Gli italiani e l’Europa: tra sfiducia e paura dell’isolamento

Come noto, per la prima volta nella sua storia elettorale, le recenti consultazioni europee hanno fatto registrare a livello complessivo un significativo incremento del turnout. Da quando sono nate, nel 1979, il tasso di partecipazione era infatti andato progressivamente calando, dal 62% della sua prima edizione fino ad arrivare al misero 42,6% del 2014, quasi 20 punti in meno. Un regresso costante, in buona parte causato dalla scarsa affluenza registratasi dai nuovi ingressi nella UE, la cui rotta è stata invertita (paura dei sovranisti?) proprio quest’anno, con un incremento medio di oltre otto punti percentuali, determinato da un aumento dei votanti in quasi tutti i 28 paesi con le sole eccezioni, statisticamente significative, di Bulgaria (-5%), Italia e Irlanda (-3%), oltre ad altri 4-5 paesi con un decremento minimo.

L’Italia dunque è in negativa contro-tendenza, e l’emorragia partecipativa non si arresta nemmeno in questa occasione. Il dato italiano appare in linea con quanto registratosi nelle numerose indagini demoscopiche dell’ultimo anno, che hanno infatti puntualizzato come il gradimento nella propria presenza nella UE fosse per l’appunto nel nostro paese tra i livelli più bassi (di fatto il più basso, se non si tiene in considerazione l’UK, già in Brexit), sebbene con una marcata opinione prevalente di due terzi (43% a 23%) a favore del “remain”.

La campagna comunicativa dei due partner di governo, piuttosto euroscettici benché non più – come nel corso delle politiche 2018 – velatamente indirizzati verso il “leave” almeno per la moneta, pare aver dato qualche frutto, nell’atteggiamento degli italiani, in particolare per quanto riguarda il loro giudizio verso l’Unione Europea.

Non sono ovviamente più i tempi delle grandi speranze di fine Millennio, quando l’obiettivo di entrare in Europa fece le fortune del governo Prodi-Ciampi, con convinta adesione anche di ampie fette della popolazione, disposte a fare i sacrifici economici necessari per non essere tagliata fuori dal mondo che contava. Allora (nel 1997) il livello di fiducia per la Comunità Europea, come in quel periodo veniva chiamata, arrivava a valori poco inferiori al 70%, e per più di un decennio, pur tra alti e bassi, la UE ha rappresentato per gli italiani il “luogo” più importante in cui confidare, per mantenere un equilibrio di fondo a fronte dei sommovimenti politici-elettorali interni, nell’eterna battaglia tra centro-sinistra e centro-destra.

Il punto decisamente più elevato della fiducia (70%) è stato il 2011, annus horribilis del governo Berlusconi, quando in seguito all’incontrollabile incremento dello spread, la Ue impose un deciso cambiamento di rotta nella gestione economico-finanziaria del nostro paese, facilitando l’ingresso di Mario Monti in un governo tecnico che aveva come obiettivo principale il risanamento dei conti pubblici. Ma da allora inizia una inesorabile parabola discendente, con una diminuzione media della fiducia di circa 5 punti all’anno, fino ad approdare al valore attuale del 40%: una perdita secca di 30 punti in soli otto anni.

Fonte: Abacus (1996-2002) – Ipsos (2003-2019)

Da super-garante a costante oggetto di critiche, provenienti non soltanto dagli elettori dei cosiddetti partiti “euroscettici”, ma anche da una quota significativa degli altri elettorati più “europeisti”, che per la maggior parte condivide l’idea che la Ue sia diventata nel tempo più l’Europa delle banche che quella dei popoli, fallendo la sua missione unificatrice cui si era guardato alla nascita con grandi speranze.

