Il volto inquietante dei servizi sociali – Bimbi nel bosco

Credo siano pochi a non aver avuto notizia della vicenda dei “bambini nel bosco”: tre ragazzini (da 6 a 8 anni) separati dai genitori e accompagnati con la forza (da assistenti sociali e carabinieri) in una casa-famiglia. E credo pure che siano pochi, fra quanti hanno avuto notizia della vicenda, che non si siano fatti un’opinione, magari poco informata sui fatti, riguardo all’opportunità o meno di questa separazione.

Per mettere subito le carte in tavola, ammetto che la mia simpatia va alla famiglia nel bosco, non ai servizi sociali, ma sono pronto a ricredermi se emergessero fatti nuovi, finora sconosciuti o ignorati. Qui quello di cui vorrei parlare sono alcune questioni di principio che si pongono comunque, a prescindere dalla vicenda particolare.

L’ordinanza cautelare non è fondata sul pericolo di lesione del diritto dei minori all’istruzione, ma sul “pericolo di lesione del diritto alla vita di relazione”, lesione potenzialmente portatrice di “gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore”. Tale diritto “alla vita di relazione” si fonderebbe nientemeno che sull’articolo 2 della Costituzione. E allora leggiamolo, questo articolo 2:

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Come si vede non c’è alcun riferimento alla vita di relazione, ma si fa genericamente riferimento al fatto che i diritti inviolabili dell’uomo vanno garantiti anche “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.

Prima questione. Può un giudice, da questa formulazione ultra-generica, dedurre che la vita di relazione dei tre bambini, che si svolge in famiglia e presso le famiglie limitrofe (purché non avvezze a dare un cellulare ai loro figli), è gravemente limitata? Se un giudice può permettersi una simile interpretazione ultra-estensiva e decisamente soggettiva, allora dovremmo dedurne che un altro giudice, sempre sulla base del medesimo articolo 2 della Costituzione, potrebbe imporre a chiunque di prestare attività di volontariato o servizio sociale, in ossequio ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Insomma: non è un po’ eccessiva la libertà che i giudici si sono presi?

Seconda questione. Ammettiamo per un momento che un’educazione dei figli fondata sul rapporto con la natura e sull’evitamento dei pericoli della vita scolastica e sociale (bullismo, dipendenza, droghe, violenza) possa effettivamente produrre in futuro “gravi conseguenze psichiche ed educative”. Resterebbe da rispondere a due domande:

  • i pericoli (generici) ventilati dagli assistenti sociali sono più gravi dei pericoli da eccesso di socializzazione, da cui l’educazione naturale li protegge?
  • siamo sicuri che il trauma certo che la separazione forzata dai genitori e l’allontanamento dalla casa nel bosco producono sia meno grave dei traumi (ipotetici) evocati dagli assistenti sociali?

Non è finita. Nell’ordinanza si afferma pure che “l’assenza di agibilità e pertanto di sicurezza statica, anche sotto il profilo del rischio sismico e della prevenzione di incendi, degli impianti elettrico, idrico e termico e delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità dell’abitazione, comporta la presunzione ex lege dell’esistenza del pericolo di pregiudizio per l’integrità e l’incolumità fisica dei minori”. Non occorre andare nei campi Rom (come suggerisce Salvini), ma basta fare un giro per gli alloggi popolari delle maggiori città italiane per constatare che esattamente i medesimi rilevi, e talora pure qualche rilievo in più, si applicano a decine di migliaia di famiglie, delle cui condizioni abitative né i Comuni né i servizi sociali sembrano preoccuparsi più di tanto. E dire che molte situazioni di grave degrado e di pericolo per i minori sono arcinote e si vedono a occhio nudo.

Di qui una terza questione. In un paese in cui i magistrati amano trincerarsi dietro l’obbligatorietà dell’azione penale, e i media forniscono quotidianamente innumerevoli notizie di reato sul degrado delle periferie, come mai tanta solerzia verso i diritti di tre  “bambini nel bosco”, desocializzati ma felici, e completo disinteresse per i bambini delle periferie urbane, ultra-socializzati ma non di rado costretti a vivere in abitazioni fatiscenti?

