Intervento di Luca Ricolfi a Otto e Mezzo

La puntata del 16 Dicembre 2017




Mercato della politica/ Così i giovani pagheranno la caccia al voto degli anziani

Che gli anziani siano un segmento elettorale appetibile non è una novità. E tuttavia fa una certa impressione constatare quanto serrato sia il corteggiamento di cui oggi, a meno di tre mesi dal voto, sono fatti oggetto un po’ da tutte le forze politiche.

Berlusconi ha aggiornato la vecchia promessa di portare le pensioni minime a 1 milione di lire al mese (“Contratto con gli italiani”, 2001): ora l’impegno è ad alzare l’importo minimo a 1000 euro al mese. Pd e governo, a loro volta, molto hanno puntato sulla cosiddetta Ape social, ovvero sulla possibilità di andare in pensione anticipatamente senza perdite di reddito. Il movimento di Bersani e d’Alema (ora capeggiato da Pietro Grasso), ha appoggiato la posizione della Cgil, ostile alla legge Fornero e determinata ad impedire l’innalzamento dell’età pensionabile in funzione dell’aumento della speranza di vita. Quanto ai Cinque Stelle, a prima vista i più in sintonia con il mondo giovanile, la loro proposta di reddito minimo (erroneamente denominato “reddito di cittadinanza”) in realtà riguarda tutti, e dunque anche anziani e pensionati.

Naturalmente non è difficile indovinare le ragioni di tante premure verso gli anziani. La quota di popolazione over 64 sfiora il 27% dell’elettorato ed è in costante aumento, mentre la quota dei giovani dai 18 ai 34 anni è molto più bassa e in costante ritirata (oggi è appena sopra il 21%). A ciò si aggiunge il fatto che la partecipazione al voto tiene di più fra gli anziani che fra i giovani e, nel caso della sinistra, la circostanza che la base sociale delle forze di sinistra (e della Cgil) sia sbilanciata verso gli strati più anziani della popolazione.

Ma è giustificata tanta attenzione verso gli anziani?

In linea di principio certo che sì: non sono pochi gli anziani che vivono in condizioni di grave disagio economico, per non parlare dei mille guai (innanzitutto di salute) che tendono ad aggravarsi con il procedere dell’età. Se però ragioniamo in termini politici, ovvero di scelte che la politica è chiamata a fare, la diagnosi si capovolge completamente. In una situazione di risorse limitate, la domanda cruciale non è se un determinato gruppo sociale sia meritevole di attenzione oppure no, ma se lo sia più di altri. Detto altrimenti, l’interrogativo è se, dato un certo stock di risorse aggiuntive, sia ragionevole indirizzarle verso certi gruppi sociali piuttosto che verso altri. Viste da questa angolatura le cose cambiano completamente, per almeno due ragioni di fondo.

La prima è che, comparativamente, l’Italia è uno dei paesi che destinano la quota più alta di risorse alle pensioni, nonché uno dei paesi nei quali, di fatto, in si va in pensione più presto, a circa 62 anni gli uomini, a 61 le donne (fra i grandi paesi solo la Francia ha un sistema pensionistico più generosa del nostro: lì si va in pensione a 60 anni).

La seconda ragione ha a che fare con la crisi e l’evoluzione della diseguaglianza in questi ultimi anni. Nel periodo cruciale della crisi, ovvero dal 2007 al 2015, il reddito relativo (rispetto alla famiglia italiana tipo) delle varie fasce d’età ha seguito dinamiche diversissime, ma l’unica fascia di età che ha migliorato la propria posizione (+18.4%) è stata quella degli anziani, mentre quella che ha registrato il più drammatico arretramento è stata quella dei giovani (-10.4%). Una tendenza che è purtroppo confermata dalle indagini sulla povertà assoluta, che da anni registrano un deterioramento delle condizioni delle famiglie con capofamiglia giovane, e più in generale delle famiglie con minori a carico. Insomma, voglio dire che, se c’è una frattura che in questi anni ha reso la società italiana più diseguale, questa frattura è quella fra giovani e anziani. Un dramma, quello della condizione giovanile in Italia, che i dati più recenti sul mercato del lavoro purtroppo non fanno che ribadire: l’anno scorso, per la prima volta da quando esistono statistiche comparabili, l’Italia ha fatto registrare il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa, dietro Grecia e Turchia.