Cresce dunque costantemente il disamore verso l’istituzione europea, dopo la messa in discussione a cavallo delle politiche del 2018, da parte di Lega e M5s, sia della permanenza nella Ue sia, soprattutto, del mantenimento dell’Euro come moneta corrente nel nostro paese. Peraltro, una volta formatosi il nuovo governo giallo-verde, i due partner dell’esecutivo retto da Conte tendono lentamente ad ammorbidire le proprie posizioni su entrambi i punti di rottura. Si passa dunque dall’abbandono tout-court di Euro e di UE ad una conflittualità, che resta certo accesa, ma maggiormente finalizzata ad una ridiscussione dei termini dei rapporti tra Bruxelles e l’Italia, con la pressante richiesta di maggior autonomia decisionale sui programmi economico-finanziari interni.

Una decisa svolta rispetto al recente passato, che accompagna la stessa opinione pubblica più euroscettica verso un ripensamento delle proprie posizioni sulla possibile uscita dal treno europeo, facilitato anche dai problemi riscontrati dalla complicata Brexit inglese e dalla paura dell’isolamento che ne potrebbe generare negli anni futuri.

Così, le opinioni degli italiani cominciano progressivamente a mutare, a favore del mantenimento dello status quo su entrambi i temi. Le ultime rilevazioni demoscopiche disponibili ci parlano oggi di una quota pari a tre quarti degli elettori che si dichiara favorevole al mantenimento dell’Euro come moneta corrente, con punte massime tra chi ha votato Pd (la quasi totalità) e punte minime tra i votanti di centro-destra. Allo stesso modo, e con quote pressoché identiche, l’opinione nei confronti dell’uscita dell’Italia dalla UE, che vede ridursi sensibilmente, rispetto allo scorso anno, coloro che si dichiarano a favore di una Ita-exit.

Se ancora qualcuno avesse dei dubbi sulla forza e l’impatto della comunicazione per forgiare le opinioni dei cittadini, questi risultati dovrebbero fugare ogni loro tipo di incertezza.