Infine, forse la questione più importante: da dove viene tanta arroganza dei servizi sociali, da dove viene la presunzione che lo Stato abbia non solo il diritto ma il dovere di intromettersi nelle scelte educative dei genitori?

Anziché forzare il senso dell’articolo 2 della Costituzione, forse i magistrati avrebbero dovuto rispettare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948), che all’articolo 26, comma 3, recita: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.

[articolo uscito sulla la Ragione il 25 novembre 2025]




Sexting e revenge porn – Il dilemma della città vecchia

In questi giorni mi è tornato alla mente un episodio di oltre quarant’anni fa. Con i miei colleghi e colleghe sociologhe, per lo più provenienti da università del nord e del centro Italia, eravamo sbarcati in una importante città del Sud per partecipare a un convegno di sociologia. Appena arrivati in albergo, qualcuno ci avvertì: evitate la città vecchia, perché c’è il rischio di essere scippati e derubati.

Alcuni di noi, prevalentemente maschi se ricordo bene, accettarono di buon grado il consiglio e si limitarono a girare nei quartieri prossimi all’albergo, situato al di fuori della città vecchia. La maggior parte delle colleghe sociologhe, invece, non si fecero alcun problema ad avventurarsi nella città vecchia. Secondo loro non c’era alcun pericolo, era evidente che eravamo di fronte a un pregiudizio anti-meridionale, un pregiudizio che andava sfatato. Mai e poi mai avrebbero rinunciato a visitare la città vecchia e a fare shopping per uno stupido pregiudizio.

Al ritorno dal giro nella città vecchia, nessuna si presentò indenne: a tutte era stato sottratto qualcosa.

Perché questa differenza di comportamento? Dopo tutto eravamo sociologi sia noi, il gruppo dei prudenti (più maschi che femmine), sia loro, il gruppo delle audaci (più femmine che maschi).

Una risposta possibile è che ognuno ha una diversa propensione al rischio, nonché una diversa inclinazione a credere agli stereotipi negativi (l’immigrato che delinque, lo zingaro che borseggia, il meridionale sfaticato). Di fronte a un allarme, si può prenderlo sul serio o declassarlo a credenza infondata. C’è chi gli stereotipi li considera pre-giudizi, e chi pensa che talora siano post-giudizi, frutto dell’esperienza.

Ma credo non sia tutto. Nella reazione di chi dice “io nella città vecchia ci vado lo stesso” c’è anche una sorta di ribellione a un ricatto. È come dire: è mio diritto girare per la città vecchia senza essere aggredito, non lascerò che qualcuno mi tolga questo diritto. Insomma, per alcuni può essere anche una questione di principio: si va incontro a un rischio non perché lo si giudica del tutto inesistente, ma perché defilarsi significherebbe piegarsi a una prepotenza, rinunciare a qualcosa che nessuno è titolato a sottrarci. Di qui il dilemma: evitare il rischio e rinunciare a un diritto, o esercitare il diritto e correre il rischio?

L’episodio mi è tornato alla mente perché, nel mondo di oggi, il “dilemma della città vecchia” è diventato più attuale che mai, specialmente per le donne. Le scelte di abbigliamento, i modi di stare sui social, la selezione dei luoghi, delle compagnie e degli orari in cui muoversi in una città, sono tutte decisioni che riproducono il dilemma: se mi espongo affermo un principio, ma corro un rischio; se non mi espongo, evito il rischio ma rinuncio a far valere un principio.

Questo dilemma si presenta tipicamente in materia di sexting (condivisione di immagini sessualmente esplicite). E con speciale drammaticità per le ragazze più giovani, per le quali il sexting può essere una libera scelta, ma pure una pretesa indebita da parte di partner prepotenti e ricattatori. A valle di ogni atto di sexting, infatti, è sempre in agguato il rischio del cosiddetto revenge porn, ossia che qualcuno diffonda le immagini senza consenso, o anche semplicemente minacci di farlo per ottenere prestazioni sessuali, denaro, o altri favori.

Anche qui, a prima vista, sembra riproporsi il dilemma: rischiare per affermare il principio, o rinunciare per evitare il rischio?

