DIRITTO, DIRITTI, OMOFOBIA

L’istituzione del reato di “omofobia” inaugurerà una fase assolutamente inedita della storia del Diritto in Italia. Non solo perché introduce nel Codice Penale un nuovo reato, e un reato che riguarda una dimensione sensibile e nevralgica della vita individuale e sociale, ma anche perché introduce un criterio assolutamente nuovo di codificazione penale. Riflettiamo sul termine “omofobia”. L’espressione fa parte del lessico clinico-psicologico e, più propriamente, psicoanalitico. Il variegatissimo mondo delle fobie viene ricondotto a dinamiche intrapsichiche inconsce e a processi simbolici, a loro volta inconsci, che proiettano sulla situazione o sull’oggetto fobici profonde angosce persecutorie o evacuative, relative ad un oggetto interno temuto e demonizzato, oppure a parti del Sé, rifiutate dall’Io e proiettate sull’oggetto fobico. Il reato di omofobia ( che viene ampliato, nel progetto di legge, nella dizione “omotransfobia”) intende colpire, e scoraggiare, comportamenti verbali, fisici e sociali di aggressione e discriminazione nei confronti di omo e transessuali. In questo senso stigmatizzare l’omofobia non è diverso dallo stigmatizzare l’antisemitismo o il razzismo. C’è però di diverso che il termine omofobia, in quanto acquisito dal linguaggio giuridico, rende tale linguaggio tributario nei confronti della psicologia clinica e quindi, implicitamente, avalla e apre la strada, potenzialmente, ad una ibridazione tra normative giudiziarie e categorie cliniche. E’ pur vero che nessuna legislazione penale è esclusivamente tecnico-giuridica, essendo il Diritto una disciplina non separata né autosufficiente. Il Diritto penale contiene infatti impliciti rimandi a valori di provenienza etico-filosofica o addirittura religiosa. Di nuovo c’è che il reato di omofobia è una costruzione che coniuga ufficialmente ed esplicitamente, in modo potenzialmente confusivo, logica giuridica e psicopatologia. Va da sé, lo ripetiamo,  che l’intenzione del legislatore è appunto di proteggere omosessuali e transessuali da comportamenti lesivi nei loro confronti. In questo senso il legislatore si pone in un’ottica di difesa, rispetto e salvaguardia delle minoranze. Il problema però è che non è chiaro, ed è questo che è davvero preoccupante, fino a dove si spinga la portata applicativa, dal punto di vista oggettivo, della nuova normativa proposta, e quindi quali possano essere concretamente le condotte meritevoli di sanzione penale. Ad esempio l’espressione di opinioni psicologiche, cliniche e culturali sul tema dell’omosessualità e della omogenitorialità può configurare, e quando e in che modo, una fattispecie penalmente rilevante ai fini dell’applicazione della suddetta normativa? Qual è il confine tra l’offesa e l’espressione di un’opinione, di per sé non offensiva, ma che possa essere considerata lesiva dei diritti delle minoranze?

Faccio un esempio molto concreto: esprimere l’opinione, magari da parte di uno psicologo clinico, che i bambini hanno bisogno di una mamma e di un papà, e  quindi di una coppia genitoriale eterosessuale, può essere considerato lesivo ed espressione di omofobia? Il progetto di legge, dichiarano i suoi estensori, non intende reprimere la libertà di opinione. Sta di fatto, però, che un noto psicoanalista milanese, che, nel corso di un dibattito in TV, fece proprio quella dichiarazione, è stato “denunciato” all’Ordine degli Psicologi con l’accusa di omofobia e, persino, di incompetenza professionale e mancato aggiornamento scientifico. L’Ordine ha avviato una lunga procedura di accertamento, alla fine della quale il collega è stato prosciolto. E’ evidente come la felice, per quanto tribolata, conclusione della vicenda non può non indurre, soprattutto gli psicologi clinici, ad una grande cautela quando si tratta di esprimere opinioni su di un terreno così insidioso. E l’istituzione di un reato di omofobia, pur con tutte le rassicurazioni degli estensori, avrebbe l’effetto di indurre cautele ancor più timorose. Certo, agli intellettuali, agli uomini di cultura e di accademia, agli psicoanalisti dovremmo tutti chiedere la libertà di pensiero e il coraggio intellettuale di esprimerlo anche pubblicamente. Non è però facile sfidare la disapprovazione dell’establishment e l’emarginazione, proprio quella emarginazione da cui si vuole proteggere il mondo omosessuale.

