Elezioni in Romania e corruzione

Il caso delle elezioni in Romania ha suscitato molte discussioni nel resto d’Europa, Italia compresa. La lente con cui se ne è parlato è sostanzialmente questa: da una parte c’è un pericoloso candidato di estrema destra, sovranista, populista, trumpiano e anti- europeo, George Simion; dall’altra c’è il sindaco di Bucarest, colto (è un matematico), democratico, progressista, europeista, Nicușor Dan. La speranza degli europeisti è che l’annullamento dei risultati del primo turno delle elezioni presidenziali (dicembre 2024), in cui aveva vinto un candidato vicino a Simion (Călin Georgescu), non si riveli un boomerang, finendo per consegnare la vittoria proprio a Simion, ossia al candidato che di Georgescu aveva preso il posto.

Ora sappiamo come è andata. I timori di una vittoria dell’estrema destra euroscettica si sono dissipati (forse anche grazie a una mobilitazione anti-Simion di tanti astensionisti abituali), il nuovo presidente Dan assicurerà la lealtà all’Unione Europea e alla Nato.

Fin qui il racconto dominante. Un racconto che, ai miei occhi, appare alquanto riduttivo. O meglio troppo “UE-centrico”. Sembra quasi che quel che è andato in scena in Romania domenica scorsa sia solo un referendum pro o contro l’Unione Europea. O, peggio, uno scontro fra democrazia e tentazioni neo-fasciste.

Due sono le fonti della mia perplessità. La prima è, per così dire, puramente politologica: credo sia estremamente riduttivo leggere l’avanzata della destra in Europa come risultato di tentazioni neo-fasciste. Troppe cose dividono i programmi dei moderni partiti etichettati come “di estrema destra”, dai programmi dei partiti fascisti e nazisti del passato. Prima fra tali cose l’atteggiamento verso la guerra, che oggi è pacifista e anti-militarista, mentre ieri era espansionista e guerrafondaio. Dare del fascista a un candidato atipico e decisamente discutibile come Simion, mi pare una forzatura.

Ma la fonte di perplessità maggiore è un’altra: mi capita spesso di ascoltare i racconti di rumeni che da anni vivono in Italia (talora indicati come “diaspora romena”), e di constatare che le priorità dei loro discorsi sono diverse, talora molto diverse, da quelle che vediamo riferite sui grandi media italiani. Per i “rumeni d’Italia” il problema fondamentale della Romania è la corruzione, che viene raccontata in termini molto più drammatici di quelli che capita di leggere sui media italiani. Non c’è solo la corruzione nel sistema sanitario, che costringe i cittadini a pagare con mance, mazzette e regalie il diritto a essere curati. Ci sono anche due altri importantissimi meccanismi corruttivi, di cui in Europa occidentale si parla poco. Il primo è che, spesso, occorre pagare per essere assunti nella pubblica amministrazione: il posto non si ottiene per merito, ma si compra. Il secondo è l’uso distorto dei copiosi fondi europei che, secondo molti rumeni, troppe volte sono stati distribuiti in modo clientelare e hanno permesso arricchimenti personali illeciti. Per non parlare dello stato del sistema scolastico, che colloca la Romania all’ultimo posto in Europa e che alcuni – forse esagerando – considerano (per alcuni specifici aspetti) peggiore di quello vigente ai tempi della dittatura comunista di Ceaușescu.

Detto in termini semplici: molti rumeni all’estero, proprio perché vedono con i loro occhi come si vive nei paesi dell’Europa occidentale, sono estremamente critici con l’establishment che ha governato il paese negli ultimi 35 anni, e aspirano a un cambiamento radicale (meno corruzione, più istruzione), senza il quale – anche quando lo desidererebbero – sono ben poco disposti rientrare in Romania.