Sul punto, credo che la posizione più saggia sia quella assunta dall’avvocata Francesca Florio nel suo libro Non chiamatelo revenge porn (Mondadori 2022). A suo parere, nessuno ha il diritto di stigmatizzare il sexting, e le persone che lo praticano non hanno ragione di vergognarsene; e tuttavia, nello stesso tempo, è molto pericoloso nascondere o minimizzare gli immensi rischi che con il sexting vengono assunti. Fare sexting solo per affermare il principio che si ha tutto il diritto di farlo è autolesionistico. E stigmatizzare chi – come mamme, genitori, educatori – lo sconsiglia vivamente è profondamente sbagliato. Perché la “città vecchia” esiste, e avventurarvisi solo per affermare la propria libertà può costare caro. Molto caro. Come può rendersi conto chiunque legga le tante, drammatiche storie splendidamente raccontate da Francesca Florio nel suo libro.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 aprile 2025]




La grande ipocrisia – Paesi sicuri?

Al momento, nessuno può sapere come la vicenda Albania andrà a finire. Può darsi che il governo italiano trovi una via per far valere la propria lista di paesi sicuri, come può essere che questa via non venga trovata, e in Albania possano finire solo una
piccolissima minoranza dei migranti irregolari intercettati. Vedremo.

In attesa degli eventi, può non essere inutile guardare la questione migratoria non in termini giuridici e formali, ma in termini concreti e sostanziali. A me pare che, alla base, quello cui stiamo assistendo sia lo scontro fra due visioni generali al momento
del tutto incompatibili.

Secondo la prima visione, uno Stato ha tutto il diritto di limitare gli ingressi sul proprio territorio, e l’esercizio del diritto di asilo non può essere assoluto e incondizionato. Ci sono circostanze nelle quali le modalità di ingresso e le norme a tutela di chi è già entrato possono confliggere con la domanda di sicurezza dei cittadini, e la politica ha non solo il diritto ma il dovere di fornire risposte a tale domanda.

Secondo la visione opposta i migranti, da qualsiasi paese provengano, hanno tutto il diritto di entrare in un paese per chiedere asilo o protezione, e le loro richieste devono essere processate nel rigoroso rispetto dei diritti umani (più o meno estensivamente
definiti), anche a costo di minare la sicurezza o altre legittime aspirazioni dei paesi ospitanti.

A chi appartengono queste due visioni?

Qui interviene una importante asimmetria. La prima visione, chiusurista, è fatta propria da quasi tutti i governi di destra, ma negli ultimi tempi ha cominciato a suscitare interesse anche da parte di alcuni governi progressisti o liberali, come quelli
di Danimarca e Polonia. La seconda visione, aperturista, è fatta propria da quasi tutti i governi progressisti ma è anche sostenuta e incoraggia dalla stragrande maggioranza degli organismi sovranazionali o transnazionali che si occupano di migrazioni e/o di
diritti umani: Corte Europea di Giustizia, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Amnesty International, giusto per fare alcuni esempi fra loro assai diversi. Questo significa che, in via generale, lo scontro fra destra e sinistra è complicato dal fatto che
alcuni governi di sinistra stanno con le destre anti-migranti, ma ancor più dal fatto – ben più incisivo – che le sinistre pro-migranti possono sempre contare sulla sponda dei giudici e degli organismi che si occupano di migranti, per loro natura favorevoli alle istanze di questi ultimi.

Ma come si risolve questo conflitto?

Finora è stato risolto con l’escamotage, vagamente ipocrita, del concetto di “paese sicuro”: i migranti che non hanno diritto all’asilo o ad altre forme di protezione possono essere rimpatriati, ma solo se provengono da un paese sicuro (e se esistono
accordi di rimpatrio). E qui scatta l’inghippo. Le definizioni di paese sicuro finora formulate nelle legislazioni nazionali ed europee sono così ambigue, confuse e farraginose da lasciare larghi margini di interpretazione ai giudici, siano essi nazionali o europei. Da questo punto di vista l’ira dei politici contro i giudici appare abbastanza fuori bersaglio: se scrivi leggi poco univoche, non puoi poi lamentarti se i giudici le interpretano secondo la loro visione del mondo, che è tendenzialmente (e intransigentemente) pro-diritti umani. Questa indeterminatezza non riguarda solo le leggi europee, ma anche quelle italiane. Prendiamo, a titolo di esempio, la definizione che di stato sicuro dà il decreto legislativo 25 del 2008: uno stato sarebbe da
considerare sicuro “se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione […] né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone” (sottolineature aggiunte).