Sta di fatto  che, nei nostri ambienti, è facile constatare l’adesione, spesso acritica, a opinioni e tesi conformi a quelle sostenute da LGBT e da quanti le avallano e fanno proprie. Faccio un esempio al riguardo. E’ diventato senso comune ritenere e dichiarare, anche da parte di colleghi, che le ricerche comproverebbero che i figli delle cosiddette “famiglie arcobaleno” non subirebbero “danno” dalla loro particolare condizione di filiazione e di vita.  In realtà ci sono anche ricerche che, invece, comproverebbero tale “danno”. Il fatto è che non sono quasi mai citate in letteratura dove invece abbondano citazioni e fonti che negano il danno.

La faccenda dell’ipotetico “danno” è palesemente centrale e decisiva. A differenza di altri “diritti” dell’individuo, la cui affermazione è di per sé un postulato incontestabile (e tra questi diritti, non dimentichiamolo, c’è il diritto alla libertà di opinione), il “diritto alla genitorialità” deve essere invece sottoposto al vaglio, nel caso tale diritto venisse estrinsecato, dell’assenza di danno a terzi. La cultura della post-modernità sembra, infatti aver generato una nuova filosofia del diritto, che si basa su di una concezione soggettivistica del diritto stesso, inteso come garante del soddisfacimento dei bisogni dell’individuo nel qui e ora della loro esigibiltà. In questa logica il movimento omosessuale parla di “diritto alla genitorialità” sostanzialmente per chiunque e comunque. Ho segnalato altrove come una simile concezione nasca da una operazione di concettualizzazione in cui il “desiderio” è assunto come “bisogno” incontestabile e quindi come “diritto” da garantire. In relazione alla rivendicazione della cosiddetta “omogenitorialità” si pone però il problema, appunto, del possibile danno a terzi. In questo caso per i figli nati dalle varie forme di genitorialità assistita o surrogata che la scienza medica è in grado di offrire. Ecco perché screditare o ignorare ricerche che segnalino il “danno” diventa per alcuni una inderogabile necessità “scientifica” e politica.

Non entro qui nel merito di chi possa avere ragione. Dichiaro però che tutte le opinioni, specie se suffragate da riscontri ( della cui serietà e oggettività si può comunque sempre discutere) hanno diritto ad una uguale visibilità e ad un uguale beneficio del dubbio.

Un altro esempio. Amazon, su pressione di LGBT, ha ritirato dal commercio i libri di J. Nicolosi, noto per aver sostenuto la possibilità di una terapia “riparativa” dell’omosessualità. E’ una tesi discutibile e infatti è stata ed è contestata. Ma destinare al macero, con solerte zelo, i libri per le teorie che vi sono espresse assomiglia molto ai roghi dei libri proibiti di infausta memoria.

Visto poi che in questo mio intervento si parla di Diritto e di diritti, voglio ricordare quelle che sono tuttora le posizioni espresse dalla legge italiana sulla questione omogenitoriale. Ricordo che in Italia la cosiddetta “maternità surrogata” o “gestazione per altri” (GPA) è tuttora vietata (Legge n ° 40/2004), come peraltro la stessa fecondazione eterologa, che viene  negata alle coppie dello stesso sesso, oltrechè a quelle composte da soggetti non coniugati e non conviventi. In tale ambito, tra l’altro, la Corte Costituzionale, nella sentenza n 272/20017, è arrivata ad affermare che la surrogazione di maternità “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Sulla questione la discussione rimane aperta e l’azione sociale delle associazioni  LGBT e dei gruppi omogenitoriali è incessantemente volta a sollecitare prese di posizione e iniziative istituzionali (da parte di sindaci, soprattutto, o di rappresentanti del mondo della magistratura) volte a riconoscere e regolarizzare situazioni di omogenitorialità.

