Punire o fermare Putin?

Da qualche tempo a questa parte, di pace, negoziati, compromessi, nuovi equilibri si parla poco. Al loro posto, profezie di vittoria: Putin può vincere, l’Ucraina può vincere. Quel che non è chiaro, però, è che cosa significhi vincere. E se significhi la stessa cosa per tutti.

Per Putin pare che la condizione minima per potersi proclamare vincitore sia il mantenimento della Crimea e l’annessione del Donbass, possibilmente collegati fra loro attraverso la striscia di terra che, lungo il mare di Azov, va da Mariupol alla Crimea.

Ma per l’Ucraina, e per i paesi che la sostengono?

Qui le cose sono molto meno chiare, o meglio sono chiare solo per Usa e Regno Unito (e per Zelensky). Per loro, vincere significa cacciare Putin dall’Ucraina, o con le armi o grazie a un cambio di regime a Mosca. Il fatto che l’impresa possa richiedere anni, comportare la completa distruzione materiale dell’Ucraina, nonché il sacrificio di centinaia di migliaia (se non milioni) di vite umane sembra importare poco. L’idea di fondo è che l’invasore vada punito, perché solo così si potranno evitare ulteriori, future aggressioni della Russia nei confronti di altri paesi europei.

Il mistero si fa fitto, invece, quando cominciamo a domandarci quale sia l’obiettivo dell’Europa, o almeno dei principali paesi europei. Apparentemente è il medesimo degli Stati Uniti, e magari lo è davvero, perché i nostri governi, in nome della unità e compattezza dell’Occidente, hanno accettato di seguire Biden e Johnson nella loro crociata anti-Russia.

Ma non occorre essere fini strateghi per rendersi conto che i nostri interessi sono molto diversi da quelli americani. Primo, perché le sanzioni che infliggiamo alla Russia sono catastrofiche per le economie europee (specie di Germania e Italia), ma fanno appena il solletico all’economia americana. Secondo, perché un eventuale allargamento del conflitto toccherebbe innanzitutto l’Europa, mentre difficilmente metterebbe a repentaglio la sicurezza degli americani. Terzo, perché, per vari motivi, il rischio nucleare che corre l’Europa è incomparabilmente superiore a quello degli Stati Uniti (le centrali nucleari a rischio sono tutte in Ucraina, l’eventualità di un attacco nucleare russo agli Stati Uniti è estremamente remota).

Questa asimmetria fra interessi Usa e interessi europei è particolarmente pronunciata per quanto riguarda la durata della guerra. Per gli Stati Uniti la prospettiva di una guerra che dura 10 anni, in stile Afghanistan, è tutto sommato accettabile, per l’Europa è catastrofica. E lo è innanzitutto per una ragione aritmetica, o meglio di calcolo delle probabilità: se in un generico giorno il rischio di un incidente (ad esempio un missile che cade su una centrale nucleare) è trascurabile, o comunque piccolissimo, in un arco di un anno diventa ragguardevole, e in dieci anni diventa una quasi certezza.

In statistica, è il paradosso del taxista di New York: la probabilità di essere ucciso da un cliente in una singola corsa è quasi zero, ma il rischio di esserlo nel corso di una intera carriera, fatta di decine di migliaia di corse, è altissimo, e fa di quel mestiere una delle professioni più pericolose al mondo.

Se le cose non stanno troppo diversamente da come le abbiamo descritte, diventa fondamentale che l’Europa esca dallo stato di ipnosi in cui Zelensky l’ha precipitata, e cominci a prendere atto dei rapporti di forza reali, nonché degli interessi dei popoli che la compongono. Aiutare gli ucraini a difendersi dall’invasione russa è non solo giusto, ma è nell’interesse dell’Europa. Inasprire e prolungare il conflitto nella speranza di cacciare i russi da tutta l’Ucraina è (forse) nell’interesse degli Stati Uniti, ma non in quello dei cittadini europei, cui la guerra infliggerebbe anni di recessione, una sequela di crisi umanitarie, per non parlare della spada di Damocle degli incidenti nucleari e dell’allargamento del conflitto.

Il vero interesse dell’Europa non è punire Putin costi quel che costi, ma fermarlo. Il che significa convincere Putin stesso e Zelensky a sospendere i combattimenti, sedersi a un tavolo, e cercare un compromesso ragionevole, che fermi l’escalation in atto, e assicuri un minimo di stabilità all’Europa tutta, “dall’Atlantico agli Urali”, come direbbe De Gaulle. Quel che servirebbe, in altre parole, è una grande e coraggiosa iniziativa politica, che finora è mancata perché il problema è stato posto in termini etici (punire l’aggressore) anziché in termini, appunto, politici (minimizzare il danno per i popoli europei, ucraini inclusi). E forse anche perché l’unico leader europeo in grado di tentare l’impresa – Macron – era in altre faccende affaccendato.

Eppure dovrebbe essere chiaro. Arrendersi a Putin non è etico, ma l’alternativa non può essere esporre l’Europa al rischio di una guerra lunga e sanguinosa, e il pianeta a quello di una catastrofe nucleare. Forse, più che dar prova di fedeltà incondizionata all’alleato americano, è giunto il momento per l’Europa di mostrarsi non solo determinata, ma anche saggia, e pienamente consapevole di quale sia il bene dei popoli che la abitano.

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)




Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare…

         “È molto più facile ingannare la gente,

         che convincerla che è stata ingannata”.

                                                       Mark Twain

In un mio articolo sulle cause del caro-bollette in Italia pubblicato a gennaio [1], avevo individuato quelle che ritenevo le 10 principali, fra cui: mix squilibrato delle fonti di generazione elettrica, quasi totale dipendenza dall’estero per il gas, peso assai elevato degli oneri di sistema e delle imposte, obbligo di passaggio al mercato libero, riforma delle tariffe elettriche per gli utenti domestici, morosità crescenti, meccanismo di formazione del prezzo sulla Borsa elettrica, etc. Di fatto, però, queste sono tutte concause preesistenti, su cui fin troppo si concentra l’attenzione della politica, mentre i problemi vanno affrontati alla radice, individuando e rimuovendo le vere cause. L’approfondita analisi effettuata – partendo da dati di pubblico dominio e quindi facilmente verificabili – da un mio caro amico e grande esperto di indici economici-finanziari e di bilanci aziendali, e generosamente messa a mia disposizione, getta finalmente luce sulle reali ragioni del caro-bollette, e verrà perciò illustrata in forma sintetica nel presente articolo, integrata da alcune considerazioni personali e da quelle di altri amici operanti nel settore da me consultati. 

Innanzitutto, occorre comprendere che il “motore” di tutti gli aumenti delle bollette sta nel prezzo del gas. Un rapporto di fine anno dell’OCSE [2], l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che raggruppa 38 paesi membri per la gran parte europei, ha evidenziato come l’incremento dei costi energetici – sia del gas che dell’energia elettrica – sia dovuto all’aumento (oserei dire “vertiginoso”) dei prezzi della componente gas, che in Italia contribuisce alla produzione nazionale di energia elettrica per circa il 50%.

Nel Rapporto in questione, pubblicato da qualche settimana, troviamo il seguente grafico con l’evoluzione dei prezzi dei tre prodotti energetici base (petrolio, gas naturale e carbone), a partire dal giugno 2020. Si noti che, per il gas naturale, il valore rappresentato è il prezzo dei futures giornalieri al TTF, un punto di negoziazione per il gas naturale che si trova nei Paesi Bassi, mentre per il petrolio è rappresentato il prezzo “spot” (detto anche cash o “a pronti”) del greggio Brent (cioè del Mare del Nord).

Andamento giornaliero dei prezzi del petrolio, del gas naturale e del carbone. Si vede come il gas naturale abbia fatto registrare, a dicembre (precisamente martedì 21), un prezzo “assurdo”, superiore a 180 €/MWh. Pertanto occorre investigare proprio quanto accaduto sul mercato del gas per capire perché il costo dell’elettricità sulla Borsa elettrica italiana abbia superato, nello stesso mese, i 300 euro/MWh (con una punta di 438 martedì 21 dicembre) sul “Mercato del Giorno Prima”. (fonte: OCSE [1])

Per chi fosse a digiuno di nozioni in materia di investimenti finanziari, ricordo che i prezzi spot del gas rappresentano il costo per l’acquisto o la vendita di gas in un preciso istante, ovvero “on the spot”, anziché in una data futura. Pertanto, i prezzi spot si riferiscono al valore in quel preciso momento. I prezzi future, invece, rappresentano il valore del gas previsto alla scadenza del contratto future. Dunque, il prezzo dei futures al TTF rappresenta le “aspettative” degli investitori. Ciò è importante da capire.

Ebbene, nell’arco temporale di circa un anno e mezzo coperto dal grafico dell’OCSE, se si guardano i picchi massimi raggiunti, si vede che il prezzo del petrolio è raddoppiato, il prezzo del carbone è quadruplicato, mentre il prezzo del gas naturale è aumentato di ben 18 (sì, diciotto) volte! Un aumento “senza senso”, come si vede già solo dal confronto con le altre due fonti energetiche (giova ricordare che, all’interno dei giacimenti, il petrolio – da cui si ricavano i carburanti – e il gas naturale sono associati).

Il disallineamento dei prezzi sui vari mercati: il “segnale” di fenomeni speculativi

Però, come ha fatto notare l’economista industriale e data scientist Luigi Bidoia in un suo eccellente articolo sull’argomento [3], l’assurdità di questo aumento è ancora più evidente se si confronta il prezzo del gas naturale al TTF con il prezzo del gas naturale “doganale”, cioè che arriva attraverso metanodotti o in forma liquida (Liquid Natural Gas, o LNG) attraverso metaniere. Dal grafico seguente, tratto dal suo lavoro, risulta evidente l’anomalia senza precedenti che si è verificata alla fine dello scorso anno.

I prezzi mensili del gas naturale in Europa sul mercato “spot” TTF confrontati con i prezzi dei gas “doganali” (metanodotti e metaniere) rilevati al passaggio delle dogane dell’Unione Europea. Qui il picco del gas naturale al TTF è più basso perché si tratta di una media mensile, ma è pur sempre un aumento di circa 10 volte rispetto al prezzo di giugno 2020. (figura tratta dall’analisi di Bidoia [3])

Le cose che invito a notare in questo grafico sono due: (1) il fatto che mai, negli ultimi 20 anni, si fosse verificato uno scostamento significativo fra i tre prezzi del gas (secondo l’Authority, ARERA, la correlazione fra i tre prezzi aveva raggiunto valori superiori a 0,95), mentre dalla scorsa estate il prezzo spot del gas TTF ha iniziato a distaccarsi in modo abnorme dai prezzi doganali; (2) il repentino crollo del prezzo TTF che si è avuto a fine dicembre (nonostante i “venti di guerra” in Ucraina sempre maggiori), il che suggerisce quanto poco solidi fossero i fattori che avevano portato al prezzo abnorme sul mercato TTF.

L’assurdità dell’aumento del prezzo europeo del gas è ancora più chiara se si fa un confronto con i prezzi del gas in altri Paesi (Stati Uniti, Giappone, etc.), dove non si è osservato nulla del genere. Pertanto, quanto successo all’indice TTF a dicembre non pare dipendere – come invece dovrebbe essere in un mercato sano e trasparente – dalla legge della domanda e dell’offerta, ma piuttosto, come conclude Bidoia, pare dovuto a operazioni speculative e di arbitraggio da parte di grandi operatori energetici.

Per chi non lo sapesse, un’operazione di arbitraggio è un’operazione che consiste nell’acquistare un bene (in questo caso il gas) su un mercato rivendendolo su un altro mercato, sfruttando le differenze di prezzo al fine di ottenere un profitto. Naturalmente, le condizioni di disallineamento dei prezzi che danno origine alle opportunità di arbitraggio sono destinate a durare soltanto per breve tempo, poichè l’attività degli arbitraggisti tende a riportare velocemente i prezzi verso livelli di equilibrio.

È interessante notare, come evidenziato da Bidoia, che anche per quanto riguarda i tre principali mercati mondiali del gas (Nord America, Europa e Asia) le differenze di prezzo sono sempre state contenute: prima del 2008, perché il prezzo del gas era fortemente legato a quello del petrolio; e, negli ultimi 5 anni, il differenziale di prezzi fra le varie regioni del mondo “non ha mai superato i 30 €/MWh”, poiché lo sviluppo del trasporto di gas liquido (LNG) ha creato vincoli sempre più forti tra i mercati regionali.

I prezzi mensili del gas in diverse aree del mondo. Sono indicati anche, con le bande colorate, i tre periodi storici in cui il prezzo del petrolio è risultato superiore a 70 dollari per più di 6 mesi consecutivi. Per ogni periodo è indicato il massimo raggiunto dal prezzo del petrolio WTI. (figura tratta dall’analisi di Bidoia [3])

La rilevanza, per il nostro Paese, del prezzo TTF è che esso permette una speculazione abnorme fatta letteralmente sulla pelle degli Italiani, e che in passato non era possibile. Poiché nei prossimi mesi i prezzi del gas potrebbero mantenersi su livelli molti elevati e/o potrebbe ripetersi l’incredibile anomalia verificatasi alla fine dello scorso anno, occorre capire come funziona il mercato del gas e perché quanto verificatosi richiederebbe misure strutturali, ben diverse da quelle adottate dal Governo.

Per comprendere la situazione, bisogna capire innanzitutto la diversa tipologia di contratti e le differenti motivazioni che guidano gli operatori delle due tipologie di mercati: da un lato (quello dei gas “doganali”), vi sono contratti relativi a consegne “fisiche” che coprono periodi anche lunghi di fornitura (pluriennali) ed esigenze reali di vendita od acquisto di gas; dall’altro (mercato spot TTF), si tratta invece di contratti a breve termine guidati da obiettivi di rendimento, in altre parole da pura speculazione.

