Tanti sondaggi, poche certezze

Escono in questi giorni gli ultimi sondaggi pre-elettorali, prima che il blackout informativo ne impedisca la pubblicazione, nei 15 giorni precedenti il voto del 4 marzo prossimo. Che questo silenzio giovi realmente agli elettori, per evitare che vengano condizionati, è materia discutibile. Tanto più che in questi ultimi tempi (ma spesso anche nel passato più remoto) le stime di voto vivono una forte crisi di credibilità, un po’ in tutto il mondo, e quindi il possibile condizionamento si baserebbe su risultati a volte poco attendibili.

L’esempio più eclatante lo abbiamo avuto proprio in occasione delle scorse politiche, quelle del 2013, quando le anticipazioni demoscopiche, ad un paio di settimane dalla consultazione, sovrastimarono di almeno cinque punti il Partito Democratico di Bersani, sottostimando nel contempo la performance del MoVimento 5 stelle. Previsioni non attendibili che effetto hanno dunque sugli indecisi?

In attesa di studi più articolati in merito, concentriamoci allora sulle cause degli errori di stima, che sono tante, e delle quali ho parlato qualche anno fa in un mio libricino (“Attenti al sondaggio!”) che è sempre utile rileggersi, in prossimità di una competizione elettorale. Tre sono forse le principali: la difficoltà di avere a disposizione campioni realmente rappresentativi della popolazione, soprattutto dopo l’avvento massiccio della telefonia mobile e l’utilizzo di interviste su Internet; l’indecisione o, a volte, le menzogne consce e inconsce dei rispondenti sul proprio orientamento di voto; il costo elevato di rilevazioni demoscopiche che debbano andare in profondità su ambiti territoriali molto ristretti, come ad esempio i collegi elettorali.

Sul primo fattore, sul tema della rappresentatività campionaria, sono corsi nel passato fiumi di parole, accademiche o giornalistiche, senza mai giungere a conclusioni utilizzabili dal punto di vista empirico. Per cui tutto è rimasto sostanzialmente identico al passato: campioni di un migliaio di casi, che rispecchino in qualche modo le caratteristiche principali della popolazione, sembrano ormai venir giudicati sufficienti per fornire stime attendibili. Che sia vero o meno, pare non importare più a nessuno, nemmeno dopo la grande rivoluzione provocata dalla costante decrescita dei telefoni fissi e dal crescente utilizzo di Internet come strumento di rilevazione.

Mutamenti questi ultimi che ci portano direttamente al secondo fattore, legato alle dichiarazioni di voto: chi maneggia i dati di sondaggio sa bene che i risultati delle indagini telefoniche sono spesso molto differenti da quelli desunti dalle risposte telematiche (i 5 stelle sono sempre più forti nel secondo caso, Pd e Forza Italia nel primo) e che il numero ed il tipo di dichiarazioni di astensione, o di indecisione, sono condizionate dalla presenza o meno di un intervistatore. Anche in questo caso, sappiamo poco degli effetti comparati dei due strumenti ma, di nuovo, facciamo a volte finta di nulla.

Infine, supponendo per un momento che si riescano a risolvere, in qualche modo, i due primi fattori di distorsione, è proprio il terzo punto quello su cui le difficoltà paiono a volte insormontabili. Negli ultimi mesi, dopo che è stato finalmente approntato lo schema definitivo del nuovo sistema elettorale del cosiddetto Rosatellum, non passa giorno che qualche quotidiano, on-line o cartaceo, non ci proponga una simulazione di quale potrebbe essere il risultato elettorale in ciascuno dei 232 collegi della camera o nei 116 del senato.

Come è possibile arrivare a tale stima? Di primo acchito, pare proprio impossibile. Per avere stime corrette degli oltre 200 collegi, occorrerebbe intervistare campioni significativi in ciascuno dei territori su cui gravitano questi collegi. Supponiamo che bastino un migliaio di interviste in ognuno di questi. E, per inciso, lo supponiamo solo, perché in realtà in ogni sondaggio elettorale abbiamo sempre una quota di circa il 35-40% di intervistati che si dichiara astensionista oppure incerto, e le nostre stime si baseranno su 600-650 rispondenti, oggettivamente un po’ poco.