La formulazione sembra presupporre che per essere sicuro il paese debba essere democratico (più di metà dei paesi del mondo non lo sono), ma anche che certe violazioni dei diritti umani possano essere tollerate se limitate a certe porzioni del territorio o dirette verso specifiche categorie di persone (in più della metà dei paesi africani l’omosessualità è un crimine). Ma chi stabilisce se un paese è sufficientemente democratico? Chi stabilisce quanto piccole devono essere le porzioni di territorio insicure, o quanto irrilevanti debbano essere le categorie perseguitate per poter concedere a un paese lo status di paese “sicuro nonostante…”? Sulla base della medesima formulazione, si può stiracchiare il concetto di paese sicuro fono a considerare insicuri tutti i paesi non democratici, o viceversa a considerare sicuri paesi che si macchiano di orrendi crimini, ma limitati a certe porzioni di territorio o a certe categorie di persone.

Insomma, voglio dire che, se si vuole limitare i rimpatri legittimi ai paesi sicuri, quello di cui avremmo bisogno non è una definizione astratta, che inevitabilmente ogni corte e ogni giudice interpreterà secondo la propria visione del mondo, ma che i
governanti europei partoriscano una lista esplicita dei paesi sicuri o, se non hanno il coraggio di compilare tale lista, che autorizzino ogni paese a compilare la propria.

Quello che non possiamo permetterci è di non cercare un compromesso fra le due opposte visioni del problema migratorio. Perché la visione chiusurista non può che condurre a gravi violazioni dei diritti umani dei migranti, ma quella aperturista non può non portare ad altrettanto gravi violazioni dei diritti dei cittadini europei, primo
fra tutti il diritto alla sicurezza.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 ottobre 2024]




Kamala Harris e Donald Trump – 50 sfumature di cattiveria

Alla fine Biden ha fatto il passo indietro che tutti (tranne la moglie Jill) gli chiedevano. E ha pure lanciato Kamala Harris, la sua vice, come candidata democratica alla presidenza. Ora si attende di capire se il Partito Democratico statunitense accetterà la candidatura, oppure aprirà i giochi per spianare la via a un altro candidato. E naturalmente si attende di conoscere il nome dell’eventuale vice-presidente democratico.

Ma supponiamo, per un attimo, che la prescelta per fermare l’ascesa di Trump sia proprio Kamala Harris, e proviamo a immaginare che tipo di campagna elettorale andrà in scena. Ebbene, io credo che quella cui assisteremo sarà a una campagna non
convenzionale. E addirittura sorprendente per noi europei, che sull’America siamo pieni di stereotipi.

Noi siamo convinti, per esempio, che i democratici siano i buoni, tutti accoglienza e diritti, e i repubblicani siano i cattivi, nemici dei migranti e delle donne. In qualche misura è vero, ma il punto è in quale misura.

Prendiamo la candidata presidente Kamala Harris. Da quando è stata eletta, lei e Biden sono stati durissimi con l’immigrazione irregolare. Il primo viaggio ufficiale di Kamala Harris è stato andare in Messico e in Guatemala a dire in modo chiaro: non
venite! se lo farete vi respingeremo. Il quadriennio Biden-Harris è stato costellato di atti e dichiarazioni assai severe verso i migranti, con conseguente indignazione della sinistra del partito (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez). Su molti punti il duo Biden-Harris si è mosso come il duo Meloni-Salvini: analogo è l’impegno ad “aiutarli a casa loro”; analogo è il tentativo di esternalizzare in altri paesi le richieste di asilo (modello Albania); analoga è l’aspirazione a moltiplicare rimpatri e respingimenti;
analoga è la volontà di contenere le migrazioni irregolari e stroncare il traffico di esseri umani.

