Il dopo-Emilia Romagna

Anche se le Regioni che vanno al voto sono due (Emilia Romagna e Calabria), inutile nasconderselo, è sull’Emilia Romagna che sono puntati i riflettori. Perché, lo si voglia o no, la sfida Bonaccini-Borgonzoni si è trasformata in una specie di giudizio di Dio sul governo nazionale.

Non sarebbe stato così se, una volta caduto il governo giallo-verde, sinistra e Cinque Stelle avessero avuto il coraggio di tornare di fronte all’elettorato, come succede nei paesi normali allorché un’elezione non restituisce un vincitore chiaro. In quel caso i confronti regionali sarebbero rimasti nell’alveo giusto, quello di una competizione locale fra due candidati locali. Poiché, invece, si è scelto di stare al governo a dispetto dei santi, ci si trova a fronteggiare l’insofferenza di quella parte dell’elettorato emiliano-romagnolo che sente l’insediamento del governo giallo-rosso come un vulnus alla democrazia sostanziale.

Dunque, è inevitabile. L’esito delle elezioni in Emilia Romagna non potrà che assumere un significato nazionale. E lo farà chiunque vinca: dopo il voto del 26 gennaio il sistema politico italiano non sarà più quello di prima.

Ma che differenza può fare una vittoria del Pd o una vittoria del centro-destra?

Per certi versi nessuna.

In entrambi i casi diventerà evidente che il nostro sistema politico è tornato bipolare. Il conflitto politico, dopo la breve stagione tripolare 2013-2019, tornerà ad essere strutturato intorno all’opposizione fra destra e sinistra. Certo, i partiti di centro potranno avere uno spazio più o meno grande e risultare più o meno decisivi, ma la scelta elettorale di fondo tornerà ad essere quella classica, fra il blocco di centro-sinistra (più o meno europeista) e il blocco di centro-destra (più o meno sovranista).

C’è un’altra conseguenza che pare difficile evitare, chiunque vinca: l’ulteriore indebolimento del Movimento Cinque Stelle. Questo esito, a mio parere, non ha la sua origine principale negli errori tattici e relazionali di Di Maio, dalle epurazioni alla cacciata di Gianluigi Paragone, ma nella rinuncia a sfruttare l’occasione irripetibile che il governo giallo-rosso aveva offerto ai Cinque stelle: quella di diventare la gamba popolare del centro-sinistra. Se avessero seguito il loro Dna, fondamentalmente assistenziale e anti-migranti, i Cinque Stelle avrebbero potuto, anche grazie alla sponda e alla legittimazione ricevute dalla loro alleanza con il partito dell’establishment (il Pd di Zingaretti), provare a coprire un segmento elettorale che esiste, e tuttavia non ha rappresentanza: quello di quanti chiedono più protezione sia sul versante economico (salario minimo e reddito di cittadinanza) sia su quello sociale (difesa dei confini e controllo del territorio). Con un Pd paladino dell’accoglienza e sempre incerto fra riformismo e assistenzialismo, i Cinque Stelle non avrebbero avuto difficoltà a coltivare e rappresentare questo segmento dell’elettorato.

Ma gli esiti comuni ai due scenari, quello di una vittoria di Bonaccini e quello di una vittoria di Borgonzoni, si fermano qui. Per il resto credo che le cose andrebbero assai diversamente nei due casi.

Dovesse vincere Bonaccini, il Pd si sentirà elettrizzato da un successo di cui ben pochi erano sicuri, Zingaretti si sentirà legittimato a guidare risolutamente il processo di costruzione del “partito nuovo” (qualunque cosa l’aggettivo significhi), le Sardine non esiteranno ad attribuirsi ogni merito per la vittoria, e naturalmente esigeranno di avere un peso elevato nel processo di ricostruzione (e ridenominazione, a quanto pare) del Pd, che nonostante la scissione di Renzi e la concorrenza cinquestelle resta pur sempre il maggior partito della sinistra. Quanto al governo, tutto lascia immaginare che si sentirà legittimato a continuare, magari con un rimpasto che tolga qualche ministero ai Cinque Stelle e li assegni al Pd. In questo scenario il destino dei Cinque Stelle è di diventare una riottosa ruota di scorta del Pd, e probabilmente anche di subire la scissione di quanti (Di Battista?) non vogliono restare alleati per sempre del “partito di Bibbiano”.

