La Terza Società

Quando si parla del sistema sociale e delle sue divisioni si fa per lo più riferimento a due tipi di fratture sociali fondamentali.

La prima è quella dei livelli di reddito, che permette di suddividere la popolazione in strati più o meno numerosi, dai poveri assoluti fino all’élite dei super-ricchi, passando per la vasta area dei ceti medi. E’ in questo filone che si collocano le indagini campionarie sui bilanci familiari, come quelle dell’Istat e della Banca d’Italia.

Il secondo tipo di frattura riguarda i rapporti sociali, e conduce a suddividere la popolazione in grandi classi sociali. Un filone che nel mondo anglosassone deve molto agli studi di Golthorpe, e che in Italia era stato inaugurato da Sylos Labini, con il suo famoso Saggio sulle classi sociali.

Oggi entrambi gli approcci precedenti mostrano limiti piuttosto severi. L’approccio in termini di livelli di reddito, inevitabilmente condotto a partire dalle condizioni economiche della famiglia, finisce per cancellare le differenze, storicamente sempre più importanti, fra percettori di reddito e membri mantenuti o sussidiati. L’approccio in termini di grandi classi sociali, a sua volta, deve fare i conti con lo svuotamento tendenziale delle grandi classi sociali del passato, come la classe operaia e i contadini.

Ma la difficoltà fondamentale di un’analisi attuale delle divisioni sociali sta nel fatto che oggi nel luogo centrale che genera le differenze sociali, ossia il mercato del lavoro, opera ormai una minoranza della popolazione (circa 25 milioni di persone su 60, nel caso italiano), minoranza al cui interno i capifamiglia che lavorano costituiscono, a loro volta, una ancor più esigua minoranza (circa 12 milioni di persone su 60).

Il fenomeno centrale del nostro tempo, almeno in un paese come l’Italia, è la formazione di un segmento sociale che, pur facendo parte della popolazione potenzialmente attiva (in quanto disponibile a lavorare) vive nondimeno una condizione di grave e radicale esclusione dal circuito del lavoro regolare. In un precedente Rapporto della Fondazione David Hume abbiamo denominato questo segmento “Terza società”, in contrapposizione alla “Prima società” (la società dei garantiti) e alla “Seconda società” (o società del rischio” (Vedi FDH 2005, Ricolfi 2007).

In questo Dossier approfondiamo l’analisi di questo segmento di esclusi, o outsider, da tre prospettive:

  1. la sua evoluzione nel tempo;
  2. la sua ampiezza in Italia, in confronto ad altri paesi avanzati;
  3. il suo orientamento politico.

Per ricostruire gli orientamenti politici dei membri della Terza Società abbiamo commissionato un’apposita indagine demoscopica alla Società Ipsos.

Terza società




Italia disoccupata (ma i Robot non c’entrano)

Sono passati ormai 10 anni dallo scoppio della crisi dei mutui subprime (agosto 2007), e anche se alcuni ottimisti intravedono una luce alla fine del tunnel, non è affatto chiaro se le economie avanzate (i 35 paesi Ocse) ne siano davvero fuori. Ma soprattutto, anche ammesso che ne siano uscite, non è chiaro come, ovvero in quali condizioni e con quali futuri meccanismi di funzionamento.

Il fatto che molte economie, specie in Europa, siano ancora alle prese con stagnazione e disoccupazione, sta alimentando un grande sospetto nelle opinioni pubbliche: e se l’era della crescita fosse finita per sempre? Ma soprattutto: e se a tramontare per sempre fosse la civiltà del lavoro? Detto ancora più crudamente: e se in un futuro non troppo remoto il lavoro diventasse il privilegio (o la condanna) di una minoranza?

Il timore che i posti di lavoro non solo scarseggino oggi, ma siano destinati ad essere pochi per sempre si sta insinuando sempre più nelle menti di molti cittadini. Quando leggiamo che decine di lavori saranno automatizzati tramite il software e i robot, quando veniamo informati che già esistono stalle senza addetti (un robot si occupa di tutto, compresi i bisogni psicologici delle mucche), quando ci viene spiegato che persino il destino dei dentisti è segnato perché già oggi esistono robot-dentisti, quando ci si annuncia l’imminente ingresso sulle strade delle auto senza conducente (a quando la proibizione di guidare personalmente un’automobile?), quando constatiamo che in mille situazioni a risponderci sono nastri registrati, e che per dire la nostra tutto quel che possiamo fare è inviare una mail a un inaccessibile “sistema”, quando ci accorgiamo di tutto questo diventa difficile restare impassibili.

E infatti c’è anche chi, lungi dal restare impassibile, l’eventualità della scomparsa del lavoro umano la dà per scontata, anzi la cavalca. Vi siete mai chiesti perché, per la prima volta anche in Italia, si parla insistentemente di reddito di cittadinanza? O perché tutti i partiti abbiano qualche proposta, più o meno sensata, più o meno radicale, per dare un reddito anche a chi non lavora?

