Il diario della talpa. Ottavo episodio

8. APOLOGIA DELLA PASSEGGIATA (seconda puntata)

Dunque, giorni fa vado a farmi una passeggiata intorno alla tana. Per una via che, essendo in aperta campagna, è decisamente deserta. Mi avvio bel bella. Forse, lo confesso, faccio più di duecento metri. Non mi trattengo e forse ne faccio cinquecento, di metri. Ci metto una ventina di minuti e a un certo punto… incontro un essere vivente. Solo come me. Uno scoiattolo grigio. Anche lui a passeggio.

Oddio!

Ma come? Non me lo aspettavo. Ho una subitanea e incontrollata paura. Lo vedo da lontano, e mi viene subito da scappare. È uno scoiattolo tranquillo, di una certa età; passeggia come me, lento, le mani in tasca, si prende solo un po’ d’aria e si sgranchisce le zampe. Ma mi fa paura, e mi viene da scappare a zampe levate. Scappare dove, però? Non ci sono vicoli, bivi. Posso solo tornare indietro. Non lo faccio perché mi sentirei codarda. Un po’ come don Abbondio che non torna sui suoi passi quando vede i due bravi che minacciosi lo aspettano al varco: ci va dritto incontro.

Continuo a camminare, dunque. Cerco di mantenermi il più possibile sul ciglio. Ma la strada non è larghissima. Anche lui sta sul ciglio, ma mi chiedo: Quanta distanza ci sarà tra di noi quando ci incontreremo? Ci saranno due metri? Perché io solo a due metri mi sento sicura, ci hanno detto di stare almeno a un metro di distanza, ma a me non basta. Qualcuno ha parlato di un metro e mezzo, un metro e ottanta. Quindi meglio due metri. E non ho la mascherina. Ci hanno detto di uscire con la mascherina, ma io non l’ho messa. Nemmeno lui ce l’ha, mi viene incontro a muso nudo, non protetto. E questo non va bene, non va per niente bene.

Ma non basta, quando ci incrociamo avviene una cosa drammatica: lui mi saluta! Sì, è uno scoiattolo gentile, d’altri tempi, e mi dice buongiorno. E io quindi gli rispondo: Buongiorno. Oddio! Non ci siamo mai salutati, per via, tra sconosciuti. Perché adesso all’improvviso lo facciamo? Proprio adesso che non dovremmo? Terribile. Abbiamo entrambi parlato. Abbiamo emesso voce. Abbiamo dunque prodotto goccioline nefaste.

Subito mi viene l’immagine-incubo che ci trasmettono di continuo nei telegiornali, nei talk show, nei dibattiti con i virologi esperti: la nuvola di goccioline che emettiamo parlando, che si forma sopra di noi e s’allarga con un raggio di un metro e più dalla nostra bocca, e il tempo infinito che le goccioline ci mettono a volteggiare libere nell’aria, prima di cadere se Dio vuole a terra. Mi vedo queste due enormi e incombenti nuvole, una intorno a me e una intorno a lui, che si toccano, si mescolano. Aiuto!

Le goccioline di quel passante conterranno virus? E in quale quantità? E mi avranno raggiunta e avvolta nella loro spira malefica?

Perché quel passante passava proprio mentre passavo io? Perché non è rimasto a casa? Perché mi ha salutato? Cosa gli è passato in mente? Perché tanta imprudenza? E perché io ho risposto al suo saluto? E perché non abbiamo messo le mascherine prima di uscire? D’accordo, era una innocua stradina di campagna… Ma cosa è innocuo, e cosa non lo è?

Sono tornata nella tana affranta e spaventata. Con l’idea di essermi giocata il futuro e la salute per una stupida passeggiatina tra i prati di casa mia. E con la ferma intenzione di non uscire mai più.

È questo che ci attende quando ci riapriranno alla vita e alla libertà?

Avremo mai più una vita e una libertà? E il piacere giocoso di andare a zonzo e metterci nella disposizione felice di incontrare qualcuno?

Quali effetti devastanti hanno prodotto questi mesi di allarmismo e paura, e le immagini, le migliaia di immagini spaventevoli con cui ci hanno bombardato? Come usciremo, non dalle nostre tane, non dal virus, ma dalla paura di ogni contatto fisico, di ogni saluto per la strada e gocciolina impalpabile nell’aria? Non abbiamo mai pensato che nell’aria volteggiassero tante goccioline… Né che un passante potesse portarci alla rovina. Ora lo pensiamo. Lo penseremo per quanto tempo?