Dovesse vincere la Borgonzoni, tutto cambia. E’ anche possibile che il governo nazionale provi a resistere, ma è difficile che riesca nell’intento. In quel caso, infatti, si sommerebbero almeno due spinte del medesimo segno. Da una parte, il “grido di dolore” del popolo leghista e più in generale dell’elettorato di centro-destra, sempre più convinto (erroneamente, Costituzione alla mano) che tornare al voto sia un proprio inalienabile diritto. Dall’altra, il ben più prosaico interesse dei parlamentari a tornare al voto molto rapidamente, prima che il referendum sulla riforma costituzionale cancelli 345 seggi, rendendo drammaticamente più difficile essere rieletti.

E’ vero che, sulla carta, una strada alternativa per conservare il posto ci sarebbe, e sarebbe quella di “resistere, resistere, resistere” fino al 2023. Ma è forse ancor più vero che, nel caso di un trionfo del centro-destra, sui parlamentari di maggioranza si aggirerebbe uno spettro difficile da esorcizzare: quello di un governo che resiste qualche mese, magari un anno, e cade troppo tardi, ossia dopo che il referendum ha drasticamente potato i posti disponibili. Sarebbe il danno e la beffa: non poter arrivare al 2023, in tempo per eleggere il successore di Mattarella, e dover andare al voto giusto subito dopo aver segato il ramo su cui si è seduti.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 gennaio 2020



Il neonato in agonia

Di elezioni ne ricordo tante (la prima è quella del 1963: avevo 13 anni), e di governi italiani ne ho visti all’opera tantissimi, più o meno una cinquantina. Però un governo come questo non l’avevo mai visto. Non voglio dire che questo sia il peggior governo che l’Italia abbia mai avuto, questa è una questione di punti di vista (personalmente credo di averne visti di peggiori).

No, quello che voglio dire è che non ricordo sia mai successo, negli ultimi 50 anni, quel che sta accadendo ora, e cioè che un governo appena nato venga già, dopo pochissime settimane, dipinto come agonizzante non già dai suoi avversari (naturalmente inclini a confondere realtà e sogni), ma dai suoi stessi sostenitori, a partire dall’establishment mediatico progressista.

Governo confuso, litigioso, senz’anima sono i giudizi meno malevoli che si leggono in questi giorni. Come è stato possibile? Che cosa ha fatto sì che i salvatori della patria, che ci avevano evitato l’aumento dell’Iva e la calata degli Hyksos leghisti, si trasformassero – agli occhi di tanti commentatori – in un manipolo di inetti politicanti incapaci di fornire una guida e una speranza al Paese?

Una risposta, naturalmente, è che il racconto drammatizzante secondo cui saremmo stati destinati alla catastrofe ove il capo degli Hyksos avesse espugnato la cittadella della democrazia era, per l’appunto, nient’altro che un racconto. E per di più un racconto creduto da pochi. Se fossimo così convinti che il governo giallo-rosso ci ha evitato una catastrofe, e che tale catastrofe sia tuttora possibile, digeriremmo tutto senza andare tanto per il sottile, grati al governo per la sua mera esistenza, che ci protegge dal peggio incombente. E invece no: nessuno digerisce, il governo non piace nemmeno a chi lo ha fortemente voluto.

Ma il fatto che ben pochi abbiano realmente creduto al racconto con cui cercavano di spaventarci non è l’unico motivo per cui il governo riceve oggi solo critiche. A questa ragione di fondo se ne affianca almeno un’altra, che riguarda il tipo di alleanza che i quattro partiti che lo compongono hanno dato vita. Questa alleanza, nata con l’illusione (di alcuni) di segnare una discontinuità e l’ambizione di offrire agli elettori una sintesi che non riproducesse la formula fallimentare del “contratto”, ha invece riproposto precisamente quella logica. Una logica che si è ripresentata nel modo più evidente nella Legge di bilancio perché i contraenti, anziché elaborare una proposta di politica economica unitaria e coerente, hanno preferito “portare a casa” ciascuno il proprio specifico trofeo: intangibilità dell’Iva (Renzi), cuneo fiscale (Zingaretti), abolizione superticket (Speranza), cui vanno aggiunti i numerosi trofei di Di Maio, dal mantenimento di tutto il pregresso (quota 100 e reddito di cittadinanza) fino alla sciagurata soppressione dello scudo fiscale sugli amministratori della ex Ilva di Taranto.