La maggior parte del gas viene importato in Italia da 3 player (ENI la maggior parte, Enel e Edison, e lo impiegano tutti e tre anche per la produzione di energia elettrica), tramite contratti pluriennali (fino a 30 anni), stipulati per garantire gli investimenti di ricerca dei pozzi e la realizzazione dei gasdotti. I relativi prezzi di acquisto sono “blindati” e secretati dallo Stato. Sono comunque espressi in via di larga massima dai prezzi doganali. Una parte minima del gas viene acquistata da questi player sul mercato libero, dove il prezzo corrente (spot) e quello a tre mesi (future) si formano giornalmente.

L’importanza per l’Italia del prezzo del gas sul mercato TTF risiede, innanzitutto, nel fatto che il mercato TTF rappresenta, in sostanza, un benchmark – ovvero un mercato di riferimento – anche per il mercato italiano “spot” del gas, noto come Punto di Scambio Virtuale (PSV), in quanto si tratta di un “punto virtuale situato tra i Punti di Entrata e i Punti di Uscita della Rete Nazionale di Gasdotti”. Il risultato è che il prezzo spot del gas nel punto di prelievo italiano (PSV) è, in pratica, sostanzialmente sovrapponibile a quello nel punto di prelievo olandese (TTF) ed a quello nel punto di prelievo del Regno Unito (NBP).

Il prezzo spot (media mensile) del gas naturale, a partire dal 2018, nei punti di prelievo italiano (PSV), olandese (TTF) e del Regno Unito (BNP). Si noti il forte allineamento dei prezzi nei diversi punti di scambio. (figura tratta dall’analisi di Bidoia [3])

 

Le importazioni del gas e come l’ENI trae enormi profitti dalle differenze di prezzo

Se si va a vedere il bilancio dello scorso anno nella banca dati del Ministero dell’Economia [4], si scopre che le importazioni di gas dall’estero (valori del 2021) che incidono di più sono quelle da: Tarvisio (Russia, gasdotto TAG, che passa per Slovenia e Austria): 40%; Mazara del Vallo (Algeria, gasdotto Transmed): 29%; Melendugno (Azerbaigian, gasdotto TAP, che passa per Turchia e Grecia): 10% per ora, in quanto nuovo gasdotto in funzione solo dal 2021; Cavarzere (Egitto e Qatar, piattaforma marina): 10%; Passo Gries (Svizzera, gasdotto Transitgas che si connette al gasdotto Trans Europa Naturgas Pipeline): 3%.

Il bilancio mensile del gas in Italia nell’intero 2021 e nel mese di dicembre confrontato con i corrispondenti periodi del 2020. (fonte: MISE – DGSAIE)

Sempre secondo i dati ministeriali, nel dicembre 2021 l’Italia ha importato dall’estero 7,1 miliardi di Smc di gas ed ha utilizzato scorte di gas (il nostro Paese dispone di 3 rigassificatori) per 2,5 miliardi di Smc. Il consumo totale di gas in quel mese è stato di 9,7 miliardi di Smc; di questi, il 71% è derivato dalle importazioni fatte attraverso metanodotti (essenzialmente, quelli illustrati in precedenza), il 26% dal GNL trattato nei rigassificatori (in realtà in quel mese solo Cavarzere, nulla da quelli di Panigaglia e di Livorno) e appena il 3% (pari a 287 milioni di Smc) è derivato dalla produzione nazionale.

Per quanto riguarda, invece, i contratti relativi alle importazioni nazionali di gas, secondo i dati forniti da ARERA [5], nel 2020 solo il 22,5% delle forniture si trovava nel periodo di programmazione 1-5 anni, il resto era governato da contratti da 5 a 30 anni, cioè a lungo o lunghissimo termine. Solo il 15% dei contratti erano inferiori a 1 anno. E anche per la durata residua dei contratti che erano in essere nel 2020 si avevano gli stessi numeri, per cui circa il 77% avevano una durata residua superiore a 5 anni.

Struttura dei contratti di importazione del gas naturale in Italia, in base alla durata residua. (fonte: ARERA)

Secondo ARERA [5], il mercato del gas dell’ultimo anno disponibile (2020) mostra che l’ENI si approvvigiona di gas per il 61% del suo fabbisogno dalle importazioni e per circa il 32% con acquisti del gas trattato al mercato PSV (che, come visto, “replica” quello olandese, il TTF). Viceversa, gli altri grandi operatori italiani del mercato all’ingrosso del gas si approvvigionano prevalentemente al mercato PSV (82%) e solo in minima parte (13%) attraverso le importazioni, mentre i piccolissimi operatori si approvvigionano di gas prevalentemente (52%) acquistandolo da operatori italiani più grandi (ad es. ENI).

Approvvigionamento di gas da parte dei grossisti italiani nel 2020. (fonte: ARERA, indagine annuale sui settori regolati [5])

In sintesi, la tabella mostra che le importazioni (per l’ENI) e gli acquisti al PSV (per gli operatori grandi, medi e piccoli) sono risultate le modalità più frequenti con cui i grossisti di gas italiani si approvvigionano della materia prima che poi rivendono. Occorre poi considerare che la sola ENI – di cui lo Stato è azionista al 30% attraverso Cassa Depositi e Prestiti ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze – importa, secondo ARERA, quasi la metà (precisamente, il 47,6% nel 2020) del gas estero che entra nel mercato italiano.

Poiché nel 2021 le importazioni di gas dell’Italia sono state di circa 71 miliardi di Smc, si può stimare che l’ENI abbia importato nel 2021 circa il 47,6% di questa cifra, pari a 33,8 miliardi di Smc. Tenuto inoltre conto che il 31,6% degli approvvigionamenti dell’ENI è effettuato tramite acquisti sul mercato spot PSV, cioè a prezzi di speculazione, il restante 68,4% – pari a circa 23,1 miliardi di Smc – dovrebbe essere acquistato a prezzi doganali, che in sostanza riflettono i prezzi medi dei contratti pluriennali. In altre parole, ENI acquista circa 2/3 del gas di cui si approvvigiona a prezzi “bassi” e circa 1/3 a prezzi “alti”.

Di tutto il gas di cui si è approvvigionata, l’ENI (secondo i dati di ARERA [5]) rivende poi ad altri rivenditori sul territorio nazionale (tramite il PSV) circa il 77%, mentre vende ai propri clienti finali solo il 10,5%; il restante 12% va in autoconsumi, verosimilmente per la produzione elettrica. In altre parole, l’ENI vende oltre 2/3 del gas di cui si è approvvigionata a prezzi “alti”, per cui (sia nel caso di vendita a utilizzatori finali, sia ad altri rivenditori e grossisti) ha un guadagno notevole, dato in sostanza dalla differenza fra i prezzi del gas sul mercato spot-PSV (in pratica, TTF) ed i prezzi, ben più bassi, dei contratti a lungo termine.

Gli impieghi di gas dei grossisti italiani. (fonte: ARERA, indagine annuale sui settori regolati [5])

Supponiamo, ad esempio, che la differenza fra i due prezzi sia di 25 cent/Smc, allora la plusvalenza è data da 0,25 € x 23 miliardi di Smc = 5,7 miliardi di euro! Di questi enormi guadagni si avvantaggia indirettamente lo Stato (grazie alla sua partecipazione nell’azienda) con i dividenti incassati, che ammortizzerebbero almeno una parte delle elargizioni di svariati miliardi di euro fatte dal Governo in questi ultimi mesi per “tamponare” il caro-bollette (per cui è una sorta di “partita di giro”).

Lo stoccaggio del gas e una possibile spiegazione della grande anomalia del prezzo TTF

Per quanto riguarda, invece, lo stoccaggio di gas naturale – da non confondersi con i 3 rigassificatori (che riportano allo stato di gas il gas naturale liquido (GNL), trasportato via nave), in Italia esso è svolto grazie a 15 concessioni statali [5]: 10 appartengono alla società Stogit, interamente posseduta dal gruppo Snam, le altre sostanzialmente al Gruppo Edison. Tutti i siti di stoccaggio attivi sono realizzati in corrispondenza di giacimenti di gas esausti, iniettando il gas (tipicamente proveniente da metanodotti) nella roccia porosa, e riportando quindi il giacimento, in una certa misura, al suo stato originario.

Nella rete nazionale del gas, lo stoccaggio consente di poter compensare le differenza fra domanda e offerta di gas, e quindi garantire continuità di fornitura alle reti di distribuzione locale e alle grandi utenze industriali e termoelettriche. Come mostrato da ARERA [5], lo stoccaggio di gas nel nostro Paese riguarda circa 18 miliardi di Smc, di cui la maggior parte destinata alle fluttuazioni stagionali od annuali e meno di 1/3 (precisamente, 4,6 miliardi di Smc) tenuta come riserva strategica (ad es. in caso di conflitti).

Tenendo conto dei consumi nazionali medi di 5,9 miliardi di Smc al mese (con punte oltre i 7 miliardi in inverno), il meccanismo attuale di fissazione trimestrale del prezzo da parte di ARERA dovrebbe poter disporre di una riserva strategica per la copertura del rischio di almeno 3 mesi invernali, pari a circa 20 miliardi di Smc: in pratica, l’intera capacità di stoccaggio attuale. Ci si può quindi legittimamente domandare: come mai lo Stato non usa adeguatamente le scorte di gas – o non le aumenta – per mitigare le ondate speculative come quella a cui abbiamo assistito (e che è ancora in corso)?

Distribuzione e impiego dello spazio di stoccaggio negli anni termici 2020-21 e 2021-22. (fonte: ARERA [5])

In teoria una buona capacità di stoccaggio, oltre a costituire una riserva di sicurezza (la riserva strategica può essere immessa in rete solo con l’autorizzazione del Mise), consente di avere un mercato meglio funzionante, permettendo agli operatori di sfruttare le differenze tra i prezzi nelle diverse stagioni per aumentare la concorrenza tutto l’anno. In un mercato funzionante, lo stoccaggio consente di abbassare i prezzi per i consumatori finali, sfruttando la stagionalità dei prezzi della materia prima.

Ma, nel sistema degli stoccaggi italiani, praticamente appena tre soggetti operano in una situazione quasi monopolista. In pratica, al grido di “stoccare, che passione”, c’è chi stocca incassando laute royalties per il servizio [11]. Dobbiamo, infine, chiederci: perché abbiamo orientato l’Italia a fare l’hub europeo, la cui forza strategica dovevano essere gli stoccaggi, ma nel 2020 non abbiamo investito per caricare tutti i nostri spazi (e magari anche qualcosa di più) in base ai prezzi spot del periodo del lockdown?

Dunque, riassumendo, l’ENI importa circa la metà del gas naturale importato dall’Italia in un anno, e su circa 2/3 di questo gas può lucrare enormi profitti grazie al fatto che il prezzo di riferimento per la sua vendita a terzi (clienti finali e altri fornitori nazionali) è quello spot-PSV (TTF). Ciò vale, a maggior ragione, per i clienti (famiglie e piccole PMI) che hanno un prezzo del gas fissato ogni 3 mesi dall’Authority (ARERA) in quanto sono sul mercato a Maggior Tutela (dove potranno rimanervi fino al 31/12/23, mentre le PMI più grandi sono state già obbligate a passare al mercato libero dal 1° gennaio 2021).

Tutti gli altri grossisti – che vendono la massima parte del loro gas agli utenti finali – comprano da ENI o da altri grandi importatori EU, sostanzialmente al prezzo del mercato spot di Rotterdam (TTF). Dunque, ENI lucra da novembre scorso l’enorme differenza tra i prezzi spot incassati dai grossisti a cui rivende il gas ed i prezzi contrattuali pluriennali pagati all’import. Storicamente i prezzi doganali (contratti pluriennali) e quelli spot viaggiavano, da oltre 20 anni, di conserva, con scostamenti minimi. La “domanda delle cento pistole” è quindi: chi/cosa c’è dietro l’aumento spropositato (da novembre) dei prezzi sul mercato TTF?

In effetti, con la fiammata di novembre-dicembre il prezzo spot TTF è salito sino a 180 €/MWh, contro i 40 €/MWh del prezzo doganale. Nelle settimane seguenti è sceso sui 75 €, meno che a metà novembre. Nessuno sa realmente il perché, e la situazione geopolitica non è in grado di giustificarlo. In un mercato non “manipolato”, il prezzo è guidato dalle aspettative degli operatori finanziari che vi operano, cioè dei trader e dei grossi investitori, fra cui vi possono naturalmente essere le stesse aziende energetiche che poi guadagnano attraverso il meccanismo delle plusvalenze in precedenza illustrato.

L’andamento del prezzo spot del gas sul mercato TTF. Si noti il repentino aumento a 180 €/MWh del 21 dicembre scorso e il successivo crollo nonostante la crisi ucraina fosse all’inizio di un climax.

Occorre notare che, se l’aumento assurdo del prezzi spot TTF fosse legato alla crisi ucraina, non solo si sarebbe riflesso anche su altri mercati extra UE, ma soprattutto non ci sarebbe stato un repentino crollo proprio quando la suddetta crisi era ancora in una fase iniziale che poi è andata, nelle settimane successive, decisamente peggiorando. Quello osservato non è l’andamento dei prezzi che ci si aspetta di vedere in tale situazione (che semmai è riflesso dal prezzo del petrolio e di altre materie prime, in lento ma costante aumento: v. figura). Dunque, la situazione geopolitica potrebbe essere solo una “foglia di fico”.

L’andamento dei futures sul petrolio greggio del Mare del Nord (Brent) negli ultimi 3 mesi. Si noti come la crescita del prezzo sia perfettamente regolare, senza picchi o anomalie ingiustificate.