Se non sapessimo nulla di quel che accade negli Stati Uniti, e ci avessero chiesto di indovinare chi era al governo basandoci soltanto sulle politiche migratorie, avremmo detto che l’inquilino della Casa Bianca era un feroce repubblicano, ostile ai migranti. In breve: la candidata Harris ha un profilo moderato, sensibile alle preoccupazioni degli elettori in materia di immigrazione, e potrà essere attaccata per non aver fatto abbastanza, non certo per aver chiuso un occhio, o favorito l’immigrazione irregolare.

Esattamente come è appena accaduto nel Regno Unito con la vittoria di Starmer, i progressisti si presentano all’elettorato con un profilo moderato, attento all’elettore mediano incerto fra destra e sinistra e perciò potenzialmente decisivo. Lo stereotipo
dei democratici buoni e dei repubblicani cattivi regge forse sul piano dei toni e del linguaggio, ma nella sostanza c’è tutt’al più una (piccola) differenza di grado nella cattiveria.

Si potrebbe obiettare che, almeno sul piano dei diritti, la differenza fra i cattivi repubblicani e i buoni democratici regge. Ma anche qui, in realtà, quel che troviamo sono essenzialmente differenze di grado. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, sui diritti Trump si è mostrato molto cauto, e probabilmente dovrà esserlo ancora di più se la candidata democratica sarà una donna. Sull’aborto, ad esempio, ha chiarito di non volere una norma nazionale che lo proibisca, e di essere comunque sempre per la libera scelta della donna nei casi di stupro, incesto o pericolo di vita per la madre. Sulla fecondazione in vitro ha dichiarato che la pratica dovrebbe essere legale in tutti gli Stati americani, e ha duramente criticato una sentenza ultra-reazionaria della Corte Suprema dell’Alabama, in virtù della quale la distruzione di embrioni congelati sarebbe equiparabile all’omicidio colposo di minori. La distanza con i democratici c’è, ma forse è meno grande di quel che siamo portati a credere, tanto più ove i democratici dovessero recepire il monito di Hillary Clinton a mitigare l’ossessione per i diritti trans, se non vogliono perdere le elezioni.

Ecco perché dicevo che la campagna elettorale potrebbe rivelarsi sorprendente.

Scontate le grandi differenze in politica economica e in politica estera, sui temi che più coinvolgono i cittadini – immigrazione e diritti – potremmo invece scoprire una Harris meno buona di quel che si crede, e un Trump meno cattivo di quel che si vuol
pensare, perché entrambi sono impegnati nella caccia ai moderati.

Quanto al risultato, starei cautissimo. Nonostante gli ultimi eventi giochino nettamente a favore di Trump, i sondaggi non gli dànno – per ora – un margine di vittoria rassicurante. Alla fine, decisivo potrebbe essere l’elettore mediano, che può
otare sia repubblicano sia democratico. E decide in base alla ragionevolezza dei programmi.

[Articolo uscito sulla Ragione il 22 luglio 2024]




A proposito del caso Roccella – Sopraffazione

Non è la prima volta che, in un evento pubblico, a qualcuno viene impedito di parlare, come è successo la settimana scorsa al ministro Eugenia Roccella, in occasione degli Stati Generali della Natalità. Mai, però, avevo assistito a un così vasto fuoco di sbarramento per impedire che venisse detto, o ripetuto, ciò che solo il Presidente della Repubblica ha potuto dire senza essere irriso, e cioè che il gesto delle contestatrici era stato incivile e in contrasto con la Costituzione.

Impossibile ricapitolare, nello spazio di un articolo, il profluvio di argomenti scomodati per aggirare il severo giudizio del Capo dello Stato. Ne ricordo solo alcuni: la colpa è di Roccella che ha rinunciato a parlare, anziché rassegnarsi a farlo sotto un diluvio di fischi; quello delle contestatrici era solo dissenso, e il dissenso è il sale della democrazia; impedire di parlare a un ministro è giustificato dalla eccezionale gravità delle intenzioni del governo; la Roccella non ha subito nessuna censura, perché la censura procede da chi ha il potere verso chi non ne ha, e non viceversa; la Roccella ha infiniti mezzi per far conoscere le sue opinioni, le
contestatrici no; è questo governo che esercita la censura e intimidisce privati cittadini con le querele (casi di Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare).