Quella logica, però, non sarebbe stata così dannosa, e autolesionistica, se le quattro sinistre non avessero fatto anche due scelte ulteriori: quella di non mettere solennemente ed esplicitamente davanti agli elettori i termini del contratto (come invece avevano fatto Lega e Cinque Stelle), e quella di rinegoziare continuamente fra loro tali termini, con procedure opache e completamente sottratte a un vero e leale dibattito politico.

Il tutto aggravato da una circostanza ulteriore: l’ossessiva attenzione agli appuntamenti elettorali locali, che ha condotto alle più pirotecniche giravolte, dai migranti tenuti in mare 11 giorni per non disturbare le elezioni in Umbria, alla penosa marcia indietro sulla plastic tax, per non compromettere il risultato elettorale in Emilia Romagna.

Il risultato di tutto ciò è disastroso innanzitutto per la sinistra. Un candidato come il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, che si è meritato sul campo il rispetto dell’elettorato di centro-destra, rischia di perdere le elezioni non per i propri demeriti ma per quelli del governo nazionale. Che danneggia il candidato governatore non solo con la plastic tax e l’orientamento complessivo anti-imprese della manovra, ma con il mero fatto di essersi imposto con una manovra di Palazzo. Non si può escludere, infatti, che l’ostinato rifiuto di andare ad elezioni politiche convinca molti elettori incerti a votare la candidata della Lega solo per punire il governo nazionale, a dispetto di quel che pensano del candidato del Pd.

Se fossi Bonaccini, scongiurerei gli esponenti del governo e dei partiti che lo sostengono di non mettere piede in Emilia Romagna fino alla notte del 26 gennaio, quando sarà stato chiuso l’ultimo seggio.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 novembre 2019



Tre false credenze

Comunque la si pensi, e quale che sia l’atteggiamento di ciascuno verso questa crisi di governo, credo sarebbe meglio non ingannarci su quel che è successo, e su come stanno effettivamente le cose. Dico questo perché uno degli effetti di questa crisi a me pare il consolidamento di credenze false. Soprattutto tre.

La prima credenza è che le cose siano andate come sono andate perché Salvini ha sbagliato i tempi: doveva aprire la crisi prima, subito dopo le Europee. La realtà, invece, è tutta un’altra. La ragione per cui l’apertura della crisi, anziché portarci alle elezioni, ha generato un governo rosso-giallo, è semplicemente che il livello di spregiudicatezza e di opportunismo del ceto politico ha superato il livello di guardia. Vale per Zingaretti, che ha sempre detto che bisognava tornare al voto, e vale per Renzi, che ha sempre detto “mai con i Cinque Stelle”.

La cosa interessante è che, almeno a mia conoscenza, non esiste un solo giornalista, studioso, politico o osservatore che, nell’epoca in cui Salvini veniva quotidianamente invitato a staccare la spina, abbia ipotizzato che Salvini non avesse affatto il coltello dalla parte del manico, perché i parlamentari non avrebbero accettato di farsi mandare a casa prima di aver maturato la pensione. Prima di rimproverare Salvini per la sua imprudenza, dovremmo rimproverare noi stessi per la nostra ingenuità.

La seconda credenza è che l’alleanza fra Pd e Cinque Stelle sia contro natura, una sorta di mostro politico, come in effetti lo era l’alleanza fra Cinque Stelle e Lega. No, non lo è. Non solo perché da tempo una parte del popolo di sinistra vota Cinque Stelle, o guarda ai Cinque Stelle con simpatia e interesse, ma perché su tantissimi e decisivi punti, dal salario minimo al reddito di cittadinanza, le rispettive idee convergono. E la ragione è molto semplice: nel Pd convivono una minoranza modernizzatrice, riformista e garantista, e una maggioranza statalista, assistenziale e giustizialista. L’alleanza con i Cinque Stelle si limita a dare ancora più spazio a tale maggioranza e a mettere ancora più nell’angolo la minoranza (per convincersene, basta leggere la bozza di programma di governo che circola in questi giorni). Ma forse sarebbe più esatto dire: con la capriola di Renzi la minoranza riformista non c’è più, come testimonia il fatto che due sole persone (Calenda e Richetti) abbiano preso le distanze dall’alleanza con i Cinque Stelle. La credenza che Pd e Cinque Stelle siano due forze politiche molto diverse poggia solo sugli insulti che si sono scambiati fin qui.