Ma supponiamo per un momento che bastino. Dovremmo intervistare un numero di elettori pari a 232mila, mille per collegio. Dato che il costo di un sondaggio di un migliaio di casi non potrà essere inferiore a 5mila euro, anche perdendoci qualcosa, dovremmo avere a disposizione un budget complessivo di oltre un milione di euro. Sì, avete letto bene: per la precisione, si tratta di 1 milione e 160mila euro.

Ovviamente impossibile a realizzarsi. Come ci si orienta, dunque, per fornire comunque stime che dovrebbero essere attendibili? Con un paio di stratagemmi. Il primo è questo: si definiscono già sicuri un numero piuttosto elevato di collegi, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, e si effettuano sondaggi soltanto sui collegi incerti, in genere tra gli 80 e i 100. Anche in questo caso il costo, seppur più che dimezzato, sarebbe vicino al mezzo milione. E nessuno ha tutti questi soldi. Allora si dimezzano le interviste, producendo risultati altamente inattendibili: dato che il collegio è incerto, con 3-400 interviste valide quel collegio rimarrà sicuramente incerto, tranne in casi eccezionali.

Secondo stratagemma. Si prendono in considerazione i flussi di voto dall’ultima elezione agli orientamenti di voto odierno, a livello ad esempio regionale. Si applicano poi i risultati di ciascuna matrice di flusso ai singoli collegi di ognuna delle regioni. Anche in questo caso i risultati che usciranno saranno altamente aleatori, vista la competizione serrata in molti dei collegi uninominali, senza considerare il possibile richiamo che ognuno dei candidati potrebbe esercitare nel suo collegio.

L’unica strada alternativa da percorrere sarebbe quella di utilizzare le migliaia e migliaia di interviste effettuate nel corso degli ultimi due anni, e suddividerle per i 232 collegi. Ma pochissimi istituti di ricerca hanno un così ingente data-base su cui far riferimento, e anche in questo caso, poco sapremmo sugli eventuali cambiamenti nell’orientamento di voto dell’ultimo periodo pre-elettorale. Ecco perché a quello che ci raccontano, se non in casi sporadici, non possiamo credere troppo. Non ci resta che attendere tranquillamente i veri risultati delle elezioni. In fondo, non manca poi molto.

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 4 febbraio sul sito de “Gli Stati Generali”



A 40 giorni dal voto, un governo torna possibile

Le liste dei candidati sono ormai pronte. Le consuete polemiche (come peraltro sempre accadeva già ai tempi del Mattarellum) hanno accompagnato le scelte dei nomi e dei territori a questi associati. Polemiche che rientreranno in poco tempo, per concentrarsi sulle previsioni di voto in ciascun dei collegi, per comprendere le chance di vittoria una volta formalizzata l’offerta politica. Casini riuscirà a vincere nel senato bolognese? e Boschi convincerà gli elettori sudtirolesi? e Di Maio sarà profeta in patria? Domande che ci tormenteranno per qualche settimana.

Molti degli analisti elettorali –sia in privato che in pubblico- sembrano essere convinti che nella competizione per le prossime politiche i giochi siano ormai fatti, e che la campagna elettorale non riuscirà a modificare, se non in minima parte, le attuali tendenze di voto. Una campagna che resterà quindi tutto sommato ininfluente, nonostante le centinaia di promesse che quotidianamente tutte le forze politiche si affrettano ad elargire agli italiani.

I sondaggi ci raccontano dunque di un centro-destra in gran spolvero, destinato a vincere il duello maggioritario, quello che vede protagoniste le coalizioni, e di un Movimento 5 stelle ormai sicuro vincitore della tenzone proporzionale, dove protagoniste sono le liste, prese separatamente. Dunque: centro-destra oltre il 35% e M5s vicino al 30%, con il Pd ed il centro-sinistra in affanno, perdenti in entrambi i rami del Rosatellum.