Sarebbe facile, arrivati a questo punto, fare notare il doppio standard. Che cosa sarebbe successo se, in un evento pubblico, attiviste delle associazioni pro-vita avessero impedito a Elly Schlein di parlare? Che cosa fa sì che si possa lodare Laura Boldrini, Presidente della Camera, quando annuncia di volere denunciare i suoi odiatori, e deprecare Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, quando fa la stessa cosa? Perché lo squilibrio di potere viene invocato quando il denunciato è Roberto Saviano, che pure ha un vastissimo sistema mediatico pronto a difenderlo, e viene dimenticato quando i denunciati sono comuni cittadini, che insultano la Presidente della Camera ma non hanno (meno male…) alcuna rete protettiva?

Ma passiamo oltre. Qui vorrei solo far notare una circostanza, e sollevare un problema.
La circostanza è che nel nostro linguaggio sembra assente un termine per indicare quel che è successo al ministro Eugenia. Roccella, ma anche a tanti altri cui, specie negli ultimi tempi, è stato impedito di parlare. Su questo ha perfettamente ragione la sinistra a dire che non si tratta di censura, e ha torto la destra quando parla di violenza femminista. Ma allora di che cosa si tratta?

La sinistra risponde dissenso, contestazione. Ma anche questo è sbagliato, o meglio è riduttivo. Si può dissentire senza impedire agli altri di parlare, si può contestare ma accettare il dialogo. Lo specifico di quel che è successo con Roccella è che si è
contestato, ma lo si è fatto impedendo a un ministro di esercitare un diritto costituzionale, ovvero la libertà di manifestazione del pensiero, garantita a tutti i cittadini dall’articolo 21 della Carta: è questo che ha inquietato il Presidente della Repubblica.

Nello stesso tempo occorre dire con chiarezza che, a differenza di tante altre contestazioni, questa non è stata violenta. Fischiare, tamburellare, urlare, cantare, emettere suoni di disturbo sono atti che impediscono materialmente di parlare, ma non sono violenza. Tolgono la parola, ma non alzano le mani su nessuno.

È curioso che non esista una parola condivisa per descrivere questi atti, che producono le stesse conseguenze della censura e della violenza, ma non sono né censura né violenza. Eppure sono atti sempre più diffusi, specie nelle università straniere, dove a centinaia di professori e studiosi viene impedito di parlare dagli attivisti contrari alle loro idee (celebre il caso della professoressa britannica Cathleene Stock, addirittura costretta a dimettersi ed emigrare in America). Insomma, sarebbe bene che una parola la inventassimo, o la scegliessimo fra quelle che abbiamo.

Se non è né censura, né violenza, e tuttavia è la negazione di un diritto fondamentale, come possiamo chiamare l’atto di impedire la parola? Io suggerirei di usare il termine ‘sopraffazione’, che mi pare renda bene l’idea di una prepotenza efficace, ovvero riuscita nell’intento.

Resta aperto un problema, però: ci sono circostanze, al di là di quelle già previste dalla legge, in cui può essere ragionevole sospendere l’articolo 21, che tutela la libertà di parola?
Per molti di coloro che hanno attaccato Roccella e giustificato le sue contestatrici, la risposta pare essere positiva, come se la giustezza (vera o presunta) della causa per cui si combatte autorizzasse a togliere la parola a chi la pensa diversamente. Per
quanto mi riguarda, invece, la risposta è negativa: ci sono diritti che non possono essere sospesi neppure in circostanze eccezionali, perché il loro esercizio non limita la libertà e la sicurezza di nessuno. Il diritto a non essere sopraffatti da chi pretende di toglierci la parola è uno di tali diritti non comprimibili. Forse non l’unico, ma certo il più importante per chi ancora desidera vivere in una società libera.

[articolo trasmesso al Messaggero il 13 maggio 2024]