C’è una terza credenza falsa che sta prendendo piede negli ultimi tempi, e cioè che esista in Italia una ampia maggioranza di elettori che vorrebbero un governo di centro-destra, e che il ribaltone di questi giorni avrebbe tradito. La maggioranza di centro-destra probabilmente c’è, a giudicare dalle elezioni europee e dai sondaggi. Ma non è ampia, e tantomeno schiacciante. Schiacciante è solo la maggioranza di centro-destra che, stante l’attuale legge elettorale, si formerebbe in Parlamento. Il tradimento c’è stato, ma è stato innanzitutto un tradimento degli italiani, del diritto dei cittadini a far sentire la loro voce attraverso il voto, in un momento in cui c’è una sola cosa certa: il Parlamento che, per conservare sé stesso, si appresta a far nascere il governo rosso-giallo, non riflette minimamente la distribuzione dei consensi nel Paese.

Una cosa sola, forse, ci può regalare un’amara (e paradossale) consolazione. Allo stato delle cose, né il blocco di centro-destra, né il nascente blocco di centro-sinistra, sarebbero in grado di offrire agli elettori una sintesi, ossia una visione chiara e coerente del futuro, che non nasconda il prezzo che ogni politica porta con sé. Il centro-destra è diviso e irrisolto sul rapporto con l’Europa, il centro-sinistra ha già delineato un programma in cui la fanno da padroni vaghezza, demagogia, e politiche di spesa senza coperture.

In queste condizioni avremmo tutto il diritto di tornare alle urne ma, forse, dovremmo imparare a farlo con una nuova certezza: il nostro voto conta quasi nulla, perché sono ormai pochissimi, ammesso che ve ne siano ancora, i leader politici che si sentono impegnati a tener fede alle solenni dichiarazioni con cui cercano di strapparci il voto.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 31 agosto 2019



La sagra dell’ipocrisia

Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Questa certezza, condivisa dalla stragrande maggioranza degli osservatori (me compreso), si basava su una credenza che si è improvvisamente rivelata errata: e cioè che, non essendovi in Parlamento alternative all’attuale governo, Salvini avesse il coltello dalla parte del manico. Era lui, e soltanto lui, che poteva decidere se far proseguire la legislatura o interromperla. E in entrambi i casi ne avrebbe avuto un vantaggio: andando al voto avrebbe raddoppiato i consensi, restando al governo avrebbe potuto dettare le condizioni all’alleato Cinque Stelle, timoroso di andare al voto e dimezzare i consensi.

Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu. Non possiamo sapere se riuscirà ad accordarsi su un programma e a formare un governo, ma sappiamo che l’eventualità è all’ordine del giorno. E’ persino possibile che il nuovo governo duri fino al 2023, e che sia quindi questo Parlamento ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica.

Dunque Salvini è all’angolo. La situazione, che sembrava rosea per lui, si è fatta repentinamente nera. Perché se facesse cadere il governo, i Cinque Stelle potrebbero rispondere alleandosi con il Pd. Mentre se rinunciasse a sfiduciare Conte, a parte la figuraccia, si verrebbe a trovare nella classica situazione dell’anatra zoppa: nelle nuove condizioni sarebbero i Cinque Stelle ad avere il coltello dalla parte del manico.

Situazione curiosa. E’ come se fosse resuscitato Bettino Craxi, ma con il triplo dei voti. Che cos’è, infatti, la condotta di Di Maio, se non la riedizione dell’eterna politica dei due forni? Allora Craxi poteva, a seconda del contesto, scegliere fra Dc e Pci, ora Di Maio non sembra farsi alcun problema a passare dall’alleanza (pardon: ‘contratto’) con la Lega a un possibile contratto con il Pd, magari grazie ai buoni uffici dell’estrema sinistra, che su diversi punti (politica economica e regole europee in particolare) è più vicina ai Cinque Stelle che al Pd.

