Togliere le tasse ai ricchi

Ha creato molta sorpresa, e persino un po’ di sconcerto, la prima uscita politica di Pietro Grasso come leader di Liberi e Uguali (Leu): “aboliamo le tasse universitarie!”. Gli è stato subito obiettato: ma come, vi presentate come un partito di sinistra dura e pura, e poi la prima idea che ci proponete è di azzerare le tasse universitarie, che già sono molto basse (meno del 20% del costo totale dell’università), e attualmente pesano solo sui ceti medi e alti, non su quelli popolari? che cosa vi è venuto in mente?

La risposta che Grasso e altri esponenti di Liberi e Uguali hanno provato a fornire a questa osservazione di puro buon senso è stata debolissima: l’università è come la sanità, deve essere garantita a tutti in nome del diritto allo studio e del principio per cui il welfare ha da essere universale, ovvero gratis per tutti. Una risposta che dimentica due fatti cruciali: primo, che della sanità, a differenza dell’istruzione universitaria, usufruiscono effettivamente tutti (nessuno nasce invulnerabile); secondo, che nemmeno la sanità, portata ad esempio di welfare universale, è completamente gratuita (ticket, farmaci non mutuabili, ecc.) e, grazie al sistema delle esenzioni, pesa più sui ricchi che sui poveri, proprio come l’università.

Io invece non sono stupito affatto. Trovo naturale che un partito faccia promesse alla propria base elettorale e non a quella degli altri partiti. E la base elettorale della sinistra radicale, da molti anni, è costituita dai ceti medio-alti, in particolare dai laureati: nessun segmento elettorale ha, nel suo elettorato, una percentuale così alta di laureati quanto l’estrema sinistra. I ceti popolari guardano a destra e al Movimento cinque stelle, mentre la sinistra, radicale e non, ormai da decenni raccoglie soprattutto il voto dei ceti medi: è anche per questo che è in crisi di identità.

Dunque nessuna sorpresa: Leu ha fatto una promessa alla propria base elettorale, che non è costituita da chi l’università non può permettersela, bensì da chi l’università la frequenta e, comprensibilmente, preferirebbe pagare niente piuttosto che il poco che è tenuto a pagare oggi. Detto questo, ovvero che ogni partito è istintivamente portato a proporre cose che piacciono alla sua base, vorrei provare, visto che all’università lavoro da decenni, a dire quello che a me pare la situazione reale.

Il primo dato di cui occorrerebbe prendere atto è che, ancora oggi, la maggior parte dei giovani non solo non si laurea, ma non arriva nemmeno a tentare l’avventura universitaria. Quelli che ci provano, circa il 45% dei giovani, sono costituiti in massima parte da appartenenti a ceti medio-alti ma, fortunatamente, esiste anche una frazione che proviene dai ceti popolari. Questa frazione, circa 1 studente su 3, non ha il problema delle tasse universitarie, per la semplice ragione che le norme attuali (ulteriormente perfezionate da un recente provvedimento del governo), già la esonerano completamente dal loro pagamento. Le tasse universitarie, quasi sempre assai modeste, pesano solo su una minoranza della minoranza: ovvero su quanti non solo hanno il privilegio di accedere all’università, ma hanno l’ulteriore privilegio di avere una famiglia che guadagna abbastanza da potersi permettere di pagare le tasse. Azzerare completamente le tasse universitarie significa fare un regalo a questa robusta minoranza di privilegiati: circa 2 studenti universitari su 3, il che significa 1 giovane su 3, visto che all’università accede meno della metà dei giovani.

Ma questo è solo l’inizio. Vediamo che cosa succede dopo l’iscrizione all’università. Una parte degli studenti, quelli provenienti da famiglie agiate o di ceto medio, è perfettamente in grado di conseguire una laurea nei tempi giusti, solo che si impegni nello studio. Se non lo fa è perché proprio l’esistenza di tasse universitarie di importo trascurabile, nonché di famiglie estremamente indulgenti, consente un prolungamento indefinito degli studi, spesso ben al di là dei 25 anni di età, talora oltre i 30. Tasse più alte sulle famiglie benestanti farebbero certamente diminuire i casi di “permanenza opportunistica” all’università (eufemismo per non parlare di bamboccioni), mentre il loro azzeramento creerebbe un ulteriore incentivo ad allungare la durata degli studi.