Ma c’è anche un altro senso, più sottile, nel quale i giovani sono penalizzati dalle forze politiche, da tutte le forze politiche. La stragrande maggioranza delle promesse che cominciano a circolare in vista delle elezioni dell’anno prossimo sono promesse di maggiori spese, ora a favore di una categoria ora a favore di un’altra. E nessuna forza politica prende veramente sul serio il nostro problema numero uno, che è il macigno del debito pubblico.

Ebbene, che cos’è l’incremento del debito pubblico? L’incremento del debito non è semplicemente un freno alla crescita, ovvero al tenore di vita futuro di tutti, ma è anche un prestito che gli adulti e gli anziani sottoscrivono oggi per poter consumare di più, e che i giovani di oggi, divenuti adulti domani, dovranno restituire comprimendo i loro consumi futuri. Alla faccia della solidarietà fra generazioni.

Articolo pubblicato il 16 dicembre 2017 su Il Messaggero




Il Gerrymandering e le bufale pre-elettorali

Finiti gli scontri sulla definizione e le regole della nuova legge elettorale, l’ormai ben noto “Rosatellum bis”, il mondo politico e giornalistico ha trovato un altro tema di polemica, quello riguardante la conformazione che devono avere i nuovi collegi elettorali. Il ritorno ai collegi uninominali, sia detto per inciso, è forse una delle poche cose buone che questa norma di voto ci ha restituito: un aggancio con il territorio che, sebbene molto più timido rispetto all’antico “Mattarellum” (come lo definì Giovanni Sartori), ha comunque il pregio di affiancare di nuovo il nostro paese alle modalità di voto delle principali democrazie occidentali, con la riconoscibilità delle candidature e una scelta forse più consapevole da parte degli elettori.

Qual è dunque il tema di questa nuova polemica? Nasce in buona sostanza dalla paura che il ritaglio territoriale che viene attuato nel disegno dei collegi possa determinare una sorta di “Gerrymandering” all’italiana. Elbridge Gerry era un governatore americano del Massachusetts che, nei primi anni del lontano Ottocento, disegnò i collegi del suo distretto elettorale in modo tale da massimizzare i voti per la sua parte politica (l’esempio classico è mostrato nella figura allegata). Dal momento che i confini dei nuovi collegi assomigliavano ad una salamandra (“salamander”, in inglese), i giornali dell’epoca coniarono questa infida pratica con l’appellativo, appunto, di Gerry-mander. Da allora questo termine si riferisce ad una pessima abitudine di alcuni legislatori di costruirsi i collegi a proprio uso e consumo, cosa che fecero in particolare i laburisti inglesi negli anni cinquanta del secolo scorso.

Per giorni sui nostri quotidiani si è discusso sulla possibilità che anche in Italia l’attuale ridisegno dei collegi, da parte dei partiti di maggioranza ed in particolare del Pd, potesse essere effettuato secondo queste cattive modalità, alimentando nuove polemiche su Matteo Renzi. Il caso maggiormente evidenziato è stato quello di Rignano, paese natale del segretario Pd, che era stato in un primo momento assegnato al collegio di Livorno, benché il comune sia territorialmente contiguo a Firenze mentre, dopo il suo intervento, si era proceduto a riunirlo al capoluogo regionale toscano. Era questa la prova evidente, secondo i critici, della volontà del legislatore di costruirsi i confini a proprio vantaggio, per massimizzare i propri consensi.