Come è stato possibile tutto questo? E per di più in meno di una settimana?

Da qualche giorno, molti stanno notando che Salvini ha clamorosamente sbagliato i tempi: se voleva andare al voto, doveva farlo subito dopo le Europee, e comunque non in agosto, con la spada di Damocle di una sovrapposizione – a novembre – fra Legge di Bilancio e procedure di insediamento del nuovo governo.

Alla luce di quel che sta capitando, e soprattutto del modo istantaneo in cui si è delineato l’asse Pd-Cinque Stelle, mi sto convincendo invece che lo spettacolo cui assistiamo in questi giorni lo avremmo avuto comunque, anche se Salvini avesse sfiduciato Conte uno o due mesi fa. E sto pensando che chi, come me, guarda la politica dall’esterno, attribuendole ancora qualche sia pur debole, circoscritto e remoto movente ideale, ha clamorosamente sottovalutato un fattore cruciale: l’attaccamento al seggio dei parlamentari, una forza formidabile che li rende disponibili ad astrusi “ripensamenti” politici non appena se ne presenti la convenienza.

Non saprei spiegare altrimenti quello che oggi sconcerta tanti elettori. E cioè che i parlamentari renziani, che ingenuamente ci eravamo abituati a percepire come la garanzia che in questa legislatura non avremmo visto un’alleanza Pd-Cinque Stelle, ora si mostrino pronti a rinnegare le scelte fatte fin qui (a partire dall’opposizione alla demagogica riforma che riduce il numero di parlamentari) pur di evitare il voto e la perdita del seggio, che sanno a rischio con il neo-segretario Zingaretti. E che, specularmente e con il medesimo scopo di non perdere i seggi conquistati, il Movimento Cinque Stelle, che aveva fatto quadrato a difesa di Salvini sul caso Diciotti, ora – di fronte al caso della nave Open Arms – capovolga le sue posizioni sulla politica migratoria, pur di attaccare il ministro dell’Interno, passato nella categoria dei nemici.

Alla fine, quel che resta di tutta questa vicenda è l’amarezza per il modo spudorato e ipocrita con cui questi cambi di linea politica ci vengono raccontati, sempre invocando la responsabilità, il senso delle Istituzioni, il bene del Paese, la volontà del popolo, i pericoli per la democrazia. La realtà, purtroppo, è molto più semplice del racconto che i politici tentano di cucirle addosso: Salvini al voto ci vuole andare perché pensa di raddoppiare i seggi, Di Maio e Renzi, perfetti eredi del trasformismo ottocentesco, al voto non ci vogliono andare perché di seggi ne perderebbero troppi.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 agosto 2019



La lotteria delle elezioni

La data del voto nessuno la sa ancora con certezza, ma sembra molto probabile che entro la fine di ottobre gli italiani saranno chiamati di nuovo alle urne.

Come andrà a finire?

Gli ultimi sondaggi dànno la Lega in vista del 36-38%, una percentuale che in passato venne toccata solo dalla Dc, negli anni della prima Repubblica, e dal centro-destra unificato da Berlusconi sotto la sigla del Pdl giusto dieci anni fa, alle politiche del 2008.

Dopo la Lega dovrebbero piazzarsi il Pd o i Cinque Stelle, oggi dati in prossimità del 20%, che lotteranno per il secondo posto. Infine, alle spalle dei tre partiti maggiori, dovrebbe andare in scena un duello inedito, quello fra Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) e Berlusconi (forza Italia), per la conquista del quarto posto, con una percentuale di voti dell’ordine del 7-8%. Tutto il resto, sempre stando ai sondaggi, è il solito folklore dei partiti-bonsai, di cui ci si chiede soltanto se troveranno il modo di eleggere qualche deputato o senatore.

Se le cose dovessero andare come i sondaggi ce le dipingono oggi, non ci sarebbe storia: Salvini formerebbe un governo con Giorgia Meloni, e starebbe a Berlusconi decidere se vuole essere della partita oppure no.