Confido nella dimenticanza. Nel potere che avremo di dimenticarci di fare questa spasmodica attenzione. Ma ci consegneremo all’imprudenza, dimenticando?

Quanto ci costerà essere dimentichi? Qual è il confine tra un sano oblio e una rischiosa sconsideratezza?

Torneremo mai a essere spensierati vagabondi bighelloni e perdigiorno per le vie del mondo?

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Il diario della talpa. Settimo episodio

7. APOLOGIA DELLA PASSEGGIATA (prima puntata)

Giorni fa decido di uscire. Naturalmente seguendo le regole. Mi avvio per una stradina di campagna, cercando di non superare i 200 metri da casa. Nessuna attrattiva paesaggistica, essendo la stradina affossata in una specie di fondovalle. Accanto scorre un piccolo rio, che vorrei chiamare torrentello, ma è un rigagnolo verde marcio, perlopiù secco. Infatti non scorre per niente, essendo quasi privo di acqua. Ma non importa. Io vado, cammino, perché oggi camminare mi sembra un sogno, il più grande dei privilegi. Muovere le zampe, articolare le articolazioni ormai anchilosate, tendere i tendini rattrappiti, poggiare ritmicamente i piedi su una strada. Camminare è un dono, un privilegio. Non certo soltanto un’attività fisica!

Passeggiare vuol dire incontrare. Mettersi nella condizione di fare incontri, favorire una disposizione a tutto ciò che la vita vorrà mettere, in quel momento, davanti a noi. È, in un certo senso, andare all’avventura, stare a vedere un po’ che cosa ti viene incontro.

A Robert Walser per esempio, nella sua Passeggiata, vengono incontro: una libreria, una banca, la “squillante insegna dorata di una panetteria”, gli operai di una fonderia, una “graziosa scenetta canina” in cui “un cagnone grande e grosso, ma buffo, inoffensivo e giocherellone, se ne stava zitto a guardare un bimbetto che si abbandonava a un prolungato piagnisteo infantile”, una donna seduta su una panchina davanti a una graziosa e linda casetta, una selva di abeti, e persino un gigante…

Ma non solo. Passeggiare aiuta a sviluppare pensieri.

Petrarca solo e pensoso (pensoso!) andava mesurando a passi tardi e lenti i più deserti campi. Rousseau, il grande passeggiatore solitario, racconta le sue fantasticherie. Robert Walser a un certo punto lo dice chiaramente: “Me ne andavo bel bello per la mia via, come un perfetto bighellone, distintissimo vagabondo, giramondo, fannullone e perdigiorno… e in quel mentre ero fortemente assorto in ogni sorta di pensieri, perché sempre, quando si passeggia, idee, lampi di luce e luci di lampi si presentano e si affollano da sé per essere poi elaborati con cura”.

Ecco. Quando si passeggia, si diventa assorti. E in quel nostro essere assorti, ci arrivano lampi di luce e luci di lampi: idee, pensieri! Chissà come, per quale strano e miracoloso meccanismo, i nostri passi favoriscono la produzione di pensieri. “Di pensier in pensier, di monte in monte”, dice ancora Petrarca. Significa che uno cammina per monti, valli, prati, ma anche per pensieri. E poi specifica ancor meglio: “A ciascun passo nasce un penser novo de la mia donna”. Lasciamo perdere che tutti i suoi pensieri erano dedicati alla sua donna amata: Laura era la sua ossessione, lo sappiamo bene. Ma restiamo all’inizio: a ciascun passo nasce un penser novo. A ciascun passo! Vuol dire che tu fai un passo e ti nasce un pensiero, ne fai un altro e ti nasce un altro pensiero. Pazzesco! Pensa, alla fine di una passeggiata, quanti pensieri ti sono venuti!

È così. Tutti ne abbiamo prova. Quando la nostra mente s’inceppa su un punto, su un problema; quando non usciamo più dalle pastoie del nostro ragionare, andiamo a passeggiare e come d’incanto il nodo si scioglie, la corrente torna a fluire e ci vengono le idee. Ma dobbiamo prima abbandonarci al passeggio, lasciare che le cose ci vengano incontro e attraversino il nostro sguardo. Dobbiamo predisporci agli incontri, perché il mondo possa entrare in noi e produrre pensieri.

Può bastare anche un microcosmo, non servono ampi spazi, distanze, continenti lontani. Duecento metri forse no, ma cinquecento o mille sì, ci possono bastare.