E’ altrettanto incessante lo sforzo di riqualificare agli occhi dell’opinione pubblica le pratiche dirette a conseguire  la genitorialità attraverso supporti esterni ( donazione di sperma e gestazione per altri). Tali pratiche vengono presentate all’opinione pubblica come manifestazioni di solidarietà umana, per cui i donatori di sperma sarebbero appunti dei “donatori” e le donne che offrono l’utero ne farebbero a loro volta “dono”. L’aspetto di mercato e compravendita viene così lasciato in ombra e il tutto risulta ammantato dentro un’aureola di generosa donatività. E’ una vera e propria retorica  del dono, che si aggiunge a quella retorica dell’amore, che riconduce e riduce l’esperienza della genitorialità a una questione soprattutto di amore. Assistiamo dunque, anche in questo caso, ad una riorganizzazione semantica del linguaggio e del senso comune, che va di pari passo con le trasformazioni del costume.

Naturalmente comprendiamo, e con rispetto, sentimenti, desideri, aspirazioni, che animano il mondo dell’omosessualità e dell’omogenitorialità, ma non possiamo non ricordare che l’amore è un sentimento profondamente ambivalente, e che, specie nel rapporto dei genitori con i figli, di amore ce ne può essere anche troppo e non solo troppo poco. E comunque non possiamo non ricordare che, come recita un vecchio libro di psicoanalisi, “l’amore non basta”.

BIBLIOGRAFIA

Bergamaschi L, (a cura di), Omosessualità, perversione, attacchi di panico. Il contributo di Franco De masi, Franco Angeli, MI, 2007

Bettelheim B, L’amore non basta, Ferro ed, MI, 1981

Corsa R, Oltre il limite. Mutazioni somatopsichiche nelle protesi e nei trapianti, Alpes, Roma 2015

Canzi E. Omogenitorialità, filiazione e dintorni. Una analisi critica delle ricerche, Vita e Pensiero, MI, 2019

Fornari F, I sogni delle madri in gravidanza. Le strutture affettive del Codice Materno, Unicopli, MI, 1979

Giacobbi S, Omogenitorialità. Ideologie, pratiche, interrogativi, Mimesis, MI, 2019

Jonas H, Il principio di responsabilità.Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, TO, 1979

Lingiardi V, La famiglia “inconcepibile”, in “Infanzia e Adolescenza, n 12 (2), 2013

Marion P, Il disagio del desiderio. Sessualità e procreazione nel tempo delle biotecnologie, Donzelli, Roma, 2017

Scotto Di Fasano D, Pensare l’impensabile: forme attuallità della genitorialità in “Rivista di psicoanalisi”, n LVII (1), 2011

Sentenza della Corte Costituzionale n° 272/2017

Vessella S, Sulla maternità surrogata, in “La Stampa” 11/04/2017




Il diritto alla paura – In margine al caso Bruck

Hanno suscitato un certo scalpore le recenti parole di Edith Bruck, scrittrice ebrea progressista, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Dachau. In due distinte interviste, una rilasciata all’agenzia “LaPresse” (3 novembre), l’altra al Corriere della Sera (5 novembre), la scrittrice e poetessa confessa che, dopo il massacro dei bambini israeliani perpetrato da Hamas, ha cambiato idea sull’immigrazione, le politiche si accoglienza, l’antisemitismo arabo e palestinese.

E lo spiega con frasi molto chiare ed esplicite, sia sulla situazione in Francia, sia su quel che accade in Italia. Sulla Francia dice: “stiamo accogliendo i nostri stessi nemici in casa. Ma vediamo che cosa è accaduto in Francia? Quasi otto milioni di immigrati e sono loro i più antisemiti di tutti”. Quanto all’Italia: “Per anni abbiamo accolto tutti coloro che arrivavano dal mare. Io stesso dicevo: poveretti, dobbiamo aiutarli. Ma adesso è molto diverso”. E poi: “Io non avevo alcun pregiudizio, ho sempre difeso i più deboli (…). Però ora tutto è cambiato. Io stessa sono cambiata. Sì, sono cambiata. Quelle atroci immagini delle teste di bambini decapitati usate per giocare a calcio sono le stesse di Auschwitz. E ora, in mezzo a chi arriva, è facile immaginare che ci siano terroristi, militanti antisemiti. Davvero non so come si possa fare, difficile selezionare chi arriva. Ma far entrare tutti, ora, è assurdo”.