C’è forse stata qualche manovra dei big player europei del settore? Beh, secondo la mia fonte – e altri esperti consultati in ambito bancario – l’ipotesi è che alcuni potrebbero aver fatto “cartello”, intervenendo come “mani forti” con acquisti sul mercato TTF, facendo così salire vertiginosamente il prezzo della materia prima (lucrando così poi su quella acquistata con contratti pluriennali low-cost). Il possibile “movente”? Ripianare le perdite (ad es. ENI aveva chiuso il bilancio 2020 con perdite pari a 8,5 miliardi di euro [7]) e speculare. Si tratta solo di una ipotesi ma, come si dice, “a pensar male si fa peccato…”.

Non stupisce, quindi, che il 2021 sia stato l’anno della ripresa per il gruppo ENI, dopo i mesi bui del 2020. I profitti netti consolidati del sono stati di 2,11 miliardi di euro nel trimestre terminato a dicembre contro i 50 milioni di un anno prima, e con un incremento del 47% rispetto al terzo trimestre 2021. Il confronto con i corrispondenti reporting period 2020 evidenzia recuperi di ampie proporzioni: +2,1 miliardi e +5,5 miliardi, rispettivamente, rispetto al quarto trimestre e all’esercizio 2020, afferma l’ENI stessa [10].

I meccanismi usati dall’Authority per fissare il prezzo dell’energia e perché vanno rivisti

Il meccanismo di legge usato dall’Authority (ARERA) per “costruire” i prezzi di vendita del gas agli italiani che hanno contratti in regime a Maggior Tutela si basa sul prezzo del mercato spot all’hub TTF di Rotterdam (v. pag. 12 di [8]), a causa dell’insufficiente grado di sviluppo della liquidità delle negoziazioni al PSV; per cui la determinazione trimestrale del prezzo sino al 31 marzo 2022 praticato a questo tipo di clienti (che sono i più “fragili”, essendo famiglie e piccole attività ignoranti in materia) è stata elaborata sulla base delle previsioni di dicembre scorso, al momento dell’esplosione del prezzo su tale mercato.

Non solo. Il prezzo di vendita dell’energia elettrica in regime di Maggior Tutela fissato da ARERA ha come riferimento le previsioni dei prezzi nel mercato all’ingrosso: in pratica sulla Borsa elettrica, dove si forma il prezzo di circa i 2/3 dell’elettricità venduta in Italia. Su questa Borsa, da circa 20 anni le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda, dopodiché il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte: è il cosiddetto criterio del marginal price [14].

Il perverso criterio del prezzo marginale nella formazione del prezzo giornaliero alla Borsa elettrica, che fa piacere ai produttori ma molto meno al consumatore finale (fonte: G.B. Zorzoli / Quale Energia [14])

 

Il prezzo a MWh dipende quindi, a causa di questo perverso criterio, dalla fonte più cara selezionata. Così non stupisce che in Italia, dove gli impianti a ciclo combinato alimentati a gas naturale rappresentano la tecnologia marginale in circa il 50% delle ore, il prezzo spot dell’energia elettrica, nel 2021, si sia attestato a 125,5 €/MWh (era di 38,9 €/MWh nel 2020). Perciò, anche in questo caso i consumatori finali sono danneggiati dal metodo di calcolo del prezzo del MWh elettrico, che è legato alle sole tecnologie inquinanti e costose (già incentivate in bolletta negli oneri di sistema come fonti “assimilate” alle rinnovabili).

L’impatto devastante sulle famiglie e le imprese PMI di aumenti violenti del prezzo del gas ed, a cascata, dell’energia elettrica – a quanto pare non limitati nel tempo, giacché i prezzi del TTF si sono ora assestati su livelli molto elevati – deve essere quindi da forte monito per rivedere urgentemente, in Italia, tutta la materia, e magari reintrodurre nei calcoli elementi essenziali di verità ed equilibrio. Occorre infatti sottolineare che, mentre l’elettricità può essere fornita anche da fonti rinnovabili, moltissimi stabilimenti necessitano di gas naturale (non sostituibile) per i loro processi produttivi.

In pratica, nel calcolo del costo medio atteso dell’approvvigionamento per il trimestre successivo, si potrebbero inserire anche i dati – più importanti in termini di volumi – relativi alle importazioni con contratti di lungo termine, sebbene questi prezzi (essendo secretati) non siano attualmente noti neppure all’Authority (ARERA). Se poi l’attuale meccanismo di determinazione dei prezzi fosse il frutto di accordi e/o di indicazioni date a livello europeo, si dovrebbe procedere alle necessarie riforme degli accordi.

Viceversa, la decisione del Governo di aumentare da subito l’estrazione di gas nazionale (da anni in calo), essendo ENI il beneficiario del relativo sfruttamento si tradurrà in ulteriori profitti per quest’azienda, e solo in minima parte in tariffe ridotte per i consumatori, proprio in virtù del fatto che i prezzi di vendita sono sempre “agganciati” a quelli del benchmark olandese. Dunque, finché non si rivede alla radice tale meccanismo per tenere conto dei prezzi reali di approvvigionamento dei fornitori, tutto il resto rischia di essere solo propaganda e presa per i fondelli dei cittadini (come già accaduto con il Green Pass).

Andamento della produzione nazionale di gas naturale in miliardi di Smc. (fonte: ARERA [5])

Oltre a modificare i criteri attuali per la fissazione trimestrale dei prezzi calcolando la componente “costo di acquisizione del gas naturale” ponderandola tra i reali costi di approvvigionamento – dunque tenendo conto anche dei costi medi di acquisizione del gas attraverso contratti pluriennali – si dovrebbero aumentare le scorte strategiche e utilizzarle per ridurre il ricorso al mercato spot, assai “surriscaldato” (se non lo si fa ora che siamo in emergenza, quando lo si fa?). Ma, di nuovo, in assenza di un diverso sistema di determinazione del prezzo da parte di ARERA, il risparmio non arriverebbe al cliente finale.

Inoltre, si dovrebbe incentivare l’acquisto del gas con contratti “Take or Pay”, termine che indica una clausola applicata ai contratti di fornitura di lungo periodo, la quale implica un impegno da parte della compagnia acquirente a prelevare un certo quantitativo di gas naturale in un certo lasso di tempo. Basti pensare che, all’indomani dell’apertura del mercato spot nel gas metano, il costo della materia prima quasi raddoppiò. Per poter fare questo, però, vanno semplificate le procedure e gli obblighi da parte degli importatori, che molto rischiano nelle transazioni fisiche di import ed export.

Se l’acquirente non ritira la quantità di gas concordata, con il Take or Pay la paga ugualmente. Per questa ragione, già nel 2012 l’ENI considerava questo tipo di accordi di medio-lungo periodo (con i produttori di gas che assicurano gran parte delle forniture al nostro Paese) troppo onerosi; ma, siccome sono strategici per la sicurezza energetica nazionale, pretendeva che a farsene carico fossero lo Stato e i cittadini, attraverso le bollette [11]. L’Authority rimandava la questione all’allora Governo Monti, forse dimenticando il conflitto di interessi della società, che controlla gli stoccaggi di gas, e quindi il mercato.

Un’altra strada per poter migliorare il posizionamento dei clienti italiani rispetto al costo del gas è anche quella di ammettere che l’Italia non può avere solo un grande importatore, ma occorrerebbe dividere il mercato dell’importazione su decine di operatori. In questo modo, il rischio di errori nelle contrattazioni bilaterali si ridurrebbe enormemente sul sistema Italia. Sarebbe inoltre opportuno che il sistema finanziario italiano fosse in grado di difendere con maggior forza gli investimenti delle proprie società che approvvigionano e scambiano la materia prima dall’estero verso l’Italia.

Analogamente, andrebbero rapidamente rivisti i meccanismi adottati per la fissazione dei prezzi dell’energia sulla Borsa elettrica, giacché tali prezzi sono basati sulla sola produzione elettrica con impianti a gas naturale e non, come sarebbe logico, tenendo conto anche del costo di funzionamento delle altre fonti più economiche la cui energia è venduta sulla Borsa elettrica, che nel caso delle rinnovabili (fotovoltaico, eolico idroelettrico, etc.) è quasi nullo. Tutto ciò garantisce lauti guadagni a chi produce energia con tali fonti [6], che si ripercuotono però – ora più che mai – sulle tasche degli Italiani.

Il mix di font per la produzione di energia elettrica nei vari Paesi dell’OCSE. Si noti come l’Italia sia uno dei Paesi più indietro sul fronte delle rinnovabili, poiché ha puntato relativamente poco sul grande eolico (ignorando oltretutto quello off-shore) e sul fotovoltaico, pur essendo il “Paese del sole”. (fonte: OCSE [15])

L’assurdità dell’attuale meccanismo di fissazione del prezzo sulla Borsa elettrica è evidente se si considera che, perfino se avessimo – in un dato momento – il 99,9% dell’elettricità venduta sulla Borsa elettrica prodotta con fonti rinnovabili (quindi a costo quasi zero), l’“ultimo kWh” prodotto con il gas la farebbe costare tutta come se fosse prodotta con il gas. Una vera presa in giro per gli Italiani che oggi, in una situazione di emergenza di questo tipo, non è più tollerabile. D’altra parte, la questione non può essere risolta con interventi “tampone”, che rischiano di essere addirittura un boomerang.

A fine febbraio, ad esempio, il Governo Draghi ha annunciato la decisione di effettuare una sorta di “prelievo” dai profitti degli impianti fotovoltaici di potenza superiore a 20 kW per attenuare gli effetti del rincaro delle bollette energetiche. Così il gas, principale responsabile dell’aumento dei prezzi dell’energia elettrica, viene premiato, mentre le rinnovabili – fonti pulite a cui implicitamente si riconosce una maggiore convenienza rispetto alle fonti fossili e inquinanti (dato che il Governo parla di “extra-profitti”) – vengono punite. In altre parole, è come se si stesse realizzando una “transizione energetica al contrario”.

In pratica, come osserva Davide Bartesaghi su una rivista del settore solare [12], «lo spazio lasciato libero dalle fonti più inquinanti in nome della transizione energetica è stato preso dal gas. E questa operazione è stata fatta anche con una giustificazione ideologica: “Bisogna rafforzare gli impianti a gas per accelerare il passaggio alle rinnovabili”. Che sarebbe come se trent’anni fa avessero detto: bisogna aumentare le cabine telefoniche per sostenere la diffusione dei cellulari. Metafora eccessiva?». Direi di no, perché in Italia siamo in attesa degli accumuli elettrici (2025) e dell’eolico off-shore, ma c’è un limite alla decenza.

Al contrario, la soluzione per aumentare l’indipendenza energetica e ridurre la bolletta elettrica è l’installazione di 60 GW di nuovi impianti da fonti rinnovabili nei prossimi tre anni, come spiegato [13] dal presidente di Elettricità Futura, Agostino Re Rebaudengo, il quale chiede al Governo di «autorizzare entro giugno 60 GW di nuovi impianti da rinnovabili, pari a solo un terzo delle domande di allaccio già presentate a Terna. Essi faranno risparmiare 15 miliardi di Smc di gas ogni anno, ovvero il 20% del gas importato».

Questi 60 GW di nuove installazioni – che darebbero un contributo oltre sette volte superiore rispetto a quanto il Governo stima di ottenere con l’aumento dell’estrazione di gas nazionale – potrebbero provenire per 12 GW da eolico, idroelettrico e bioenergie e per 48 GW da fotovoltaico. Se per ipotesi i 48 GW di fotovoltaico fossero tutti realizzati su superficie agricola, si utilizzerebbe appena lo 0,3% della superficie totale, oppure l’1,3% della superficie agricola già oggi abbandonata. Peraltro, gli impianti agrovoltaici previsti non sottrarrebbero neanche un metro quadrato di terreno.

Inoltre, una domanda importante da porsi è la seguente: perché il Governo in questi anni sta spostando l’utilizzo del vettore energetico dal gas metano all’energia elettrica? Perché tutti i provvedimenti fatti anche in ambito edilizio portano all’utilizzo di generatori di calore elettrici? Come in ogni trasformazione fisica, anche nel passaggio da gas metano ad energia elettrica, così come viene realizzato nelle centrali termoelettriche, c’è un fattore di rendimento, che sottende pertanto un concetto di perdita.

Nel caso specifico, la creazione di energia elettrica dal gas metano comporta un rendimento intorno al 60% nelle centrali più avanzate a ciclo combinato, ovvero per un 40% quell’energia viene persa. Quindi ogni volta che 1 kWh di gas metano viene usato per produrre energia elettrica, si producono al massimo 0,6 kWh elettrici. Ciò permette di fare una riflessione di mercato, poiché 1 Smc di gas metano equivale ad una quantità di energia pari a 10,69 kWh elettrici (consideriamo la conversione a 38,52 MJ/Smc).

In pratica, se il gas metano ha un costo che oscilla tra 0,7 e 0,88 €/Smc (costo materia prima attuale), il costo dello stesso kWh elettrico dovrebbe oscillare tra 0,0659 e 0,079 €. Dunque, 1 MWh elettrico dovrebbe costare (agli alti prezzi di oggi) al massimo 79,19 € per poter dire che conviene produrre il calore con l’energia elettrica piuttosto che con il gas. In realtà, oggi l’elettricità costa in Borsa fino a 246 €/MWh, ed al cliente finale arriva a costare anche più di 300 €/MWh (come sola materia prima), ma a -10 °C il COP di una pompa di calore aria-acqua è di 3,0 e di appena 2,5 se il riscaldamento è ad alta temperatura.

L’aumento impressionante del prezzo dell’elettricità in Italia negli ultimi mesi, visto all’interno di un arco di 12 anni a cui il grafico si riferisce: è salito di oltre 10 volte dai valori di maggio 2020 (21,8 €/MWh), come inevitabile conseguenza dell’anomala impennata dei prezzi spot TTF del gas naturale. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice Ipex (Italian Power Exchange), cioè della Borsa elettrica italiana. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

Ma, secondo voi, le Authority stanno dalla parte dei cittadini o delle lobby?