Ma, in termini di seggi, tutti sono concordi che nessuna forza politica, né singola né coalizionale, potrà arrivare ad una soglia tale da permettere la formazione di un governo di maggioranza nel parlamento. Nessuno riuscirà quindi ad avvicinarsi a quel fatidico 40% dove ci sarebbe spazio per correre da soli. Ci aspetterebbero allora esecutivi di minoranza, ovvero un governo del Presidente, prevalentemente tecnico o di larghe intese, per andare presto a rivotare, forse con una nuova legge elettorale di stampo più maggioritario.

Molti sono di questo avviso, dicevo, ma non tutti. Il politologo Paolo Feltrin, ad esempio, non è completamente convinto che i giochi siano chiusi, anzi: ritiene infatti che le dichiarazioni di voto odierne nascondano orientamenti più profondi e sedimentati che usciranno più facilmente nel momento del voto. Citando la cosiddetta “fedeltà leggera”, egli ipotizza che una quota significativa tra gli elettori di centro-sinistra faticherà ad abbandonare la propria antica parte politica, Renzi o non-Renzi, a favore dei 5 stelle o dell’astensionismo.

Potrebbero nascondere la propria vera indole a chi li interroga, in un momento in cui il Pd non gode di buona stampa né di un clima di opinione favorevole, per uscire allo scoperto all’avvicinarsi del voto, preoccupati della deriva cui (secondo loro) rischierebbe di andare incontro il nostro paese. Al contrario, i potenziali elettori dei 5 stelle potrebbero non dar seguito alle dichiarazioni in loro favore, consci delle difficoltà che il movimento dovrebbe fronteggiare nell’ipotesi di un travagliato governo.

Le sue previsioni dunque sono di una risalita del Pd e del centro-sinistra, sia nel proporzionale che soprattutto nel maggioritario, di un ridimensionamento del numero di seggi vinti dal M5s e di un ulteriore incremento di Forza Italia. Tutto questo permetterebbe al duo Pd-Fi di avvicinarsi al numero fatidico di 315 seggi alla camera e, con qualche piccolo aiuto esterno, di riuscire a formare un governo (magari a scadenza programmata) che avvicinerebbe l’Italia alla situazione tedesca, dove l’alleanza tra Cdu-Csu e Spd pare funzionare.

Ed effettivamente le tendenze delle ultime ore paiono andare nella direzione indicata da Feltrin, e ci dicono due cose rilevanti: la prima, che la coalizione di centro-destra appare in lieve crisi; la seconda, che viceversa quella di centro-sinistra sembra leggermente in ripresa. Due elementi interessanti, soprattutto in vista di una possibile (eventuale) maggioranza di governo. Perché? Vediamo di capirlo.

Il centro-destra perde complessivamente un po’ di consensi soprattutto per due fattori: il primo è che la Lega di Salvini non sembra funzionare particolarmente bene tra gli elettori delle aree meridionali del paese, che magari la citano nei sondaggi ma al momento del voto preferiscono altro. Come ad esempio in Sicilia, dove in tandem con Fratelli d’Italia non riuscì ad andare oltre il 5% dei suffragi, molto meno di quanto i sondaggi ipotizzavano.

Il secondo fattore è legato al numero di liste che la coalizione presenterà: dalle 3-4 preventivate, oggi si parla di un’unica lista di appoggio, quella di Fitto-Lupi-Tosi. Avere più liste che non superano il 3% serve infatti per incrementare i voti per la coalizione e per i suoi partiti maggiori, dando loro più seggi e più rappresentanza parlamentare. Così, secondo le ultime stime, il centro-destra potrà avere intorno a 275 seggi, oltre 40 seggi in meno della maggioranza alla camera.

Al contrario, il centro-sinistra pare godere di migliore salute, non tanto per la performance del Pd, sempre deficitaria, quanto per l’acquisto di 3 liste (con l’arrivo della Bonino) che probabilmente non supereranno il 3% (forse con l’eccezione della stessa Bonino), ma che complessivamente aggiungeranno al Partito Democratico un ulteriore 4% di voti, portandolo ad un numero di seggi totale vicino ai 160.