Le interviste contengono anche altri passaggi assai duri, contro “certa sinistra” cieca di fronte al terrorismo di Hamas, o contro la scelta di boicottare Lucca Comics a causa del patrocinio di Israele. E prospettano pure una sorta di rivalutazione di Salvini e Meloni. Cito testualmente: “Noi prima ce l’avevamo con loro due per come la pensavano sull’immigrazione. Oggi per me non è più così”.

Le parole di Edith Bruck sono importanti. Anzi, direi che sono cruciali, perché ci costringono a riflettere a fondo su concetti come razzismo, xenofobia, islamofobia. Il pensiero dominante sui media (e fra le élite) è che si tratti di atteggiamenti di ostilità, talora di odio, verso determinati gruppi o etnie, e che tali atteggiamenti siano basati su ignoranza, pregiudizi, false credenze. Di qui la necessità, anzi l’imperativo categorico, di correggere, istruire, rieducare a una corretta percezione della realtà.

Ma qualcuno può pensare di dover rieducare Edith Bruck? Qualcuno può pensare che le sue riserve sulle politiche di accoglienza, o sul potenziale antisemita degli immigrati musulmani, siano frutto di pregiudizi razziali?

No, credo che Edith Bruck sia stata semplicemente sincera. E che sia venuto il momento di riconoscere qual è il meccanismo che, spesso, fa scattare la diffidenza verso determinati gruppi e, simmetricamente, qual è il meccanismo che la disattiva. Ebbene il meccanismo-base è l’esposizione differenziale al rischio. Ci sono gruppi sociali più esposti al rischio di interazioni sociali pericolose, e gruppi sociali meno esposti. È questo che differenzia i “ceti medi riflessivi” dai ceti popolari. È questo che, nelle grandi città, distingue chi vive nella Ztl da chi abita nelle periferie. Non è perché sono rozzi e incolti che i ceti popolari sono più inclini dei ceti alti a diffidare degli immigrati, ma semplicemente perché – per i luoghi in cui vivono, e per gli strumenti di autodifesa di cui (non) dispongono – sono più soggetti a vari tipi di rischio: aggressioni, furti, rapine, ma anche concorrenza sul mercato del lavoro e nell’accesso al welfare. Simmetricamente, non è perché sono dotati di una superiore moralità che i ceti privilegiati sono aperti e tolleranti, ma perché corrono obiettivamente meno rischi, e talora riescono pure a usare le loro doti civiche come simboli di status (un meccanismo che ha condotto lo psicologo Rob Henderson a coniare l’espressione luxury beliefs, convinzioni di lusso).

Il caso della Bruck illustra in modo perfetto il meccanismo: per l’élite culturale l’apertura è un comodo segno di distinzione e di superiorità morale fino a quando non si corre il rischio di diventare bersagli, ma diventa improvvisamente una postura irrazionale allorché ci si rende conto di essere personalmente vulnerabili, in questo caso in quanto ebrei.

Di qui una semplice lezione. Quel che viene sbrigativamente etichettato come razzismo, xenofobia, islamofobia, talora è effettivamente odio e disprezzo immotivato per determinati gruppi o minoranze, ma non di rado è semplicemente paura, timore, preoccupazione, avversione al rischio. Fra i tanti diritti che ci piace esaltare e tutelare, forse dovremmo includere anche il diritto a provare paura. Un sentimento che troppo spesso rimproveriamo agli altri, salvo riscoprirne la legittimità quando, improvvisamente, irrompe nella nostra vita.

P.S. Nei giorni scorsi Edith Bruck ha sentito il bisogno di ritrattare le affermazioni rilasciate nelle due interviste, accusando il “Corriere della Sera” di aver omesso un punto interrogativo, e la stampa in generale di “estrapolare e fraintendere”. Forse avrebbe fatto meglio a rivendicare la propria sincerità, magari rievocando quella famosa, indimenticabile, vignetta di Altan, in cui il vecchio operaio rivela: “alle volte mi vengono in testa idee che non condivido”.