Premetto che condivido quanto dichiarato davanti alle Commissioni parlamentari riunite dal Ministro della Transizione Ecologica, il fisico Cingolani, lo scorso 14 dicembre [6]: “è opportuno ribadire con fermezza e convinzione anche in questa sede come la transizione ecologica non sia il problema ma la soluzione. La crescita del peso delle fonti rinnovabili, con una penetrazione attesa nel settore elettrico al 65% secondo i target nel 2030 o al 90% nel 2050, consentirà in prospettiva di ridurre sia il peso del gas nel mix energetico sia il grado di dipendenza energetica dall’estero e, non da ultimo, il prezzo dell’energia”.

Ma questa è una soluzione a medio-lungo termine, mentre all’Italia servono ora soluzioni (possibilmente a costo zero) a breve termine, anzi per l’immediato. Inoltre, a differenza di altri paesi europei (come ad es. la Francia), che nella fase di transizione al rinnovabile continueranno a fare affidamento sulla generazione di energia da fonte nucleare, il gas naturale manterrà una importante funzione per lo meno per i prossimi dieci anni, per cui sarà necessario gestire gli effetti – in termini di volatilità del prezzo e delle forniture – del ricorso al gas come una fonte di flessibilità per il sistema energetico.

A fronte di tale criticità, tra le misure che già nello scorso ottobre la Comunicazione della Commissione UE su tale argomento [9] ha inserito nel toolbox a disposizione degli Stati membri, sono inclusi anche interventi di carattere istituzionale, consistenti nella riforma dei meccanismi di funzionamento dei mercati all’ingrosso dell’energia elettrica e del gas. Si tratta, evidentemente, di questioni molto delicate che attengono all’assetto istituzionale del mercato dell’energia europeo come si è sviluppato negli ultimi venti anni e che necessitano di essere affrontati con grande attenzione ma anche con estrema rapidità.

Per un chiarimento più efficace della situazione – e di ciò che si dovrebbe fare, ma che la stessa Authority sulla concorrenza si precipita a ostacolare con “fantasiose” argomentazioni – basta fare riferimento al testo di un intervento [6] fatto in sede di audizione nella Commissione Parlamentare Industria del Senato svoltosi il 10 febbraio, cioè appena poche settimane fa. In esso, il Capo di Gabinetto dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Cons. Maria Tuccillo, è stata molto chiara sulla questione:

«Nell’attuale dibattito sull’incremento dei prezzi dell’energia da più parti si argomenta che, per un’area come quella europea dipendente dalle importazioni (in prevalenza dalla Russia) per l’approvvigionamento di gas naturale, aver perseguito un assetto di mercato basato su mercati a pronti (c.d. hub) sui quali scambiare il gas su base giornaliera sia stato un grave errore strategico (rispetto al passato regime di negoziazioni bilaterali basantesi su contratti di lungo periodo di tipo ‘take or pay’.

Tale giudizio negativo giunge ora ed a seguito dell’eccezionale incremento dei prezzi del gas sui principali mercati europei (TTF, PSV ecc.), incremento che si è ribaltato integralmente sugli utilizzatori, che l’hanno a loro volta passato sui prezzi praticati (ad esempio, il prezzo dell’energia elettrica sulla borsa italiana). Un possibile intervento per calmierare il prezzo del gas sarebbe dunque rappresentato, seguendo tale critica, da qualche forma di ritorno ad un sistema di contratti a lungo termine, abbandonando il massiccio ricorso alle contrattazioni spot sviluppatosi negli ultimi anni.

Ovviamente è necessario, alla luce di quanto sta avvenendo, rafforzare la resilienza del sistema rispetto a impennate inflazionistiche come l’attuale e dunque appare utile, anche nell’ottica di proteggersi da una eccessiva variabilità delle quotazioni, associare alle negoziazioni sui mercati liquidi anche una quota di contratti di lungo termine che possano contribuire alla stabilità delle quotazioni».

Le importazioni italiane di gas naturale per Paese di provenienza nel 2019-20. Si noti come l’Olanda, dove ha sede il mercato TTF da cui dipendono i prezzi del gas praticati da ARERA, sia – per quanto riguarda l’approvvigionamento italiano – solo un mercato di titoli finanziari, non una borsa strutturata sullo scambio fisico, come ad esempio il CEGH, o Central European Gas Hub (fonte: ARERA [5])

Dunque, l’esponente dell’Authority sostiene, né più né meno, quanto siamo andati fin qui illustrando.  Quello che però poi, all’atto pratico, propone sembra la classica “montagna che partorisce il topolino”, o meglio, nel caso specifico non viene partorito un bel niente! Ecco, infatti, per la classica serie “predicare bene ma razzolare male”, come esordisce a riguardo sui due argomenti clou:

«Reagire ad una fase eccezionale come quella attuale con una modifica così importante del disegno di mercato europeo, che avrebbe costi significativi sotto il profilo concorrenziale, richiederebbe in primo luogo quantomeno di verificare se le attuali tendenze rialziste siano durature o meramente congiunturali…». E, in merito alla riforma del mercato elettrico: «L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, almeno in prima battuta si permette di esprimere alcune perplessità in merito al superamento del metodo del System Marginal Price per la remunerazione dell’offerta sul mercato elettrico all’ingrosso…».

Cioè si aspetta che siano prima fallite intere filiere dell’industria manifatturiera nazionale per poi (forse) intervenire “a babbo morto”? Sembra incomprensibile che l’Autorità, in pieno svolgimento di una crisi di tale portata, continui a difendere il “Mercato” e lo status quo. Come al solito – quanto accaduto con l’AIFA nella pandemia sembra tristemente ripetersi – la parola d’ordine è la stessa: “Lasciate che il medico che vi ha fatto ammalare continui a curarvi!”. Lascio quindi al lettore la risposta alla domanda se le authority che dovrebbero tutelare i cittadini lo facciano davvero o tutelino, invece, le lobby.

Nel momento dei ringraziamenti, vorrei esprimere la mia gratitudine a tutte le persone che hanno collaborato alla realizzazione di questo articolo, fornendo materiali, commenti o anche solo spunti di riflessione. Un estratto di questo articolo è stato pubblicato su Atlantico Quotidiano il 1° marzo.

Mario Menichella – Fisico e science writer  (e-mail: m.menichella@gmail.com)

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Riferimenti bibliografici

[1]  Menichella M., “Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro”, Fondazione David Hume, 10 gennaio 2022.

[2]  “A Balancing Act – OECD Economic Outlook”, oecd.org, dicembre 2021.

[3]  Bidoia L., “Le speculazioni che hanno stravolto il mercato del gas europeo”, pricepedia.it, 31 dicembre 2022.

[4]  “Bilancio mensile del gas naturale”, file Excel scaricabile, dgsaie.mise.gov.it, dicembre 2021.

[5]  ARERA, “Relazione annuale – Stato dei servizi 2020”, Volume 1, arera.it, 21 aprile 2021.

[6]  “Audizione del Capo di Gabinetto dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Cons. Maria Tuccillo, in merito alla Comunicazione COM (2021)660 final della Commissione Europea in materia di prezzi dell’energia”, senato.it, 10 febbraio 2022.

[7]  “Eni, perdita netta di 8 miliardi nel bilancio del 2020. Ma è confermata la proposta di dividendo”, repubblica.it, 19 febbraio 2021.

[8]  “Testo integrato delle attività di vendita al dettaglio di gas naturale e di gas diversi dal gas naturale distribuiti a mezzo di reti urbane (TIVG)”, autorita.energia.it, valido dal 1° gennaio 2022.

[9]  Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio Europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni “Risposta all’aumento dei prezzi dell’energia: un pacchetto di misure d’intervento e di sostegno”, COM (20321) 660 final, eur-lex.europa.eu, 13/10/2021.

[10]  Bruschi G., “Eni, l’utile 2021 è il più alto degli ultimi 10 anni: pronta la quotazione di Plenitude. Tutti i dati di bilancio”, firstonline.info, 18 febbraio 2022.

[11]  Dommarco P., “L’Eni e l’affare dei contratti “Take or Pay” (e degli stoccaggi)”, altraeconomia.it, 29 novembre 2012.

[12]  Bartesaghi D., “La transizione energetica al contrario”, Solare B2B, n°1-2, gennaio-febbraio 2022.

[13]  “Re Rebaudengo (Elettricità Futura) sul caro bollette: ‘Il Governo autorizzi 60 GW di nuovi impianti da FER entro giugno 2022’”, Solare B2B, 28 febbraio 2022.

[14]  Zorzoli G.B., “La formazione del prezzo dell’elettricità e le rinnovabili”, qualenergia.it, 18 febbraio 2021.

[15]  “Environment at A Glance Indicators”, libro dell’OCSE, oecd.org, 14 febbraio 2022.




L’Ucraina e noi – Il sentimento della vergogna

La politica internazionale ha le sue regole, una sua logica, il suo pacchetto di criteri di valutazione. Ne so poco, anzi quasi niente. Mi sono sempre occupato di altri temi, forse meno importanti, sicuramente più nazionali che internazionali. Perciò su questa guerra scoppiata in Europa non sono titolato a parlare, e infatti non lo farò.

Quello di cui vorrei parlare è qualcosa di più intimo, è qualcosa che succede dentro di me e, suppongo, possa succedere anche ad altri. Vorrei parlare di un sentimento, che probabilmente nasce proprio dall’ignoranza, dal non essere esperti di geopolitica e di strategie militari, dal fatto di vedere le cose con l’occhio ingenuo della persona comune. Un sentimento che, non mi è bene chiaro perché, è bandito dal discorso pubblico. Non emerge mai esplicitamente. Non se ne discute, o forse non se ne deve discutere.

Quel sentimento è la vergogna. Ma forse sarebbe più esatto dire: doppia vergogna. Vergogna perché, nonostante i disperati appelli del presidente Zelensky, l’Occidente, l’Europa (e ovviamente anche l’Italia) non sono disposte a fornire alcun aiuto concreto al popolo ucraino, al di là delle fantomatiche e inefficaci “sanzioni durissime”. Ma vergogna, anche, perché non solo non siamo disposti a correre alcun rischio per aiutare gli ucraini, ma stiamo trasformando in spettacolo la tragedia altrui. Comodamente seduti davanti ai teleschermi, veniamo inondati da maratone televisive come quelle del Quirinale o, in passato, quelle delle guerre del Golfo.

E’ come se, vedendo una banda di bulli che picchia a sangue un bambino, noi ci limitassimo a minacciarli di non invitarli più alle nostre feste, e in compenso non ci facessimo scappare l’occasione di filmare tutto. Eppure ci hanno insegnato che è vile voltarsi dall’altra e far fina di niente davanti a uno stupro. E che non è bello, quando c’è un incidente per strada, fare ressa intorno ai feriti non per soccorrere ma per vedere lo spettacolo.

Sono paragoni sbagliati?

Forse sì, se la domanda è soltanto: cos’altro potremmo fare?

Ma forse no, se la domanda è: che cosa siamo diventati, come cittadini e come operatori dell’informazione?

Già, che cosa siamo diventati?

A me sembra che una parola condensi tutto: siamo diventati spettatori, e come tali veniamo trattati. L’informazione, specie in tv e su internet, si preoccupa poco di farci capire e molto di assicurarci un intrattenimento permanente, h24. Quanto a noi, cittadini del ricco ed evoluto occidente, quel che ci è chiarissimo almeno da mezzo secolo (da quando i giovani americani ripudiarono la guerra del Vietnam) è che la guerra non fa per noi. Possiamo condannare, esprimere solidarietà, indignarci, accogliere profughi, imporre sanzioni economiche, ma aiutare un popolo aggredito no. Quello resta fuori del nostro orizzonte morale. Le uniche guerre che siamo disposti a fare sono quelle per i nostri stretti interessi, possibilmente solo dal cielo, meglio se affidate agli anglo-americani.

E’ un bene? E’ una conquista di civiltà? Potremmo fare diversamente?

Non ho le risposte. Ma mi accontenterei che provassimo a riflettere. E a non rimuovere. Il sentimento della vergogna è del tutto bandito dalla retorica del discorso pubblico, ma a me pare, in questo momento, il più appropriato, per non dire il più onesto. Quanto alla fuoruscita della guerra dal novero delle cose concepibili è sicuramente una conquista di civiltà. Ma non è solo questo: è anche il segno che tutto ciò che costa fatica, comporta rischi, richiede impegno e spirito di sacrificio è a sua volta uscito dal radar delle nostre vite. E non da ieri, né solo in Europa: la psicologa israeliana Hara Estroff Marano aveva descritto la mutazione nei giovani americani già due decenni fa in un libro significativamente intitolato A Nation of Whimps (una nazione di schiappe).

Forse la domanda che dovremmo farci è se, in un mondo che non è ancora tutto sulla nostra lunghezza d’onda, possiamo permetterci di essere quello che siamo. Il grado di civiltà di un paese, o di un continente, può anche essere eccessivo, non solo insufficiente. Si racconta che, a Yalta, a chi gli faceva presente che il Papa avrebbe preferito un altro assetto del mondo, Stalin avesse chiesto: quanto divisioni ha il Papa? Dev’essere la stessa domanda che si è fatto Putin: quante divisioni ha Ursula von der Leyen?




L’Europa è una discriminante?

Non è da oggi che, nel dibattito politico, l’europeismo viene agitato come una discriminante fondamentale. Da una parte le forze che credono nel progetto europeo, dall’altro i nemici dell’Europa, di volta in volta qualificati come sovranisti, anti-europei, euroscettici.

Ma negli ultimi giorni la tendenza a trattare l’europeismo come una categoria politica si è accentuata, con la ripetuta evocazione di una fantomatica “maggioranza Ursula”, in cui dovrebbero riconoscersi le forze che – nel Parlamento di Strasburgo – hanno reso possibile l’elezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea. Il tutto con la folkloristica, per non dire grottesca, appendice del drappello di “responsabili” che, in Senato, si auto-ridenominano “europeisti”, suscitando lo sconcerto di Emma Bonino e del suo partito (+Europa), sicuramente il più coerente alfiere del sogno europeo.