Dunque, la ventilata coalizione Pd-Forza Italia, pur se negata da tutti i protagonisti, potrebbe essere vicina a realizzarsi, almeno potenzialmente. I 160 seggi del Pd, uniti ai possibili 140 del partito di Berlusconi, darebbe una somma intorno a 300, a soli 15 seggi dalla maggioranza alla camera. Ingaggiare qualche fuoriuscito da altre forze politiche potrebbe non essere, a quel punto, particolarmente difficoltoso, dando luogo ad un governo capace di durare (almeno un po’) nel tempo.




Mezzogiorno “dimenticato”? forse no…

Le campagne elettorali degli ultimi trent’anni si somigliano un po’ tutte. Solite promesse, soliti slogan, solite analisi dei mali del Paese. Soliti temi: lavoro, tasse, sicurezza, pensioni. E solite omissioni: debito pubblico, debito pensionistico, parametri europei, pareggio di bilancio.

C’è una differenza, tuttavia. Dal novembre del 2012, ossia dal repentino cambio di governo da Berlusconi a Monti, è calato il silenzio più totale sul federalismo, sui problemi del Mezzogiorno, sugli squilibri fra Nord e Sud. Mi colpì molto, allora, non sentire una sola parola sui grandi temi che, almeno sul piano della propaganda, sono sempre stati al centro del dibattito politico italiano, sia nella prima Repubblica, quando il nodo era la “questione meridionale”, sia nella seconda, quando il nodo era diventato la “questione settentrionale”, risolutamente posta all’ordine del giorno dalla Lega Nord ma anche da importanti settori della classe dirigente industriale (uno dei primi studi sul “residuo fiscale”, ossia sulla penalizzazione delle regioni del Nord, fu condotto dalla Fondazione Agnelli, nei primi anni ’90). E altrettanto mi colpisce, in queste settimane, la perdurante marginalità dei classici temi dello “svantaggio” del Sud e, specularmente,  della “spoliazione” del Nord.

Di questa virtuale scomparsa del tema del Mezzogiorno esistono naturalmente ragioni abbastanza precise. La prima è che la crisi del 2007-2014 ha oscurato quasi tutto il resto. La seconda è che, dopo l’approvazione della legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale, non è occorso molto tempo per capire che quella legge era un compromesso assai difficile da tradurre in pratica, e che la Lega stessa, attaccatissima al potere locale di recente conquistato, era ormai divenuta più un elemento di freno che un fattore di stimolo del federalismo.

Il fatto che poco si parli del Mezzogiorno, tuttavia, non significa affatto che esso conti poco in questa campagna elettorale. La realtà è che esso conta moltissimo, ma lo fa in modo silente. Anzi, tendo a pensare che, come quasi sempre è stato nella storia elettorale italiana, saranno le ondivaghe regioni del Sud ad assegnare la vittoria, o perlomeno a fare la differenza.

Perché dico che lo fa in modo silente?

La ragione è presto detta. Il problema fondamentale del Mezzogiorno resta, oggi come ieri, la mancanza di lavoro, un problema che, negli ultimi dieci anni, ha assunto il volto inquietante della povertà (le famiglie sotto la soglia di povertà assoluta sono oggi il doppio che nel 2007). E, di fronte a questo problema, che riguarda innanzitutto il Mezzogiorno, tutti e tre gli schieramenti politici hanno sfoderato una delle loro armi più efficaci, ovvero la proposta di un sussidio universale (rivolto a tutti), una novità assoluta per un paese come l’Italia. Ecco perché, anche quando non parlano esplicitamente di Mezzogiorno, tutte le forze politiche, di fatto, se ne stanno occupando.

Tutte e tre le proposte in campo sono, in buona sostanza, misure di reddito minimo per coloro che lavorano o sono disposti a lavorare, sia pur denominate in modi diversi: reddito di cittadinanza (Cinque Stelle), reddito di dignità (Centro-destra), reddito di inclusione (Pd).