La cosa interessante è che la lotta alla corruzione è in cima ai programmi di entrambi i candidati, il vincitore europeista Nicusor Dan e il perdente euroscettico George Simion. Quel che ha spinto tanti elettori a scegliere Dan e tanti altri a scegliere invece Simion non è solo il grado di fiducia nell’Unione Europea, ma anche il grado di fiducia nella capacità dei due candidati di risolvere davvero il problema numero 1 della Romania, ossia di smantellare l’enorme macchina della corruzione che da tanti decenni attanaglia il paese. C’è chi ha creduto che Dan fosse più adatto di Simion, e chi ha creduto che il più adatto fosse Simion e non Dan. E ci sono pure quanti, pur avendo scelto uno dei due, restano scettici perché temono che nessuno sarà veramente capace di cambiare la Romania.

Viste da questa angolatura, le accuse a Simion di nostalgie fasciste appaiono alquanto fuori bersaglio. Più ragionevole, forse, è pensare che fra quanti lo hanno votato molti l’abbiano fatto semplicemente perché hanno ritenuto che, proprio in quanto più anti-sistema e meno compromesso con la burocrazia di Bruxelles, avesse maggiori possibilità di estirpare la corruzione.

[articolo uscito sulla Ragione il 20 maggio 2025]




I referendum della discordia

Quasi certamente le prossime elezioni politiche si terranno intorno al mese di giugno del 2027, anche se – in teoria – la legislatura dovrebbe durare fino al mese di settembre del medesimo anno. Mancano dunque più di due anni al prossimo appuntamento elettorale. A dispetto di ciò, le forze politiche si stanno muovendo come se le elezioni fossero alle porte. Giorgia Meloni ha già chiarito che si ricandiderà. Elly Schlein e Maurizio Landini, a loro volta, hanno già aperto la campagna elettorale brandendo i 5 referendum, nella convinzione che la mobilitazione sui quesiti referendari possa rinvigorire l’opposizione.

Personalmente ne dubito fortemente, per vari motivi. Il primo è che tutti i sondaggi prevedono che il quorum non verrà raggiunto: con ogni probabilità circa 2 italiani su 3 non andranno a votare. Difficile, a quel punto, cantare vittoria solo perché nella minoranza che è andata al voto sono prevalsi i sì. È facile prevedere che la destra ritorcerà sulla sinistra il ragionamento con cui tante volte, in questi due anni e mezzo, ha cercato di delegittimare il voto a Giorgia Meloni (che ha raccolto sì il 26% dei consensi, ma sul 64% dei votanti: quindi solo 1 italiano su 6 la ha scelta). Ora sentiremo ripetere infinite volte che il 70 o 80% di consenso su un determinato quesito referendario rappresenta solo il 15% (o 20%, o 25 %) dell’elettorato complessivo.

Il secondo motivo di perplessità è che i 5 referendum non sono solo un’occasione di visibilità per l’opposizione: sono anche una formidabile opportunità, per il governo, di mostrare le divisioni del cosiddetto campo largo. L’unica forza di opposizione che voterà sì a tutti i referendum è AVS (Alleanza Verdi Sinistra). La segretaria del Pd Elly Schlein vorrebbe che lo stesso facessero i suoi, ma incontra il dissenso di molti membri della minoranza interna, che sono perplessi sui quesiti che, di fatto, rinnegano la stagione renziana e il Jobs Act: molti di loro voteranno sì solo ad alcuni dei referendum che riguardano il mercato del lavoro, ciascuno secondo le proprie sensibilità politiche personali. Riccardo Magi, leader di +Europa, pare intenzionato a votare sì solo a due referendum, quello sulla responsabilità delle imprese appaltanti e quello (promosso da lui stesso) che dimezza i tempi necessari per ottenere la cittadinanza italiana. Questo referendum, a sua volta, dovrà fare i conti con le perplessità dei Cinque Stelle, da sempre critici con l’immigrazione irregolare (Giuseppe Conte ha lasciato libertà di coscienza). Quanto a Renzi e Calenda, voteranno no a 4 referendum su 5 (tutti quelli sul mercato del lavoro).

E qui veniamo alla mia ultima perplessità, la più importante. Il fatto che non esista nemmeno un referendum su cui siano d’accordo tutte le forze del costituendo “campo largo” non si limita a mostrare che l’opposizione è ultra-divisa, ma suggerisce una considerazione più ampia: i temi scelti per i referendum sono palesemente controversi, visto che rispetto a ciascuno di essi vi è almeno una forza politica di sinistra che li considera sbagliati.