Ma ha ancora senso distinguere fra europeisti e anti-europeisti?

Su un piano descrittivo forse sì. In effetti il grado di severità delle critiche all’Europa è molto variabile. Il Pd +Europa sono molto indulgenti, Lega e Fratelli d’Italia molto severi. Quanto alle altre forze politiche quel che le distingue è soprattutto il tipo di critiche che rivolgono all’Europa: Forza Italia e i Cinque Stelle non apprezzano (o non apprezzavano) la politica migratoria, l’estrema sinistra è iper-critica sul patto di stabilità e sul Mes.

Già questo schizzo dovrebbe suscitare qualche dubbio sulla utilità e sensatezza della contrapposizione fra europeisti e anti-europeisti. Ma l’aspetto che più mi lascia perplesso è l’uso etico-normativo del concetto di europeismo, per cui i critici dell’Europa sarebbero i cattivi, e i difensori sarebbero i buoni. A mio parere sarebbe più aderente alla realtà dire che la costruzione europea ha un bel po’ di difetti (una cosa che ben pochi negano), e che le forze politiche si distinguono per i difetti che tendono a evidenziare o a occultare.

La destra, ad esempio, ha spesso messo in luce difetti come: eccesso di regolazione del mercato interno; insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a Est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico; svantaggi dell’ingresso nell’euro.

La sinistra ha spesso attirato l’attenzione sui ritardi del progetto di unificazione politica, militare, economica: incapacità di parlare con un’unica voce in politica estera; mancanza di un esercito europeo; rigidità del patto di stabilità e crescita; modestia del bilancio europeo; ostilità agli eurobond; tolleranza verso i regimi illiberali di alcuni paesi dell’Unione (Ungheria e Polonia).

Basterebbero questi due stringati elenchi di difetti della costruzione europea per far sorgere il dubbio che l’europeismo possa sensatamente essere usato come una discriminante politica, e tantomeno come una medaglia al merito. Ma in realtà quei due elenchi sono fortemente incompleti. Mancano infatti i limiti dell’Europa su un altro terreno fondamentale, quello della gestione della pandemia.

Qui non mi riferisco tanto ai limiti sul versante dell’economia, e in particolare all’incredibile ritardo con cui diventerà effettivo il Recovery Plan (circa 1 anno e mezzo dallo scoppio dell’epidemia). Quello che ho in mente è il governo complessivo della pandemia sul piano sanitario, dove l’Europa ha brillato molto più per i suoi errori che per i propri meriti.

L’errore più grande è stato, a mio parere, quello di non prendere nemmeno in considerazione il protocollo di gestione dell’epidemia adottato dai paesi che sono riusciti a contenerla (dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda): chiusura delle frontiere, tracciamento elettronico, quarantene controllate, lockdown precoci e circoscritti. E tutto questo non casualmente, ma in omaggio ai totem di quella che mi sento di chiamare l’ideologia europea: libera circolazione delle persone, tutela della privacy, primato dell’economia, subalternità all’Oms (un’istituzione i cui gravissimi errori di valutazione sono costati migliaia di vite umane).

Ma gli errori che ho elencato sono solo i primi in ordine di tempo. Perché se veniamo agli ultimi mesi c’è un ulteriore terreno su cui l’Europa si è mossa in modo discutibile (per usare un eufemismo): quello dei vaccini.

Lascio perdere i dubbi sul ruolo degli interessi nazionali (di Germania e Francia in particolare) nella selezione delle aziende farmaceutiche da finanziare, ma mi limito a un’osservazione: se la campagna vaccinale di tanti paesi europei è in difficoltà è anche perché la Commissione europea, guidata dalla stella (Ursula von der Leyen) che dovrebbe illuminare il cammino delle forze “europeiste”, ha commesso due errori cruciali: firmare contratti senza garanzie sufficienti sulle consegne, e farlo troppo tardi rispetto a paesi concorrenti (ad esempio il Regno Unito, fresco di Brexit). Se ora altri paesi hanno la precedenza su quelli europei nella fornitura delle dosi non è tanto per la cattiveria delle aziende farmaceutiche, quanto perché, pure su questo terreno, la classe dirigente europea non è stata all’altezza.

Ecco perché mi permetto di dare un consiglio non richiesto alle forze politiche: lasciate perdere l’europeismo. L’Europa è un edificio fragile e imperfetto, e se ha senso dividerci può essere solo su come intendiamo provare a ripararne i non pochi difetti.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 gennaio 2021




Moneta unica e identità economica costituzionale

1. In un mio precedente contributo pubblicato online sempre sul sito della fondazione Hume avevo trattato per sommi capi il tema dei rapporti gerarchici tra le fonti di diritto UE e le Carte Costituzionali degli Stati Membri, in particolare tedesca e italiana, giungendo a tre conclusioni.

La prima, lapalissiana ma troppo spesso ignorata, è che il diritto di fonte unionista ancora oggi è vigente ed efficace (e dunque esiste) esclusivamente sulla base dei trattati fondativi dell’Unione e, dunque, per effetto del diritto nazionale e della volontà degli stati membri dell’UE, di guisa che – al di là delle dichiarazioni della Corte di Giustizia e degli altri organi UE sull’autonomia e prevalenza del diritto unionista – il diritto in questione – come ha dimostrato la Brexit – vige solo nei limiti in cui (e sino a quando) gli Stati Membri si ritengono vincolati (o, quanto meno, acconsentono) alla sua applicazione nei loro territori. Limiti che – naturalmente – vengono definiti dalle rispettive carte fondamentali nazionali.

La seconda è che è possibile identificare due tendenze di fondo nei rapporti gerarchici tra diritto unionista e ordinamenti costituzionali nazionali: una che abbiamo definito sovranista (adottata ad esempio in Germania) secondo cui il diritto UE non deve porsi in contrasto con i principi fondamentali della costituzione nazionale (secondo il criterio della identity review), dunque facendo prevalere in ogni caso l’identità (giuridica) nazionale rispetto ad eventuali difformi principi di diritto dell’unione. L’altra, più universalista (e seguita nella maggior parte delle decisioni dalla Corte Costituzionale italiana), secondo cui il diritto UE dovrebbe invece cedere il passo alla costituzione nazionale solo nella misura in cui le norme di quest’ultima esprimono principi riconosciuti anche universalmente, ad esempio perché codificati nelle convenzioni multilaterali sui diritti umani.

La terza conclusione è che il diverso atteggiamento delle corti costituzionali nazionali in tema di rapporti tra costituzione e diritto unionista (ossia il fatto che adottino un’impostazione sovranista o universalista nel decidere dei rapporti tra costituzione e diritto di fonte UE) si riflette in una maggiore o minore forza negoziale dei rispettivi stati quando si tratta di decidere – in sede unionista – norme, regole e interventi di sostegno all’economia.

In questo secondo scritto – che rappresenta la continuazione ideale del primo – mi propongo di approfondire il tema con specifico riferimento al rapporto tra i principi della Carta Costituzionale italiana che definiscono la costituzione economica del nostro paese e le fonti di diritto unionista che disciplinano l’adesione del nostro paese al sistema della moneta unica europea.

2. Per trattare correttamente della questione occorre ricordare anzitutto che la vigenza del diritto UE in Italia (e, di conseguenza, i suoi rapporti gerarchici col diritto costituzionale nazionale) è disciplinata dall’art. 11 Cost., a norma del quale l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Vi è poi l’art. 117 Cost., secondo cui la potestà legislativa degli organi (centrali e regionali) nazionali deve svolgersi nel rispetto non solo della costituzione ma anche dei vincoli comunitari. Le due norme hanno peraltro scopo e oggetto differente. Laddove l’art. 117 ha infatti la funzione di vincolare il legislatore nazionale, nei settori di competenza concorrente, al rispetto del diritto UE, l’art. 11 Cost. indica invece i limiti in cui l’ordinamento italiano consente la vigenza sul nostro territorio delle norme di fonte unionista. Proprio l’applicabilità dell’art. 11 Cost alle fonti primarie del diritto UE consente infatti al diritto unionista di godere di uno status privilegiato rispetto ad altre norme di fonte internazionale pattizia: nelle materie che – secondo i trattati unionisti – rientrano nella competenza dell’UE la sovranità dello stato italiano “si ritira”, per lasciare spazio, appunto, al legislatore unionista. In questo spazio giuridico la norma unionista si viene dunque a inserire, risultando direttamente vincolante in Italia come le norme nazionali, ma senza mai divenire a sua volta una vera e propria norma interna (come avviene invece per altre norme di fonte internazionale, secondo la dottrina della cosiddetta “recezione”).

La conseguenza più rilevante di questa particolare ricostruzione dei rapporti tra diritto UE e diritto nazionale è che – secondo la nostra Corte Costituzionale – il diritto di fonte unionista non è soggetto al medesimo sindacato di legittimità che vale per le leggi nazionali (e – di conseguenza – anche per le norme dei trattati che si considerano “recepite” nel nostro ordinamento interno), bensì a un controllo più limitato che si riduce (secondo una dottrina definita dei “contro limiti”) alla sua compatibilità con i “principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale” (così la sentenza n. 183/1973 e – più recentemente – l’ordinanza 454/2006). Principi che sono stati per lo più identificati dalla Corte nei diritti tutelati nella prima parte della Costituzione che – al contempo – siano anche riconosciuti nelle maggiori convenzioni multilaterali sui diritti umani. Vediamo tuttavia di passare in rassegna le decisioni più importanti della Corte sul tema, per capire meglio quale genere di “diritti” la Consulta ha in passato considerato tanto importanti da rilevare – ai sensi dell’art. 11 Cost. – come “contro limite” per la vigenza del diritto unionista.

La sentenza 399/1987 è quella in cui la Corte ha ammesso che il diritto unionista possa derogare anche a norme costituzionali, a patto che non violi i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana. In quella decisione è stato dunque enunciato il principio cardine del sistema dei “contro limiti”, secondo cui – come si diceva poc’anzi – non ogni precetto contenuto nella nostra costituzione limita il diritto unionista, ma solo alcuni, ossia quelli fondamentali, in quanto posti a tutela di diritti inalienabili della persona universalmente riconosciuti. Seguendo la medesima linea interpretativa, nella successiva sentenza n. 132/1990 la Consulta ha ribadito che “[…] per giurisprudenza consolidata di questa Corte (si vedano, in particolare, le sentenze n. 183/73 e n. 170/84), il settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno è sottratto alla competenza della Corte Costituzionale, con le eccezioni rappresentate dalla sindacabilità della legge di esecuzione del Trattato di Roma in riferimento ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana”. In questo precedente la Corte ha sostenuto che il sindacato di legittimità costituzionale (a presidio dei diritti fondamentali) deve ritenersi eccezionale quando viene esercitato nei confronti del diritto UE e – di conseguenza – che l’individuazione dei principi “fondamentali” che valgono come possibili “contro limiti” alla vigenza del diritto unionista dovrebbe essere ispirata a criteri restrittivi, che si traducono in un favor per il legislatore unionista.

Va però segnalata la sentenza 232/1989, in cui la Corte ha manifestato un’opinione in controtendenza rispetto alle decisioni citate in precedenza, affermando che – per quanto improbabile – non è impossibile che alcune norme dei trattati dell’Unione possano ispirarsi a principi giudici che non risultano in accordo con quelli fondamentali della nostra costituzione nazionale. Questo perché, come osserva la Corte in motivazione, non tutti i principi fondamentali che ispirano la nostra Costituzione si ritrovano anche nelle carte fondamentali degli altri stati aderenti all’UE, con la conseguenza che è ben possibile che l’UE adotti uno standard di tutela di certi diritti e valori che si pone a livello inferiore rispetto a quello considerato inderogabile dal nostro ordinamento costituzionale. Questa sentenza della Corte è interessante (e importante ai fini delle tesi che si sosterranno in questo lavoro) in quanto ammette che anche nel nostro ordinamento costituzionale possa trovare applicazione una versione “tedesca” (vale a dire fondata sul criterio della “identy review”) della dottrina dei “contro limiti”, in forza della quale dunque il diritto UE non potrebbe porsi in contrasto con i diritti costituzionalmente garantiti che contribuiscono a definire la specifica identità costituzionale nazionale, anche se si tratta di diritti che non si ritrovano tutelati in egual misura in altre costituzioni nazionali di stati dell’UE o nelle grandi convenzioni internazionali sui diritti umani.

Si noti a tale riguardo che – sempre nel caso oggetto della decisione 232/1989 – uno di questi principi è stato individuato dalla Corte nel diritto di difesa in giudizio sancito dall’art. 24 Cost., che è stato ritenuto (in astratto, giacché poi la norma in concreto impugnata è stata ritenuta rispettosa di quel diritto) il possibile fondamento di una declaratoria di illegittimità costituzionale della legge di esecuzione del trattato di Roma – vigente all’epoca – che aveva legittimato l’adozione da parte degli organi comunitari di norme che potevano dar luogo ad una eccessiva compressione del diritto di contraddire in giudizio. Non sono invece state ritenute tali da poter definire dei “contro limiti” alla vigenza del diritto UE le norme costituzionali riguardanti la struttura dei poteri dello stato e le forme del loro esercizio (in questo senso si è ad esempio espressa la sentenza n. 183/1973).

Dalle decisioni della Consulta si possono trarre alcuni principi fondamentali. Anzitutto è evidente che il solo possibile fondamento di eventuali limiti alla vigenza del diritto UE nel nostro ordinamento è rappresentato dall’art. 11 Cost.. In tal senso depone soprattutto la sentenza 183/1973, che – oltre a menzionare espressamente l’art. 11 – ha specificato anche che la limitazione di sovranità dello stato italiano a favore dell’UE può avvenire solo “a parità di condizioni con altri stati” ed esclusivamente “per le finalità ivi (ossia in quella stessa norma n.d.r.) precisate”. Altro principio importante – questa volta desumibile, come si è visto qui sopra, dalla decisione n. 232/1989 – è che i principi fondamentali rilevanti ai sensi dell’art. 11 Cost (e su cui dunque possono dunque essere fondati i “contro limiti” alla vigenza delle norme UE) non sono solamente quelli che trovano riscontro nelle convenzioni internazionali sui diritti umani, ma neppure sono solo quelli enunciati negli articoli da 1 a 12 Cost, estendendosi viceversa anche a tutti i principi che possono essere desunti dagli artt. da 13 a 54 della nostra Carta fondamentale.

