anzi, abbiamo persino smesso di dare ordini e di imporre doveri, così non c’è problema).

Non solo non educhiamo. Abbiamo anche permesso che i media e i social dominino le nostre vite.

E tutto questo inizia dall’inizio, questo è il punto: inizia quando un bambino nasce. Il punto cruciale è la famiglia, siamo noi, che oggi siamo gli adulti. Siamo noi genitori che decidiamo, di fronte al figlio appena nato, se lasciarlo piangere o no, se dargli o no uno scapaccione, se ficcargli in mano a due anni un telefonino, se rabbonirlo e placarlo con un filmato, un cartone, un videogioco, per essere lasciati in pace. Siamo noi che decidiamo di rimproverare o lasciar correre, punire o premiare o non fare nessuna delle due cose. Siamo noi che permettiamo che i figli ci saltino in testa mentre ceniamo, parlino mentre stiamo parlando noi, urlino, distruggano oggetti, insultino la madre, il padre e la babysitter, non facciano i compiti, copino dai compagni, non aprano un libro, non si alzino per far sedere un anziano, non salutino il vicino di casa in ascensore. Siamo noi che li promuoviamo anche se non studiano, che permettiamo che facciano il chiasso più inverosimile in classe mentre stiamo facendo lezione. noi siamo i primi a non essere rispettosi di noi.

Perché abbiamo permesso tutto questo?

Credo che sia perché ci fa comodo. Per quieto vivere. Ma ancor di più per lieto vivere: goderci la vita, prenderci i nostri piaceri in santa pace. Edonismo. Troppa fatica educare, pretendere, rimproverare, punire. Poco gratificante e autolesionista. Meglio lasciar perdere. Va bene, abbiamo di conseguenza figli e allievi ormai ingestibili. Selvaggi senza regole, cavalli imbizzarriti (Susanna Tamaro ha scritto proprio pochi giorni fa un articolo stupendo su questo tema: “I ragazzi selvaggi e il tramonto dell’educazione”). Ma pazienza, gli somministriamo lo zuccherino: un video, un cartone, gli mettiamo in mano un tablet, uno smartphone, e tutto si risolve. Loro si placano, scende il silenzio e noi possiamo cenare, guardarci un film, parlare con gli amici, berci una birra, farci un aperitivo in piazza, chattare in rete.

Le conseguenze di tutto ciò le abbiamo chiamate “bullismo”. Non dovremmo stupirci se uno studente prende a testate con tanto di casco da moto indosso un prof. Quel che sta succedendo è molto semplice: quei ragazzi non educati ora rivolgono la loro non-educazione contro di noi. Siamo noi le vittime. Ma siamo stai noi i carnefici, noi che li abbiamo privati di regole e valori, di divieti e limiti.  E ora non possiamo che tacere. Il professore di Lucca che non dice, non denuncia, occulta il fatto di cui è è vittima, la dice lunga. Silenzio. E non è nemmeno il silenzio degli innocenti, perché noi non siamo innocenti.

Siamo noi che abbiamo creato il “bullismo”. E ora ci inventiamo i modi per combatterlo. Geniale. Corsi. Convegni. Petizioni. Piattaforme dove lanciamo s.o.s. Petizioni. Centri anti-bullismo, associazioni, portali. Parliamo, discutiamo nei talk show. Auspichiamo leggi, provvedimenti ministeriali (da una ministra che sta rendendo obbligatorio l’uso dei telefonini in classe come strumento didattico?).

E non basta, facciamo ancora di più: ne parliamo a iosa! Occupiamo i giornali e i telegiornali, i siti, twittiamo e condividiamo, moltiplicando così a dismisura la notizia, espandendola all’infinito. Per esempio, a ogni edizione e riedizione di un tg, mandiamo in onda il video del prof oltraggiato. Così, se per caso qualcuno si fosse perso il video sul cellulare, se per disgrazia non fosse stato raggiunto dal solerte popolo del web, ecco che ci pensano i giornalisti, gli opinionisti, i signori del talk show.

Allora, già che tutto è video, vorrei vedere non solo il video dei ragazzi che oltraggiano un professore, ma anche il video in cui si prendono le loro responsabilità, rendono conto e chiedono scusa. E pagano per quel che hanno commesso. Pubblicamente, davanti a tutti. Se ogni cosa dev’essere mediatica, lo sia anche la sanzione, non solo l’ingiuria. Non occhio per occhio, dente per dente. Ma video per video.

E poi, anche, vorrei questo: tacere. Fare un po’ di silenzio. Passare sotto silenzio, invece di amplificare. Se uno su cento oltraggia un prof, non facciamone il protagonista, l’eroe da imitare. Ci sono gli altri 99. Diamo visibilità a questa moltitudine di ragazzi che vive come può, nel mondo difficilissimo che abbiamo noi approntato per loro, e che comunque dimostra ancora di possedere qualche valore, magari latente, magari soffocato e offeso. Rendiamo virale la virtù. Oscuriamo il marcio. Raccontiamo le storie buone, anche inventandole, invece di videoregistrare l’esistente spacciandolo per documento. Il mondo s‘inventa, non solo si descrive. Si inventa come lo si vuole, non lo si descrive per quel che è e basta. Finiamola con i messaggini e i video, siamo capaci di meglio. Per esempio usiamo l’arte e la letteratura, che sono da sempre lo strumento più nobile e più alto che l’uomo abbia trovato, il più umano e il più divino insieme, per cercare di cambiare il mondo.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 29 aprile 2018