Ciò apre un interrogativo molto serio sul futuro dell’opposizione. Anch’io, come Romano Prodi e tanti altri, penso che una coalizione progressista abbia qualche possibilità di sfidare vittoriosamente Giorgia Meloni solo se dismette la battaglia per la leadership, che oggi impegna Schlein, Conte e (di nascosto) Landini, e punta tutte le sue carte sulla elaborazione di un programma comune (come fece il centro-sinistra prodiano nel 2006). Ma non posso non chiedermi: se nemmeno sui referendum sono stati capaci di mettere a punto una linea comune, come potranno riuscirci quando si tratterà di formulare un programma di governo che convinca la maggioranza degli italiani?

Una risposta possibile è che non ci riusciranno e andranno al voto più o meno divisi, come l’ultima volta. L’altra risposta possibile è che sottoscriveranno un programma comune monstre, ottenuto sommando gli opposti estremismi delle cultura progressista. Ovvero: sulla politica economico-sociale la linea Landini-Schlein (salario minimo legale e patrimoniale permanente), sui diritti la linea di Magi-Bonino (ius soli, Ddl Zan, Green Deal). Il che, in sostanza, significa sposare la linea politica di AVS, ossia della più estrema delle forze di sinistra, come certifica il fatto che sia l’unica a votare convintamente sì a tutti e 5 i referendum.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 maggio 2025]




Fra guerra e pace – Verso le elezioni anticipate?

Nessuno può escludere che fra qualche mese un raggio di sole accarezzi il mondo. La guerra in Ucraina finisce, in Israele c’è una tregua, l’Europa raggiunge un accordo commerciale con gli Stati Uniti, le borse recuperano il terreno perduto. Il riarmo dell’Europa torna in secondo piano. Insomma, la gente smette di avere paura della guerra e dell’inflazione.

Questo però non è lo scenario più verosimile. Lo scenario più verosimile, purtroppo, è che, comunque evolvano le cose, la paura della guerra e lo spettro della recessione ci accompagnino ancora per un po’. Diciamo (almeno) per due o tre anni.

Ebbene, se questo dovesse essere lo scenario prevalente, il quadro politico potrebbe mutare sensibilmente, e i rapporti di forza fra i partiti al momento delle prossime elezioni politiche (previste per il 2027) potrebbero cambiare drasticamente. E potrebbero farlo nella direzione che, lentamente e quasi impercettibilmente, si sta profilando già in questi giorni.

A segnalare i primi scricchioli è stato l’istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli, che fin dagli ultimi giorni di marzo, sul Corriere della Sera, avvertiva che Fratelli d’Italia stava perdendo colpi e soprattutto che, contrariamente a quanto affermato dalla maggior parte degli istituti rivali, era largamente al di sotto del 30% di consensi, e semmai si stava pericolosamente planando verso quota 26%, ossia al risultato elettorale del 2022.

Poi negli ultimissimi giorni è intervenuta la supermedia dei sondaggi calcolata da You Trend, che apparentemente non ha rivelato cambiamenti clamorosi ma in realtà, a leggere attentamente le variazioni rispetto a due settimane prima, non solo conferma il calo di Fratelli d’Italia (più che comprensibile date le evidenti difficoltà di Giorgia Meloni in politica estera) ma mostra che le micro-variazioni in atto negli altri partiti hanno un segno preciso e delineano (forse) una tendenza.

Quale tendenza?

Fondamentalmente il riallineamento del sistema politico lungo la frattura fra partiti europeisti (quasi sempre al governo in Europa) e partiti euroscettici (quasi sempre all’opposizione in Europa). Credo non sia un caso che il segno meno caratterizzi i consensi a Pd, Forza Italia, +Europa, Azione, Noi moderati, e il segno + caratterizzi i consensi a Lega, Movimento Cinque Stelle, Alleanza Verdi-Sinistra. Quel che differenzia i due blocchi è che i primi hanno assunto una posizione sostanzialmente favorevole al riarmo, mentre i secondi ne hanno preso univocamente le distanze non solo a Bruxelles, ma anche nelle piazze (vedi la grande manifestazione di sabato convocata da Conte).