Quanto sopra consente di sostenere che, in ultima analisi, tre sono i criteri per verificare se una norma di fonte unionista (o l’insieme delle norme che disciplina un certo istituto giuridico di diritto unionista) è stata resa efficace nel nostro ordinamento rispettando i limiti posti dall’art. 11 Cost. e – di conseguenza – se quella norma o quell’istituto possono trovare applicazione nel nostro ordinamento.

  • La normativa in questione deve rispettare – almeno in via di principio – il principio di reciprocità con gli altri stati dell’UE (nel senso che l’Italia non deve assumere obblighi che, formalmente, non assumono anche altri stati);
  • Deve trattarsi di normativa “necessaria” per contribuire a un ordinamento internazionale che miri ad assicurare la “pace” e la “giustizia” tra le nazioni;
  • Si deve trattare di una normativa che non si pone in contrasto con i principi desumibili dagli artt. da 1 a 54 della Costituzione, anche se si tratta di principi che esprimono un livello di tutela (sia quanto al diritto che ne forma oggetto sia quanto al livello di tutela che a quel diritto viene assicurato) che non trova un riscontro nelle convenzioni internazionali sui diritti umani.

Se manca anche uno solo dei tre requisiti di cui si è detto, la normativa di fonte unionista può essere dichiarata inefficace erga omnes dalla Consulta, con sentenza che procederà alla declaratoria di illegittimità della legge di ratifica dei trattati istitutivi dell’UE (dunque, oggi, del TUE e del TFUE) nella parte in cui ha consentito agli organi unionisti l’adozione della normativa di diritto secondario unionista che viola il precetto costituzionale nazionale. L’illegittimità parziale della norma di ratifica si tradurrà in una illegittimità parziale della norma unionista di fonte primaria che travolgerà automaticamente la norma unionista di fonte secondaria, rendendola inefficace sul nostro territorio.

3. L’Euro, com’è noto, è la moneta con valore legale comune agli Stati Membri dell’Unione Europea (o, per meglio dire, dovrebbe esserlo, nel senso che ad alcuni Stati che ne hanno fatto a suo tempo espressa richiesta è stata concesso di mantenere in corso legale le vecchie valute nazionali). L’Euro è stato introdotto formalmente in Italia con il regolamento UE n. 974/98 del 3 maggio 1998 (adottato a seguito del precedente regolamento UE n. 1103/97 del 17 giugno 1997, che riguardava la moneta scritturale definita come ECU e che era stata adottata come strumento interlocutorio per la preparazione dell’entrata in vigore della moneta unica). Il fondamento giuridico di diritto primario di questi regolamenti si trova a sua volta nelle norme del titolo VIII della versione attuale del testo consolidato TUE/TFUE. L’emissione di Euro resta affidata in via esclusiva alla Banca Centrale Europea, soggetto indipendente di diritto unionista che, tuttavia, non funge – come accade per le normali banche centrali nazionali – da prestatore di ultima istanza, non potendo la BCE (quanto meno in teoria) emettere moneta per acquistare (sul mercato primario) titoli del tesoro emesso dagli Stati Membri.

La ragione politica ufficiale che veniva indicata al tempo della sua entrata in vigore al fine di sostenere l’opportunità dell’adozione della moneta unica consisteva nella supposizione che l’introduzione – nella zona di libero scambio esistente tra i paesi unionisti – di un’unione monetaria precedente all’unificazione delle rispettive politiche fiscali ed economiche, avrebbe reso più facile una “naturale convergenza” dei sistemi economici degli stati, agevolando il processo di integrazione europea e favorendo di conseguenza la futura adozione di politiche fiscali ed economiche comuni. Come vedremo si tratta di una idea che – alla luce di quel che è accaduto dopo – si sarebbe rivelata largamente illusoria. Tutto questo per ragioni che – in verità – potevano essere facilmente già intuite (e che alcuni economisti, come vedremo, avevano intuito) già al momento della sua adozione.

Passando in rassegna le norme del TFUE che compongono l’impalcatura fondamentale della politica monetaria unionista emerge infatti con una certa chiarezza come lo scopo primario (se non esclusivo, quanto meno al momento della sua adozione) del sistema della moneta unica sia il perseguimento della stabilità dei prezzi. Questa è del resto la ragione per cui l’economista (e premio Nobel) Paul Krugman – già prima dell’adozione della moneta unica – aveva osservato che l’Unione monetaria europea non era stata progettata per soddisfare le esigenze di politica economica comuni a tutti gli stati dell’unione, bensì per soddisfare la Germania, estendendo a tutta l’eurozona la severa disciplina antinflazionistica che da sempre ispirava la politica economica tedesca e alla quale la stessa Germania – per ragioni di politica interna – non sarebbe mai stata disposta a rinunciare neppure in nome dell’integrazione europea. Secondo questo economista, dunque, l’Euro nasceva in sostanza con il (non dichiarato) intento di estendere a tutta l’Eurozona una ricetta monetaria – ma che, come vedremo, implica una serie di conseguenze in termini di politica economica – sostenuta da (e che conveniva soprattutto a) uno stato in particolare.

Lo scopo istituzionale del sistema Euro è infatti in sostanza quello di mantenere l’inflazione media nei paesi dell’eurozona entro un livello ritenuto ottimale, che viene da sempre individuato dalla BCE intorno al tasso del 2% su base annua. Si noti che – nella prima fase di vita della moneta unica, che potremmo dunque definire come “ortodossa” – il 2% era indicato solo come limite da non superare, dunque rendendo evidentissima la natura antinflazionistica dell’Euro. Più di recente (essenzialmente quando le ripetute crisi economiche hanno convinto un po’ tutti quanti che il vero problema dell’economia europea è semmai la deflazione e non certo l’inflazione) si è iniziato a sostenere – in particolare a partire dalla presidenza Draghi alla BCE – che l’inflazione nell’eurozona, oltre che non oltrepassare quella soglia, non doveva mai scendere troppo al di sotto di essa. Questo significa che l’Euro viene concepito oggi (quanto meno dalla BCE, la cui Presidente ha di recente avuto un vivace scambio di opinioni niente meno che con la Corte Costituzionale tedesca) come uno strumento di politica monetaria che serve sia per evitare l’inflazione che per scongiurare una eccessiva deflazione. Questo significa allora che – come dimostrerebbero anche i recenti mal di pancia registrati dalle parti di Karlsruhe – siamo di fonte ad una svolta epocale, nel senso di ammettere che il sistema Euro potrebbe risultare funzionale anche all’adozione di politiche economiche espansive nell’eurozona? Non esattamente, giacché – come spesso accade – sono i piccoli dettagli a fare le grandi differenze.

Anche nella versione attuale del sito internet istituzionale della BCE la giustificazione delle politiche di stimolo monetario per evitare il calo dei prezzi di beni e servizi è che “non è positiva una riduzione dei prezzi continua e diffusa nell’economia che non sia connessa a miglioramenti della produzione”. Con queste parole la BCE conferma infatti che, in realtà, l’Euro resta essenzialmente lo strumento con cui l’UE mira a moderare l’inflazione (e dunque, fra l’altro, a ridurre il costo del danaro) al fine di creare la situazione ideale per consentire l’attuazione di una ben precisa ricetta di politica economica: quella che ha come scopo ultimo il calo dei prezzi di beni e servizi per effetto del miglioramento della produzione. Per capire dunque a cosa davvero serve l’Euro oggi occorre capire cosa intende la BCE quando parla di miglioramento produttivo.

Ebbene: per miglioramento della produzione si intende quello che gli economisti definiscono come “maggiore produttività” a livello di offerta. Le principali strade note per conseguirla sono in sostanza tre: miglioramento tecnologico (che aumenta la resa a parità di costo di altri fattori produttivi), riduzione del costo delle materie prime e taglio del costo del lavoro.  Nell’economia globalizzata di oggi, in cui la domanda aggregata di risorse è in crescita costante (specie negli stati emergenti come Cina, India e Brasile), la riduzione del costo per materie prime è difficilmente pensabile. Quanto all’innovazione tecnologica, è invece quasi impossibile prevedere quali e quante soluzioni innovative verranno individuate per effetto di un certo volume di investimenti in ricerca e sviluppo e, di conseguenza, è difficile prevedere quale potrebbe essere l’impatto che il capitale investito in innovazione tecnologica o di processo potrebbe avere in termini di calo di costi complessivi dal lato dell’offerta.

Tutto questo spiega perché, nell’attuale contesto economico, lo strumento più sicuro ed efficace con cui gli stati possono perseguire un aumento di produttività è il taglio del costo del lavoro, misura che – a differenza dell’investimento in ricerca tecnologica – non richiede cospicui investimenti e soprattutto garantisce risultati immediati in termini di risparmio di costi e dunque di calo di prezzi. D’altro canto, è nozione pacifica dell’economia politica quella secondo cui se la disoccupazione è bassa, l’inflazione tende a salire, mentre quando la disoccupazione è alta, l’inflazione diminuisce. Ed ecco infine spiegato perché l’adozione di politiche volte alla compressione dei salari (in questo si sostanzia infatti il taglio del costo del lavoro) è una delle conseguenze inevitabili dell’adozione della moneta unica (anche in epoca di quantitative easing), dal momento che si tratta della misura che consente più facilmente di giungere a quel calo generalizzato dei prezzi di beni e servizi che – secondo la BCE – sarebbe “buono” in quanto non deriva da una fase di prolungata debolezza della domanda. Altrettanto noto è tuttavia che lo strumento necessario per comprimere le pretese salariali dei dipendenti è ridurre la stabilità del posto del lavoro. Questo significa che il sistema dell’Euro – per soddisfare il suo scopo istituzionale (ridurre i prezzi di beni e servizi in un contesto di inflazione bassa ma stabile) – implica il mantenimento in tutti gli stati dell’eurozona di un certo tasso di disoccupazione.

Sennonché, quando calano sia il numero degli occupati che i salari dei lavoratori, cala di conseguenza anche il rispettivo potere d’acquisto e, dunque, si genera un potenziale effetto depressivo sulla domanda interna, col rischio dell’innesco di fenomeni di deflazione “cattiva” secondo la BCE. Questo calo potrebbe in teoria essere in parte compensato dal calo di prezzo dei prodotti e dei servizi (indotto dal taglio del costo del lavoro), che dovrebbe far crescere il potere d’acquisto reale dei salari, anche a fronte di una discesa di questi ultimi. Il problema è che questa dinamica “virtuosa” – in una situazione di domanda interna debole e tenendo conto della naturale tendenza delle imprese a trasformare in maggiori utili i tagli di costo – ben difficilmente può venire a innescarsi. Quale è stata dunque la ricetta che consente – a fronte di una sostanziale crescita degli utili d’impresa – di comprimere i salari e mantenere un certo tasso di disoccupazione senza al contempo innescare fenomeni di deflazione sufficientemente intensi da innescare una spirale recessiva?

Questo risultato può essere ottenuto in due modi. Anzitutto destinando una quota maggiore della produzione – quella che non può essere assorbita dalla domanda interna indebolita dai salari bassi e dalla disoccupazione – all’esportazione, in sostanza prelevando dagli stati di esportazione la ricchezza liquida che non può provenire da una domanda interna depressa dal taglio dei salari e dalla disoccupazione. In seconda battuta mediante misure pubbliche di sostegno al reddito dei lavoratori che hanno salari più bassi e di assistenza agli inoccupati (i quali, in sostanza, si vedono restituire dall’assistenza pubblica una quota di quel che hanno perso per effetto della compressione dei salari o della impossibilità di trovare una occupazione). Si tratta – di nuovo – del modello adottato da un paio di decenni in Germania, secondo quella che è stata definita “dottrina Hartz”: compressione dei diritti dei lavoratori (specie sotto il profilo della stabilità dell’occupazione) con riduzione progressiva dei salari nominali, compensate da misure di sostegno pubblico per i lavoratori a basso reddito e per gli inoccupati e da un forte incentivo statale all’export. Una simile politica di stampo mercantilista (in cui cioè lo stato favorisce l’impresa, incentivando le esportazioni e sostenendo il reddito di lavoratori a basso reddito e inoccupati invece che sostenerne le rivendicazioni salariali) consente infatti l’aumento della produttività delle imprese (e dunque degli utili di chi vi investe capitale di rischio) fondato sulla riduzione delle dinamiche salariali senza implicare eccessivi problemi di deflazione, anche in situazioni di domanda interna debole.

Ecco spiegato perché l’Euro – per come definito dai trattati e per come “amministrato” dalla BCE anche all’epoca del quantitative easing – rappresenta uno strumento di politica monetaria che in realtà induce gli stati ad adottare politiche economiche di riduzione dei salari mediante la precarizzazione del lavoro, compensando l’indebolimento della domanda interna mediante incentivi all’export (sia verso altri stati aderenti all’eurozona sia verso stati extra UE) e misure pubbliche di assistenza per i lavoratori a basso reddito e/o per gli inoccupati. Tutto questo consente di sostenere che il sistema Euro – per sua stessa struttura e anche dopo l’inizio degli stimoli monetari – resta uno strumento studiato per contribuire a generare una crescita economica moderata (dunque per impedire – fra l’altro – fasi espansive quando pure servirebbero per superare una stagnazione economica), i cui frutti restano per la maggior parte nelle mani di chi controlla e finanzia le imprese, mentre – attraverso la riduzione dei salari e la precarizzazione del lavoro – viene ridotta la quota di ricchezza che viene assegnata dal sistema economico ai lavoratori.