Ma sarà poi vero? O è la consueta bolla di sapone? Ricapitoliamo. In tutte le occasioni in cui si è cercato la scorciatoia del Gerrymandering la situazione elettorale era abbastanza stabile, talmente stabile che chi percorreva questa strada era ben consapevole dei probabili comportamenti di voto degli elettori residenti in quelle aree. In Italia, se vogliamo, un’operazione di questo stampo sarebbe stata produttiva negli anni Cinquanta o Sessanta, quando la mobilità elettorale era ai minimi termini, e ogni elezione ribadiva sostanzialmente quello che era accaduto negli anni precedenti, con soltanto lievi cambiamenti. Oggi non è più così.

Soprattutto dopo l’avvento del Movimento 5 Stelle ed il parallelo smottamento della fedeltà elettorale dei principali partiti italiani, tutte le occasioni elettorali che abbiamo avuto recentemente sono state una vera incognita: i tassi di astensionismo e di incertezza delle scelte dei cittadini sono sotto gli occhi di tutti. Fare previsioni, oltretutto a livello locale, è diventato quasi un terno al lotto, come ben sanno gli istituti di ricerca demoscopici, che trovano difficoltà sempre maggiori a produrre sondaggi attendibili, non certo per loro incapacità, ma per una montante indecisione dell’elettorato stesso.

In una situazione di questo genere, la costruzione a tavolino dei collegi – al fine di massimizzare il proprio consenso – potrebbe risultare alla fine un vero e proprio boomerang. Meglio lasciar perdere, e sperare nello stellone italico.

Pubblicato il 15 dicembre 2017



Riformisti e radicali/ Lezione tedesca per le sinistre di casa nostra

Pensavo che, alla fine, il tentativo di Piero Fassino di unire il centro-sinistra sarebbe andato in porto. E invece no, è stato un disastro su tutta la linea. Prima l’annuncio che Pietro Grasso avrebbe guidato una lista di sinistra “purosangue”, denominata Liberi e uguali, con dentro Mdp (Bersani-D’Alema-Speranza), Sinistra Italiana (Fratoianni), Possibile (Civati). Poi la notizia della rinuncia di Pisapia, che avrebbe dovuto guidare una lista di sinistra “meticcia”, su cui far confluire un segmento elettorale molto importante: quello di quanti non amano Renzi ma non vogliono disperdere il voto.

Questo doppio fallimento consegna al Pd e al suo leader un problema molto serio: come evitare che, con un Pd sempre più indistinguibile dalla figura di Renzi, l’elettorato di sinistra-sinistra si diriga verso i due unici sbocchi possibili, ovvero Liberi e uguali, il neo-nato partito di Pietro Grasso, e il Movimento Cinque Stelle, che non pochi elettori percepiscono come una formazione di sinistra anomala, ma pur sempre di sinistra. Una percezione, bisogna dire, che le ultime esternazioni di Di Maio rendono tutto sommato plausibile: tassare i ricchi, reintrodurre l’articolo 18, sussidiare i poveri, sono tutte misure che piacciono a una parte non trascurabile dell’elettorato progressista. Non ci fosse quella fastidiosa (e politicamente scorrettissima) critica delle politiche di accoglienza, non ci fosse quell’attenzione ai piccoli imprenditori e al lavoro autonomo, non ci fosse quella un po’ aberrante forma di democrazia del web, il partitone di sinistra-sinistra, sognato da milioni di nostalgici del tempo che fu, ci sarebbe già, perché ci ha pensato Grillo a fondarlo, giusto dieci anni fa.

Ma che cosa sposta, la nascita di Liberi e uguali, avvenuta quasi in simultanea con l’estinzione di Campo progressista, il movimento di Giuliano Pisapia?

La mia impressione è che l’effetto in termini di seggi complessivi per il centro-sinistra potrebbe essere modesto. L’esistenza di una lista di sinistra purosangue, che corre separata dal Pd, tende infatti a produrre due conseguenze di segno opposto: fa perdere seggi nella parte maggioritaria, ma ne fa guadagnare in quella proporzionale. Le simulazioni suggeriscono che diversi candidati Pd potrebbero non farcela a causa della concorrenza fratricida di Liberi e uguali, ma alcuni sondaggi suggeriscono anche che una parte dell’elettorato di sinistra potrebbe scegliere Liberi e uguali anziché il Movimento Cinque Stelle. Quale possa essere il saldo fra questi due movimenti nessuno lo sa, ma il paradosso è che un successo elettorale a due cifre della lista di Grasso dissanguerebbe non solo il Pd ma anche, o forse ancora più, il Movimento Cinque Stelle. Un meccanismo che è già visibile nei sondaggi delle ultime settimane, la maggior parte dei quali vedono i Cinque Stelle in costante discesa.