Passeggiare, però, non è camminare. Non è andare a fare la spesa, raggiungere un parco o una farmacia. Passeggiare è un camminare a vuoto, senza meta. È bighellonare, perdere tempo, andare a zonzo.

Da quasi due mesi ci è vietato passeggiare.

Abbiamo potuto solo uscire, muniti di autocertificazione, e camminare per andare in un certo posto ben definito: dal medico, al lavoro, al supermercato… Non passeggiare e basta. Vietato.

Abbiamo molto patito, noi talpe bighellone.

Certo, avrei potuto autocertificare che dovevo andare in farmacia, per ritagliarmi lo spazio esiguo di una passeggiatina. Ma siamo gente di coscienza, siamo stati educati a non fare peccato e, semmai uno li facesse, a confessarli. Come potevamo serenamente fingere di andare in farmacia? Avremmo potuto farlo non serenamente, ma avremmo perso il beneficio mentale della nostra passeggiata, oppressi ad ogni passo dalla nostra vile menzogna. Oppure non fingere, e andare davvero in farmacia… perché no? Potevamo comprare del paracetamolo, un dentifricio antiplacca, un ennesimo sciroppo per la tosse.

Ma avremmo perso un valore capitale che è intrinseco alla passeggiata, ed è fortemente benefico: la sua perfetta inutilità.

Bene. Fine della parentesi sulla passeggiata. Domani riprendo il racconto, perché era un racconto che volevo fare.

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Il diario della talpa. Sesto episodio

6. IL MISTERO DELLA NON-LETTURA

Non ho letto molto. Che strano, in questo tempo immenso che ci è stato aperto forzosamente ho avuto poca voglia di leggere. Soprattutto all’inizio, i primi quindici giorni. E anche adesso mi viene poco, proprio ora che avrei tutto il tempo leggo raramente. Mi dicono che anche per altre talpe è stato così.

La gente intorno a noi non ci può credere, e quasi s’indigna: Ma come, proprio voi talpe non leggete? Già. Trionfa il luogo comune per cui se sei talpa ti piace leggere, vivi per leggere, non fai altro nella vita. È vero, un po’ è così. Siamo talpe anche per questo, perché in genere leggiamo davvero parecchio. E ora no. Chiusi nella nostra tana, abbiamo poca voglia di stare fermi con un libro sulle ginocchia.

Forse il punto è proprio questo: non abbiamo voglia di star fermi.

Sentiamo un enorme bisogno di fare.

Facciamo di tutto, in questi giorni. Anche cose che non abbiamo mai fatto o pensato di fare. Attacchiamo chiodi. Strappiamo erbacce, viti vergini, edere rampicanti. Mettiamo in ordine cassetti, foto, scarpe, vernici, cacciaviti, pennarelli. Dividiamo i maglioni pesanti dai maglioni leggeri, i quaderni a quadretti dai quaderni a righe, i tovaglioli col pizzo da quelli senza pizzo. Distinzioni inutili, lavori capziosi e vani. Facciamo la pasta in casa, tagliatelle, gnocchi, ravioli ripieni. Torte di mele, biscotti, budini, tarte tatin, crostate. Stiriamo camicie, fazzoletti, lenzuola. Ripuliamo il garage, lo svuotiamo di centinaia di cose vecchie che negli anni abbiamo senza pietà ammassato. Ripariamo rubinetti, vecchie bici, moto, lavatrici, battitappeto e macinini del caffè, tutti aggeggi che non useremo mai più. Ripariamo con cura ogni sorta di oggetto, che abbiamo da anni lasciato rotto, malfunzionante, arrugginito (daremmo volentieri l’antiruggine a qualsiasi cosa, se solo ne avessimo un barattolo). Laviamo tende che non abbiamo mai lavato. Buttiamo via carte bancarie di vent’anni fa, soprammobili ammuffiti che non ci sono mai piaciuti ma abbiamo tenuto per ricordo della zia, del nonno. Cambiamo lampadine fulminate che abbiamo per mesi lasciato spente, rammendiamo calzini… Mai, mai abbiamo rammendato calzini! E ora si può sapere cosa ci prende?

Facciamo di tutto, pur che si tratti di fare. Ma leggere no.