Si tratta di un sistema – si badi – che favorisce non solo chi controlla il capitale delle imprese (che vede crescere gli utili a fronte dell’assunzione da parte dello stato di una quota dei costi sociali ed economici causati da disoccupazione e riduzione dei salari) ma che conferisce dei vantaggi alla stessa classe politica. Questo modello – implicando la necessità di sussidi pubblici per un maggior numero di lavoratori e inoccupati – consente infatti alle forze politiche più propense all’assistenzialismo di intercettare con grande facilità il voto dei lavoratori (e degli inoccupati) che – per effetto della depressione della domanda interna e dell’aumento della produttività perseguito ai loro danni – si troveranno sempre più costretti a rivolgersi appunto all’assistenza pubblica per poter mantenere un tenore di vita decente. Si tratta infine di un sistema gradito anche al sistema finanziario e creditizio, giacché – oltre a generare maggiori utili d’impresa e dunque maggiori rendimenti per l’investimento in venture capital – aumenta anche la propensione all’indebitamento privato da parte dei lavoratori a basso reddito (agevolato anche dal fatto che una bassa inflazione consente al sistema finanziario e bancario di praticare bassi tassi nel credito al consumo o nel credito bancario). Sin qui, dunque, l’esame della politica economica al cui perseguimento l’Euro – anche in epoca attuale – contribuisce.

Sennonché nessuna ricetta di politica economica – quando viene applicata all’interno di uno stato sovrano – può sottrarsi al confronto con i principi costituzionali che, in quello stesso stato, definiscono il perimetro in cui i poteri pubblici sono liberi di muoversi nel definire la politica economica nazionale. All’interno del principio fondamentale del libero mercato e della libertà d’iniziativa economica privata, che ispira ormai tutte le costituzioni dei paesi occidentali, ciascuno stato ha infatti individuato una propria specifica “costituzione economica”, rappresentata – appunto – dall’insieme di principi e limiti ai quali il legislatore soggiace nel regolare l’esercizio delle libertà economiche dei cittadini. Occorre dunque verificare se il modello unionista di politica monetaria ed economica – che ricalca in sostanza il modello di costituzione economica tedesca – sia conforme anche alla costituzione economica di tutti gli altri paesi dell’UE. Vediamo in partuicolare come stanno le cose in Italia.

4. L’art. 1 della Costituzione – dunque certamente la norma di vertice nella gerarchia costituzionale – recita testualmente che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. La democrazia e il lavoro, dunque, nel nostro ordinamento costituzionale sono ritenuti niente meno che il fondamento stesso della Repubblica. L’art. 4 della Costituzione – sempre collocato nei diritti fondamentali – dispone poi che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Il rispetto dei due principi in questione rappresenta dunque senza alcun dubbio una manifestazione di quella “utilità sociale” che l’art. 41 Cost. indica come limite per il legittimo svolgimento dell’attività d’impresa privata. Il che a sua volta significa che la particolare attenzione al lavoro fa certamente parte di quella che – secondo la dottrina tedesca dell’”identity test“ – potremmo definire come “identità costituzionale” nazionale. Per altro verso, l’art. 47 Cost. dispone che la Repubblica non solamente “tutela” ma anche “incoraggia” il risparmio dei cittadini, di guisa che parrebbe rientrare tra i fondamenti identitari della nostra Costituzione economica anche il principio secondo cui il compenso del lavoro dipendente (ma forse il discorso si può estendere anche ad altre attività lavorative) non può mai ridursi al minimo indispensabile per vivere (o, anche peggio, ad un livello tale da dover richiedere sussidi statali per farlo) .

Tutto questo induce a ritenere che ben potrebbe rappresentare un principio identitario e fondamentale della nostra costituzione quello secondo cui i cittadini hanno diritto a un lavoro compensato in misura tale da consentire loro, non solo di soddisfare le proprie esigenze primarie, ma anche da poter accumulare un margine risparmio privato. Ammettere questo, significherebbe ammettere anche che – qualunque sia il modello di politica economica che il nostro legislatore decide di adottare – la politica economica nazionale non potrebbe in ogni caso, per poter funzionare, fondarsi sull’esigenza che una parte dei cittadini resti disoccupata e tanto meno potrebbe fondarsi sulla necessità che una significativa quota dei lavoratori abbia necessità di integrare il reddito ricorrendo a sussidi pubblici (o – peggio – all’indebitamento privato) per arrivare a fine mese. L’opzione di costituzione economica definita dalla nostra carta fondamentale mi pare infatti piuttosto chiara nel senso la prima forma di welfare che lo stato deve promuovere non è l’assistenza pubblica a chi versa in stato di bisogno (misura residuale e limitata a determinate e circoscritte ipotesi), bensì dalla prevenzione dello stato di bisogno grazie a politiche economiche che consentano alla maggioranza dei cittadini di ottenere un lavoro con cui mantenersi dignitosamente (senza aver bisogno della beneficienza dello stato) e, magari, riuscendo pure a mettere da parte del risparmio personale.

Senza voler dunque arrivare all’estremo di ritenere che la piena occupazione sia il solo scopo che deve perseguire qualunque iniziativa di politica economica (e monetaria) assunta dal nostro stato, mi pare invece possibile sostenere con una certa forza di argomenti che dovrebbe restare preclusa al nostro legislatore l’adozione (e dunque l’accettazione eterodiretta) di politiche economiche o monetarie che in via di fatto implicano necessariamente la creazione e il mantenimento di un certo tasso di disoccupazione. Discorso che dovrebbe valere a maggior ragione nei casi in cui simili politiche – oltre a creare una “disoccupazione fisiologica” – implichino addirittura la necessità di erodere risparmi e compensi dei lavoratori, con conseguente necessità di provvedere all’integrazione del loro reddito da parte dell’assistenza pubblica e spingendoli a un crescente indebitamento privato.

Le considerazioni che precedono mi inducono dunque a mettere in dubbio che l’adesione al sistema Euro – considerando il genere di politica economica che quello stesso sistema induce gli Stati Membri ad adottare – sia stata un decisione rispettosa dei principi definiti dagli art. 1, 4, 41 e 47 Cost., dunque di principi che senza dubbio possono contribuire a definire l’”identità” della nostra Costituzione economica. Per questa ragione – in applicazione della dottrina dei “conto limiti” (in particolare della sua variante “tedesca” dell’identity test, a suo tempo condivisa anche dalla nostra Corte costituzionale nella citata decisione 232/1989) – si può a mio avviso sostenere che la legge di ratifica dei trattati UE, nella parte in cui – per mezzo dell’accettazione delle norme contenute nel titolo VIII del TFUE nel testo consolidato attuale – ha consentito l’adozione della moneta unica, potrebbe aver rappresentato una limitazione di sovranità accettata dal legislatore nazionale al di fuori dei limiti richiesti dall’art. 11 Cost.. Ma non è ancora tutto.

5. La creazione di una moneta unica tra stati con economie non omogenee (all’interno di un’area di libero scambio e in assenza di trasferimenti di risorse da uno stato all’altro da parte di una autorità che possa agire in modo autonomo e indipendente dagli stati stessi) genera un secondo ordine di conseguenze foriere di pesanti ricadute costituzionali.

All’interno di un’area di libera circolazione delle merci e dei servizi, la competizione tra economie degli stati che vi aderiscono è in sostanza una competizione di prezzo. Quando dunque in una zona di libera circolazione viene imposto un sistema di cambi fissi (in cui non è possibile per ciascuno stato svalutare o rivalutare la moneta) per far calare il prezzo di beni e servizi gli stati – per ragioni che abbiamo già indicato in precedenza – devono per forza dar calare i salari. In questo genere di unioni, dunque, alla flessibilità del cambio nominale viene sostituita la flessibilità dei salari nominali. Ma per flessibilizzare i salari nominali lo strumento principale – come pure si è già avuto modo di verificare – è precarizzare i lavoratori. Il tutto – come, di nuovo, si è già visto – compensando la deflazione interna con un incentivo all’export. Questo significa che un sistema di cambi fissi tra stati che aderiscono a un mercato in cui vige il principio di libera circolazione di merci, capitali e servizi inevitabilmente innesca una competizione tra stati fondata sulla corsa al ribasso dei salari e alla precarizzazione dei lavoratori, compensata da un aumento dell’export rispetto al consumo nazionale interno.

Questa situazione induce gli stati che (grazie a una più rapida compressione dei salari e a più efficaci incentivi all’export) hanno raggiunto per primi una migliore produttività (e dunque una grande competitività sui mercati esteri) a esportare sempre più prodotti a basso costo anche verso gli altri stati dell’unione monetaria (ma che si trovano in ritardo in termini di produttività), dunque dirottando a favore degli stati più forti una quota del residuo potere d’acquisto della domanda interna degli stati più deboli, con la conseguenza di sottrarre ulteriori risorse economiche alle imprese di degli stati più deboli. Il tutto con il risultato evidente di aggravare la situazione di debolezza del sistema produttivo dello stato di esportazione. Si noti peraltro che quando un simile modello – come avviene per l’UE – prevede anche la libera circolazione delle persone all’interno dello spazio comune, la deflazione indotta negli stati meno produttivi dall’aggressività dell’export di quelli più produttivi provoca anche una emigrazione di risorse umane (in special modo quelle più qualificate, che non possono più essere adeguatamente remunerate nell’economia stagnante dello stato meno produttivo) dagli stati meno produttivi a quelli più produttivi, contribuendo dunque anche sotto questo profilo all’aggravarsi della situazione economica (e di minore produttività) di questi ultimi.

Tutto questo per dire che il sistema della moneta unica europea – unito alla zona di libero scambio e circolazione unionista e in assenza di politiche indipendenti dalla volontà delle cancellerie degli stati membri – genera inevitabilmente una dinamica economica che incentiva una forma di darwinismo economico per cui gli stati “più efficienti” usano le esportazioni di beni ad alto valore aggiunto per sottrarre risorse economiche e umane agli stati “meno efficienti”, con il risultato di allargare progressivamente il gap di efficienza produttiva tra stati (invece di ridurlo, come dovrebbe accadere in una “unione”). Si tratta insomma – a ben vedere – di una dinamica assai simile a quella, ampiamente studiata in dottrina economica, che al tempo del colonialismo caratterizzava i rapporti tra gli stati colonizzatori (che traevano vantaggi crescenti dagli scambi commerciali con le colonie) e gli stati colonizzati (che invece – in forza di quegli stessi scambi commerciali – venivano poco a poco spogliati delle proprie risorse senza innescare alcun reale sviluppo economico).

Si noti peraltro che, in presenza di simili rapporti di forza economica, l’adesione alla moneta unica – oltre che aver contribuito a creare la dinamica concorrenziale negativa di cui si è detto – ha anche avuto l’effetto negativo ulteriore di sottrare agli stati meno produttivi l’ultima arma che avrebbero potuto utilizzare per rimettersi al passo con quelli più produttivi, rappresentato dalla svalutazione competitiva della moneta nazionale. Dunque gli stati meno competitivi nell’UE si trovano attualmente – rispetto ai paesi più competitivi dell’Unione – in situazione analoga a quella in cui si trovano – rispetto alla Francia – i paesi africani delle ex colonie che hano adottato il franco CFA (ora ribattezzato ECO).

Tracciare un parallelismo tra l’eurozona e i (vecchi e nuovi) sistemi coloniali è tutt’altro che una boutade o un’iperbole ad effetto, quando si consideri che il già citato Paul Krugman – già Nobel per l’Economia nel 2008 proprio per la sua analisi degli andamenti commerciali e del posizionamento dell’attività economica in materia di geografia economica – ha avuto modo di sostenere, nel lontano 1999, che “adottando l’Euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica” mentre, più di recente, ha affermato che “L’Europa non era adatta alla moneta unica, come invece gli Stati Uniti. Spagna e Florida hanno avuto la stessa bolla immobiliare ma la popolazione della Florida ha cercato lavoro in altri Stati meno colpiti dalla crisi, gli spagnoli non hanno avuto la stessa opportunità. Assistenza sociale, assicurazioni sanitarie, spese federali e garanzie bancarie nazionali sono di competenza unicamente del governo di Washington per tutto il territorio, mentre in Europa non è così. Questo è uno dei principali motivi della fragilità del sistema Europa“.

Insomma, anche sotto questo profilo ce n’è a mio avviso più che abbastanza per dubitare del fatto che le limitazioni di sovranità assunte dall’Italia quando ha aderito al sistema della moneta unica – quanto meno allo stato attuale dell’Unione, ossia in una zona di libero scambio senza una vera unione europea che sappia esprimere politiche economiche e sociali indipendenti dalla volontà dei singoli stati aderenti (e in special modo dalla volontà di quelli “più produttivi”) – siano “necessarie” per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni, come invece richiede l’art. 11 Cost. Si tratta infatti di limitazioni che paiono funzionali più che altro ad alimentare una sempre più feroce competizione tra stati, in cui gli stati che – preferendo anteporre il benessere dei propri cittadini alla “produttività” del sistema – finiscono per restare preda dell’aggressività economica dei paesi più produttivi, senza potersi più neppure difendere con lo strumento (la svalutazione monetaria) che in altre epoche gli avrebbe consentito di reagire all’attacco. Più passa il tempo e più – per effetto della moneta unica e degli altri aspetti della costituzione economica definita dai trattati unionisti – gli squilibri tra le economie dei paesi dell’eurozona si aggraveranno, sempre e solo a favore degli stati che mettono la produttività prima del benessere dei cittadini e sempre e solo a danno di quelli che invece mettono il benessere prima della produttività.