Il racconto dell’Italia

A proposito del successo della Lega

Quel che è successo domenica scorsa in Italia, ovvero l’exploit della Lega (dal 17% di un anno fa al 34%), accoppiato al flop dei Cinque Stelle (dal 32% al 17%), non ha precedenti in nessuna elezione italiana del passato, ma credo non ne abbia neppure in alcuna elezione mai avvenuta in un paese occidentale. Se anziché sui voti ottenuti dal singolo partito consideriamo la differenza fra i voti dei due partiti, l’entità del cambiamento diventa ancora più evidente: la Lega era 15 punti sotto i Cinque Stelle alle politiche dell’anno scorso, ora è 17 punti sopra, dunque lo spostamento complessivo di consensi è di ben 32 punti. Un’enormità.
Tutti sappiamo che un fattore decisivo nel successo della Lega è stata la ostilità agli ingressi irregolari in Italia, e più in generale la sensibilità di Salvini alla domanda di sicurezza degli elettori. Ma basta questo elemento a spiegare un simile terremoto elettorale?
Penso di no, e credo che dovremmo interrogarci sulle radici profonde del successo leghista, al di là della linea dura sui migranti. Lo farò partendo da una autocritica: nel mio ultimo articolo su questo giornale avevo ipotizzato, erroneamente alla luce di quel che è poi successo, che la Lega avrebbe raccolto meno consensi di quanti gliene venivano attribuiti da alcuni sondaggi. Non avevo indicato cifre, ma ora che il silenzio elettorale è terminato, posso confessare che mi aspettavo un risultato vicino al 30%, magari appena al di sotto, ma non il 35% che certi sondaggi autorizzavano a ipotizzare, e che poi è stato sostanzialmente raggiunto.
Dunque c’era qualcosa di sbagliato nel mio modo di vedere le cose. Ma che cosa? La domanda non sarebbe interessante se io fossi il solo ad aver sottovalutato l’entità del boom leghista, ma non è questo il caso. Lo stesso Salvini, che nella campagna elettorale di un anno fa non aveva esitato a dirsi certo di superare Forza Italia, nel caso del voto europeo ha ammesso di essere rimasto lui stesso stupito del trionfo elettorale della Lega. Così come stupiti, o meglio costernati, attoniti, inorriditi, sono apparsi tanti oppositori di Salvini.
Ecco perché credo che la domanda ci stia tutta: dove abbiamo sbagliato? Che cosa non abbiamo capito?
Per parte mia credo di aver imparato almeno una cosa: anche in politica, come su internet, nella scuola, alla radio, in tv, il costume è profondamente cambiato, e ciò che a una parte di noi, evidentemente minoritaria, appare come inappropriato in bocca a chi dovrebbe rappresentare il Paese intero, alla maggior parte degli italiani risulta invece non solo accettabile, ma divertente, eccitante, parte del grande spettacolo della politica. Una deriva, questa, cui i mezzi di comunicazione di massa negli ultimi dieci-quindici anni hanno dato un impulso decisivo.
Non è tutto, però. Credo che se vogliamo capire il successo della Lega non possiamo limitarci a dire che tanti italiani sono contrari agli ingressi irregolari, e non si scandalizzano affatto se questa contrarietà viene enunciata in modo un po’ rude e semplicistico. Più sento Salvini parlare, specie quando i temi sono economici, più mi convinco che, accanto al tema dell’immigrazione, nel successo della Lega conti anche un altro fattore: il tipo di racconto della storia di questi anni che essa ha fatto proprio. Dico “ha fatto proprio” perché quel racconto ha le sue radici teoriche a sinistra, anzi nell’estrema sinistra, e risale indietro nel tempo almeno al 2005-2006 (un paio di anni prima della crisi), quando sulle riviste accademiche e sui giornali scoppiò la contesa sull’abbattimento del debito, difeso dai riformisti-doc ma osteggiato dalla sinistra radicale.