La proposta più demagogica è quella dei Cinque Stelle, sia per il suo importo (che può superare i 1500 euro per famiglia), sia per le condizioni di concessione (e di conservazione) del sussidio, che rendono estremamente conveniente non lavorare o lavorare in nero. La proposta più realistica è quella del Pd, che si limita ad ampliare progressivamente il reddito di inclusione (già in vigore), ed è rivolta solo alla frazione più povera delle famiglie in condizione di povertà assoluta. Una via di mezzo, per quel che se ne sa finora, è quella del centro-destra, che dovrebbe essere basata sulla cosiddetta imposta negativa (colmare, ma solo in parte, in parte lo scostamento fra reddito effettivo e soglia di povertà), e il cui principale pregio è di non far venire meno l’incentivo a lavorare.

Chi conquisterà i voti delle popolazioni meridionali?

La mia impressione è che, nella battaglia per acquisirne il consenso, il Pd si trovi nella posizione più difficile, e i Cinque Stelle in quella più favorevole. Il partito di Renzi sconta infatti una doppia debolezza: primo, “offre” troppo poco sul piatto dell’assistenza; secondo, punta su una carta, la creazione di nuova occupazione, che inevitabilmente si scontra con l’atavico, e perfettamente giustificato, scetticismo meridionale sulla possibilità di assorbire la disoccupazione con posti di lavoro veri. Quanto al centro-destra, è vero che sia l’imposta negativa sul reddito, sia la flat tax (aliquota unica su tutti i redditi) che la accompagna, sono proposte razionali, per molti versi le più interessanti fra le molte in campo. Esse tuttavia, a mio modesto parere, risultano vincenti su quelle dei Cinque Stelle nelle regioni settentrionali, ma non in quelle meridionali. E questo per due ragioni di fondo.

La prima è che l’attrazione per le misure di matrice assistenziale, come è il reddito di cittadinanza, è da sempre più forte nel Sud, dove il lavoro scarseggia, che nel centro-Nord, dove i tassi di occupazione sono vicini ai livelli europei. Un’attrazione che, nel caso di tutte le proposte in campo (eccetto quella dell’istituto Bruno Leoni), è rafforzata dal fatto che la soglia di povertà è definita in termini di reddito nominale, anziché di potere di acquisto: ciò fa sì che il grosso del sussidio previsto dal Movimento Cinque Stelle finirà al Sud, ben al di là del numero di poveri residenti in tali regioni, mentre la maggior parte dei poveri del centro Nord non ne potrà usufruire.

Ma la ragione più importante è la seconda. Il piatto forte del menu elettorale del centro destra è la flat tax, con la sua promessa di forte riduzione delle aliquote sia sul reddito personale, sia sul reddito di impresa: 23% all’inizio, 15% come obiettivo finale. Ora, basta un’occhiata alle statistiche dell’evasione fiscale per capire che il cavallo di battaglia del centro-destra non potrà avere, al Sud, lo stesso appeal che ha al Nord. Perché la riduzione delle aliquote convinca gli elettori, infatti, occorre partire da una base di alto adempimento fiscale, che al Sud è sostanzialmente assente: una flat tax al 15% difficilmente può convincere chi le tasse se le è già autoridotte.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 25 gennaio 2018



Togliere le tasse ai ricchi

Ha creato molta sorpresa, e persino un po’ di sconcerto, la prima uscita politica di Pietro Grasso come leader di Liberi e Uguali (Leu): “aboliamo le tasse universitarie!”. Gli è stato subito obiettato: ma come, vi presentate come un partito di sinistra dura e pura, e poi la prima idea che ci proponete è di azzerare le tasse universitarie, che già sono molto basse (meno del 20% del costo totale dell’università), e attualmente pesano solo sui ceti medi e alti, non su quelli popolari? che cosa vi è venuto in mente?