Ben più importante dell’impatto in termini di seggi, invece, potrebbe rivelarsi l’impatto della nuova lista sugli equilibri parlamentari complessivi, ossia, in definitiva, sul funzionamento del nostro sistema politico. Un successo a due cifre (intorno al 10%) di una lista di sinistra-sinistra, accompagnato da una prestazione mediocre del Pd (fra il 25 e il 30%), renderebbe improvvisamente lo stato della nostra sinistra alquanto simile a quello della sinistra in Germania negli ultimi 12 anni. Lì le forze riformiste, ovvero la somma di socialdemocratici (Spd) e Verdi, devono accontentarsi del 30% circa dei consensi, perché il 10% è congelato in una lista di estrema sinistra (la Linke), nata dalla fusione fra gli ex comunisti dell’Est e gli scissionisti duri e puri della Spd, guidati da Oskar Lafontaine.

E’ forse istruttivo ricordare come quella lista nacque. Oskar Lafontaine negli anni ’90 era stato il presidente della Spd, e aveva contribuito a portare al governo Gerhard Schröder, l’ultimo cancelliere socialdemocratico della storia tedesca prima del lungo regno di Angela Merkel. Ma quel cancelliere, nei primi anni 2000, avrebbe impresso alla politica tedesca una spinta riformista tanto decisiva per la salvezza dell’economia tedesca (allora la Germania era considerata “il malato d’Europa”), quanto indigeribile per la sinistra Spd, ostile alle riforme del mercato del lavoro (le famose riforme Hartz), attuate dal secondo governo Schröder fra il 2003 e il 2005. E’ contro questa svolta riformista radicale (e, aggiungo io, assai coraggiosa) che nasce, in Germania, una sinistra fondamentalista e anti-governativa, che riunisce gli ex comunisti dell’Est e gli scissionisti socialdemocratici.

Da allora la Germania è salva (è l’unico paese dell’euro che ha retto bene alla lunga crisi di questi anni), ma i benefici della svolta riformista sono stati in massima parte incassati dall’opposizione, ossia dal partito popolare (Cdu/Csu) di Angela Merkel, che regna incontrastata da 12 anni, ora con l’appoggio dei socialdemocratici (1° e 3° governo Merkel), ora con quello dei liberali (2° governo Merkel). Ai socialdemocratici, da allora, non è mai più stato possibile guidare un governo, e anche ora, dopo le elezioni del 2017 in cui hanno toccato il fondo (20.5% dei voti), il massimo in cui possono sperare è di partecipare al 4° governo della signora Merkel.

Non c’è bisogno di sottolineare le analogie con la situazione italiana, dove la nascita di una lista di sinistra-sinistra si deve in gran parte al rifiuto delle riforme del mercato del lavoro, peraltro assai più blande di quelle tedesche, attuate da governi di sinistra riformista, e specialmente dal governo Renzi con il Jobs Act; e dove è perfettamente possibile che la presenza stabile di una lista di sinistra purosangue, che sequestra il 10% dell’elettorato, sbarri per lungo tempo alla sinistra riformista l’accesso al governo.

Quel che è più interessante, semmai, sono le differenze con la situazione tedesca. La prima differenza è che, in Germania, le forze genuinamente populiste, rappresentate soprattutto da Alternative für Deutschland di Alice Weidel, raccolgono meno del 15% dell’elettorato, mentre in Italia, in base agli ultimi sondaggi, i tre partiti populisti (Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia) sfiorano il 50%.