Al cuore di quel racconto vi è l’idea che sia sbagliato perseguire, come le regole europee imporrebbero, l’abbattimento del debito pubblico, e che buona parte dei guai dell’Italia, bassa crescita, bassa occupazione, bassi salari, non dipendano da noi ma dall’assurdità delle regole europee e dalla sciagurata scelta di entrare nel club dell’euro.
Ora, il punto è che quel racconto, giusto o sbagliato che sia, è stato progressivamente adottato da tutte le forze politiche estreme, di sinistra, di destra e né di destra né di sinistra. Agli eredi di Rifondazione comunista si sono aggiunti lungo la via la Lega, Fratelli d’Italia, il Movimento Cinque Stelle: una traiettoria magistralmente impersonata dall’economista Alberto Bagnai, passato senza battere ciglio dall’estrema sinistra alla Lega proprio perché l’analisi di fondo sulla società italiana e sull’origine delle sue difficoltà era assai simile. E, per certi versi, è condivisa anche da una parte delle forze politiche moderate: dopotutto è stato Prodi il primo a definire “stupido” il patto di stabilità; sono stati Berlusconi e Tremonti a denunciare gli aspetti più barocchi e masochistici della costruzione europea; è stato Renzi a ingaggiare estenuanti negoziati sulla flessibilità irridendo con stile pre-salviniano gli “zero-virgola” dei burocrati europei.
Ed ecco la conclusione. Il racconto per cui, fondamentalmente, i problemi dell’Italia hanno la loro origine a Bruxelles, proprio perché sostanzialmente condiviso da quasi tutte le forze politiche, è penetrato profondamente nel senso comune dell’opinione pubblica. Che la sua origine sia soprattutto a sinistra, non ha impedito alla destra di appropriarsene e di farne un potente strumento di agitazione politica. Proprio perché quel racconto, anche grazie ai media, è poco per volta divenuto dominante, alla Lega oggi è facilissimo raccontare che abbiamo avuto dieci anni di austerità, che l’austerità ci è stata imposta dall’Europa, che l’austerità non ha funzionato, e dunque si tratta solo di fare il contrario di prima: se cercando di limitare il deficit siamo andati indietro, sfondando il 3% andremo avanti.
Che questo racconto possa non stare in piedi, e che la ricetta possa portarci al disastro come nel 2011, poco importa e poco conta. Perché la forza del racconto salviniano è che non chiede sacrifici e non prevede obblighi, e anzi aiuta gli italiani ad autoassolversi, a pensarsi come vittime degli errori dell’Europa, piuttosto che come corresponsabili del declino del proprio Paese.
Del resto, un racconto non decade perché ha qualche falla logica o qualche tassello fuori posto. In politica un racconto decade perché al suo posto ne subentra uno diverso, più convincente, o più capace di suscitare energie e speranze. E un tale racconto, è amaro ma doveroso riconoscerlo, finora nessuno è stato in grado di costruirlo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 1 giugno 2019