La realtà è che quasi tutti temiamo che, nei prossimi decenni, non solo non andremo verso la società della “piena occupazione” sognata da Keynes e dai suoi seguaci, ma rischiamo di non rivedere mai più neppure il regime di “quasi-piena occupazione” in cui siamo vissuti per circa mezzo secolo, ovvero dalla fine degli anni Cinquanta allo scoppio della crisi.

Certo, l’incubo-utopia di una società in cui nessuno lavora è ancora molto lontano, se non altro perché non sono pochi i lavori che è estremamente difficile automatizzare pienamente, come i lavori connessi all’edilizia, alla sanità, alla ristorazione, diversi servizi alla persona, l’amministrazione della giustizia, l’ordine pubblico, la difesa, la gestione delle catastrofi e delle emergenze, la ricerca. E tuttavia lo scenario di una drastica riduzione dei posti di lavoro, a un livello largamente al di sotto dell’attuale, è tutt’altro che implausibile.

Ma che cosa è realistico prevedere, sulla base dei dati e delle tendenze esistenti?

Per farci un’idea abbiamo ricostruito, con la collaborazione della Fondazione David Hume, l’andamento 2000-2015 di due variabili chiave, il tasso di occupazione e la produttività del lavoro, nelle 35 principali economie del pianeta, ovvero in tutti i paesi Ocse. E il risultato non è incoraggiante, ma nemmeno drammatico.

Non è incoraggiante perché nel 2015, ovvero a 8 anni dallo scoppio della crisi, il tasso di occupazione non è ancora tornato al livello che aveva raggiunto allora. Nello stesso tempo, però, un’analisi separata della storia economico-sociale di ciascuno dei 35 paesi avanzati mostra che i modi in cui i vari paesi hanno attraversato la crisi sono estremamente differenziati, e non tutti disastrosi.

Tanto per cominciare, esistono due paesi, la Polonia e Israele che, stando ai dati Ocse, nella crisi non sono mai veramente entrati. Non solo, ma esiste un gruppo di 6 paesi che, pur avendo accusato qualche shock (occupazionale e/o di produttività) nel 2008-2009, presentano due caratteristiche che paiono contraddire la visione catastrofista. La prima è di aver sperimentato una crescita parallela dell’occupazione e della produttività sia prima sia dopo la crisi. La seconda è di avere più o meno ampiamente superato i livelli di occupazione e produttività del 2007. Questi 6 paesi dinamici, in cui la crescita c’è ma è anche creatrice di posti di lavoro, sono la Slovacchia, l’Estonia, il Cile, la Repubblica Ceca, la Corea del Sud e la Germania. E’ interessante notare che in questo gruppo di paesi che paiono, per così dire, dotati di un futuro di lavoro, rientra un solo paese occidentale classico, la Germania.

Se lasciamo da parte questi otto paesi (che non sono entrati nella crisi o l’hanno brillantemente superata), il quadro si fa decisamente più preoccupante, per non dire cupo. Sono ben 18 i paesi Ocse che nel 2015 non avevano recuperato il livello di occupazione del 2007 (fra essi i 4 Pigs mediterranei, compresa l’Italia, ma anche l’Irlanda, la Francia, gli Stati Uniti). E fra questi 18 paesi ve ne sono quattro che, oltre a non avere recuperato i livelli di occupazione pre-crisi, registrano una riduzione della produttività del lavoro. Sono questi, probabilmente, i paesi nei quasi uno scenario di definitivo smantellamento della civiltà del lavoro è più probabile. Distruggere posti di lavoro, infatti, può avere un senso (ancorché doloroso) solo a condizione che il ridimensionamento dell’occupazione preluda a un rilancio della produttività e della competitività, e consenta così a un paese di tornare su un sentiero di aumento della prosperità.

Ma quali sono i quattro paesi che, almeno a giudicare dalle tendenze attuali, paiono destinati a un futuro di progressivo smantellamento della civiltà del lavoro?

La Grecia, naturalmente. Inaspettatamente, anche la Norvegia e la Finlandia, tuttora intrappolate nelle secche della crisi, ma caratterizzate da livelli di occupazione e produttività ancora molto alti, ereditati dagli anni della crescita. E poi, ahimè, l’Italia. Il nostro tasso di occupazione resta tuttora al di sotto del livello, già bassissimo, del 2007, e peggio ancora vanno le cose per la produttività: il Pil per occupato, anch’esso già bassissimo nel 2007, non mostra alcuna tendenza a risollevarsi.

A quanto pare, dalle nostre parti il futuro è già cominciato.

Pubblicato su Panorama il 13 aprile 2017