Tutto ciò è molto sorprendente e inatteso. Non ce lo aspettavamo, di non essere capaci, proprio ora, di goderci una lettura. Lo facciamo, sì, ma a sprazzi. In modo intermittente e distratto. Leggiucchiamo. Bazzichiamo da un libro all’altro. Non riusciamo a soffermarci, a condurre alla fine un libro. O almeno, alcuni di noi non ci riescono.

Credo che questo voglia dire qualcosa di importante. Ad esempio che la lettura, una delle attività principali della nostra vita interiore, appartiene a tempi dorati e felici. O meglio, a tempi neutri e piatti: a mari serenamente non increspati.

Forse solo ora ci appare chiaro che leggere è qualcosa che si può fare solo in tempi di quiete. Ci vuole uno stato di serenità e pace in noi, ma anche fuori di noi, nel mondo circostante, per poter leggere un libro. Un tempo di sospensione assoluta, dove nessuna preoccupazione incrini la nostra stabilità emotiva. Direi uno stato di assenza, di vuoto, sia nel bene che nel male: né dolore né gioia, né infelicità né felicità. Meno che mai ansia.

Ci vuole anche meno tempo libero. Lo so che è paradossale. Ma se il tempo libero si estende a dismisura e copre l’intera nostra giornata, non è più un tempo libero: è un tempo morto, inerte e piatto. Per leggere ci è necessario combattere, conquistarci ogni giorno una fetta di libertà, anche piccola, con le unghie e coi denti. Dieci minuti qua, una mezzoretta là. Dobbiamo sentire che non ci è dato, quel tempo, che qualcuno si oppone e quasi ce lo vie ta, di leggere. Dobbiamo sentire che la lettura è un tempo strappato a tutto il resto. Ma se ci viene a mancare, quel resto…?

Forse il lavoro ci serve anche a questo: è la costrizione necessaria a ritagliarci un lembo di libertà.

Invece noi adesso abbiamo troppo tempo. Abbiamo giornate che si dilatano senza fine, laghi immensi senza onde e senza argini. E non abbiamo, per contro, quel vuoto di emozioni, quella pace atarassica di cui avremmo bisogno per leggere.

Siamo animali spaventati.

Abbiamo paura.

Un animale che ha paura non si mette sul divano a leggere. È inquieto. Si agita, non sta un minuto fermo. Forse questo nostro disperato fare è un modo di fuggire: se siamo stati messi in gabbia, come noi ora siamo, e non vediamo un varco, l’unico modo di fuggire è metterci a fare qualcosa. Usare le mani, non la mente.

Tagliare legna andrebbe benissimo, per esempio.

Mi viene in mente Tolstoj, che un po’ scriveva, un po’ tagliava legna. L’una attività serviva all’altra. Ora che ci hanno tolto il tagliare legna, non abbiamo più voglia di leggere.

Ridateci la legna da tagliare, e noi ricominceremo a leggere.

Ridateci un lavoro da cui scappare, e noi torneremo liberi.

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Il diario della talpa. Quinto episodio

5. LA STANZA DEI TOPI

Continuo a capirci poco. E questo è normale: noi talpe non abbiamo fatto gli studi giusti, e abbiamo una testa fatta in un certo modo, le cose troppo scientifiche ci sfuggono.

Il fatto è che a questo punto qualcosa in più vorrei capire: se veramente come pare ci faranno uscire, bisognerà sapere quanta paura dobbiamo avere o quanto coraggio. E per avere il coraggio di lasciare la tana, bisogna avere speranza. E per avere speranza, bisogna avere conoscenze, notizie certe. La speranza di non beccarci subito il nemico addosso appena usciti si basa sulla certezza che non ci siano più nemici, o ce ne siano davvero molto pochi. La speranza non può germogliare sull’ignoranza.

Abbiamo bisogno di sapere di più, non ci bastano i dati che ci vengono offerti. Coltiviamo dentro di noi mille dubbi e mille domande. Ogni tanto in tivù qualche coraggioso giornalista pone queste domande agli esperti, ai governanti. Che rispondono senza rispondere. Hanno tutti affinato un’arte di non risposta veramente ammirevole, riescono a parlare anche per dieci minuti senza dire nulla di chiaro. Molto fumo. Molta nebbia. Chi sono i guariti? Quanti i morti reali? Quanti i nuovi contagiati al giorno? Perché continuiamo ad ammalarci? Perché ora ci faranno uscire se il contagio continua? Dove si nascondono le mascherine? Perché non possiamo avere tutti i tamponi che vogliamo? Abbiamo queste risposte? No. Ma in compenso abbiamo un mare di raccomandazioni. Una in particolare: stare lontani, il più lontano possibile l’uno dall’altro.