Completamente diversa è la situazione delle famiglie più umili. Qui il problema non sono certo le tasse, visto che chi ha bassi redditi ne è esente, ma l’esiguità delle borse di studio per i capaci e meritevoli. Le borse concesse, in quasi tutte le regioni italiane, sono molte di meno del numero di aventi diritto, e quando vengono erogate sono di importo così basso da non risolvere il problema vero dei ceti popolari, che non sono le (inesistenti) tasse, bensì i mancati guadagni durante gli anni di studio. Un ragazzo di origini sociali modeste è spesso costretto a lavorare per mantenersi agli studi, ma proprio per questo non riesce a laurearsi nei tempi giusti, e va così a ingrossare l’esercito dei fuori corso, già abbastanza folto per conto proprio grazie ai figli di papà.

A questi problemi di equità economica, si aggiunge poi un’ulteriore fonte di diseguaglianza: l’abbassamento degli standard, un argomento su cui molti docenti universitari hanno assunto un (comprensibile) atteggiamento autodifensivo, al limite del negazionismo, ma che indubbiamente esiste da decenni. Ebbene, molti indizi lasciano pensare che l’abbassamento degli standard di qualità abbia danneggiato soprattutto i ceti popolari, se non altro perché, per loro, un’istruzione di qualità è l’unica vera carta da giocare, mentre i ceti medio-alti ne hanno molte altre, dal patrimonio familiare alla rete di relazioni e di conoscenze, con cui possono prima pagare gli studi dei figli all’estero, e poi, se non basta, piazzarli da qualche parte in patria, non importa se geniali o asini.

Che nessun partito, nemmeno quelli che delle istanze popolari provano a farsi carico, prenda veramente sul serio il dramma dei ceti subordinati, vittime di un sistema dell’istruzione in palese contrasto con l’articolo 34 della Costituzione (quello che assicura ai capaci e meritevoli il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”), è cosa che rattrista. Che a proporre di togliere le tasse universitarie anche ai ceti superiori sia il partito che più si proclama di sinistra fa invece parte delle stranezze di questo appuntamento elettorale, oltreché della deriva conservatrice, qualche volta reazionaria, di una parte della (sedicente) cultura progressista. Dopo la pioggia di promesse belle e impossibili (ce ne occuperemo nei prossimi articoli), non poteva mancare una promessa brutta e possibilissima: togliere le tasse anche ai ricchi, ci assicura Grasso, costerebbe “solo 1.6 miliardi”.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 20 gennaio 2018



Il compleanno della Costituzione: le promesse tradite

La Costituzione italiana sta per compiere 70 anni. Li compirà esattamente il 22 dicembre, anniversario del 22 dicembre 1947, quando la Carta fondamentale fu approvata dall’Assemblea Costituente. Settanta anni non sono pochi, nella vita delle persone non meno come in quella delle istituzioni. E un compleanno a cifra tonda è un’ottima occasione per tentare un bilancio.

Una parte del bilancio, quella strutturale, o puramente descrittiva, è presto fatta. La Costituzione in parte è rimasta monca (non si è mai avuto il coraggio di specificare gli articoli 39 e 49, per non limitare lo strapotere di sindacati e partiti); in parte è stata completata da interventi successivi, come quello sulla Corte Costituzionale (1953), quelli su composizione e durata di Camera e Senato (1963), quello sulle Regioni (1970); in parte, infine, è stata manomessa con più o meno successo, come quando il centro-sinistra è intervenuto sul Titolo V introducendo il federalismo (2001), o quando il centro-destra ha tentato invano di cambiare la forma di governo (2006), o ancora quando, sotto la pressione della crisi e delle autorità europee, il Parlamento ha rafforzato l’articolo 81 rendendo più rigide le norme sui conti pubblici (2012).