L’Euro è dunque un meccanismo monetario che per sua stessa struttura e funzione – lungi dal favorire l’integrazione delle economie degli stati aderenti all’UE – non solo li mette in competizione tra loro, ma addirittura induce gli stati più forti economicamente (che poi sono quelli che hanno scelto di aumentare immediatamente la produttività a scapito del lavoro) a praticare una politica che potremmo definire “neo coloniale” (o comunque predatoria e commercialmente aggressiva) nei confronti dei membri più deboli della stessa unione cui appartengono. Il tutto con due soli possibili esiti finali. O i paesi “forti” integreranno totalmente quelli deboli nei loro sistemi economici (acquistando il controllo del capitale delle imprese di pregio e assegnando al resto del tessuto produttivo del paese il ruolo di fornitori – a basso costo – di manodopera, di materie prime o di beni intermedi e servizi a basso valore aggiunto). Oppure – se questa operazione non sarà possibile o non sarà ritenuto conveniente da quegli stessi paesi “forti” (che magari preferiranno individuare in paesi meno sviluppati al di fuori dell’UE i loro fornitori a basso costo) – i paesi deboli verranno infine espulsi dall’”unione”, dopo averne devastato le rispettive economie nazionali con decenni di depressione della domanda interna e conseguente distruzione dei tessuti produttivi nazionali.

Ecco qui sopra riassunto in poche parole il genere di “pace e giustizia” tra stati che l’Italia ha accettato di perseguire aderendo alla moneta unica europea. Pare insomma aver colto nel segno il monito lanciato – sempre diversi anni orsono – dall’analista economico Martin Feldstein nell’articolo “EMU and international conflict”, Foreign Affairs, vol. 76, n. 6, novembre – dicembre 1997, in cui ha avuto modo di sostenere che “Instead of increasing intra-European harmony and global peace, the shift to EMU and the political integration that would follow it would be more likely to lead to increased conflicts within Europe”. Il tutto, si badi, con l’aggravante (quanto meno in Italia) che – in questa competizione tra stati aderenti – il sistema dell’Euro premia quelli che attuano più rapidamente restrizioni salariali e che agiscono più efficacemente in termini di riduzione della stabilità e dei diritti del lavoro. L’Euro è insomma un sistema congegnato in modo tale (non solo da accentuare invece che attenuare i conflitti tra gli stati aderenti, ma anche) da indurre l’Italia – per divenire “competitiva” in modo da sottrarsi ad all’inevitabile deriva di marginalizzazione economica che la attenderebbe in caso contrario – a perseguire sempre più attivamente politiche economiche nazionali che si pongono in netto contrasto con il valore primario che le norme costituzionali di cui all’art. 1, 4 e 47 Cost. assegnano al lavoro e al risparmio privato.

In sostanza – e per tirare le somme – l’Euro è uno strumento di politica monetaria che (quando viene applicato in una zona di libero scambio priva di meccanismi compensativi affidati ad istituzioni centrali indipendenti rispetto alla volontà delle cancellerie degli stati aderenti) inevitabilmente induce gli Stati Membri ad ingaggiare tra loro una dura competizione commerciale in cui hanno successo quelli che – sul versante interno – riescono meglio a sacrificare, in nome della “produttività”, i salari e i diritti dei lavoratori e – sul versante estero – attuano aggressive politiche di esportazione verso le economie più deboli. Tutto questo induce a ritenere che l’adesione del nostro paese al sistema dell’Euro – sia perché incentiva una gestione pseudo-coloniale (o, quanto meno, competitivo-predatoria) dei rapporti economici tra gli stati aderenti soia perché risulta ostile a qualunque politica economica che implichi una adeguata partecipazione dei lavoratori ai benefici della crescita economica – ben difficilmente si può considerare un caso di limitazione di sovranità “necessaria” per conseguire un ordinamento internazionale che assicurare “pace” e “giustizia” tra gli stati, quanto meno nell’accezione di “pace” e di “giustizia” che si dovrebbe ritenere accolta dall’art. 11 della nostra Costituzione.

Giova infatti ricordare che la norma in questione ripudia la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti tra stati (e che la costituzione ripudia anche il colonialismo come strumento di dominio economico), mentre l’Euro forma parte integrante di un modello economico e monetario che – nella sua versione attuale – non solo induce gli stati membri ad ingaggiare una feroce guerra commerciale tra loro al fine di contendersi i rispettivi mercati, ma li obbliga anche ad utilizzare come sola arma efficace la compressione dei salari medi, la precarizzazione dei lavoratori e l’aggressività commerciale verso gli altri stati.

6. In questo scritto si è cercato di ragionare essenzialmente di diritto, individuando in particolare le possibili ricadute costituzionali di una serie di considerazioni di economia politica ampiamente condivise all’estero – oltre che da Krugman e Feldstein – anche da altri studiosi del calibro ad esempio del Nobel Stiglitz. Si tratta di considerazioni che invece – qui da noi – sono state approfondite da pochi studiosi, quali l’economista Alberto Bagnai e il giurista Luciano Barra Caracciolo. E’ del resto assai probabile che la lettura di questo saggio faccia alzare più di un sopracciglio nel folto drappello degli europeisti ad ogni costo.

Eppure le considerazioni che ho tentato di svolgere in questa sede mirano essenzialmente a dimostrare che il sistema dell’Euro (nel contesto della politica economica unionista definita dal TUE e dal TFUE nei testi attualmente in vigore) non consentirà mai all’Unione Europea di adottare politiche capaci di affrontare prolungate fasi di debolezza economica mondiale, se non favorendo – ancora e di nuovo – gli Stati Membri più forti a danno di quelli più deboli (e oltretutto frustrando i diritti dei lavoratori). Lungi da me dunque l’idea che l’UE sia “cattiva” o che vi sia della particolare malevolenza verso l’Italia da parte di qualche paese europeo. Il problema è infatti ben più semplice (e proprio per questo – purtroppo – assai più grave): l’Unione Europea è una istituzione che è stata creata per “funzionare bene” (seppure in modo non particolarmente equo) in una situazione congiunturale di perduranti vacche grasse, dunque quando la crescita economica è sostenuta e stabile (come avveniva sino agli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso). In quello scenario, infatti, in cui il solo vero problema è, appunto, solo l’inflazione.

Le ricette pro cicliche – a base di dosi massicce (e crescenti) di austerità – che il sistema unionista, anche per mezzo della moneta unica, finisce inevitabilmente per imporre a tutti gli Stati Membri sono invece drammaticamente inadatte (anzi, gravemente dannose) quando la congiuntura economica si deteriora per lungo tempo. E questo, si badi, non tanto perché si tratta di politiche economiche che non funzionano in assoluto, ma perché si tratta di politiche che – anche in tempi di crisi – pretendono di migliorare la situazione con strumenti pro ciclici che hanno il difetto di aiutare sempre quelli che sono già più forti a spese di quelli che sono già deboli, laddove le “vere” unioni tra stati (e in particolare quelle federali) dovrebbero servire a fare l’esatto contrario, consentendo l’adozione di ricette anticicliche con cui i più deboli vengono aiutati grazie ai più forti proprio nelle fasi in cui il mercato in cui competono forti e deboli – nel suo complesso – si trova in una congiuntura economica negativa. Il sistema dell’Euro non è dunque sbagliato perché non funziona, ma perché il suo stesso modo di funzionare – aggravando il gap tra stati invece che compensare squilibri economici – in presenza di situazioni di crisi provoca per definizione crescenti contrasti e divisioni (e non certo convergenze e armonia) tra gli Stati Membri dell’eurozona. Dunque si tratta di un sistema ha portato a risultati esattamente opposti a quelli per cui si è detto in passato che era stato creato.

Forse anche per noi italiani è infine arrivato il momento di guardare le cose con meno passione e più realismo. L’esperienza di un decennio di governi europeisti (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni e, ora, anche il Conte due) che – applicando le ricette a base di austerità indicate da Bruxelles – non hanno risolto la crisi economica in cui versa il paese a mio avviso qualcosa ci dovrebbe insegnare. E questo qualcosa è che non è più possibile negare a priori che la moneta unica (insieme all’insistenza tetragona degli organi UE nell’imporre con zelo quasi religioso a tutti gli stati dell’unione ricette coerenti con una politica economica mercantilista ritagliata sul modello germanico) potrebbero anche essere (non la panacea dei nostri mali, bensì) una delle cause per cui la crisi economica nel nostro paese si è protratta e aggravata ben più che altrove. Né sopravvaluterei la pretesa “svolta epocale” dei vari recovery fund, MES, SURE che l’Unione Europea – dopo la crisi del covid 19 – si è sforzata di inventare per tentare di “aiutare” finanziariamente gli stati con problemi economici.

Sin quando infatti non cambierà qualcosa a livello di costituzione economica dell’unione (dunque fino a quando non cambieranno le norme del TUE e del TFUE) qualunque tipo di “aiuto” finanziario unionista – dovendo risultare conforme a principi scritti a chiare lettere nel TFUE in modo da ricalcare un ben definito modello economico, ossia quello tedesco – finirà presto o tardi, in un modo o nell’altro, per presentare il conto agli stati che adottano modelli di sviluppo differente, imponendo ai rispettivi governi – per aumentare la “produttività” delle imprese – di colpire salari, stabilità del lavoro, previdenza, sanità, istruzione e risparmio. E pure se alla fine si otterrà – al suddetto (caro) prezzo – la tanto agognata “maggiore produttività” del sistema paese, la maggiore ricchezza generata alla fine andrà pur sempre a beneficio soprattutto di chi detiene ingenti patrimoni ovvero di chi detiene il capitale delle imprese nonché a beneficio del sistema creditizio, ma non certo a beneficio della maggioranza dei cittadini e dei lavoratori.

Come magari illustrerò meglio in un successivo contributo, la “costituzione economica unionista” – per come definita dal TUE e dal TFUE attualmente vigenti – subordina infatti il benessere e i diritti della maggioranza dei cittadini europei (e in particolare dei lavoratori) sia alle esigenze di “produttività” del sistema economico dell’unione sia alle esigenze di stabilità del sistema finanziario. La differenza tra questa impostazione – essenzialmente fisiocratica e mercatista – e la visione più sociale e laburista della nostra costituzione economica è dunque certamente uno dei grandi problemi che pone l’adesione dell’Italia alla costruzione europea di Lisbona e Maastricht. Problema che sinora è stato passato sotto silenzio forse sperando in buona fede che la buona volontà degli stati membri l’avrebbe risolto da sé, portando a politiche di maggiore solidarietà e condivisione. Purtroppo, però, così non è accaduto né – visto quel che sta accadendo con il nuovo giro di “aiuti” di cui si parla in questi giorni – è probabile che ciò accada nei prossimi anni. L’Unione europea – che ormai va assumendo sempre di più i tratti di una grande Germania – intende mantenersi fedele a Maastricht e Lisbona, lasciando ben poco spazio ai sogni dei “vecchi” europeisti.

Questo significa che per l’Italia – e in particolare proprio per gli europeisti italiani – è forse giunto il momento di porsi seriamente di fronte al “problema europeo”, trattandosi di un problema che non solo esiste, ma che continuerà ad aggravarsi sino a quando la nostra classe politica non troverà il coraggio di sollevare – anche e soprattutto dalle parti di Berlino e Parigi – la questione se non sia il caso di rifondare l’Unione partendo dai suoi trattati fondativi, smettendo in particolare di considerarla solo una zona di libero scambio con annessa unione monetaria (studiata a tavolino per imporre a tutti quanti un modello economico ritagliato sulle specificità e sugli interessi di pochi), per iniziare a pensare a come trasformarla in uno strumento di effettiva integrazione economica e sociale tra i paesi europei. Ovviamente portare avanti un simile tentativo implica il rischio di ricevere una porta (di Brandeburgo) in faccia. Ma a quel punto quella stessa porta potrebbe essere la via per andarsene serenamente e senza troppi strepiti e drammi da un sistema che, quanto meno per noi, non funziona più. L’Italia, per quanto pesta e ammaccata, ha ancora le energie per rialzarsi. Ma magari – messi alle strette sulla riforme del TUE e del TFUE – ci saranno anche dei paesi che si accorgeranno del fatto che, tutto sommato, è ancora meglio averci come compagni di strada che come concorrenti.

Del resto – agendo in questo modo – l’Italia non farebbe altro che imitare il modello tedesco, ordinamento in cui la costituzionalità delle norme unioniste (e dell’Euro in particolare) rispetto alla Carta fondamentale nazionale è questione certamente attuale, come dimostra la recente sentenza della Corte Costituzionale tedesca che potrebbe indurre in futuro la Bundesbank a non partecipare più all’ultima versione dei programmi di quantitative easing lanciati dall’Eurotower proprio perché si tratterebbe di programmi ritenuti dalla Corte di Karlsruhe potenzialmente lesivi di norme costituzionali nazionali. I tedeschi, insomma, non hanno avuto alcuna paura ad alzare il dito (anche con il rischio di rovesciare il tavolo) non appena il diritto vivente dell’UE ha mostrato i primi timidi segni di voler abbandonare i principi di teutonica austerità vergati nei trattati fondativi. E proprio questa rigidità dovrebbe confermare che forse è giunto il momento di un franco e sereno chiarimento tra gli stati membri circa le scelte di fondo della politica unionista.

Se però i pasdaran europeisti di casa nostra – vuoi per calcolo politico, vuoi per vari interessi di bottega o vuoi per troppa fede in una vecchia e gloriosa idea – si limiteranno ad annuire di continuo ai padroni dell’Europa e ad abbaiare contro i sovranisti di ogni tipo e genere per il solo fatto che osano mettere in discussione i dogmi del sistema, temo che – presto o tardi – potremmo tutti quanti trovarci in una situazione sociale tanto tesa da rendere il diritto costituzionale il meno traumatico degli strumenti con cui la parte scontenta, ma ancora attiva e vitale, del nostro popolo sovrano cercherà di mettere la parola fine a un gioco che – quanto meno con le regole con cui viene giocato ora – si sta dimostrando sempre meno capace di garantire fiducia, tranquillità e benessere alla maggioranza dei cittadini.