La seconda differenza è che, in Germania, il baricentro delle forze riformiste è decisamente spostato a destra, dove i popolari della Merkel e i liberali attraggono il 45% dei consensi, contro il 30% circa di socialdemocratici e verdi, mentre in Italia il baricentro delle forze riformiste è a sinistra, dove il Pd attira il 25-30% dei consensi, e Forza Italia poco più del 15%. Questo significa che un ipotetico governo di Grosse-Koalition (ma, dati i numeri, sarebbe meglio cominciare a chiamarlo di Kleine Koalition, di piccola coalizione) in Italia sarebbe un governo di sinistra allargato alla destra, mentre in Germania – se riusciranno a vararlo – sarà un governo di destra allargato alla sinistra.

La differenza più importante, tuttavia, a me pare ancora un’altra: quando la Merkel ebbe ad insediarsi al potere (2005), il duro lavoro delle riforme più impopolari era già stato in gran parte compiuto dal suo predecessore socialdemocratico, il cancelliere Schröder. In Italia, invece, chiunque governi dopo Renzi erediterà un paese in cui qualcosa (non senza errori e concessioni alla ricerca del consenso) si è cominciato a fare, ma il più deve essere ancora fatto. Il debito pubblico è ancora lì; le tasse sono scese, ma di pochi decimali; il Pil è ripartito, ma ancora troppo lentamente; burocrazia e giustizia civile continuano ad essere un freno alla crescita. Insomma, in Italia il cantiere delle riforme è appena stato aperto, e ci vorranno parecchi anni per raccogliere i frutti del lavoro che si è iniziato a fare.

Quindi, in fondo, la questione è assai semplice. Salvo sorprese, la nascita di una Linke italiana renderà più difficile sia la formazione di un governo Cinque Stelle, sia la formazione di un governo di sinistra, guidato dal Pd. Questo significa che, se escludiamo l’ipotesi di un “governo di unità popolare”, guidato dalla troika Di Maio-Renzi-Grasso, le alternative realistiche in campo restano solo due: una vittoria del centro-destra, o la formazione di un governo di Kleine Koalition Pd-Forza Italia.

Ma in entrambi i casi la mission sarebbe la stessa: portare a termine un lavoro che, con le riforme di questi anni, è soltanto iniziato.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 9 dicembre 2017



L’anomalia italiana/ La Repubblica degli allenatori senza chances di governare

E’ un po’ di tempo che, nei palazzi della politica, e di riflesso sui mezzi di informazione, non si fa altro che parlare del candidato premier dei vari schieramenti. Sembra che sia vitale decidere chi è il candidato premier di ciascuno dei tre schieramenti, e qualcuno (Di Maio) è persino arrivato a ritirarsi da un confronto televisivo perché non era sicuro che il suo interlocutore (Renzi), da lui stesso sfidato a singolar tenzone, sarebbe effettivamente stato il candidato del centro-sinistra. Immagino che, con la stessa ferrea logica, Di Maio si sottrarrà anche al confronto con Berlusconi e Salvini, visto che il candidato premier del centro-destra si conoscerà solo dopo il voto, quando si saprà chi, fra i due, avrà ottenuto più voti.

E’ un dibattitto surreale, però. Non solo perché, finché la Costituzione resta quella che è, le elezioni non servono a scegliere un premier ma a formare un Parlamento, ma per il semplice motivo che chiunque sia scelto come candidato premier dal proprio schieramento ha pochissime possibilità di diventarlo effettivamente. Se uno aspira a diventare Presidente del Consiglio, non dovrebbe brigare per essere il prescelto, ma semmai implorare i suoi di non candidarlo.

E’ difficile, infatti, che nel prossimo parlamento uno dei tre schieramenti abbia la maggioranza dei seggi sia alla camera sia al Senato. Ed è ancora più difficile che, in mancanza di una maggioranza politica omogenea, il premier su cui i partiti dovranno convergere possa essere, anziché una figura di mediazione, il candidato premier di uno solo dei tre schieramenti. E’ questa, per inciso, la ragione per cui sempre più sovente si sente evocare la figura di Gentiloni, immagine vivente di prudenza, mediazione, moderazione, understatement.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui, a mio parere, l’ossessione per la designazione  dei candidati premier è abbastanza fuorviante. Il dibattitto sui candidati premier sembra ignorare che oggi quasi tutto il potere politico, inteso come potere di nomina e di investitura, è in mano a tre personaggi, ovvero Renzi, Grillo e Berlusconi, nessuno dei quali siede in Parlamento, e nessuno dei quali trae il suo potere dal ruolo di candidato premier.