Salvini, che sbaglio!

Può darsi che le imminenti elezioni europee mi smentiscano, ma ho l’impressione che il voto potrebbe riservare alla Lega un risultato sensibilmente inferiore alle aspettative del suo leader, drogate da mesi e mesi di sondaggi esaltanti. Dicendo questo non sto pensando al cosiddetto “effetto-winner”, per cui il vincitore annunciato di un’elezione riceve nei sondaggi più consensi di quelli che raccoglierà effettivamente alle urne. Né sto pensando all’effetto, potenzialmente disastroso, che potrebbero produrre il caso Siri, la “tangentopoli lombarda”, o lo scandalo che ha travolto uno dei principali alleati di Salvini in Europa, il vice-cancelliere austriaco Heinz Christian Strache, accusato (come Salvini) di trafficare con la Russia in cambio di sostegno finanziario al proprio partito. No, quello cui sto pensando è il lento ma inesorabile appannamento della figura di Salvini di cui è responsabile lui stesso.
In che modo?
Si possono fare innumerevoli esempi, ma il loro denominatore comune è molto semplice: è la rinuncia a rivolgersi a tutti gli italiani, anziché esclusivamente alla platea dei suoi sostenitori più accesi. Questa rinuncia si manifesta in innumerevoli forme e attraverso innumerevoli episodi: l’uso di un linguaggio aggressivo, l’occupazione sistematica delle piazze e della tv, la scarsissima presenza al Viminale, l’uso strumentale dei simboli religiosi (avevate mai visto un ministro dell’Interno agitare un rosario a un comizio?), la mancanza di rispetto per il Presidente del Consiglio, i due pesi e due misure nell’attuazione degli sgomberi, la tendenza a strumentalizzare i temi della fede e della religione, con tanti saluti alla tradizione laica della Lega. Ma non solo: anche la tendenza a liquidare con una battuta, anziché con una spiegazione, molte ragionevoli obiezioni che riceve, da destra prima ancora che da sinistra. Perché ha preferito anteporre quota 100 alla flat tax? perché aumentare ancora il debito pubblico, scaricando sulle generazioni future la fame di consenso elettorale di Lega e Cinque Stelle? come mai i rimpatri sono così pochi? perché non si occupa di firmare nuovi accordi con i paesi africani, come aveva promesso in campagna elettorale?
Così facendo Salvini si sta sempre più riconfigurando come il punto di riferimento di una parte soltanto degli italiani, di cui spesso non fa che esasperare gli animi, e di fatto sta rinunciando a convincere la maggioranza dei cittadini delle sue buone ragioni. E’ un peccato, un vero peccato, perché quelle ragioni, disgiunte dal modo brutale e talora volgare con cui sono affermate, esistono e sono condivise da moltissime persone, indipendentemente dal fatto che elettoralmente scelgano la Lega o un altro partito. Di tali ragioni, probabilmente la più importante è la richiesta di legalità e di ordine. Agli italiani, popolo tradizionalmente propenso a ignorare o aggirare le regole, piace sempre di meno vivere in un paese in cui gruppi sempre più ampi e spregiudicati di persone, italiane e straniere, se ne infischiano della legalità, e spesso di tale atteggiamento si mostrano persino fiere. Migranti che entrano disordinatamente in Italia per lo più senza avere alcun diritto allo status di rifugiato. Gruppi, di italiani e di stranieri, che spadroneggiano nelle periferie delle nostre città. Occupanti di case popolari che si appropriano di alloggi cui altri avrebbero diritto. Forze politiche che teorizzano che chi difende una buona causa ha tutto il diritto, e forse addirittura il dovere, di non rispettare le leggi, come è successo di recente con i sindaci che si rifiutano di applicare il decreto sicurezza, ma anche con il consenso che il “reato a fin di bene” dell’elemosiniere del Papa (ridare la corrente a chi non paga le bollette) ha ricevuto a sinistra.
Ebbene, tutto questo ha stancato una parte considerevole degli italiani. Salvini, ha avuto il merito di intercettare e dare una voce a questo sentimento collettivo, che è di esasperazione ma anche di rivolta morale contro una situazione giudicata ingiusta. Non si capisce perché la maggioranza dei cittadini debba rispettare le leggi, fino al punto di accettare le innumerevoli vessazioni cui vengono sottoposti dalla burocrazia, dal fisco e da una giustizia lenta e farraginosa, e altri cittadini possano invece sottrarsi ad ogni regola, o incassare tutti i benefici della benevolenza pubblica e privata senza sottostare ad alcun dovere. Non si capisce perché in certi territori lo Stato si comporti in modo vessatorio, e in altri non osi neppure mettere piede. Non si capisce perché chi commette ripetutamente reati quasi mai sconti una pena in carcere. Non si capisce perché a decine, forse centinaia di migliaia di stranieri, sia consentito girare senza documenti, o con documenti falsi, mentre da tutti gli altri si esige che abbiano i documenti in regola.
Questi pensieri e questi vissuti, contrariamente a quanto amano pensare le persone più accecate dall’ideologia, non sono appannaggio di una minoranza ultrapoliticizzata, xenofoba e razzista, ma sono condivisi dalla maggior parte degli italiani, e segnatamente dai ceti popolari, che hanno una visione concreta dei problemi. Quante volte abbiamo sentito, in questi mesi, operai ed ex militanti comunisti dichiarare convintamente di votare Salvini, senza per questo cessare di definirsi comunisti, di sinistra, progressisti. E’ questo che, fin dall’inizio, ha sempre fatto la forza della Lega, un partito che già nei primi anni ’90 veniva votato da impiegati e operai “con in tasca la tessera della CGIL”.
Ora tutto questo rischia di appannarsi. Se continuerà sulla strada imboccata negli ultimi mesi, quella di rivolgersi essenzialmente alla parte più radicale ed esasperata del suo elettorato, sollecitandone gli istinti peggiori, Salvini difficilmente potrà mantenere il consenso che ha rapidamente conquistato in un anno di governo. Perché quel consenso non era solo dovuto alla sua capacità di parlare chiaro, e di comprendere lo stato d’animo di tanti italiani, ma anche alla sua volontà di rivolgersi a tutti, non solo ai suoi fan più accesi. Insomma, radicalizzando ed esasperando il suo volto feroce, Salvini rischia non solo di perdere consensi, ma anche di infliggere un duro colpo alle idee generali che hanno guidato la sua azione.
Non sarebbe una buona cosa, perché una parte di quelle idee, prima fra tutte l’esigenza di mettere un freno all’anarchia della società italiana, erano sacrosante, e condivise da un pubblico che va ben al di là del perimetro della Lega.

Articolo pubblicato su Il Messaggero



Pd e Cinque Stelle, insieme al governo?