Più difficile, molto più difficile, è fare un bilancio valutativo. Perché un vero bilancio dovrebbe rispondere ad almeno due domande strettamente intrecciate. La prima: in questi 70 anni la Costituzione è stata tradita? La seconda: la Costituzione, così com’è diventata, è ancora all’altezza dei tempi?

Sulla prima domanda personalmente non ho molti dubbi. Comunque la si pensi sulla bontà della Carta originaria (un punto su cui gli osservatori sono divisi), è difficile occultare che almeno una decina dei 54 articoli iniziali (“Princìpi fondamentali” e “Diritti e doveri dei cittadini”) sono stati largamente ignorati e talvolta sostanzialmente traditi. Fra di essi, i più calpestati sono probabilmente quelli concernenti il lavoro (1, 4, 36) e lo studio (34).

I primi stabiliscono il diritto ad avere un lavoro (1, 4) e una retribuzione adeguata (36), nonché l’impegno della Repubblica a rendere effettivo tale diritto. Basta una breve occhiata alla traiettoria storica dei tassi di occupazione e di disoccupazione per rendersi conto che questo diritto, solennemente enunciato all’articolo 1 (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), non è mai stato garantito, e negli ultimi due decenni è stato addirittura umiliato: oggi l’Italia non solo non è in un regime di piena occupazione (come la Germania e alcuni paesi del Nord) ma ha il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.

Le cose vanno ancora peggio per quanto riguarda l’articolo 34, che nel secondo e terzo comma recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Anche questo diritto è negato e calpestato, come sa chiunque sia semplicemente “capace e meritevole”, senza essere anche povero. Oggi le pochissime borse di studio sopravvissute sono assegnate esclusivamente a coloro le cui famiglie, almeno sulla carta (attestazione Isee) versano in condizioni di disagio estremo. E uno dei drammi cui assisto all’università è che i pochi studenti davvero “capaci e meritevoli”, sono spesso costretti a lavorare per mantenersi agli studi, perché le loro famiglie sono modeste, ma non abbastanza povere da avere diritto alle limitatissime risorse disponibili. Così la concorrenza con i figli di papà diventa sleale, alla faccia dei principi egualitari e meritocratici proclamati in tanti articolo della Carta fondamentale.

Resterebbe la questione dell’attualità della Costituzione. Su questo, lo confesso, le mie sensazioni sono contrastanti. Da un lato ho molti dubbi sul fatto che il federalismo introdotto nel 2001, ma anche il regionalismo introdotto nel 1970, siano stati un progresso: il loro effetto è stato soprattutto di rendere più facile ad amministratori e politici dilapidare denaro pubblico. E ancora più dubbi ho sulla funzionalità del bicameralismo, che il referendum renziano del 2016 sciaguratamente non intendeva affatto eliminare, ma solo annacquare e imbastardire (con i senatori eletti dai consigli regionali). Dall’altro lato, però, mi assale anche un dubbio di segno opposto, e cioè che la maggior parte delle cose che non vanno, in Italia, non dipendano affatto dalla Costituzione, bensì dalla scarsa qualità degli uomini che dovrebbero rispettarla, attuarla, tradurla in norme e regolamenti: la lentezza del processo legislativo, ad esempio, dipende tantissimo dai regolamenti parlamentari e dalla irresponsabilità dei partiti, più che dal bicameralismo.

Sicché, alla fine, più che chiedermi se la Costituzione sia attuale oppure no, mi viene da farmi un’altra e più radicale domanda: e se il vero problema non fosse la Costituzione, ma fossimo noi stessi, cittadini italiani, con le nostre cattive abitudini, la nostra indifferenza, e in definitiva la nostra incapacità di sceglierci una classe politica decente?

Pubblicato su Panorama il 14 dicembre 2017