Quando mi sale l’ansia chiamo il mio amico Pantaleo, che fa lo studioso. (Ah Pantaleo, se non ci fosse lui come farei?). Da due mesi è chiuso nella sua galleria a studiare numeri, grafici, previsioni. Quando gli chiedo un dato, una chiarezza, una luce, lui mi dice un numero, e poi aggiunge: Però è fuorviante. E parte con lunghe spiegazioni che non capisco. È troppo matematico, non ci arrivo. Ma non oso dirglielo. Allora mi arrangio: quando non capisco, mi faccio venire delle immagini per tradurre. Mi serve tantissimo, tradurre. Le immagini sono meno astratte, più facili, più chiare.

Per esempio adesso provo a immaginarmi una stanza piena di topi. I topi sono molto familiari, a noi talpe. Ce ne capitano di continuo tra i piedi. Topi di campagna, intendo, perché le talpe abitano in campagna, non certo in città.

Allora, facciamo che l’Italia adesso è una stanza piena di topi. Bene, noi tutti siamo dentro quella stanza. I topi sono sparsi ovunque sul pavimento, e noi ci siamo costruiti una montagnola di terra e ce ne stiamo inerpicati lassù al riparo, raggomitolati, cercando di proteggerci. E questo sarebbe il lockdown: non ci pensiamo neanche di scendere dalla montagnola. E questo sarebbe la campagna iorestoacasa. Chiaro.

Continuiamo. Nella stanza ci sono due finestre: da una entrano continuamente nuovi topi, che arrivano negli ospedali febbricitanti e debilitati, con il pigiamino sotto il braccio e il termometro in bocca; dall’altra finestra escono topolini pallidi e magri ma sorridenti (i guariti), e topolini ahimè stecchiti, che vengono in fretta e furia portati via (i morti). Sulla montagnola, noi talpe per il momento illese, guardiamo allucinate la scena.

Bene. Ovvio che il lago di topi sul pavimento rappresenta il numero dei contagiati (vecchi contagiati + nuovi contagiati – guariti – morti). Ma non è così semplice: ci sono anche i topi nascosti sotto i mobili!

Quelli non li vediamo. Sono i cosiddetti numeri occulti. Quelli che chiamiamo asintomatici o paucisintomatici: non sono malati però sono contagiosi. Ebbene, quelli li becchiamo solo col tampone. Ecco perché Pantaleo mi dice che il numero dei contagiati che ci viene detto è fuorviante: perché dipende da quanti tamponi faccio. Appena riesco a beccare uno dei topi nascosti sotto i mobili (cioè gli faccio un tampone), quello (se è positivo) è un nuovo contagiato. Ma in realtà lo era già, contagiato! Solo che io (non beccandolo) non lo avevo conteggiato… Lui se ne stava bel bello malato sotto il mobile, capito? Era malato, ma io non lo vedevo.

Il problema è che sotto i mobili c’è una quantità spaventosa di topi! Non è che, poiché io non li vedo, loro non esistono. Mai come adesso quel che non si vede esiste.

Pantaleo dice che bisogna moltiplicare almeno per venti il numero dei malati che vediamo: quindi, se ne vedo 1000, vuol dire che i topi contagiati sono 20.000. E qui la mia traduzione per immagini vacilla, non lo nego: come ci possono stare 20.000 topi sotto i mobili? A meno che… non spuntino di continuo da sotto il pavimento! Questo vorrebbe dire che il pavimento è bucato, che ci sono delle gallerie sotterranee (una delle gallerie lasciata aperta da una talpa distratta?): i topi fuoriescono da lì, a getto continuo, e si riversano nella stanza, s’acquattano sotto il comò, la credenza, il tappeto.

Dunque dobbiamo fare il tampone ai 20.000 topi occulti. Già. Ma non lo stiamo facendo. Perché?

Pantaleo alza le spalle. Secondo me lo sa ma non lo vuol dire, per non allarmarmi. Farfuglia qualcosa tipo: non abbiamo i tamponi, li abbiamo ma dicono che non è il caso di farli, hanno detto che non serviva, dicono che ci stanno lavorando e un giorno li faremo…

Quindi?

Mi sono persa.

La stanza brulica di topi invisibili.

L’immaginazione è pericolosa, lo abbiamo sempre saputo.