Ebbene, se l’incubo della guerra dovesse perdurare, tutto questo potrebbe preludere ad alcuni cambiamenti importanti sia nella coalizione di governo sia nelle opposizioni.

Nella coalizione di governo la competizione fra Forza Italia e la Lega per la posizione di maggiore alleato del partito della Meloni potrebbe volgere a favore della Lega, unico partito in grado di offrire un approdo al pacifismo di destra. Nel fronte dell’opposizione potrebbe riaprirsi la competizione per la leadership fra Schlein e Conte. Oggi il Pd ha il 22.7% dei consensi, contro il 12.1% dei Cinque Stelle. Sembra un abisso, ma se anche solo il 3% dell’elettorato, in quanto nettamente contrario al riarmo, transitasse dal Pd ai Cinque Stelle, il partito di Schlein scenderebbe sotto il 20%, e quello di Conte salirebbe sopra il 15%. Con un distacco di 5 punti scarsi, e venti di guerra all’orizzonte, la partita per la leadership si riaprirebbe.

Ma il pericolo maggiore, fra tutti i partiti, probabilmente lo correrebbe Fratelli d’Italia: la spina nel fianco pacifista è più dolorosa per chi guida il governo che per chi sta all’opposizione. Un Salvini che superasse il 10% diventerebbe una spina nel fianco per il governo Meloni, specie se il trend di ridimensionamento di Fratelli d’Italia, concordemente rilevato dalla maggior parte degli ultimi sondaggi, dovesse persistere. In quel caso, a meno di un insperato, rocambolesco soccorso del partito di Calenda, il ritorno anticipato alle urne non sarebbe così impossibile come appare oggi.

[articolo inviato alla Ragione il 6 aprile 2025]




Elezioni in Germania – Grosse Koalition alla prova

Apparentemente le elezioni in Germania non hanno riservato sorprese.

Le previsioni dei sondaggi sono state sostanzialmente rispettate, i popolari della CDU/CSU del futuro cancelliere Friedrich Merz hanno vinto, i socialdemocratici dell’SPD e i liberali della FDP sono crollati, il temuto partito di estrema destra AfD ha superato il 20%, miglior risultato dalla sua fondazione nel 2013. I popolari della CDU/CSU e i socialdemocratici della SPD (partito del cancelliere uscente Olaf Scholz) si apprestano ad avviare le trattative per formare un governo di Grosse Koalition.

A guardar bene, però, di risultati non scontati ve ne sono parecchi. Non era scontato, ad esempio, che i liberali e il nuovo partito di Sahra Wagenknecht (BSW) sarebbero rimasti fuori del parlamento, non raggiungendo la soglia del 5%. Se la BSW avesse raggiunto il 5% (vi è andata vicinissima, con il 4.97%), il neo-cancelliere sarebbe stato costretto ad allearsi anche con i Verdi (o con la BSW stessa), varando un governo più eterogeneo e quindi più instabile: con i Verdi al governo, ad esempio, la promessa marcia indietro sulle politiche green sarebbe stata meno facile da attuare, e più foriera di tensioni entro il nuovo esecutivo.

Anche le percentuali dei vincitori, pur abbastanza vicine a quelle previste dai sondaggi, non erano così scontate. Il nuovo cancelliere aveva chiesto agli elettori di dargli forza contrattuale (verso la SPD) conferendogli almeno il 30% dei voti, ma si è dovuto accontentare del 28.5%. Quando alla AfD di Alice Weidel, non erano in pochi – dopo gli ultimi attentati in Germania e in Europa – a scommettere su uno sfondamento più ampio della barriera del 20% (ha ottenuto “solo” il 20.8%).

Ancora meno scontata era la resurrezione della Linke, il partito di estrema sinistra guidato da Heidi Reichinnek, che ha preso l’8.8% (i sondaggi gli davano solo il 7%), quasi raddoppiando i consensi delle precedenti elezioni politiche. Un successo che, verosimilmente, ha determinato l’esclusone dal parlamento della BSW di Sahra Wagenknecht e la disfatta dei Verdi, che hanno ottenuto ancora meno voti di quanti gliene assegnassero i sondaggi.