Un osservatore distratto delle vicende politiche italiane potrebbe anche stupirsi delle lodi che, improvvisamente, piovono dal mondo progressista sulla sindaca di Roma Virginia Raggi. Incapace e pasticciona fino a ieri, ora ricoperta di like grazie alla assegnazione di un alloggio a una famiglia rom bosniaca (nel quartiere romano di Casal Bruciato), a dispetto delle proteste degli abitanti. Così come potrebbe sorprendersi della freddezza, per non dire dell’irritazione, con cui Luigi Di Maio, solitamente schierato a difesa della Raggi, ha reagito alla scelta della sindaca di presenziare alla consegna dell’alloggio, in pieno stile Salvini.
In realtà non c’è da stupirsi più di tanto. Nelle stesse ore, a Torino, la sindaca Cinque Stelle (Chiara Appendino) e il governatore Pd del Piemonte (Sergio Chiamparino), mettevano a segno, in comune, un colpo “antifascista” con la presentazione di un esposto contro la casa editrice Altoforte e il suo editore (presenti al Salone del Libro), invitando i magistrati a “valutare se sussistano i presupposti per rilevare il reato di apologia di fascismo”, e se le dichiarazioni dell’editore non abbiano infranto ben due leggi della Repubblica (la Scelba del 1952 e la Mancino del 1993). Mesto epilogo di una vicenda in cui le ragioni dell’antifascismo e quelle della libertà di opinione hanno finito per trovarsi su opposte sponde.
Si potrebbe pensare che questi due episodi di convergenza fra Cinque Stelle e mondo progressista siano isolati, e in definitiva frutto di circostanze particolari. Se però proviamo a ripercorrere con freddezza gli ultimi mesi, non è difficile accorgersi che non è così. I terreni su cui Cinque Stelle e Pd, o Cinque Stelle ed estrema sinistra, sono o si sono trovati in sintonia sono davvero tanti, e tutt’altro che marginali.
Sul tema della giustizia, innanzitutto. La caduta di Armando Siri, difeso dalla Lega ma abbandonato dai Cinque Stelle, è anche il risultato della convergenza del Pd sulle tesi giustizialiste di Di Maio. E persino nel caso del soccorso a Salvini per la vicenda della Diciotti, solo la necessità di salvare il governo ha impedito il formarsi di un asse Cinque Stelle – Pd: se anziché ricorrere alla solita farsa pilotata della consultazione della base, Di Maio avesse lasciato libertà di coscienza ai suoi parlamentari, è facile immaginare che avremmo assistito a una spaccatura del Parlamento, con una parte dei Cinque Stelle alleati con la sinistra e schierati a difesa dell’azione dei magistrati contro Salvini.
Non c’è solo la giustizia, però. Sull’economia, fin dall’inizio della legislatura è stato evidente che le differenze fra i programmi dei Cinque Stelle e quelli della sinistra sono davvero marginali, essenzialmente questioni di tempi e di grado. Potenziare il reddito di inclusione, il mantra del Pd nei primi mesi della legislatura, non è cosa diversissima da quel che Di Maio ha effettivamente fatto, ossia depotenziare il reddito di cittadinanza. Se i 2-3 miliardi di stanziamento del Pd vengono aumentati a 6 o 7, e i 15-16 miliardi dei Cinque Stelle vengono ridotti a 8-9, il risultato macroeconomico è più o meno il medesimo: parliamo in entrambi i casi di una misura assistenziale, che comunque – finché qualcuno non si decidesse a riorganizzare i centri per l’impiego – verrebbe gestita nella confusione e nella disorganizzazione. O qualcuno pensa che dove Di Maio pasticcia, Poletti avrebbe fatto faville?