Come farò a trovare il coraggio di scendere dalla montagnola?

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Il diario della talpa. Quarto episodio

4.  OPPORTUNITÀ

Mi disturba un po’, quando sento in questi giorni la parola opportunità. Non se ne può più. Tutti a dire quanto è bello questo nuovo modo di vivere, quante cose stiamo imparando, quanti nuovi valori stiamo scoprendo. Tutti a dire che questo virus, in fondo, è “una gran bella opportunità”.

Pare che abbiamo scoperto la famiglia, la casa, le cose semplici, il pane, il valore del tempo. Di colpo abbiamo mariti, figli, nipoti, zie. Di colpo ci accorgiamo di quanto è bello fare i compiti insieme ai nostri bambini, pulire casa, mettere in ordine i cassetti, lavare i piatti, fare torte di mele, la pasta in casa, arrostini al miele, budini al cioccolato, giocare a carte, attaccare bottoni, aggiustare bici in garage, ascoltare musica, pitturare mobiletti scrostati, contemplare paesaggi. Anche stare col naso per aria a far niente, sentendo semplicemente il tempo che scorre, la giornata che si declina nelle sue varie fasi, di luce, di ombra. Sì, di colpo scopriamo che non esiste solo il lavoro, i viaggi, il denaro. Esistono gli affetti, i lavori domestici, il cibo, i passatempi. Esiste l’otium, il tempo libero che ci hanno insegnato gli antichi, da dedicare solo a noi stessi, alla nostra anima. L’arte del non far niente, del sentirci semplicemente vivere. Esistono gli alberi, i fiori, i libri, il ferro da stiro, il forno, i movimenti del cuore. Le finestre da cui guardare fuori per ore e le primule. Per la prima volta ci chiniamo estasiati ad innaffiare le primule sul balcone, e scopriamo attoniti la commovente esistenza di un filo d’erba.

Tutto ciò è bellissimo. Ma prima? Non le abbiamo mai innaffiati, queste benedette primule? Come vivevamo, nel nostro tempo normale? Possibile che avessimo bisogno di un virus per accorgerci di una pianta, dello scorrere del tempo, del calore di una carezza?

E poi, questa nostra strana e dilagante euforia non è un po’ fuori luogo? Viviamo bombardati da una nauseabonda litania retorica: iniziamo a considerare le cose essenziali! liberiamoci di tutto ciò che è inutile e che per anni ha riempito insulsamente le nostre vite! apprezziamo la bellezza delle cose semplici! e ringraziamo, sì, ringraziamo molto della meravigliosa opportunità che ci viene offerta.

Molti pensano addirittura che il coronavirus ci aiuterà a crescere, a capire, a diventare persone migliori, e a cambiare il mondo.

Per carità, ognuno reagisce a una catastrofe come crede, come può, come decide, e in base alle idee che ha sulla vita. Va bene. Si potrebbe dire, con Festinger: riduzione della dissonanza. Sono molto ammirata di quanti sanno ridurre le dissonanze, vedere l’altra faccia della medaglia, considerare sempre quel benedetto bicchiere mezzo pieno. È un po’ l’idea che quando un male ci tocca, stia a noi trasformarlo in un bene. Beato chi ci riesce, gli altri s’arrangino.

E se invece il male fosse davvero un male?

Se fosse preferibile che non ci fosse mai piovuto addosso, questo virus?

A volte i bicchieri sono davvero mezzo vuoti. E a volte non è poi così male vedere i bicchieri mezzi vuoti, e lasciare che le dissonanze dissuonino. Si tratta di considerare le tragedie per quel che sono. Guardare in faccia la realtà, si dice così, no?  E poi reagire, certo. Rinascere. Ricostruire. Ma come possiamo reagire al male, se abbiamo negato che fosse un male?

Credo che sia utile essere consapevoli delle ferite. Non andarcene saltellando per il mondo tali quali a prima, nascondendo il sangue sotto i vestiti.

È una questione di rispetto. Prendere atto del male è avere rispetto del bene.

E rispetto per gli altri, per chi non ce l’ha fatta, chi è stato seriamente colpito dal male, chi non ha più un lavoro, chi si chiede come sfamerà la famiglia, chi è solo, chi ha perduto in modo tanto disumano persone care, senza poterle nemmeno salutare per l’ultima volta.

Il concetto di opportunità riguarda i sani, i fortunati.

Per questo dovremmo usarla con più cautela, questa parola. Così inopportuna.

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