La risposta che Grasso e altri esponenti di Liberi e Uguali hanno provato a fornire a questa osservazione di puro buon senso è stata debolissima: l’università è come la sanità, deve essere garantita a tutti in nome del diritto allo studio e del principio per cui il welfare ha da essere universale, ovvero gratis per tutti. Una risposta che dimentica due fatti cruciali: primo, che della sanità, a differenza dell’istruzione universitaria, usufruiscono effettivamente tutti (nessuno nasce invulnerabile); secondo, che nemmeno la sanità, portata ad esempio di welfare universale, è completamente gratuita (ticket, farmaci non mutuabili, ecc.) e, grazie al sistema delle esenzioni, pesa più sui ricchi che sui poveri, proprio come l’università.

Io invece non sono stupito affatto. Trovo naturale che un partito faccia promesse alla propria base elettorale e non a quella degli altri partiti. E la base elettorale della sinistra radicale, da molti anni, è costituita dai ceti medio-alti, in particolare dai laureati: nessun segmento elettorale ha, nel suo elettorato, una percentuale così alta di laureati quanto l’estrema sinistra. I ceti popolari guardano a destra e al Movimento cinque stelle, mentre la sinistra, radicale e non, ormai da decenni raccoglie soprattutto il voto dei ceti medi: è anche per questo che è in crisi di identità.

Dunque nessuna sorpresa: Leu ha fatto una promessa alla propria base elettorale, che non è costituita da chi l’università non può permettersela, bensì da chi l’università la frequenta e, comprensibilmente, preferirebbe pagare niente piuttosto che il poco che è tenuto a pagare oggi. Detto questo, ovvero che ogni partito è istintivamente portato a proporre cose che piacciono alla sua base, vorrei provare, visto che all’università lavoro da decenni, a dire quello che a me pare la situazione reale.

Il primo dato di cui occorrerebbe prendere atto è che, ancora oggi, la maggior parte dei giovani non solo non si laurea, ma non arriva nemmeno a tentare l’avventura universitaria. Quelli che ci provano, circa il 45% dei giovani, sono costituiti in massima parte da appartenenti a ceti medio-alti ma, fortunatamente, esiste anche una frazione che proviene dai ceti popolari. Questa frazione, circa 1 studente su 3, non ha il problema delle tasse universitarie, per la semplice ragione che le norme attuali (ulteriormente perfezionate da un recente provvedimento del governo), già la esonerano completamente dal loro pagamento. Le tasse universitarie, quasi sempre assai modeste, pesano solo su una minoranza della minoranza: ovvero su quanti non solo hanno il privilegio di accedere all’università, ma hanno l’ulteriore privilegio di avere una famiglia che guadagna abbastanza da potersi permettere di pagare le tasse. Azzerare completamente le tasse universitarie significa fare un regalo a questa robusta minoranza di privilegiati: circa 2 studenti universitari su 3, il che significa 1 giovane su 3, visto che all’università accede meno della metà dei giovani.

Ma questo è solo l’inizio. Vediamo che cosa succede dopo l’iscrizione all’università. Una parte degli studenti, quelli provenienti da famiglie agiate o di ceto medio, è perfettamente in grado di conseguire una laurea nei tempi giusti, solo che si impegni nello studio. Se non lo fa è perché proprio l’esistenza di tasse universitarie di importo trascurabile, nonché di famiglie estremamente indulgenti, consente un prolungamento indefinito degli studi, spesso ben al di là dei 25 anni di età, talora oltre i 30. Tasse più alte sulle famiglie benestanti farebbero certamente diminuire i casi di “permanenza opportunistica” all’università (eufemismo per non parlare di bamboccioni), mentre il loro azzeramento creerebbe un ulteriore incentivo ad allungare la durata degli studi.

Completamente diversa è la situazione delle famiglie più umili. Qui il problema non sono certo le tasse, visto che chi ha bassi redditi ne è esente, ma l’esiguità delle borse di studio per i capaci e meritevoli. Le borse concesse, in quasi tutte le regioni italiane, sono molte di meno del numero di aventi diritto, e quando vengono erogate sono di importo così basso da non risolvere il problema vero dei ceti popolari, che non sono le (inesistenti) tasse, bensì i mancati guadagni durante gli anni di studio. Un ragazzo di origini sociali modeste è spesso costretto a lavorare per mantenersi agli studi, ma proprio per questo non riesce a laurearsi nei tempi giusti, e va così a ingrossare l’esercito dei fuori corso, già abbastanza folto per conto proprio grazie ai figli di papà.