Grillo non vuole fare il premier, Berlusconi non può farlo (la Corte di Strasburgo si pronuncerà fuori tempo massimo), a Renzi piacerebbe tantissimo ma sfortunatamente ha ottime possibilità di essere stoppato dai suoi, o dai suoi alleati, chiunque essi siano. Ve lo immaginate un governo Renzi sostenuto da Mdp? O un governo Renzi sostenuto da Forza Italia? O un governo Renzi con l’appoggio dei Cinque Stelle?

Forse dovremmo smettere di arrovellarci sull’indicazione del premier, come se fossimo ancora nella seconda Repubblica, in cui la finzione dell’elezione diretta, pur non avendo alcun appoggio nel nostro assetto costituzionale, almeno ne aveva uno nella legge elettorale, che in entrambe le sue varianti (mattarellum e porcellum) forniva un certo impulso al bipolarismo, nonché alla formazione di maggioranze in Parlamento.

Ma ora?

Ora, dicono alcuni, si torna alla prima Repubblica. La maggioranza che ci governerà sarà il frutto di accordi fra partiti, e anche il Capo dello Stato, cui spetta indicare il presidente del Consiglio, di quegli accordi dovrà prendere atto.

Apparentemente è proprio così. Però ci sono due novità cruciali, rispetto alla logica della prima Repubblica. La prima è che allora (fino al 1992), a fronte di un elettorato statico e diffidente con i comunisti, i governi erano effettivamente espressione delle scelte degli elettori, e quel che i partiti (attraverso il Parlamento) decidevano era solo il mix di satelliti che avrebbero ruotato intorno alla Dc. Ora invece, con un sistema politico tripolare, se nessuno dei tre schieramenti prevarrà sugli altri due, gli accordi parlamentari non decideranno i dettagli, bensì la sostanza. Oggi può sembrare fanta-politica, e tutti i diretti interessati si affretterebbero a escluderlo, ma in assenza di un vincitore i negoziati fra partiti potrebbero partorire tranquillamente: un governo Pd-Forza Italia, un governo Lega-Forza Italia-Pd, un governo Cinquestelle-Lega, un governo Cinquestelle-Mdp, un governo Pd-Cinquestelle.

C’è però anche un’altra, forse più importante novità, rispetto alla prima Repubblica: l’accentramento del potere di scelta dei candidati. Mentre ci chiediamo chi sarà il prossimo premier, rischiamo di non accorgerci che quella in cui stiamo entrando non è la prima Repubblica ma è, mi si permetta l’espressione, la Repubblica dei trainer. Dove i trainer, gli allenatori, sono tre-quattro leader, che per una ragione o per l’altra assai difficilmente faranno il premier, ma in compenso hanno potere di vita e di morte sulle carriere dei loro giocatori. Perché se è vero che chi entrerà in Parlamento lo decideranno gli elettori con il loro voto, è ancor più vero che il diritto di giocare la partita, e le possibilità di successo con cui la si gioca, sono nelle mani degli allenatori. Tutti rigorosamente fuori del Parlamento.

E’ sempre stato così? Sì, ma mai in questa misura, mi pare. Finché ci sono stati partiti veri, in Parlamento si arrivava al termine di un cursus honorum, fatto di tappe, responsabilità, esperienze amministrative. Oggi ci si arriva in modo più diretto e rapido, spesso per fedeltà a un capo, a una corrente, a una cordata, ma altrettanto repentinamente si può finire in panchina, o semplicemente fuori squadra. Tutto dipende dall’allenatore.

Articolo pubblicato su Il Messaggero