Ma la vera sorpresa, che nessuno aveva previsto nelle dimensioni in cui si è manifestata, è l’exploit della partecipazione elettorale, passata dal 76.4% delle ultime elezioni politiche all’82.5%, il valore più alto dai tempi dell’unificazione tedesca. Tutto lascia pensare che, alla radice del boom dei votanti, vi sia il timore per l’avanzata della AfD, un timore che ha richiamato alle urne elettori che normalmente non votano, ma che sono sensibili ai richiami anti-fascisti e anti-nazisti. Sono questi quasi 4 milioni di elettori in più che hanno conferito ai risultati la loro specifica curvatura, non sempre evidente nei commenti delle ultime ore. Se Afd non è andata molto oltre il 20% e l’estrema sinistra (linke + BSW) ha triplicato il suo peso elettorale rispetto alle ultime elezioni è perché la matrice del surplus di mobilitazione è stata prevalentemente progressista.

Il risultato complessivo di questi sommovimenti è che, nel giro di meno di 4 anni (dal settembre 2021 a oggi), l’elettorato tedesco si è enormemente radicalizzato e polarizzato. I partiti anti-sistema (Afd, Linke, BSW), tutti guidati da donne carismatiche e fortemente sostenuti dall’elettorato giovanile, raccolgono oggi quasi il 35% dei voti, contro il 15% di 4 anni fa. Specularmente, i due partiti cardine del sistema (SPD e CDU/CSU), che si apprestano a formare il governo, raccolgono appena il 45% dei consensi, ancora meno di quanti (il 50% scarso) ne raccogliessero nel 2021.

Vista da questa angolatura la vicenda tedesca è singolare, anche se non unica (qualcosa di simile è in corso in Francia). Il sistema politico si polarizza, i partiti di sistema implodono, scendendo al di sotto del 50% dei consensi, ma al governo riescono ad andarci lo stesso perché si coalizzano tra loro e perché la legge elettorale li premia. In Germania CDU/CSU e SPD controllano il 52% dei seggi con appena il 45% dei voti.

In Francia centristi e forze moderate governano, ma il consenso popolare premia le ali estreme (Marine Le Pen e Mélanchon). In entrambi i casi, il governo delle forze pro-sistema è il frutto della dottrina del “cordone sanitario” (in tedesco: Brandmauer, muro tagliafuoco), che sbarra la strada del governo all’estrema destra, ma al tempo stesso non riesce a stabilire solide alleanze con l’estrema sinistra.

In queste condizioni, è arduo profetizzare al governo tedesco un cammino sereno. Se vorrà mantenere le promesse elettorali sui migranti e sulle politiche green, il cancelliere Merz potrà essere costretto ad accettare i voti dell’estrema destra. Ma se farà marcia indietro su entrambi i versanti per compiacere l’alleato di governo, difficilmente potrà evitare, alle prossime elezioni, un’ulteriore avanzata dell’Afd.

Non è una novità, bensì il solito, irrisolto, dilemma dell’antifascismo: provare a normalizzare le destre radicali associandole al governo, o tenerle lontane a costo di rafforzarle?

Germania e Francia sembrano aver imboccato quest’ultima strada, quella dell’arroccamento dei partiti moderati. Quanto all’Italia, il diritto di governare le destre se lo sono conquistato con il voto. E, per ora, nulla di drammatico pare esserne seguito.

[articolo uscito sul Messaggero il 25 febbraio 2025]




Lezioni americane

Sul fatto che le follie del politicamente corretto abbiano aiutato Trump, in questa elezione come in quella del 2016, quasi tutti convengono. Meno chiaro, invece, è quali lezioni, dalla vittoria di Trump e dalla sconfitta di Harris, possano trarre la sinistra e la destra in Europa.