A questi problemi di equità economica, si aggiunge poi un’ulteriore fonte di diseguaglianza: l’abbassamento degli standard, un argomento su cui molti docenti universitari hanno assunto un (comprensibile) atteggiamento autodifensivo, al limite del negazionismo, ma che indubbiamente esiste da decenni. Ebbene, molti indizi lasciano pensare che l’abbassamento degli standard di qualità abbia danneggiato soprattutto i ceti popolari, se non altro perché, per loro, un’istruzione di qualità è l’unica vera carta da giocare, mentre i ceti medio-alti ne hanno molte altre, dal patrimonio familiare alla rete di relazioni e di conoscenze, con cui possono prima pagare gli studi dei figli all’estero, e poi, se non basta, piazzarli da qualche parte in patria, non importa se geniali o asini.

Che nessun partito, nemmeno quelli che delle istanze popolari provano a farsi carico, prenda veramente sul serio il dramma dei ceti subordinati, vittime di un sistema dell’istruzione in palese contrasto con l’articolo 34 della Costituzione (quello che assicura ai capaci e meritevoli il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”), è cosa che rattrista. Che a proporre di togliere le tasse universitarie anche ai ceti superiori sia il partito che più si proclama di sinistra fa invece parte delle stranezze di questo appuntamento elettorale, oltreché della deriva conservatrice, qualche volta reazionaria, di una parte della (sedicente) cultura progressista. Dopo la pioggia di promesse belle e impossibili (ce ne occuperemo nei prossimi articoli), non poteva mancare una promessa brutta e possibilissima: togliere le tasse anche ai ricchi, ci assicura Grasso, costerebbe “solo 1.6 miliardi”.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 20 gennaio 2018



Due tipi di italiani

Secondo i sondaggi, gli italiani intenzionati a recarsi alle urne si aggirano intorno al 60%, mentre quelli intenzionati a votare Pd, il principale partito di governo, sono più o meno il 15% del corpo elettorale (e il 25% dei votanti). Sempre secondo i sondaggi, il consenso nei confronti di Gentiloni e del suo governo sfiora il 50%, un dato che, a oltre un anno dal suo insediamento, non può certo essere attribuito all’effetto “luna di miele”, ovvero al surplus di popolarità che di norma beneficia i governi appena insediati. A quanto pare il premier trae il suo consenso un po’ da tutti i segmenti della società italiana: dagli elettori del Pd, ovviamente, ma anche da chi pensa di votare altri partiti, o di non votare affatto.

Sono dati che fanno riflettere. Come è possibile che esista una divaricazione così grande fra il consenso al governo e quello al partito di governo?

Conosco la risposta che, istintivamente, siamo portati a fornire: il problema è il fattore R, o fattore Renzi. Bombardati, intontiti ed esausti dalle esternazioni di Renzi e dei suoi, agli italiani non par vero di potere, finalmente, sbadigliare un po’ davanti ai discorsi di un premier che parla lentamente, misura le parole, azzecca i congiuntivi, e soprattutto non offende nessuno.

C’è del vero, probabilmente, in questa diagnosi, ma forse di questi tempi ci sono anche altri meccanismi all’opera. La mia impressione è che si stia formando una sorta di divaricazione fra due segmenti di elettorato, sempre presenti sulla scena italiana ma ora particolarmente distanti l’uno dall’altro.

Che cosa li distingue?

Secondo me essenzialmente l’attitudine verso la demagogia, un tratto del discorso politico spesso erroneamente confuso con il populismo (la demagogia contagia anche i partiti non poco o per niente populisti). In questa stagione politica, resa confusa dall’emergere, per la prima volta in Italia, di un sistema tripolare, gli elettori tendono a polarizzarsi fra due atteggiamenti mentali contrapposti.