Ma le cose andranno così?

Non è detto. Quando si azzardano questo genere di previsioni, si dimenticano infatti alcune cose.

La prima è che l’elettorato italiano è diventato estremamente volubile. Anche in passato succedeva che un leader a lungo osannato perdesse repentinamente il consenso, come accadde a Mussolini e a Craxi, per citare i due casi più clamorosi. Ma di solito il consenso durava a lungo, prima di essere ritirato. Oggi non è più così, un leader può cadere nel giro di 2-3 anni. Forse ce ne siamo scordati, ma era già successo con Walter Veltroni. Corteggiato, osannato, considerato l’unico in grado di ridare un’anima alla sinistra, venne incoronato segretario del neonato Partito democratico nel 2007, ma già due anni dopo, nel 2009, veniva indotto a dimettersi da una sconfitta elettorale (in Sardegna) ma soprattutto dalle faide interne al nuovo partito. Pochi anni dopo è toccato a Matteo Renzi, anche lui acclamato e considerato l’unico in grado di innovare il Pd, ma sonoramente sconfitto e abbandonato alla fine del 2016 (referendum costituzionale), meno di 3 anni dopo la sua ascesa alla presidenza del Consiglio. E’ naturalmente possibile che Salvini duri qualche decennio, ma i precedenti di Veltroni e di Renzi suggeriscono molta cautela. Anche perché non è detto che l’elettorato apprezzi la mossa di Salvini di far cadere il governo anzitempo.

Una seconda cosa, ancora più importante, che si tende a dimenticare è che l’esito di un’elezione non dipende solo dalla domanda politica degli elettori, ma anche dall’offerta politica. I sondaggi che in questi giorni vengono freneticamente consultati dai leader politici degli attuali partiti nulla possono dire su come reagirebbe l’elettorato se scendessero in campo nuove forze politiche, o se quelle attuali cambiassero drasticamente linea politica.

Qualcuno, ad esempio, ha fatto osservare che un’eventuale rottura dei Cinque Stelle con la Lega, con conseguente ritorno alla purezza originaria del movimento, potrebbe anche riportare all’ovile una parte dell’elettorato grillino, rifluito verso il non voto e verso il Pd. Ma la fonte di incertezza più significativa è la possibile nascita di nuove forze politiche, specie al centro, in quell’area che in passato era presidiata dai cattolici (ricordate la Margherita?) e dalle forze moderate, come il partito di Mario Monti. Non sappiamo se nascerà un partito del Sud (anche di questo si parla da qualche tempo), o un partito di Renzi, o un partito di Calenda, o un partito di Conte, o un partito di qualche imprenditore della politica tentato dall’avventura elettorale, ma quel che è certo è che, se alle elezioni dovesse presentarsi una forza politica nuova e credibile, di voti ne potrebbe attirare parecchi, con conseguente indebolimento dei maggiori partiti, e probabilmente anche di Forza Italia (e se fosse questa la ragione dello strappo di Salvini, timoroso che – con il passare del tempo – il centro possa essere occupato da altri)?.

C’è poi la grande incognita sulle maggioranze parlamentari. Il centro-destra pare sicuro di poter raccogliere il 45% dei voti (Lega + Fratelli d’Italia) senza Berlusconi, e di poter andare oltre il 50% includendo i consensi a Forza Italia. E’ un calcolo verosimile, ma di nuovo occorre ricordare che i sondaggi nulla possono dire su eventuali nuovi attori in campo, e che la regola empirica per cui con il 40% dei voti si conquistano il 50% dei seggi è, appunto, una regola empirica, che dipende da circostanze non facilmente prevedibili, ovvero quali forze politiche non supereranno la soglia di sbarramento, e che cosa succederà nei collegi uninominali della parte maggioritaria, che assegna il 37% dei seggi.

C’è, infine, l’incertezza sul Governo. Se una cosa ci ha insegnato la presente Legislatura, è che i partiti possono benissimo presentarsi alleati e poi dividersi, oppure presentarsi da acerrimi nemici e poi allearsi per formare un Governo.

Insomma, i giochi sembrano chiusi, ma non lo sono. In tre mesi possono cambiare tante cose.

Pubblicato su Il Messaggero del 10 agosto 2019