L’incertezza del diritto

È di ieri la notizia che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto un’indagine conoscitiva (non un’ispezione, né un procedimento disciplinare) sulla vicenda della magistrata Iolanda Apostolico, da qualche tempo nell’occhio del ciclone per due motivi distinti, anche se collegati. Primo: avere ripetutamente disapplicato il decreto Cutro, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel CPR di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Secondo: avere in passato (nel 2018) partecipato a manifestazioni anti-governative e pro-migranti.

La decisione della magistrata è stata contestata dal Governo in quanto fondata, tra l’altro, sulla tesi che la Tunisia non sia un “paese sicuro”, valutazione che, sempre secondo il governo, non spetterebbe al singolo magistrato ma ad organi istituzionali, quali il governo stesso, che fin dal 2008 aveva incluso la Tunisia fra i paesi sicuri (confermando nel marzo scorso la medesima lista di 16 paesi, fra cui la Tunisia). Contro la magistrata è stato anche sollevato il dubbio di parzialità, o scarsa indipendenza di giudizio, stante il suo (documentato) impegno pubblico contro la politica dei “porti chiusi” di Salvini.

L’esecutivo impugnerà il provvedimento della Apostolico, e la Cassazione deciderà chi ha ragione. Fine della storia?

Direi proprio di no. La vicenda Apostolico, infatti, ci consegna un problema grande come una casa, quale che sia la decisione finale della Cassazione: il problema dell’incertezza delle norme. Quel che è interessante dell’affaire Apostolico, infatti, non è che cosa deciderà la Corte, ma il fatto che – almeno per chi non è accecato dalle sue convinzioni politiche – non è affatto evidente né che Apostolico abbia ragione, né che abbia torto. Ci troviamo, in altre parole, in una situazione di incertezza intrinseca. In una situazione, cioè, nella quale la normale, ordinaria, spesso inevitabile, necessità di interpretare le norme, assume un carattere abnorme, patologico, per non dire perverso.

In un recente dibattito, proprio a proposito del caso Apostolico, Luciano Violante, magistrato e parlamentare di lungo corso, ci ha ricordato il perché: il fatto è che, rispetto a 20-30 anni fa, i margini di discrezionalità del magistrato nell’interpretazione della legge si sono enormemente allargati. E questo è avvenuto non solo per la sovrapposizione fra norme di livello differente (internazionale, europeo, nazionale), ma anche per la crescente dipendenza delle sentenze dall’evoluzione del costume e dalla specifica sensibilità del singolo giudice. Esemplare, in questo senso, il recentissimo ribaltamento, in appello, della sentenza che aveva condannato il sindaco Mimmo Lucano a 13 anni di carcere per reati gravissimi, tutti (tranne uno) evaporati nel secondo grado di giudizio.

È naturale che il comune cittadino ne sia sconcertato: come è possibile che i medesimi fatti siano valutati così diversamente da due giudici? come possiamo avere fiducia nella magistratura se, in tante circostanze, constatiamo che l’assoluzione o la condanna dipendono da “che giudice ti capita”? come difendersi dalle sentenze “creative”, in cui un giudice guarda una vicenda dall’angolo visuale delle sue convinzioni personali e delle sue idiosincrasie?

Sono domande cui non è facile dare una risposta costruttiva e praticabile, se non altro perché i responsabili di questo stato di anomia normativa (mi si permetta l’ossimoro), sono almeno tre. Il legislatore, incapace di frenare l’impulso a moltiplicare le leggi, né a badare alla loro coerenza e applicabilità. La lobby dei magistrati, che ha sempre vittoriosamente difeso la sostanziale irresponsabilità dei giudici per i loro errori e i loro arbitrii. I singoli magistrati, troppe volte incapaci di mettere tra parentesi le proprie convinzioni personali.

Abbiamo tanto discusso, a proposito del libro del generale Vannacci, della opportunità, per certe categorie (militari, poliziotti, magistrati), di rinunciare alla manifestazione pubblica del loro pensiero a causa del potere esorbitante di cui sono dotati. Ma, forse, non abbiamo abbastanza riflettuto sul fatto che, in fatto di potere, sono i magistrati che dispongono del potere più pericoloso, e malamente esercitato: quello di dare e togliere la libertà.