Stesso discorso sul salario orario minimo, dove le differenze fra Pd e Cinque Stelle sono davvero marginali, e riguardano semmai i rapporti con la contrattazione collettiva.
Si potrebbe obiettare che almeno su un punto, l’Europa, sinistra e Cinque Stelle si muovono su lunghezze d’onda diverse. Forse è vero, almeno nelle intenzioni, ma persino su questo terreno i punti di contatto sono numerosi. L’estrema sinistra è da sempre schierata contro il rispetto del tetto del 3% e a favore di un incremento della spesa pubblica “per stimolare la domanda e rilanciare gli investimenti”, come si sente ripetere ad nauseam. Sui temi dell’ecologia e dell’ambiente i Cinque Stelle sono indistinguibili dai Verdi, una delle forze progressiste che stanno rialzando la testa in Europa. Quanto ai temi del lavoro, l’ostilità alle riforme renziane (articolo 18 e Jobs Act), gradite all’establishment europeo, accomuna l’estrema sinistra e una parte del Pd, specie dopo la svolta a sinistra impressa da Zingaretti.
Che dire, in conclusione?
Forse semplicemente che, dopo il 26 maggio, dobbiamo prepararci, almeno in Italia, a un ritorno in grande stile del bipolarismo classico, ossia a una normale competizione fra centro-destra e centro-sinistra. E’ difficile, infatti, pensare che Salvini, che ora ha la metà dei parlamentari di Di Maio, non preferisca averne il doppio, e quindi non ci riporti abbastanza rapidamente al voto. Quanto ai Cinque Stelle, non riesco a immaginarli di nuovo al governo con un alleato che ne ha pianificato l’ecatombe parlamentare. Più facile, e tutto sommato più naturale, la strada di un’alleanza con il Pd e con l’estrema sinistra, che già oggi, specie sui temi del lavoro e del deficit, è più vicina ai Cinque Stelle che al Pd.
Fantapolitica?
Forse sì, ma non dobbiamo dimenticare un particolare. Un lascito probabilmente duraturo di questa legislatura è stato l’invenzione, e la messa in pratica, della formula del “contratto” di governo. E’ un passaggio decisivo, perché certifica che per governare insieme non si è affatto obbligati ad essere alleati, a condividere idee e progetti generali, ad avere la medesima visione del mondo o del futuro del Paese. Basta scrivere su un foglio le cose che si vogliono fare insieme, ignorando tutto ciò su cui non si è d’accordo. E’ una visione agghiacciante della politica, perché equivale a pretendere di guidare una nave senza dire ai passeggeri qual è la destinazione. Però è la realtà. E stante questa realtà mi sento di prevedere che alla domanda “come fa il Pd ad allearsi con i Cinque Stelle?” verrà data la seguente risposta: se, grazie al contratto, hanno potuto governare insieme Salvini e Di Maio, che litigano su quasi tutto e sono uniti soltanto dalla comune ostilità ai vincoli europei, perché non possono governare insieme Di Maio e Zingaretti, che su tanti temi hanno già mostrato di avere più o meno le stesse idee?
A margine: la mia è una previsione, non certo un auspicio.