A prima vista, chi ha più da imparare è la sinistra. Per lei, la lezione principale è che l’adesione acritica alle istanze del politicamente corretto (cultura woke, ideologia gender, cancel culture) è una zavorra elettorale insostenibile, tanto più se – come
accade in Italia, Francia, Germania – il mondo progressista è lacerato da profonde divisioni. È vero che la cosiddetta cultura dei diritti è diventata, da almeno tre decenni, il principale cemento identitario della sinistra e del suo sentimento di superiorità morale, ma bisognerà prima o poi prendere atto che continuare su quella strada la allontana sempre più non solo dai ceti popolari (che hanno altre priorità, a partire dalla sicurezza) ma anche da una parte del mondo femminile, che non vede di buon occhio le istanze dell’attivismo trans, specie quando comportano invasione degli spazi delle donne (carceri, competizioni sportive, centri anti-violenza, eccetera), rischi di indottrinamento nel mondo della scuola, transizioni di genere precoci per i minorenni, promozione della GPA (utero in affitto). Se vuole tornare a vincere, la sinistra dovrebbe smettere di attribuire ogni sconfitta alla disinformazione e ai poteri forti, e semmai prendere atto che aveva ragione Norberto Bobbio quando, a metà degli anni ’90, la avvertiva che rinunciare alla stella polare dell’uguaglianza a favore di quella dell’inclusione, come le suggeriva il sociologo Alessandro Pizzorno, era un errore, foriero di arretramenti e sconfitte.

Ma forse anche la destra avrebbe qualcosa da imparare, specie in Italia. Visto da destra, il follemente corretto di cui la sinistra si è resa prigioniera può diventare una straordinaria opportunità di definizione di sé stessa per così dire “a contrario”.

Culturalmente, la destra è sempre di più, non solo in Italia, l’unico argine significativo alla deriva woke negli innumerevoli campi in cui si manifesta. Anziché puntare sul controllo dell’informazione, sull’occupazione di posizioni nel mondo della cultura, su improbabili incursioni nello star system – più in generale: sul velleitario progetto di ribaltare l’egemonia culturale della sinistra – alla destra converrebbe forse prendere atto che la sua forza non sta nell’occupazione più o meno maldestra delle istituzioni, ma nell’aderenza alle istanze e alle visioni del mondo di ampi settori delle società capitalistiche avanzate.

Se le forze di destra stanno avanzando in Europa, e alcune loro istanze (come il controllo dell’immigrazione) si stanno manifestando anche a sinistra (emblematico il successo del partito di Sahra Wagenknecht in Germania), è perché quello in atto è un profondo smottamento della sensibilità collettiva. Uno smottamento che, fondamentalmente, consiste in una presa di distanze dalla cultura dei diritti e dai suoi eccessi, e si traduce in una richiesta di porre limiti, argini, freni ad alcune tendenze del nostro tempo. È dentro questa cornice che prendono forma la richiesta di contenere l’immigrazione illegale, garantire la sicurezza, ma anche frenare l’espansione di diritti percepiti come arbitrari (la scelta soggettiva del genere), o pericolosi (cambi di sesso degli adolescenti), o contrari all’ordine naturale delle cose (utero in affitto), o semplicemente pericolosi per le donne (invasione degli spazi femminili).

Già, le donne. Pochi ne parlano, ma uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni sono i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo, e più in generale nel comportamento elettorale delle donne. Nella campagna per le presidenziali americane è successo, per la prima volta, che una parte delle femministe, negli Stati Uniti (Kara Dansky) ma anche nel Regno Unito (Julie Bindel), si siano poste la domanda fatidica, fino a ieri inconcepibile: dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi di votare conservatore?

E non è tutto. Anche sul piano delle leadership, il panorama si sta facendo interessante. Dopo la recentissima ascesa di Kemi Adegoke, donna nera di origini nigeriane, a leader del partito conservatore britannico, sono immancabilmente donne
a guidare la destra nei quattro più grandi paesi europei: Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel in Germania, Giorgia Meloni in Italia, e appunto Kemi Adegoke nel Regno Unito.

Insomma, sia sinistra sia a destra, il materiale di riflessione non manca.

[articolo uscito sul Messaggero il 10 novembre 2024]