Una parte dell’elettorato ha estremamente chiaro chi è il nemico, e per sconfiggerlo è pronta a seguire chiunque prometta di farlo. Per questo segmento, forse maggioritario, quel che conta è che gli “altri” non vincano, e il voto assume spesso una forte valenza espressiva, o identitaria. Se si sceglie una determinata forza politica non è perché si pensa che potrà mettere in atto il suo programma, ma semplicemente perché questo gesto permette di dire qualcosa di sé stessi: chi si è, da che parte si sta, per quali principi si combatte. Di qui un’importante conseguenza: anche se ci si accorge perfettamente dei fiumi di demagogia che affliggono la propria parte politica, li si digerisce abbastanza serenamente, perché l’imperativo categorico è battere l’avversario o, se preferite, sopraffare la demagogia altrui. Questa credo sia la ragione per cui, nonostante lo spudorato e universale ricorso alla demagogia, tutte le forze politiche conservano uno zoccolo di consenso non trascurabile.

C’è un’altra parte dell’elettorato, molto eterogenea, che è insofferente per la demagogia, capisce perfettamente che nessuno, ma proprio nessuno, manterrà le promesse, e per questo motivo è tentata dal non voto, anche se poi alla fine, in diversi casi, un voto finisce per darlo, con le motivazioni individuali più diverse, compreso il “dovere” del voto. Questa, a mio parere, è la ragione principale della divaricazione fra la popolarità di Gentiloni e le intenzioni di voto per il partito di Renzi. L’elettorato insofferente per la demagogia apprezza il basso profilo scelto dagli esponenti del governo ma, per ora, stenta a riconoscere nel Pd un partito immune alla demagogia. Dove per demagogia non intendo solo le proposte chiaramente improvvisate (come l’abolizione del canone, o il salario minimo a 10 euro), ma il petulante racconto di successi che ogni persona non dico di buone letture, ma semplicemente dotata di senso comune, attribuisce senza esitazione alla ripresa economica europea e all’azione della Banca centrale.

Eppure, più che il populismo, credo che proprio il rapporto con la demagogia sia uno degli spartiacque fondamentali di questa stagione. Rispetto a questo spartiacque, ci sono forze politiche che hanno un posizionamento chiaro, e proprio da tale posizionamento ricavano linfa elettorale: è il caso della Lega e dei Cinque Stelle, in cui il ricorso alla demagogia non incontra alcun freno. Ci sono forze politiche in cui c’è una dialettica fra demagogia e realismo (è il caso delle piroette di Forza Italia sul Jobs Act, o sulla legge Fornero). E poi c’è il Pd, che a mio parere soffre di ambiguità proprio su questo punto, quello del rapporto con la demagogia. Troppo poco demagogico per attirare i consensi degli elettori più ideologizzati e radicali, che troveranno senz’altro nella ditta GrGr (Grillo e Grasso) un comodo approdo, lo è ancora troppo per portare dalla propria parte l’elettorato insofferente per la demagogia. Dove il “troppo” di cui parlo non sta tanto nella irrealizzabilità o pericolosità delle proposte (prima fra tutte l’idea di mantenere il deficit al 3% per cinque anni), quanto nella mancanza di sobrietà e realismo nel modo di raccontare questi anni, un tratto di “bullismo nella narrazione” che, a mio modesto parere, accomuna Renzi a Berlusconi, anch’egli incapace, a suo tempo, di stilare un bilancio appena plausibile dei propri anni di governo.

Peccato, perché, a giudicare dalla popolarità del premier, il segmento elettorale che apprezza la sobrietà e detesta la demagogia è tutt’altro che esiguo, e nessuna forza politica importante sembra interessata a farsene paladina fino in fondo. Per parte nostra, da qui al 4 marzo, cercheremo di dare voce a questa componente della società italiana, e di farlo nel modo più diretto: attraverso un’analisi impietosa delle promesse con cui i partiti si contendono il governo del Paese.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 gennaio 2017