Articolo pubblicato su Il Messaggero



Boomerang elettorale?

Hanno fatto un certo scalpore, nei giorni scorsi, domande e risposte transitate sul sito dell’Inps a proposito del cosiddetto reddito di cittadinanza. La vicenda ha indubbiamente un lato folcloristico, visto il tenore di certe domande e delle relative risposte, ma anche il tono dei commenti che certi dialoghi hanno suscitato sui social. Pare che alcuni addetti Inps alla comunicazione si siano presi qualche libertà, prima fra tutte quella di non comunicare in burocratese e quella di rispondere senza salamelecchi. Chi si rivolge all’Inps con un italiano imbarazzante, chi sa navigare sui social per intrattenimento ma per acquisire una password pretende di essere assistito, chi chiede come ottenere il reddito di cittadinanza per il figlio che lavora in nero, ha ricevuto risposte che, a seconda dei punti di vista, possono essere considerate offensive o sacrosante (per me sacrosante, secondo l’Inps offensive: ha già chiesto scusa).
Al di là del folclore, tuttavia, c’è pure un lato serio. Questi primi giorni di interazione Inps-cittadini hanno fatto emergere anche molta delusione, specialmente in due casi: quello in cui la domanda non è stata accettata, e quello in cui la domanda è stata accettata, ma la cifra erogata è risultata molto inferiore alle aspettative (poche decine di euro, anziché il vagheggiato sussidio di 780 euro al mese).
Forse è presto per capire con esattezza a che cosa si deve questa partenza frenata del sussidio, ma è difficile non rilevare che c’è qualcosa che non va. Sono anni che l’Istat ci informa che la povertà assoluta coinvolge più di 1 milione e mezzo di famiglie, in cui vivono circa 5 milioni di persone. Come mai, a fronte di queste cifre, le domande finora presentate sono solo 800 mila e quelle accolte sono meno di 500 mila?
Una prima ragione è sicuramente il fatto che circa 1 povero su 3 non è cittadino italiano, e la legge pone condizioni di accesso piuttosto severe agli stranieri. Una seconda ragione è che la misura è appena partita, ed è possibile che una parte degli aventi diritto abbia deciso di fare domanda in un secondo tempo (ma perché? non è chiarissimo). Una terza ragione potrebbe essere che il numero di poveri effettivo sia sensibilmente minore di quello stimato dall’Istat, soprattutto a causa del lavoro nero. Dal momento che la legge prevede il carcere per chi usufruisce del reddito e lavora in nero, non si può escludere che molti disoccupati che lavorano in nero, prima di fare domanda attendano di capire se ci saranno controlli o se, come è assai più probabile, i controlli saranno così pochi da rendere trascurabile il rischio di essere scoperti.
Quel che si può dire fin d’ora, però, è che questa partenza lenta e un po’ contrastata del sussidio targato Cinque Stelle potrebbe produrre qualche conseguenza non prevista, sia in ambito economico sia in ambito elettorale.
Sul piano economico, il fatto che il numero di domande accolte possa essere sensibilmente inferiore al previsto potrebbe dare un po’ di sollievo ai conti pubblici, ridimensionando le preoccupazioni (e le critiche) delle opposizioni.
Sul piano politico, il fatto che, prima delle Europee, la platea dei beneficiari effettivi possa risultare molto più ristretta di quanto si pensava, e che molti si siano vista respingere la domanda, potrebbe rendere il risultato elettorale dei Cinque Stelle particolarmente deludente, o addirittura trasformare l’arma del “reddito di cittadinanza” in un boomerang elettorale.
Ma la conseguenza più importante potrebbe essere di tipo sociale. Se fossero numerosi i casi in cui il reddito di cittadinanza viene percepito ma non è dovuto, e inoltre non risultasse possibile occultarli, l’introduzione di questa misura, pensata in chiave essenzialmente solidaristica, potrebbe avere conseguenze paradossali. Anziché rafforzare la coesione sociale, il sussidio potrebbe attivare sentimenti di frustrazione e di invidia sociale, l’esatto contrario di quanto si propone. Chi campa con un reddito modesto, e osserva il vicino che lavora in nero, difficilmente potrà sopportare che quest’ultimo lo cumuli con il reddito di cittadinanza.
Possiamo pensare, naturalmente, che i casi in cui si accede al reddito in base a false autocertificazioni saranno pochissimi, e che la maggior parte degli italiani facciano dichiarazioni veritiere. Purtroppo nelle occasioni in cui sono stati fatti controlli a campione (penso, in particolare, alle autocertificazioni per le tasse universitarie e i ticket ospedalieri) il verdetto è stato un altro: le false dichiarazioni non sono mai risultate una piccola percentuale, e in diversi casi hanno coinvolto da un terzo alla metà dei casi. E questo per l’ottimo motivo che i controlli sono così rari, e le sanzioni così raramente irrogate, che i cittadini sanno perfettamente di non correre alcun reale pericolo dichiarando il falso, o stiracchiando a proprio vantaggio la verità.
C’è solo da sperare che, con un governo che si proclama “del cambiamento”, questa volta le cose vadano diversamente.

Articolo pubblicato su Il Messaggero